lunedì 26 luglio 2010

Update italiota

Qui di seguito un'altra palata di merda italiota fresca fresca...


Fidi, immobili e triangolazioni. Così è nato il tesoro di Verdini
di Walter Galbiati - La Repubblica - 26 Luglio 2010

I membri degli organi di vigilanza del Credito cooperativo composti da uomini legati al coordinatore del Pdl. Al centro dell'attenzione della Finanza i finanziamenti al gruppo Fusi e "Giornale della Toscana"

Ha ricevuto garanzie dal Mediocredito e possiede conti, titoli e garanzie presso Banca Intesa. Ha effettuato operazioni extraconto con Unicredit, ha aperto e chiuso rapporti con la Banca di Lodi e il Banco di Napoli e non ha disdegnato di avere titoli e obbligazioni in deposito alla Cassa di Risparmio di Firenze.

Sono ancora attivi i suoi conti correnti presso Webank e la Banca Nazionale del Lavoro, mentre in passato ha ricevuto finanziamenti da Deutsche Bank. Una certa preferenza è andata al Monte dei Paschi di Siena con la quale ha registrato rapporti per garanzie, cassette di sicurezza, carte e conti correnti.

Qualche passaggio lo ha fatto anche alla Popolare di Milano, alla Banca di credito cooperativo di Reggello, alla Aureo gestioni e altro, ma niente a che vedere con i 60 rapporti aperti con il Credito cooperativo fiorentino.

E non è difficile capire perché Denis Verdini, coordinatore nazionale del Pdl, e oggi indagato per corruzione a Firenze (per l'appalto della Scuola marescialli), a Roma (l'indagine sull'eolico) e a L'Aquila (gli appalti della ricostruzione post-terremoto ottenuti dal "Consorzio Federico II") abbia scelto come sua banca di fiducia la banca di cui è presidente.

Lì non solo ha una normale operatività in conti correnti, deposito titoli, risparmi, carte di credito e di debito, ma ha anche un considerevole numero di garanzie, crediti, operazioni extraconto e altro per un totale di 60 rapporti. Sui quali ora sta indagando il Nucleo di polizia valutaria di Roma.

Del resto Verdini è il padre padrone del Credito cooperativo fiorentino. Lui è l'indiscusso presidente dal 1990 e il vertice della banca è praticamente in mano sua. Il vicepresidente vicario non è altri che il suo avvocato, Marco Rocchi, e due dei quattro consiglieri di amministrazione sono a libro paga nelle sue aziende: Enrico Luca Biagiotti è consigliere della Società Toscana di Edizioni ed è l'amministratore unico della Nuova editoriale, le società attraverso le quali Verdini controlla Il giornale della Toscana, mentre Fabrizio Nucci è addirittura socio di Verdini della Nuova Toscana Editrice (di cui è socio anche Massimo Parisi braccio destro di Verdini e parlamentare del Pdl).

Chi poi deve controllare, il collegio sindacale, non brilla certo per indipendenza. Il presidente è l'avvocato "storico" di Verdini, Antonio Marotti, mentre gli altri due sindaci sono uno, Luciano Belli, socio della moglie di Verdini in Edicity, l'altro, Gianluca Lucarelli, presidente del collegio sindacale della stessa società.

La mancanza di controllo all'interno del Credito cooperativo è diventata palese proprio nei rapporti con la Società Toscana di Edizioni (Ste), alla quale la banca ha concesso un fido superiore al 10% del proprio patrimonio (che a fine 2009 era di 56 milioni di euro).

L'operazione, ritenuta sospetta dalle Fiamme gialle, avviene nel 2005, quando la Ste versa in base a un contratto preliminare 2,6 milioni di euro a Verdini e a Parisi per l'acquisto di quote di una nuova società, la Nuova toscana editrice.

Sulla carta, la Ste si sarebbe procurata la provvista attraverso una plusvalenza di 2,6 milioni, ottenuta vendendo alcuni immobili proprio alla Edicity, la società di proprietà della moglie di Verdini e in cui siedono gli stessi sindaci della banca. In realtà gli investigatori stanno analizzando una serie di versamenti in contanti.

Il giro di immobili e di contratti "tutto in famiglia" della Ste è simile alle compravendite ritenute "fasulle" dagli inquirenti fiorentini che hanno analizzato i finanziamenti concessi dal Credito cooperativo a un altro gruppo amico, la società di costruzioni Btp di Riccardo Fusi, al centro dell'inchiesta per l'appalto da 200 milioni di euro per la Scuola dei Marescialli.

Il Credito concedeva prestiti a Fusi (fino a 10 milioni di euro) su preliminari di compravendite immobiliari che poi non venivano mai chiusi. Fusi è finito sul registro degli indagati con il direttore generale del Credito cooperativo, Piero Italo Biagini. E forse non era nemmeno un caso che la segretaria di Fusi, Monica Manescalchi fosse nel collegio dei probiviri della banca.

La mancanza di controllo trova piena corrispondenza nel bilancio, dove alla voce "rapporti con parti correlate" non vi è nemmeno l'ombra di quanto avveniva tra le società di Verdini e la banca. Solo di recente la Banca d'Italia ha avviato un'ispezione sul Credito cooperativo, sebbene già nel '98 non erano mancate le prime avvisaglie, quando una prima ispezione era terminata con una multa da un milione di euro per ritardi nella iscrizione tra gli incagli di crediti andati a male.

Ora ce ne sarebbe abbastanza per chiedere un commissariamento, anche perché, secondo l'accusa, sui conti del Credito cooperativo sarebbero stati resi liquidi parte degli assegni versati da Flavio Carboni, il faccendiere regista della P3, a Verdini per gli appalti in Sardegna nel settore eolico.

Di quel milione, una tranche da 230 mila euro si è trasformata in denaro sonante a luglio 2009 presso la filiale del Credito Cooperativo di Campi Bisenzio, dove Antonella Pau, la convivente di Carboni, ha portato 23 assegni circolari da 10mila euro.

Tra novembre e dicembre, ne sono arrivati altri otto da 12.499 euro. Importi non casuali, ma tali da non superare i limiti della normativa antiriciclaggio. Dopo i 12.500 euro scatta infatti la segnalazione.

Nessuno obbligo quindi, ma nessuno in banca si è nemmeno insospettito di quei versamenti e prelievi, per cifre imponenti e con valori vicini ai limiti di legge. E non si può neppure dire che siano cifre insignificanti per una banca che nel 2009 ha riportato un utile di 240mila euro a fronte di 400 milioni di impieghi.


