venerdì 23 luglio 2010

Corte Giustizia Onu-Kosovo: ora indipendenza a cani e porci

Ieri la Corte di giustizia dell'Onu, nel parere consultivo pronunciato all'Aja, ha affermato che la proclamazione unilaterale dell'indipendenza del Kosovo compiuta il 17 Febbraio 2008 non è un atto contrario al diritto internazionale.

La Corte era stata chiamata dall'Assemblea generale dell'Onu a decidere se la dichiarazione di indipendenza unilaterale fosse "in armonia" con il diritto internazionale.

Ovviamente il pronunciamento dell'Aja è destinato ad avere profonde implicazioni sia sul piano del rapporto tra i movimenti separatisti diffusi nel mondo e i governi dei rispettivi Paesi sia sul negoziato di ingresso nell'Ue di Belgrado e di Pristina.

Dopo il verdetto della Corte di giustizia internazionale, il ministro degli Esteri del Kosovo, Skender Hyseni, si è subito lasciato andare dichiarando "Ci aspettiamo che la Serbia venga verso di noi per discussioni. Le discussioni devono però avvenire entro Stati sovrani".

Gli ha subito ribattuto il ministro degli Esteri serbo, Vuk Jeremic, "Non riconosceremo mai la proclamazione unilaterale di indipendenza del Kosovo. Ci spetta una dura lotta, certo una lotta con i mezzi politici. Ma noi ci siamo già abituati".

Anche cinque paesi europei non hanno ancora riconosciuto l'indipendenza del Kosovo: Spagna, Romania, Grecia, Slovacchia e Cipro. La Spagna però ha comunicato tramite il portavoce del ministro degli Esteri di rispettare la sentenza della Corte. Mentre Cipro ha riaffermato il suo supporto alla Serbia e alla sua sovranità territoriale.

E il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha già esortato tutti i Paesi, incluse Russia e Serbia, a riconoscere il Kosovo dopo il "decisivo" pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia.

Ma naturalmente Belgrado insiste che i giochi non sono conclusi, perchè "la questione è politica e ora la parola passa all'Assemblea generale dell'Onu in settembre". Lo stesso dicasi per quanto riguarda la Russia, che ha confermato il non riconoscimento.

Ma oggi si è già avuto un assaggio di quello che provocherà nel mondo il pronunciamento della Corte dell'Aja. Infatti il premier serbobosniaco Milorad Dodik ha rivendicato l'indipendenza unilaterale anche per i serbi della Bosnia Erzegovina.

Comunque, il parere definitivo sulla sentenza della Corte spetta all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si riunirà a settembre e dovrà decidere se accogliere il provvedimento o meno, valutando che l'integrità territoriale degli stati venga conservata e che non si crei un pericoloso precedente in favore dei secessionismi sparsi nel mondo.

Dulcis in fundo, a ulteriore conferma di quanto il Kosovo sia un narco-stato in mano alle mafie di tutti i generi, oggi il governatore della banca centrale del Kosovo, Hashim Rexhepi, è stato arrestato dalla polizia con l'accusa di corruzione.

Il portavoce della missione Ue, Eulex, ha detto che ''le perquisizioni dell'ufficio e dell'abitazione del governatore sono legate a un'inchiesta finanziaria in corso per corruzione e abuso di potere e d'ufficio, per aver accettato tangenti, per evasione fiscale, per riciclaggio e traffico di influenze illecite ''. E chi più ne ha, più ne metta...

Niente male per essere il governatore della banca centrale di un narco-stato...


La Serbia perde il Kosovo ma guadagna la FIAT
di Stefano Vernole -www.eurasia-rivista.org - 23 Luglio 2010

Quanto accaduto nella giornata di ieri, pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja (città non particolarmente amata a Belgrado …) e annuncio di Marchionne, sembrerebbero due eventi separati ma in realtà corrispondono alla stessa logica e allo stesso storico disegno, lo smembramento dell’ex Jugoslavia e la penetrazione nei Balcani dei potentati economico-finanziari sotto protezione atlantista.

Bisogna innanzitutto sottolineare il carattere solamente simbolico del pronunciamento sul Kosovo, in quanto l’ultima parola sulla questione spetterà all’Assemblea Generale dell’ONU, che a settembre dovrà confermare le conclusioni della Corte e indicare alle parti politiche la strada da seguire.

