lunedì 22 settembre 2008

Il Pakistan sotto scacco

In Pakistan, come era facilmente prevedibile, il dopo Musharraf e’ cominciato all’insegna del caos e di una eclatante dimostrazione di forza dei gruppi fondamentalisti che, sostenuti anche da una parte di servizi segreti (sia interni che esterni), due giorni fa stavano quasi per riuscire a decapitare i vertici dello Stato.

Infatti sia il neo presidente Asif Ali Zardari che il premier Yousuf Raza Gilani, dopo il discorso d'insediamento di Zardari davanti al Parlamento poche ore prima dell'esplosione al Marriott, avrebbero dovuto partecipare a una cena di gala nell'albergo insieme ai vertici delle forze armate. Solo all'ultimo minuto era stato deciso che il banchetto si sarebbe tenuto nella residenza del primo ministro.
E chissa’ chi ha lanciato l’allarme…

Nel discorso d'insediamento Zardari aveva parlato della necessità di "sradicare il terrorismo e l'estremismo, ovunque rialzino al testa", ma aveva anche affermato che il Pakistan "non tollererà violazioni della sovranità e dell'integrità pachistana da parte di ogni potenza in nome della lotta al terrorismo". Un chiaro monito agli USA.

Nel frattempo pero' nelle zone di confine con l’Afghanistan la situazione continua a peggiorare costantemente. Questa mattina l'esercito pakistano ha aperto il fuoco contro alcuni elicotteri americani che avevano superato il confine con l'Afghanistan, nel nordovest del Paese.
Secondo quanto hanno riportato due funzionari dell'intelligence locale a sparare sono stati soldati ed esponenti delle tribù del nordovest.

Gli ultimi raid targati USA nelle aree tribali del nordovest hanno provocato notevoli perdite tra i civili e un ovvio coro di proteste in Pakistan, a cominciare proprio dal premier e dal neo presidente.

Evidentemente, con l’attentato al Marriott, e' stato recapitato dall'esterno un chiaro messaggio ai vertici dello stato pakistano in risposta al discorso d'insediamento del neo presidente.


Gli errori dell'Occidente nella "guerra" sul fronte pakistano
di Guido Rampoldi – La Repubblica – 22 Settembre 2008

A due passi dai palazzi del potere pakistano, l'hotel Marriott di Islamabad è, o più esattamente era, l'albergo dell'establishment, della stampa occidentale e delle delegazioni straniere; e per tutto questo lo proteggevano straordinarie misure di sicurezza. Ma nugoli di poliziotti, sbarramenti e paratie mobili ieri non sono riusciti a evitare che un camion caricato di dinamite lo colpisse con la violenza di una bomba sganciata da un aereo e sterminasse decine tra gli ospiti che cenavano al piano terra, come ogni sabato sera.

Con questa spaventosa dimostrazione di efficienza la vasta area dell'ultrafondamentalismo armato ha risposto al discorso pronunciato poco prima, nel vicino parlamento, dal nuovo presidente della Repubblica, Zardari. Il vedovo di Benazir Bhutto aveva ripetuto che il Pakistan avrà ragione dei Taliban pachistani, di Al Qaeda e delle altre bande terroriste che ormai minacciano la stessa esistenza della nazione. Ma la veemenza delle sue parole risultava meno convincente, davanti al rogo in cui ieri sera spariva il miglior albergo della capitale. Quell'incendio furioso pareva quasi rischiarare una realtà che l'Occidente evita ostinatamente di guardare.

Stiamo perdendo il Pakistan. Stiamo perdendo la seconda nazione musulmana per popolazione e forse oggi la prima per importanza strategica, perché ha la Bomba e perché è il retrovia del campo di battaglia afgano. Negli ultimi mesi una crisi economica che proietta l'ombra della morte per fame su milioni di pachistani si è aggiunta a mali ormai cronici: fragilissimo il sistema politico, molto dubbio il controllo dell'esecutivo sugli apparati di sicurezza, perlomeno incerta la lealtà di importanti settori militari.

Eppure il Pakistan non è un caso disperato. Il primo tra i motivi per sperare è l'ostilità con cui la grande maggioranza dei pachistani ormai guarda al terrorismo islamico. Ma senza un aiuto internazionale il Paese ha alte probabilità di implodere in un'anarchia militare congeniale unicamente ai Taliban e ad Al Qaeda.

Malgrado questo ormai sia chiaro, l'unico messaggio che l'Occidente sta inviando a Islamabad proviene dal Pentagono e non è né utile né amichevole. Da mesi l'aviazione americana si prende la libertà di bombardare i villaggi pachistani al confine con l'Afghanistan in cui ritiene si nascondano capi Taliban e dignitari di Al Qaeda.

L'insofferenza del Pentagono per l'inazione d'esercito pachistano è comprensibile. Meno comprensibile è l'insistere su bombardamenti che troppo spesso si concludono con stragi di civili, mettono il governo in difficoltà davanti all'opinione pubblica, irritano lo stato maggiore e costringono politici e generali a minacciare una reazione che prima o poi potrebbe seguire.

E poiché la guerra che la Nato sta combattendo in Afghanistan si vince o si perde soprattutto in Pakistan, sarebbe ora che gli europei trovassero il coraggio di tutelare i loro soldati e i loro interessi. Se l'amministrazione Bush vuole combinare un altro disastro, faccia pure: ma si scelga un'altra parte del mondo. In Afghanistan, e dunque anche in Pakistan, Washington è vincolata ad un'alleanza: se non si ritiene tale lo metta in chiaro, e gli europei decidano se ad essi è congeniale una missione sulla quale non hanno pieno controllo.

Inoltre il fatto che il Pakistan sia il retrovia fondamentale della guerra afgana, obbliga americani ed europei a dotarsi di una strategia regionale. Finora non si è vista questa coerenza.
Nell'immediato occorre chiedersi se l'economia pachistana non abbia bisogno di una ciambella di salvataggio. È vero che nei sette anni precedenti gli americani hanno finanziato Musharraf con miliardi di dollari avendone in cambio poco di quello che era stato loro promesso.

Ma lasciare affondare il Pakistan per ripicca sarebbe, nelle circostanze attuali, un far danno non solo alla Nato e alla missione in Afghanistan, ma anche alla stabilità della pace in una larga parte del mondo: nel caso il Paese collassi, forse gli americani riuscirebbero a trovare per tempo la dozzina di bombe atomiche di cui oggi dispone Islamabad e a metterle in salvo tutte, ma difficilmente in seguito potrebbero evitare che quei progetti nucleari siano riattivati per conto di nuovi committenti.

Infine sarebbe saggio affrontare le ossessioni dello stato maggiore pachistano. Pare convinto che l'India si stia impadronendo dell'Afghanistan e la patria rischi di essere stretta a sandwich dal nemico storico. Che si tratti di un alibi per intervenire in Afghanistan o di un sospetto non del tutto campato in aria, non lo si può ignorare.

Soprattutto se fosse vero che i servizi segreti indiani sono molto attivi su tutto il confine afgano-pachistano. Anche se non si vedono i presupposti per una conferenza internazionale che riunisca tutti i Paesi dell'area, qualcosa va fatto per ripristinare un minimo di fiducia tra Islamabad e Delhi, prima che le due caste militari riprendano a montare le loro guerre per procura.
Né il Pakistan né l'Afghanistan sono cause perse. Però occorre uno sforzo di intelligenza e di determinazione. Purtroppo queste non sono le doti precipue dei gruppi dirigenti occidentali.