Vomito ergo sum
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 23 Luglio 2010

In attesa che i nostri accaldati politici e osservatori trovino una risposta al torrido interrogativo “è la nuova Tangentopoli?”, una cosa è certa: le mirabolanti analogie fra gli autogol dei tangentari modello 1992 e quelli dei loro nipotini del 2010. Si difendono con alibi così sgangherati da sembrare confessioni.

Quando finì dentro Mario Chiesa, Craxi lo bollò come “mariuolo che getta un’ombra su un partito che a Milano in 50 anni non ha avuto un solo amministratore condannato”.

Poi ne acchiapparono qualcun altro, e si corresse un po’: “Nel Psi ci sono tre mele marce su una totalità di persone oneste”. Quando ne acciuffarono a centinaia, pontificò alla Camera: “Qui rubiamo tutti”, salvo poi accusare i giudici di processarlo perché “non potevo non sapere”. Un anno dopo era ad Hammamet, latitante. Ora il suo figlioccio, il piccolo Silvio, gli copia i testi.

Scajola e Verdini sono “casi isolati” in un partito “tutto perfetto”. Anche Bossi, quando saltò fuori la tangente Montedison da 200 milioni alla Lega, irrise al “pirla” Patelli, il tesoriere leghista che l’aveva incassata. Furono condannati entrambi, il pirla e il capo.

Oggi Belpietro sminuisce la P3 come “la loggia dei tre pirla guidata da Carboni” (saranno contenti gli altri due, Dell’Utri e Verdini). Feltri dà del “pirla” al direttore dell’ospedale di Pavia beccato con le cosche calabre. Berlusconi parla di “quattro sfigati in pensione”, Il Giornale di “millantatori da operetta”, Libero di “bulli di paese”, anzi “da film di Totò”.

Il governatore Cappellacci, pilotato da Carboni, se lo dice addirittura da solo: “Sono un babbeo”, pensando così di salvarsi la reputazione.

Nel 1987, in una delle Tangentopoline che anticiparono quella grossa, finì dentro per tangenti a Viareggio un tal De Ninno, funzionario Psi; l’indomani Craxi tuonò sull’Avanti!: “La notizia suscita sorpresa e indignazione… De Ninno aveva informato i dirigenti del partito circa la sua posizione, risultando del tutto estraneo alla vicenda”.

Ecco, se l’aveva assolto il partito, come si permettevano i giudici di arrestarlo lo stesso? Ora B. sentenzia che Cosentino è innocente perché “ho appurato personalmente la sua totale estraneità ai fatti contestati dai pm”.

Un alibi di ferro. Chiesa, quando gli aprirono la cassetta di sicurezza piena di miliardi, disse che erano “i risparmi di mio padre”. Craxi, a proposito dei 50 miliardi sui suoi due esteri, sbottò: “Dopo 40 anni di lavoro, posso contare su qualche risparmio…”. E il giudice Squillante, quando gli trovarono 9 miliardi in Svizzera, riattaccò con i “risparmi di una famiglia numerosa”.

Non portò fortuna neanche a lui. Ora Verdini ci riprova: i 2,6 milioni targati Carboni sono “risparmi personali, frutto dei sacrifici miei e della mia famiglia”. Come 18 anni fa, è evaporato il pudore, è svanita la vergogna ed è sparita pure la logica. Altrimenti Cicchitto non direbbe mai: “Su Borsellino è stato commesso un enorme errore giudiziario che dovrebbe far riflettere chi ritiene la magistratura infallibile e i pentiti credibili”.

Perché è stato proprio Spatuzza, pentito che il governo ritiene inattendibile al punto da negargli la protezione, a smontare l’errore giudiziario su via D’Amelio, accusandosi di una strage per cui languono all’ergastolo sette innocenti.

Quindi, se errore giudiziario vi fu, ne deriva che Spatuzza è credibile: il contrario di quanto vorrebbe dimostrare il povero Cicchitto. Nel ’93 fu arrestato il dc Mongini e, appena confessò le mazzette, fu espulso dal partito perché “con le affermazioni fatte, ha creato sconcerto nella pubblica opinione”. Lui commentò spiritoso: “Non mi cacciano per quel che ho fatto, ma per quel che ho detto”.

Tempo dopo, Ferrara dichiarò a MicroMega: “Per fare politica devi essere ricattabile, cioè disponibile a fare fronte comune”. Ora Quagliariello se la prende con i finiani perché vogliono cacciare gli inquisiti: “Chi si scaglia contro i colleghi in difficoltà fa venir meno la solidarietà interna e indebolisce il partito”. Resta da capire la differenza fra un partito e una cosca, ma queste sono sottigliezze.


Ma come parla la cricca?
di Denise Pardo - L'espresso - 23 Luglio 2010

«Stongo da te». «Ce lo dicetti a Berlusconi». «Vuoi appiccicà sto cazzo de telefono?». «Salutami a Nicò e pure a Giacomì». Ovvero, come il degrado morale diventa anche degrado linguistico

Stefano Ricucci? Quasi Jean Paul Sartre. E dire che al tempo degli scandali delle scalate bancarie non pochi tormenti, ma anche molte risate certo, gli aveva procurato la metafora che oggi potremo considerare da Goncourt "Stamo a fa' i froci con il culo degli altri". Dietro, è il caso di dirlo, c'era un che di zeitgeist, un che di filosofico.

Nulla a che vedere con il lessico micidiale e scalcagnato, tra Mario Merola e Pappagone, delle intercettazioni telefoniche alla cosiddetta P3, ennesima cricca fra le varie cricche che governano l'Italia, inquietante comitato d'affari per pilotare nomine, di politici e giudici, per aggiudicarsi appalti e capitali, desolante campione del fallimento della scuola italiana dell'obbligo ("io ce lo dicette a Berlusconi" e sembra davvero una barzelletta).

Quindicimila pagine il rapporto dei carabinieri, denso di un lessico da Sud story così caricaturale da apparire inverosimile se non comico fatto di massime di venerati maestri ("Con la bocca si mangiano i maccheroni diceva Totò", però!), di soprannomi più borbonici che Unione europea ("Ho già chiamato a Fofò gli ho detto domani stongo da te" e Fofò non è mica uno qualunque, ma Alfonso Marra, presidente della Corte d'Appello di Milano), di un birignao molto in voga nelle bettole più trendy dell'Irpinia e del casertano ("Vuoi appiccià sto cazzo di telefono?", zufola Martino al sottosegretario Nicola Cosentino).