Stando a quanto riportato nelle scorse ore dalle varie agenzie, sarebbero tre gli scenari ora possibili:

uno scambio di territorio; la concessione di una larga autonomia alla parte nord del Kosovo – quella a maggiore concentrazione di popolazione serba; un assetto politico e territoriale analogo a quello esistente a Cipro.

Nel primo caso, si prenderebbe in considerazione un eventuale passaggio alla Serbia del Kosovo settentrionale, che ha continuità territoriale con la Serbia e che è teatro delle tensioni maggiori fra la comunità serba e quella albanese, in cambio dell’annessione al Kosovo della regione di Presevo, nel sudest della Serbia al confine col Kosovo, caratterizzata da una massiccia presenza di popolazione albanese.

Se una parte dei serbi non sono disposti a vivere nella parte nord del Kosovo e pensano di potersi separare, allora gli albanesi della regione di Presevo sono pronti a unirsi al Kosovo”, ha detto di recente il presidente del Parlamento kosovaro Jakup Krasniqi.

Un’alternativa meno traumatica potrebbe essere la concessione al nord del Kosovo di uno statuto di forte autonomia e alcuni citano come possibile modello l’Alto Adige-Suedtirol.

Una larga autonomia al nord e’ una soluzione possibile, ma purtroppo modelli non ce ne sono e bisogna trovarli sul terreno”, ha però osservato ieri l’ambasciatore d’Italia a Pristina Michael Giffoni, che e’ anche rappresentante speciale con il ruolo di ‘facilitatore politico’ dell’Unione europea a Kosovska Mitrovica, la citta’ del nord Kosovo letteralmente divisa in due in un settore serbo e uno albanese, e simbolo per questo della persistente contrapposizione etnica in Kosovo.

Giffoni, che ritiene difficile un ripensamento sull’indipendenza, esclude un possibile scambio di territori fra Belgrado e Pristina e sostiene di propendere piuttosto per uno statuto di forte autonomia per il nord, dove la Serbia continua a sostenere economicamente le strutture parallele.

”Tutto però va fatto guardando innanzitutto ai problemi concreti della popolazione, sia quella serba che quella albanese, a cominciare dalla regolamentazione del commercio, dal funzionamento delle dogane e delle forze di polizia, dall’erogazione dell’energia elettrica” e via dicendo.

Una terza ipotesi potrebbe ricalcare la situazione di Cipro, l’isola mediterranea divisa in due, della quale tuttavia é entrata nella Ue solo la parte greca, mentre quella sotto controllo turco fa come dire vita a sé.

Il nostro ambasciatore si e’ mostrato peraltro fiducioso e sostanzialmente ottimista sulle prospettive di soluzione della disputa in Kosovo.

Al nord io vedo notevoli segnali di miglioramento e a Mitrovica si nota un inizio di integrazione fra serbi e albanesi”, ha detto Giffoni, per il quale gli ultimi, recenti incidenti registratisi nella zona non sarebbero il frutto di azioni organizzate.

Del resto, anche la gente comincia a essere stanca”, ha aggiunto.

Molto dipenderà dal primo passo che farà Belgrado dopo il pronunciamento della Corte internazionale, visto che sono stati i serbi a chiedere il suo parere”.

Ma la Serbia, per ora, non sembra intenzionata ad abbandonare la partita diplomatica e per bocca delle sue più alte cariche istituzionali ha dichiarato che “non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo”, pur dichiarandosi disponibile a trattare per una soluzione condivisa e forte del sostegno di Russia e Cina (ma anche di Spagna, Argentina, Venezuela, Cipro, Romania ecc.) che hanno già ribadito come “il rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati sia uno dei principi fondamentali della legge internazionale”.

Questo nutrito gruppo di Stati (ricordiamo che il Kosovo è stato riconosciuto indipendente finora da 69 paesi su 192 membri appartenenti alle Nazioni Unite), hanno ribadito che la separazione non consensuale di una regione da uno Stato membro dell’Onu fomenterebbe i secessionismi di tutto il mondo.

Già oggi i serbi di Bosnia Erzegovina hanno alzato la voce ed annunciano l’intenzione di proclamare la propria indipendenza sulla base del parere espresso ieri dalla Corte Internazionale di Giustizia all’Aja sul Kosovo.