Un salotto poco buono frequentato da sottosegretari, Giacomo Caliendo (alla Giustizia) e il suddetto Cosentino (all'Economia, costretto alle dimissioni dal governo ma non da coordinatore Pdl della Campania, salvato dal carcere grazie alla giunta della Camera dei deputati), da plenipotenziari cheeck to cheeck con il premier (Denis Verdini e Marcello Dell'Utri, presenzialista che non si perde nessuna inchiesta giudiziaria del paese) e altri galantuomini del ramo Pdl, tributaristi (Pasquale Lombardi), imprenditori (Arcangelo Martino).

Diranno in Padania, il solito meridione, la solita questione. Invece no. Anche se con un cammeo, svetta la partecipazione straordinaria di Roberto Formigoni, presidente della Lombardia, scoperto a parlare pure lui con termini "aum-aum" ("Malgrado la neve ci saranno passeggiate?", si informa dell'arrivo degli ispettori per sbloccare la lista collegata a lui durante le ultime regionali).

E la presenza, da protagonista, invece, di un rappresentante di una regione a statuto speciale, la Sardegna, con il faccendiere Flavio Carboni, socio di lunga data della star di tutte le logge, la P2, l'unico a dare un tocco esistenziale al tono delle conversazioni straripanti di citazioni urologiche ("A volte provo dardi di noia" e chissà che avranno capito i suoi sodali, rustici, se si vuol esser buoni).

Alla fine, è il sipario alzato su una politica arcaica che si sperava sepolta, sulla rappresentazione di una sclerosi amministrativa locale e nazionale a dir poco border line e da terzo mondo, su un modello culturale quasi tribale. Con figure inedite, perfino.

"Non sono un fesso", rivela Martino a Cosentino commentando il ritardo dell'arrivo del dossier commissionato per colpire Stefano Caldoro e i suoi presunti amori gay"sono pure un poco laureato". Un poco laureato? Dopo il laureato intero, anche quello a fette? Dev'essere un progetto sperimentale per la Campania ideato dal ministro Gelmini.

Cesare in primis, il nome in codice del grande capo da accontentare e a cui obbedire, presumibilmente Berlusconi, in seconda ipotesi Dell'Utri. E poi giù per li rami, tutto il sistema, i membri dell'associazione segreta, i piani per controllare la macchina della giustizia, le importantissime elezioni del governatore della Campania.

Roba seria gestita con un linguaggio a dir poco imbarazzante, una realtà del tutto surreale. "Dobbiamo capire andò sta o' buono e andò sta o' malamente" (cioè su quali giudici della Consulta si può contare). "Amn' fa nu poc' na conta a vedè quanto sonn' i nostri e quanti songo i loro", spiega Lombardi a Caliendo.

Pasqualino Lombardi è l'uomo che ha il compito di tenere i rapporti con i magistrati. Un ruolo fondamentale decisivo per la P3 e per il governo. Roba da accapponare la pelle.


Romani, l'uomo della Brianza al servizio di B. per risolvere gli affari che scottano
di Davide Vecchi - www.ilfattoquotidiano.it - 26 Luglio 2010

Fedelissimo del premier, è il suo "ministro delle tv". Ma ha anche seguito affari di famiglia del Cavaliere al Nord, come la variazione urbanistica per la maxi area della Cascinazza di Monza. E adesso è in pole position per diventare il successore di Scajola

Per gli amici ministro lo è già. Almeno da dieci anni. Da tanto infatti lo chiamano “ministro delle tv”, riferendosi a quelle di Silvio Berlusconi. Anche se a Mediaset Paolo Romani non ha mai lavorato.

Ma ha sempre avuto buone idee per il Biscione. Altre valide per il premier. Altre ancora ottime per entrambi. E si è sempre dato un gran da fare. Avviando sulle sue orme anche il giovane figlio Federico. Sdoppiando, in pratica, se stesso. Due Romani is meglio che one.

Per questo ora sono in molti quelli che dipingono Romani come il successore dell’uomo a cui compravano le case a sua insaputa; l’indimenticabile e indimenticato Claudio Scajola.

Il Corriere della Sera scrive che sarà proprio lui a sedere sulla poltrona di responsabile del dicastero dello Sviluppo Economico, dopo che il presidente Giorgio Napolitano ha detto al premier come fosse venuto il momento di lasciare l’interim dell’importante ministero.

E allora Romani sogna e spera che non abbia ragione Il Giornale di domenica che, a sorpresa, in una lunga intervista a Michela Vittoria Brambilla, diceva alla rossa ministra del Turismo “adesso il premier dovrebbe darle il posto che fu di Scajola”, senza che l’ex presentatrice del programma trash di Canale 5 “I misteri della notte” facesse una piega.

Come finirà lo sapremo comunque in settimana. Anche se gli esperti di palazzo dicono che la pole position, a meno di un outsider, sia del fedelissimo Romani. Lui del resto è una vita che aspetta. E la sua biografia lo conferma.

Nato a Milano nel settembre del 1947, Romani comincia da subito a lavorare nel settore televisivo. Prima ancora di Silvio. Ad appena 27 anni installa TeleLivorno. A 29 diventa direttore generale di Rete A. Amico di Paolo Berlusconi, Romani viene segnalato a Salvatore Ligresti che lo cerca per il rilancio di Telelombardia.

Nel 1986 ne diventa amministratore delegato, fino al 1990 quando Ligresti lo chiama: “Lei è bravissimo, ma Craxi mi ha chiesto una televisione socialista”. Romani, che è un liberale, non si scompone. E s’inventa e dirigere Lombardia7 dove con il programma “Vizi privati e pubbliche visioni”, condotto da Maurizia Paradiso, conquista un buon successo e qualche guaio giudiziario per l’uso delle linee telefoniche con numerazioni 144 e 166.

Ma è ormai l’autunno del 1993, si sta organizzando la discesa in campo del Cavaliere. Romani è tra i primi a imboccare la via di Arcore, al seguito di Marcello Dell’Utri, Mario Valducci, Enzo Ghigo e gli altri reclutati in Publitalia. Nel marzo 1994 fa il suo ingresso con la spilletta di Forza Italia a Montecitorio.

Da allora non se n’è più andato dal Palazzo. E’ passato per le commissioni difesa, trasporti, finanza, giunta delle elezioni, poste e comunicazioni, riordino del sistema televisivo, vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Nel 2005 è nominato sottosegretario alle Comunicazioni. Si allontana dalla capitale solo su incarico del Cavaliere per risolvere due vicende delicate: individuare un erede per guidare il partito in Lombardia, dove i ciellini di Formigoni creano qualche problema, e risolvere l’annosa e imbarazzante questione dell’area monzese della Cascinazza, di proprietà del fratello del premier.

La carica di coordinatore regionale di Forza Italia, che detiene dal ’98, la lascia dopo sette anni solo con la certezza che non finisca in mano agli uomini di Roberto Formigoni, braccio politico di Comunione e Liberazione, invisa a Romani, capitano dei liberal. Passa il testimone alla giovane ma già promettente Mariastella Gelmini.

Ben più complicata e delicata la questione della Cascinazza. Un’area di 700mila metri quadrati che Paolo Berlusconi acquista nel 1980 con l’intento di realizzare 1 milione 750mila metri cubi in cambio della cessione a titolo gratuito di 282mila metri quadrati al comune di Monza.

Ma l’immobiliare non è mai riuscita a costruire. Le volumetrie azzerate, l’area vincolata a verde. Comincia il balletto di esposti, ricorsi, denunce che si protrae inutilmente per trent’anni. Persino la Cassazione si pronuncia: lì non ci si può piantare neanche una tenda, figurarsi costruirci una città.

Nel 2005 la Regione però, con una piccola variazione approvata con appena un voto di scarto, modifica la legge urbanistica. Berlusconi torna alla carica. E’ il momento di agire. Si riprende in mano tutto, ma questa volta serve un amico nel comune di Monza.

E alle elezioni del 2007 chi si candida? Paolo Romani. Che a giugno entra in giunta ed è nominato assessore all’urbanistica e a Expo 2015. Pur mantenendo l’incarico di sottosegretario del governo, lavora in Brianza. Si dedica alla Cascinazza. Ma Paolo ha deciso di vendere. È costretto a fare cassa: il gruppo Pbf ha perdite per 28,4 milioni e debiti per 108.

Nell’ottobre 2007 si libera dell’area cedendola per 40 milioni di euro con una clausola che prevede un’integrazione di 60 milioni nel caso i terreni fossero stati “valorizzati”. Di Romani, del resto, c’è da fidarsi. A ragione. Perché nel novembre 2009 il Comune, grazie a una variante (a Monza nota come “variante Romani”) sblocca la costruzione di 420mila metri cubi.

A guardare il progetto sembra Dubai: è prevista pure una pista di sci coperta, una monorotaia sul canale Villoresi, piscine, palestre, negozi. Anche se bastano due gocce di pioggia ad allagare tutto. Lo dice il piano di assetto idrogeologico della Regione Lombardia. Ma tant’è. Berlusconi intasca anche i 60 milioni di bonus.

Paolo Romani può lasciare l’assessorato all’urbanistica (ma si conserva quello per Expo 2015, l’evento più importante che l’Italia avrà nei prossimi anni) e può tornarsene a Roma. Dove l’attende l’incarico di viceministro allo Sviluppo Economico.

Romani non è tipo da occupare poltrone stando con le mani in mano. Torna così al primo amore, la televisione. Si era già dilettato con la legge Gasparri. Decide di affrontare il nodo par condicio. Le elezioni del resto sono vicine.

Già aveva tentato una variazione nel 2006, proponendo una nuova ricetta per la bulimia propagandistica del Cavaliere: lasciare inalterata la normativa introducendo però la possibilità per i partiti di promuovere i programmi elettorali senza alcun limite, a pagamento. Ciascuno secondo le proprie disponibilità economiche. Nulla da fare però. E se non si riesce a cambiare la legge tanto vale ribaltarla: nessuno vada in tv.

Questa l’idea che nel 2009, in vista delle regionali, riesce a realizzare. Un genio. La Rai ferma i talk show. Annozero e Ballarò in primis. Che per protesta organizzarono “Raiperunanotte” a Bologna. Romani disse di non avere responsabilità nella decisione: “La commissione Vigilanza ha applicato alla lettera una sciagurata legge che si chiama par condicio, che noi vorremo abolire”.

Come da abolire, dice in diverse occasioni, sono i programmi di Michele Santoro e Serena Dandini. Critica anche RaiNews24. Per non parlare di Marco Travaglio, che definisce “incompatibile con il servizio pubblico”.

Romani del resto è lapidario. Quando la Ue bocciò l’estromissione di Sky dal digitale terrestre, il viceministro con i suoi sbottò: “Me ne frego dell’Europa, decido io”. E giusto pochi giorni fa, il 21 luglio, quando da Bruxelles è arrivato il via libera allo sbarco di Sky sul ddt, Romani ha commentato: “Un regalo al monopolista della pay-tv”. Sa che di lavoro ce n’è ancora molto da fare. Tempo non ne perde. Va detto. Ed è lungimirante.

In questi mesi è riuscito a stilare un regolamento che, così come è, sostanzialmente tarpa le ali alle web-tv. Che oggi sono 5mila in Italia, ma sono ovviamente destinate a crescere. Facile farsi una web tv, ed economico.

Il regolamento invece prevede richiesta di permessi, registrazione con versamento di tremila euro, mega sanzioni per chi sbaglia e una gran mole di documenti da presentare. Si preoccupa anche della diffusione della fibra ottica e suggerisce che siano i Corecom (che dipendono dall’Agcom) a gestire l’ormai vicina diffusione sul territorio della nuova rete.

Questo per quanto riguarda il lavoro. Ma Romani, come tutti, ha anche una vita privata. Una famiglia. Due mogli. Figli. Preoccupazioni. Problemi. Qualche guaio. In particolare il fallimento di Lombardia7, la tv del programma di Maurizia Paradiso.

Secondo l’accusa quando la rete era già in stato di decozione, Romani avrebbe eseguito una serie di pagamenti preferenziali per più di un miliardo di lire. Con assegni “monetizzati dallo stesso Romani”. L’udienza preliminare termina con un proscioglimento. Deve però pagare 400mila euro come risarcimento al curatore fallimentare della tv.

Una cifra rilevante. 200mila euro arrivano con una fideiussione dalla banca Popolare di Lodi, all’epoca nelle mani di Giampiero Fiorani. Per l’altra metà gli è concessa la rateizzazione con versamenti mensili. Finora onorati con assoluta e signorile puntualità. Va detto.

Come gli va riconosciuta la capacità di essere stato esempio per i figli. Nonostante i numerosi impegni romani. In particolare il 27enne Federico deve aver imparato molto dal padre. Tanto da volerne seguire le orme. Per quanto il papà abbia insistito a farlo lavorare in televisione, prima a Telereporter e poi a Mediaset, lui ha voluto a tutti i costi entrare in politica.