La Repubblica serba di Bosnia – ha dichiarato il premier serbobosniaco Milorad Dodik citato dai media belgradesi – potrebbe adottare subito una dichiarazione di indipendenza che non viola il diritto internazionale. Il caso rappresenta un segnale positivo per proseguire la lotta per il futuro status della Republika Srpska. E’ parecchio tempo che non ci piace più far parte della Bosnia”.

E’ per questo timore che paesi con problemi di minoranze etniche al loro interno (tra i quali ad esempio cinque stati membri dell’Unione europea) si sono schierati contro il riconoscimento del Kosovo.

Sul piano giuridico, poi, non esistono norme che consentano una secessione, se si escludono quelle scaturite dal contesto coloniale.

Infine, la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, unico organo internazionalmente riconosciuto capace di deliberare su una secessione, prevede il rispetto dell’integrità territoriale della Serbia, pur ammettendo per il Kosovo una sostanziale autonomia.

Secondo i giudici della Corte, invece, la 1244 ”non preclude” la proclamazione dell’indipendenza fatta dal Kosovo il 17 febbraio 2008, in quanto i due strumenti “operano su livelli diversi”.

Al contrario della 1244, la dichiarazione di indipendenza ”é un tentativo di determinare lo status del Kosovo”.

Per i giudici, la 1244 ”non contiene proibizioni” alla dichiarazione di indipendenza e non può essere quindi interpretata come un ostacolo all’indipendenza.

Proprio su questi aspetti, il pronunciamento della Corte dell’Aja appare grottesco, fino a sfiorare il ridicolo.

Grottesco perché non tiene nemmeno conto di quanto scritto in una Risoluzione delle Nazioni Unite, il cui contenuto fu decisivo per porre fine alla guerra (molto più efficace certamente dei bombardamenti della NATO, che intaccarono solo in modo minimo l’operatività dell’esercito serbo).

Ridicolo perché tiene conto solo dei pronunciamenti di una parte, quella albanese, dimenticando l’adozione della nuova Costituzione serba, confermata da un referendum popolare, secondo la quale il “Kosovo deve rimanere, per sempre, parte integrante della Serbia” e che, quindi, allo stesso modo della dichiarazione unilaterale di Pristina “costituisce un tentativo di determinare lo status del Kosovo”.

A chiarirci le idee è arrivato tempestivamente Sergio Marchionne, che ha annunciato l’intenzione della FIAT di spostare la propria produzione in Serbia, dove la “tassazione sarebbe minore”.

Non a caso, uno dei rari autori a scrivere con cognizione di causa sulla vicenda kosovara, diversi anni fa notò come: “l’obiettivo mancato di allontanare Milosevic dal potere, non fa che ritardare un programma occidentale che vede nella Serbia un formidabile fornitore di manodopera, oltretutto una manodopera molto qualificata e a buon mercato.

Secondo studi recenti, la manodopera serba, con un salario doppio di quello che percepisce attualmente, costerebbe dieci volte meno di quella immigrata in Europa. Inoltre la sua vicinanza con i mercati europei ridurrebbe enormemente le spese di trasporto. In questo modo per il mercato mondiale del lavoro la Serbia diventerebbe molto più appetibile dell’Estremo Oriente” (1).

Come giustamente rilevato nell’ultimo importante discorso tenuto dallo stesso Milosevic, le potenze occidentali fecero guerra al presidente jugoslavo come pretesto per colpire la Serbia e trasformarla in un paese del Terzo Mondo: oggi questo concetto dovrebbe essere chiaro anche a quei lavoratori italiani che nei prossimi mesi verranno lasciati a casa, grazie alle “munifiche” opportunità offerte dalla delocalizzazione produttiva degli stabilimenti FIAT.

Come in un gioco ad incastro, la questione serba e quella del Kosovo e Metohija, in particolare, rappresentano un esempio significativo della strategia globalizzatrice a guida statunitense, che vorrebbe uniformare tutti i popoli del pianeta ai dettami del nuovo ordine mondiale-multinazionale, perché ne riassume le principali motivazioni di carattere economico (dominio del libero mercato), geopolitico (occidentalizzazione del mondo) e militare (influenza atlantista).