L’occasione per il debutto arriva con la nascita della provincia di Monza e Brianza. Il 7 giugno 2009 Federico è eletto nelle file del Pdl. Come il padre si da un gran da fare. E’ membro di tre commissioni su nove: energia e ambiente, personale e affari generali, finanze e bilancio.

Inoltre propone, con altri tre consiglieri, di candidare Silvio Berlusconi al premio Nobel per la Pace. Le motivazioni? “Le attività svolte in prima persona per il rispetto dei diritti dell’uomo e degli ideali democratici in favore della convivenza pacifica tra i popoli”.

La figlia Lucrezia, invece, sembra essere più propensa a seguire le passioni della madre, Patrizia Zea, seconda moglie di Romani. I due si sono conosciuti a Lombardia7. Lei, oggi 39enne, era una giovane e bellissima show girl che ebbe occasione di mostrare le sue qualità nel programma di Maurizia Paradiso prima, poi in Colpo Grosso di Umberto Smaila come ragazza cin cin. Una sorta di amore a prima vista coronato dalla nascita, 15 anni fa, di Lucrezia.

La giovane liceale dello Zaccaria, condivide con la madre la passione per i cavalli. Insieme hanno anche partecipato a qualche gara, seppur con scarsi risultati (un primo posto su 11 concorsi disputati). Lucrezia sempre in sella a Campari, la mamma a Fosbury Flop 3. Non frequenta la politica né ambienti politici.

Solo una volta ha ceduto alle opportunità fornitele dal ruolo del padre: la prima alla Scala del 2009. Andò a vedere la Carmen. Venne notata nel foyer tra dame d’altra epoca per la sua giovane età e perché indossava un vestito poco consono all’evento: un abito nero corto su gambe svettanti. Ma si giustificò: “Scusate, sono giovane, il lungo non fa per me”. Come ribatterle. La notizia era piuttosto che una 14enne si aggirava nel museo delle cere pur di assistere all’opera di Bizet. Volontariamente. Insomma, di figli così c’è solo da esserne fieri.

Come soddisfatto deve ritenersi Silvio Berlusconi del lavoro di Paolo Romani. Altro che Brambilla. Lui la poltrona da ministro se la merita proprio.


Terremotati e sfollati
di Rosa Ana De Santis - Altrenotizie - 21 Luglio 2010

La notizia arriva da Alba Adriatica, ma non è un caso isolato. I terremotati, che da mesi erano accolti negli alberghi, se ne dovranno andare. Sono soprattutto anziani e le loro valigie sono già fuori dalla porta. Terminato il periodo gestito dalla Protezione Civile e passate le competenze alla Regione Abruzzo, i pagamenti sono saltati e gli albergatori dicono chiaramente che non vivono di solidarietà.

La pagina della ricostruzione, costellata di buone intenzioni e di suggestioni di solidarietà, già da tempo scricchiola nelle cronache. I terremotati d’Abruzzo lamentano una modalità di ricostruzione a partecipazione “zero” che gli ha impedito di riappropriarsi della terra e delle città.

Sono venuti a Roma a dirlo, ma come risposta hanno avuto le manganellate della polizia. E poi gli scandali del macabro business dell’emergenza che hanno travolto la Protezione Civile. E ora l’incredibile epilogo degli sfollati. Le strutture ricettive non hanno più risorse per mantenere queste persone e chiedono che la questione torni alle Istituzioni.

I tempi in cui il premier apriva i cancelli di Arcore per qualche scatto fotografico con gli abruzzesi ospitati a pranzo sono lontani, nel tempo e nella memoria. L’Abruzzo non è più strategico e parlarne, per Berlusconi, significherebbe solo disseppellire problemi e punti oscuri. Non è più in agenda. Ci pensi la Regione.

Da subito fu proprio il Presidente della Regione, Giovanni Chiodi, ad evidenziare i punti critici del piano C.A.S.E. del governo che, succhiando tanti soldi per nuove costruzioni, ne toglieva altrettanti alla rimozione delle macerie e alle messa in sicurezza di altri alloggi, partendo da stime frettolose e poco attendibili.

La fretta di ricostruire davanti alle telecamere ha lasciato per strada tantissime persone, i loro paesi e la città de L’Aquila. Sono state ricostruite città fantasma e sono stati lasciati i fantasmi nelle città di un tempo. Difficile che Vespa riproponga ora un plastico con i terremotati fuori dagli alberghi, meno che mai con il sultano che profferisce le sue promesse elettorali.

Era il 7 aprile 2009 e lui, il premier ottimista, aveva invitato gli abruzzesi a superare il momento delle lacrime. Pillole di speranza per tutti e incoraggiamento. Era in mezzo a loro, in maniche corte e caschetto da vigile del fuoco.

Era il tempo dei bagni di folla. “ Andate al mare” - aveva detto - paghiamo tutto noi: avete l’assistenza di tutti gli italiani” , “mettetevi la crema solare” era stato il vertice del cattivo gusto di una fiction che gli era tanto utile. E poi ancora “metterò a disposizione tre mie case per gli sfollati”. Quella gente negli alberghi c’è andata, a sopravvivere alla distruzione. E ora, a luci spente, le promesse sono terminate e nessuno sta pagando il conto.

Dove andranno gli anziani di Alba Adriatica e tutti gli altri che stanno sul mare? Li metterà ad Arcore, negli studi di Mediaset o magari gli verrà in mente di farci un reality? La Regione non ce la fa e, al momento, il governo se ne sta nascosto dietro ai paletti delle competenze, dimenticando promesse e annunci. Una ritirata quasi grottesca, che non può passare inosservata e che rende ancora più amaro e incomprensibile il risultato che è uscito dalle urne, nelle ultime elezioni regionali.

La vittoria del Pdl alla Provincia dell’Aquila è stata la mossa perfetta dello stratega dell’ottimismo e gli abruzzesi hanno creduto alle promesse. Berlusconi ha ottenuto, fino alla fine, tutto quello che era possibile conquistare con la propaganda.

Per questo oggi gli alberghi dovrebbero presentare il conto alla Protezione Civile o direttamente al padrone di casa che ama impegnarsi in prima persona. Pagasse lui per gli sfollati del mare. Un colpaccio per un premier la cui fiducia è ai minimi dall’inizio della legislatura.


Berlusconi, Tremonti e la decrescita
di Eugenio Orso - http://pauperclass.myblog.it - 22 Luglio 2010

L’accostamento presente nel titolo del mio intervento odierno potrà sembrare ai più una stranezza, una mera ironia, una bizzarria decisamente fuori luogo ...

Insorgerebbero, davanti a questo accostamento, sia Badiale e Bontempelli – sostenitori di una via originale alla Decrescita costellata di dure lotte con le oligarchie/ suboligarchie/ caste dominanti, che impongono una crescita distruttiva, per gli umani e per l’ambiente, postulata dalla religione liberalcapitalistica del Progresso – sia un intellettuale come Pallante che rispetto ai primi ha una diversa visione del fenomeno decriscista, certo più “felice” e bucolica, credendo possibile una ricostruzione delle reti sociali di rapporti e di scambi, nella progressiva sostituzione delle merci con i beni, sostanzialmente per via pacifica e al di fuori delle logiche capitalistiche dominanti.

Bisognerebbe però ricordare che c’è anche una “terza via”, per quanto impropria, che porta tutti noi a decrescere, ed è quella della cosiddetta Decrescita Forzata, la quale non può nascere che da drammatiche e penalizzanti – per i paesi dell’Europa mediterranea come l’Italia – interruzioni della crescita del PIL, con abbondanti perdite di posti di lavoro e di quote sui mercati esteri, con contrazioni di consumi sul mercato interno e drastiche riduzioni delle risorse assegnate al welfare.

Deindustrializzazione, delocalizzazioni, chiusure di stabilimenti, disoccupazione, demolizione del welfare e dei servizi sociali sono le condizioni che realizzano la “decrescita forzata”, la quale, a differenza del paradigma della Decrescita di Maurizio Pallante, o di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, è destinata a restare del tutto interna – almeno nella sua prima e drammatica fase, caratterizzata da elevati costi e crescenti sofferenze sociali – alle logiche capitalistiche.

Un contributo decisivo, per spingerci con decisione sulla strada della Decrescita Forzata, oltre alla rapacità della finanza internazionale, alla serrata concorrenza “emergente” che ci penalizza e pauperizza rapidamente [in ciò il “multipolarismo” nel suo concreto riflesso economico e commerciale], alla prosecuzione imperterrita dei processi di globalizzazione neoliberisti, può certamente esser dato dai governucoli espressione di una “classe politica” cialtrona, ladra ed incapace, nonché sempre più numerosa, che si struttura al suo interno in comitati d’affari familistico-clientelari e centri di privilegio ingiustificato, insediati nel cuore della cosa pubblica come topi nel formaggio e sempre disponibili a servire i potentati d’oltreoceano, per mantenersi in sella il più a lungo possibile.

Se l’obbiettivo principe di questa suboligarchia degenere, che trova una sponda importante nell’industria infedele e decotta [Fiat, Confindustria] e nel sindacalismo giallo [CISL, UIL, UGL], è sostanzialmente quello di arraffare per garantirsi una vita quanto più possibile comoda a spese di tutti gli altri, la sua azione devastante su vari piani – economico-sociale, etico, culturale, ambientale – nel medio-lungo periodo è in qualche modo funzionale al pieno [e temuto] avvento della Decrescita Forzata, che potrà aprire le porte non necessariamente “ad un nuovo medioevo finale e perenne” di guerre, di caos imperante, di frantumazione della società e di impoverimento generalizzato, ma, bensì, ad una stagione rivoluzionaria del tutto nuova.

La “reinvenzione” della convivenza civile, dei sistemi di potere, della strutturazione sociale su altre basi non potrà che passare attraverso anni difficili, di buio e di incertezza, finanche di lutti.

Di recente è passata al senato la finanziaria “forzatamente decriscista” del colbertian-ragionieristico Tremonti, nonostante i mugugni dell’Ologramma Mediatico di Arcore – il quale avrebbe volentieri procrastinato “la risoluzione dei problemi" in funzione del suo gradimento nei sondaggi – e le proteste delle camarille politiche installate negli enti locali, a partire dalle regioni, che in realtà se ne fregano dei futuri tagli di servizi alla popolazione e pensano alle loro posizioni di potere.

Questa finanziaria colpirà i servizi sociali, il sistema educativo nel suo complesso, i beni pubblici puri e diminuirà ulteriormente il tenore di vita della maggioranza della popolazione italiana.

Quello che non riuscirà a fare sarà “stimolare la crescita economica”, come invece spergiurano i berluscones “occupati in politica”, rianimando il PIL italiano che fra non molto rischierà di finire in permanenza sotto la tenda ad ossigeno.

Nel contempo, si garantiscono l’evasione fiscale ed i patrimoni degli “immobiliaristi”, degli speculatori e della criminalità organizzata.

Continua l’attacco al lavoro in termini di perdita di diritti e di flessibilizzazione/ precarizzazione, di estensione dell’area della precarietà come alternativa concreta alla disoccupazione/ esclusione.

Si tolgono risorse agli enti locali, il che provocherà inevitabilmente un aumento della pressione fiscale già oggi insostenibile, in primo luogo sui redditi da lavoro dipendente, facile bersaglio e preda dei governucoli raffazzonati.

In ciò l’amara ironia del nesso fra Berlusconi, Tremonti e la decrescita [da intendersi come un'impropria Decrescita, Forzata e Infelice] contenuto nel titolo.

Quanto precede confermerebbe, inoltre, il legame direttamente proporzionale che Pallante postula con chiarezza nel suo interessante saggio Decrescita e Welfare State, fra le variazioni annuali del PIL e quelle delle risorse impiegate per alimentare la spesa sociale, legame di diretta proporzionalità messo opportunamente in discussione da Badiale e Bontempelli in Due vie per la decrescita, e da loro considerato un errore, poiché basterebbe fare quello che i subdominanti politici italiani non faranno mai [siamo essi berluscones o pidiini], cioè colpire con un auspicabile “terrore fiscale” attività inutili e dannose come la pubblicità e la finanza, nonché i grandi patrimoni frutto della speculazione e delle pratiche crematistico-immobiliariste, oppure “tagliarsi drasticamente gli stipendi” e ridurre il loro numero in quanto casta [ben oltre quattrocentomila unità, portaborse compresi], per poter mantenere ad un certo livello la spesa sociale, pur a fronte di diminuzioni percentuali del prodotto da un anno all’altro.

Però quanto precede fa sostanzialmente parte della “terza via”, quella della Decrescita Forzata alla quale stiamo andando incontro ad ampie falcate.