1. Sandro Provvisionato, “UCK: l’armata dell’ombra”, Gamberetti, Roma, 1999.

Stefano Vernole è redattore della rivista “Eurasia”; è autore dei libri La lotta per il Kosovo e La questione serba e la crisi del Kosovo.


Riprocessare Haradinaj

di Nicola Sessa - Peacereporter - 22 Luglio 2010

La Camera d'Appello ribalta la sentenza dell'Icty che assolveva l'ex leader dell'Uçk dai 37 capi d'accusa

Ramush Haradinaj deve essere riprocessato. Questo è quanto ha stabilito la Camera d'Appello del Tribunale Internazionale dell'Aja per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia (Icty).

Sono trascorsi ventisette mesi dalla liberazione dell'ex comandante dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (Uçk) e già Primo ministro Haradinaj: un eroe della libertà per i kosovari albanesi, un criminale spietato per i serbi, un temibile e carismatico avversario per i politici di Pristina.

Nell'aprile del 2008, Haradinaj ritornò in patria accolto come un santo patrono: le gigantografie di un "Rambush" in versione doppio petto e in quella, più amata, in mimetica tappezzavano Pristina, la capitale kosovara che nel febbraio del 2008 aveva unilateralmente dichiarato l'indipendenza da Belgrado.

Per i kosovari, il ritorno di Ramush fu un secondo giorno di festa, importante alla stessa stregua di quel 17 febbraio che Haradinaj ha vissuto da lontano, da una cella dell'Icty.

Il presidente della Camera d'Appello, Patrick Robinson ha parzialmente accolto mercoledì e dopo due anni di studio processuale, il ricorso presentato dall'ufficio della Procura avverso la sentenza che assolveva per insufficienza di prove Haradinaj per tutti i trentasette capi d'accusa a suo carico.

Le motivazioni della Camera d'Appello risiedono in una accertata attività intimidatoria nei confronti di testimoni che si sono rifiutati di deporre in Tribunale e in una deficienza dei giudici di primo di grado "che non avrebbero fatto abbastanza" per assicurarsi le deposizioni di due testi chiave.

La decisione dei giudici d'appello deve aver scosso gli avvocati difensori e lo stesso Haradinaj che è stato arrestato il 20 luglio a Prisitna: è la prima volta, infatti, in diciassette anni di attività dell'Icty che il giudice d'appello ribalti - seppur parzialmente - una sentenza del Tribunale censurandone altresì la condotta (in merito al fatto di non aver fatto abbastanza per ascoltare i due testimoni chiave e per non aver tenuto in debita considerazione la seria minaccia a cui erano sottoposti).

Haradinaj è ritenuto responsabile della morte di 58 persone, per lo più serbe, e della tortura di prigionieri nei campi di Decani. Nel corso degli anni diversi testimoni a carico di Haradinaj sono stati minacciati, misteriosamente rimasti coinvolti in incidenti d'auto mortali o più semplicemente uccisi a colpi d'arma da fuoco.

I due testi a cui fa riferimento la sentenza della Camera d'Appello sono il testimone protetto "W." e Scefqet Kabashi, un ex membro dell'Uçk che ha tenuto la bocca chiusa in seguito alle minacce ricevute e nonostante il programma di protezione testimoni offerto dal Tribunale: "La protezione non serve a nulla oltre le mura di questa Corte", ha risposto Kabashi rifiutando il programma, ritenendo preferibile essere processato per reticenza o oltraggio alla Corte, piuttosto che parlare e rischiare la vita.

Già il generale Fabio Mini, comandante della Kfor tra il 2003 e il 2004 aveva raccontato a PeaceReporter quanto fosse difficile proteggere un testimone in Kosovo: "La cosa più difficile da fare in Kosovo è mantenere in vita un testimone".

La Camera d'Appello non ha fissato una data per la prima udienza del nuovo processo e subito dopo la sentenza è stato ordinato il trasferimento di Haradinaj nella sua cella del Tribunale internazionale dell'Aja.