Le economie soccombenti seguiranno questa strada, ed in particolare, fra quelle dette “sviluppate”, l’Italia, soggetta alla triplice morsa della finanza anglo-americana affamata di privatizzazioni e infiltrata nell’amministrazione Obama, della concorrenza “emergente” che rappresenta un vero e proprio killeraggio per le attività produttive in loco, ed infine della suboligarchia politica che ormai è senza alcun pudore, gioca allo scoperto e razzia a man salva forse presentendo la fine, possibile già nel medio periodo.

Le scuole senza carta igienica nei bagni e con programmi educativi che tendono drasticamente a ridursi, le manovre per innalzare l’età pensionabile e tagliare le future pensioni, per colpire altresì il pubblico impiego, fino ad ora minimamente garantito a differenza dei dipendenti privati, il volutamente mancato sostegno ai redditi dei “ceti medi figli del welfare” novecentesco, le continue riduzioni percentuali nei consumi interni [anche in quelli alimentari] e l’impennata del tasso di disoccupazione [a sud sembrerebbe che uno su quattro non ha lavoro né fondata speranza di trovarlo] sono niente altro che segnali dell’avvento della Decrescita Forzata, la quale non è un rispettabile paradigma alternativo al capitalismo – che si può civilmente criticare o condividere – come la Decrescita di Pallante o quella di Badiale e Bontempelli, ma qualcosa di molto concreto, di palpabile, che devasta i rapporti sociali di produzione, comprime i consumi, allontana dalla Merce i subalterni precarizzati, non di rado idiotizzati e “bestializzati”, e che forse sortirà lo storico effetto, attraverso la brutalità dell’impoverimento di massa, di tracciare una strada obbligata per l’uscita dal capitalismo così come noi oggi lo conosciamo.

Scrivono Badiale e Bontempelli, prendendo le mosse dal citato saggio di Pallante, che le famiglie potrebbero sostanzialmente “coalizzarsi”, creare una sorta di comunità che porterebbe gli adulti a lavorare un po’ di meno per occuparsi a turno dei bambini, perché il minor reddito [e il minor PIL] sarebbe compensato dal minor costo sostenuto e dall’autoproduzione di un servizio.

Si tratta di buone e condivisibili proposte, ma si può realisticamente chiedere, in questa realtà, a chi ha già un reddito insufficiente, pur lavorando per l’intera giornata, di ridurlo ulteriormente, lavorando di meno?

La proposta, in questi rapporti di produzione che costringono molti a giostrarsi fra due od anche tre lavori [spesso precari] semplicemente per sopravvivere, mi sembra del tutto irrealizzabile.

Pur essendo teoricamente possibile sostituire progressivamente la merce capitalistica con beni e servizi autoprodotti e utili alle persone, la cosa diventa un miraggio dato i meccanismi in atto, che imprigionano fino a stritolare la maggioranza dei subalterni.

Le ferree logiche de-emancipatrici del capitalismo del terzo millennio dominano incontrastate nella società, e impongono ad un numero crescente di persone – attraverso la flessibilizzazione di massa, la distruzione/ privatizzazione del sociale, e lo spostamento di risorse dal Lavoro al Capitale – un superlavoro precario e sottopagato.

In tali condizioni, il pur apprezzabile elogio di Pallante alle famiglie in cui coesistono e vicendevolmente collaborano tre generazioni, con i nonni che si fanno carico dei bambini, partecipano alla loro educazione e garantiscono ai più piccoli un rapporto interpersonale esclusivo, più che rappresentare una possibile resistenza alla mercificazione di tutto [con l’autoproduzione di un servizio non capitalistico] e un “grimaldello” per scardinare progressivamente l’ordine imposto dal Capitale Ultimo, ricorda purtroppo quelle “reti amicali e familiari”, chiamate pelosamente in causa dal macellaio sociale e ministro berluscones, Maurizio Sacconi, nel libro verde/ bianco del suo ministero al solo scopo di falcidiare il welfare e trasferirne le spese sulle spalle dei “privati”.

Inoltre e per soprammercato, l’atomizzazione sociale spinta – che può favorire soltanto la competizione più esasperata fra le persone – isola sempre di più i soggetti e rende difficoltosa una simile collaborazione, pensata con tutta evidenza nel solco dell’alternativa maussiana del “Dono” [Essai sur le don, del lontano 1925] in piena contrapposizione alla mercificazione capitalistica dei rapporti sociali, rispettabile alternativa all’individualismo di matrice liberale che richiederebbe, per essere pienamente operante, una forte coscienza sociale [di classe] e solidarietà diffuse fra i subalterni.

Si può sviluppare in forme nuove la reciprocità del dono, nell’autoproduzione invocata da Pallante, Badiale e Bontempelli con il proposito di sostituire la merce capitalistica, se gli individui sono isolati e deprivati persino dei necessari e più elementari legami solidaristici?

Volendo essere un po’ ironici – per allentare la tensione non mancando di avvertire che viviamo da qualche tempo forzatamente in decrescita – notiamo che i segnali ci sono già praticamente tutti: è recente la notizia che la crisi “morde” alle terga anche il business delle vacanze e che il quarantasei per cento degli italiani, presumibilmente in ambasce e forzatamente in decrescita, resterà a casa per la stagione estiva, se possiamo fidarci dei dati diffusi da Federalberghi.

Fatte queste debite considerazioni, preciso [se mai fosse necessario] che la Decrescita Forzata e Infelice rappresenta un percorso irto di ostacoli, gravido di sofferenze e di rovine visibili ed invisibili, il cui approdo resta comunque incerto potendo condurci fino all’estremo limite del disastro finale, della dissoluzione completa della società.

Esiste tuttavia la possibilità che una simile situazione favorisca il moltiplicarsi dei “risvegli”, nella parte ancora sana e non completamente obnubilata/ idiotizzata del corpo sociale, e la generale presa di coscienza che il “progresso” capitalistico, così come concretamente oggi si configura, altro non è se non un vicolo cieco, al fondo del quale vi è una grande fossa comune, che potrà democraticamente inghiottire ex borghesi ed ex proletari, ex ceti medi ed operai, disoccupati, precari e parasubordinati, formalmente e concretamente sacrificati per un improbabile “recupero del PIL”, in osservanza del rispetto dei parametri di Maastricht.