*Le interviste a Ramush Haradinaj e al general e Mini sono reperibili sul sito del webdoc prodotto da PeaceReporter www.theemptyhousewebdoc.com


Il governo italiano vuole appaltare la missione in Kosovo ai contractor

da www.comidad.org - 15 Luglio 2010

La scorsa settimana la deputata del Partito Democratico Federica Mogherini ha diffuso, indignata, la terribile notizia che il governo ha rinunciato al comando della missione NATO in Kosovo (missione nota con la sigla KFOR), dato che la manovra finanziaria non consentirebbe di reperire i fondi necessari neppure per mantenere l'attuale contingente.

Un ritiro, parziale o totale, dei militari italiani, per qualsiasi motivo venga deciso, di per sè non sarebbe una di quelle notizie in grado di suscitare particolare dolore; ma il problema è che, come sempre, c'è l'inganno.

Il blog di "Panorama" - periodico guerrafondaio e privatizzatore come tutti gli altri organi d'informazione, ma più sfacciato -, ci ha offerto la spiegazione del mistero, dietro le parole di uno dei soliti "esperti" di cose militari: la soluzione del problema della missione in Kosovo consisterebbe nell'affidarla a ditte private, specializzate in "servizi bellici", quelli che sono ormai conosciuti con l'eufemismo di "contractor".

La logica di questo suggerimento non appare inattaccabile, poiché, se il problema della missione militare italiana in Kosovo riguarda la mancanza di fondi, allora un appalto a ditte di contractor non lo risolverebbe, dato che non lavorano certo gratis. Ma solo un antimilitarista irriducibile si perderebbe in un dettaglio così trascurabile.

Consideriamo perciò pareri più equanimi e meno prevenuti. Commenti provvidenziali, tanto da apparire pilotati, sono infatti venuti in soccorso dell'opinionista di "Panorama", affermando che bisognerebbe uscire dal pregiudizio pacifista che mostra i contractor come dei lanzichenecchi assetati di sangue e di sesso, dato che si tratterebbe di professionisti fornitori di servizi.

Ma l'immagine dei contractor come semplici mercenari assetati di sangue e di sesso appare alquanto addolcita, molto al di sotto del pericolo reale che essi costituiscono.

Le agenzie private di servizi bellici forniscono in appalto qualcosa che in precedenza lo Stato produceva da sé ed a costi molto inferiori. Se una volta la CIA uccideva persone con propri agenti ed in economia, oggi invece commissiona un appalto a ditte composte da suoi ex agenti, che, per lo stesso "servizio", si fanno pagare mille volte di più (anche se occorre detrarre dal guadagno la tangente da versare al committente).

Due degli agenti CIA uccisi in un attacco della resistenza afgana poco più di sei mesi fa erano in effetti dei dipendenti della ex Blackwater, che oggi si fa chiamare XeServices.

L'appalto dei servizi militari a ditte private prevede che queste usino anche infrastrutture pubbliche, come le basi militari USA e NATO. Si tratta perciò di privatizzazione, ma, come sempre, di privatizzazione assistita e sovvenzionata dal denaro pubblico in ogni sua fase.

Si dice spesso che il vantaggio per i governi nell'usare i contractor consisterebbe nel fatto che i mercenari uccisi in azione non risultano nelle statistiche ufficiali dei morti, come invece accade per le forze armate regolari.

Può esserci del vero, ma il motivo principale sta nella possibilità per il privato di far lievitare al massimo i costi di gestione, cosa che un funzionario pubblico non potrebbe fare senza infrangere la legge ed incorrere in rischi di sanzioni penali.

Sono i vantaggi del diritto privato rispetto al diritto pubblico. Lo si è capito anche in Italia, ed ecco il motivo per il quale tutte le aziende pubbliche sono diventate delle Società per Azioni, anche se a capitale pubblico.

In Iraq la ex Blackwater è stata responsabile di stragi fra i civili, di traffico di armi, e persino di traffico di minorenni per usi sessuali; e per tutto ciò è risultata lo scorso anno imputata presso commissioni del Congresso e presso corti federali statunitensi, anche se oggi non si sa che fine abbiano fatto questi procedimenti.

La ex Blackwater è presente anche in Colombia (dove fa traffico di cocaina), in Afghanistan (dove traffica in eroina), ed anche in Pakistan, dove alcuni suoi agenti camuffati sono stati beccati sul fatto mentre stavano per commettere un attentato. La stessa ditta viene utilizzata persino sul territorio USA, come nel caso delle evacuazioni forzate in seguito all'uragano Katrina.

La ex Blackwater risulta presente anche in Kosovo, lo Stato fantoccio edificato attorno alla base militare USA di Bondsteel. Si tratta della più grande base militare USA al di fuori del territorio statunitense; una base che, secondo Alvaro Gil-Robles (inviato del Consiglio d'Europa per i Diritti Umani nel 2005), nasconderebbe anche una Guantanamo bis.

Ma, una volta tanto, in Kosovo non è la ex Blackwater a fare la parte del leone negli appalti militari e nei relativi business collaterali. Se l'Iraq, l'Afghanistan e la Colombia sono terreno di caccia di appalti e traffici illegali soprattutto per la ex Blackwater, i Balcani costituiscono invece da venti anni il feudo di un'altra ditta privata, la Military Professional Resources Inc. (MPRI).

Fondata nel 1988 da ex militari statunitensi (quindi nove anni prima della Blackwater), la MPRI è stata protagonista nelle guerre dei Balcani, ottenendo nel 1994 dal Pentagono anche l'appalto per l'addestramento e l'armamento del neonato esercito croato.

La creatura di cui la MPRI può andare più orgogliosa è però l'UCK, la milizia che ha condotto la "resistenza" anti-serba in Kosovo, divenuta nota per le sue attività nel traffico di armi, di eroina e di organi umani. Mai come in questo caso, la creatura appare ad immagine e somiglianza del creatore.

La MPRI appartiene alla L-3 Communications, una delle più grandi compagnie statunitensi specializzate nella fornitura di software e prodotti elettronici per lo spionaggio. La L-3 Communications rappresenta una gigantesca concentrazione di potere di "intelligence" e di forza militare sul campo, quindi può aggiungere alla coercizione violenta anche l'arma del ricatto sui governi e sui funzionari dei vari Stati "clienti".

La MPRI, dal canto suo, non si limita a fornire servizi, per quanto sporchi, nelle varie guerre, ma costituisce un'agenzia che prepara ed organizza le guerre e le trasforma in un veicolo per ogni genere di affari criminali.

Tra le grandi competenze dimostrate dalla MPRC c'è stata quella di reclutare ed addestrare la criminalità comune del luogo, in modo da farne una forza organizzata e presente in modo capillare sul territorio. Si deve però, almeno in parte, all'addestramento ed all'armamento della MPRI la pessima figura dell'esercito georgiano contro la Russia nella guerra per l'Ossezia del 2008.

Insediatasi in Kosovo da prima della NATO, a cui ha preparato il terreno, oggi la MPRI si configura come un potere superiore alla stessa NATO. MPRI e NATO sono entrambe emanazioni del Pentagono, ma la MPRI ha il vantaggio di non dover accondiscendere a quelle procedure che lasciano spazio ai Paesi satelliti degli USA.

Risulta evidente che oggi i militari italiani cominciano a risultare di troppo in Kosovo, dato che assorbono finanziamenti che potrebbero essere più utilmente versati a ditte private. Far parte della NATO non deve quindi più consistere nel fornire truppe all'alleanza, ma nel versare una "tassa di alleanza" (o tassa coloniale) per assegnare appalti alle solite ditte private statunitensi.

Con l'istituzione, nell'ambito dell'ultima legge finanziaria, della Servizi Difesa SPA (società di diritto privato a capitale pubblico), il governo italiano si sta infatti adeguando a queste nuove direttive del Pentagono.

Tali direttive comportano che la spesa militare non si concretizzi più in una Forza Armata nazionale, ma nell'appalto a ditte private di contractor, che, anche se ufficialmente italiane, rappresentino delle filiali delle case madri statunitensi.

La coincidenza della istituzione della Servizi Difesa SPA con la chiusura dei rubinetti finanziari per le truppe italiane in Kosovo, ovviamente è del tutto casuale, e solo degli incorreggibili "cospirazionisti" possono vedere in tale coincidenza delle motivazioni affaristiche, dato che, notoriamente, gli interessi privati non hanno nessuna influenza sulle scelte di governo. Conforta comunque il sapere che per i militari italiani non c'è pericolo di disoccupazione, dato che potranno sempre diventare dipendenti della MPRI o della XeServices.