Nessuno può escludere che l’approdo, dopo un periodo devastante di Decrescita Forzata e di drammi individuali e collettivi, sia la Decrescita di cui parlano con convinzione e buona fede i nostri teorici alternativi – Pallante, Badiale, Bontempelli – ma non si può neppure escludere che prima di giungere ad un simile cambiamento culturale e di immaginario, ad una piena ricostruzione della rete di rapporti sociali non più fondata sull’inganno del valore di scambio e della creazione finanziario/ crematistica del valore – che potrebbe ben richiedere tempi storici –, si renderà necessario instaurare una dura centralizzazione rivoluzionaria del potere [di stampo quasi “polpotiano”], per impedire l’avvento di un “medio evo senza fine” e delle conflittualità [a quel punto] tribalistico-endemiche, prodotto dell’impoverimento generalizzato, dell’imperante caos politico e sociale, della disgregazione delle istituzioni statuali e della società.

Post scriptum: non me ne vogliano Pallante, Badiale e Bontempelli, ma io non sono affatto ottimista, vista la situazione e dato l’immenso potere di cui dispone il nostro Nemico.


Tre miliardi di euro ai partiti
di Primo Di Nicola - L'espresso - 22 Luglio 2010

Il finanziamento pubblico in teoria è stato abolito. Ma tra rimborsi, contributi e trucchi vari, le segreterie hanno incassato lo stesso. Incluse quelle che non esistono più, ma continuano a prendere soldi.

Tre miliardi di euro. Una cifra stratosferica, equivalente a quasi seimila miliardi delle vecchie lire. Sono i soldi pubblici che i partiti italiani hanno incassato in sedici anni: il tesoro nascosto della Seconda Repubblica.

Una cascata di denaro prelevato dalle tasche dei cittadini e trasferito nei forzieri che sostengono la macchina politica del nostro paese. E stiamo parlando soltanto dei fondi elargiti dallo Stato a partire dal fatidico 1994, anno di svolta dopo la tempesta di Tangentopoli, segnato dall'introduzione del sistema maggioritario.

"L'espresso" ha ricostruito i mille rivoli di questo fiume di denaro, che si è modificato secondo gli assetti della politica e delle maggioranze, con formazioni che scompaiono e coalizioni in continua metamorfosi...

In questo inseguirsi di sigle e simboli, dalla contabilità bizantina, resta però un punto fermo, che ha il sapore di una truffa ai danni della cittadinanza. Perché nell'aprile 1993 il referendum per l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti era stato approvato con una maggioranza bulgara.

L'iniziativa promossa dai Radicali di Marco Pannella aveva ottenuto il 90,3 dei consensi e avrebbe dovuto decretare la fine delle trasfusioni a vantaggio dei segretari amministrativi di movimenti grandi e piccoli.

Invece no: nonostante quel voto, i cittadini hanno continuato a pagare per sovvenzionare la politica. Nel disprezzo della volontà popolare espressa dal referendum, la corsa all'oro di Stato è proseguita ed addirittura aumentata.

Sommando al denaro per gli organigrammi di partito quello per i loro organi: fondi a go-go erogati a favore dei cosiddetti giornali organi di partito, come la cara vecchia "Unità" del Pci-Pds-Ds, il "Campanile nuovo" dell'Udeur di Clemente Mastella, la "Padania" di Umberto Bossi, il "Foglio" di Giuliano Ferrara e le altre decine di testate di partiti e movimenti spesso fantasma o appositamente creati che, nello stesso periodo, da soli, secondo una stima de "L'espresso" , in quella torta di tre miliardi valgono circa 600 milioni di euro. Davvero un bel bottino.

Caccia al tesoro

È quella scatenata dai partiti per mettere le mani sul tesoretto pubblico dei rimborsi: ben 2 miliardi 254 milioni di euro stando al calcolo fatto recentemente dalla Corte dei conti fino alle elezioni politiche del 2008, cui vanno però aggiunti un altro centinaio di milioni maturati nel 2009 grazie alle ultime europee.

Come è stato possibile trasferire tanto denaro nonostante il plebiscito del referendum? Aggirando il veto al finanziamento pubblico con una nuova formula: il meccanismo dei rimborsi elettorali. Sempre pubblici, sempre pingui ma formalmente giustificati dalla volontà di tutelare la competizione democratica.

Sulla carta, però, il risarcimento a carico della collettività avrebbe dovuto coprire soltanto i costi sostenuti nella campagna.

Ma i furbetti del partitino hanno subito inserito un primo trucco: come per magia, i rimborsi volano lontano dalle regole dell'economia e si plasmano su quelle della politica, per dilatarsi e lievitare.

Non si calcolano sulla base dei soldi effettivamente investiti e spesi per spot, comizi e manifesti, ma in proporzione ai voti ricevuti. Quanto per l'esattezza? Una cifra che si è gonfiata senza sosta e senza vergogna, in un'autentica corsa al rialzo.

Nelle politiche del 1994, le prime dopo il referendum blocca finanziamenti che segnarono la vittoriosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, il fondo a disposizione è stato alimentato con una formula magica: 1.600 lire per ogni cittadino, non tantissimo perché all'epoca un quotidiano costava 1.300 lire ma che fatti i calcoli produce una cifra monstre. In totale, per Camera e Senato, il contributo toccò la cifra di 90 miliardi 845 milioni di lire. Un bel gruzzolo, non c'è che dire.

La torta che lievita

Ma, si sa, l'appetito vien mangiando, ed ecco negli anni successivi gli alchimisti parlamentari scendere in aiuto dei tesorieri di partito. I maestri del ritocchino si danno da fare e nel 1999 il contributo triplica e passa a 4 mila lire per abitante. E come è accaduto in tutte le botteghe, nel 2002 l'euro ha offerto un'occasione ghiotta per scatenare aumenti selvaggi e poco chiari. Si prevede un 1 euro per ciascun anno di legislatura: in pratica 5 euro per ogni cittadino italiano.

Certo, parallelamente si cancella quel 4 per mille che dal 1997 per due anni ha dato ai cittadini la possibilità di destinare ai partiti questa percentuale dell'imposta sul reddito fino a un totale massimo di 56 milioni 810 mila euro. E poi si era ridotto il fattore di moltiplicazione: non più il totale dei cittadini ma solo il numero degli iscritti nelle liste elettorali della Camera.

Anche le modalità di pagamento degli agognati rimborsi subiscono modifiche: non più tutti e subito ma rateizzati nei cinque anni di durata della legislatura. Con una fondamentale postilla: il blocco in caso di scioglimento anticipato. Niente più parlamento, niente più quattrini. Una misura ispirata dalla frequenza delle elezioni nostrane, che viene però considerata troppo severa dalle segreterie di partito.

E difatti nel 2002 aboliscono l'interruttore: il finanziamento si incassa anche se i parlamentari decadono prima. Una farcitura a doppio strato: consente alle rate dei vecchi rimborsi milionari di sovrapporsi a quelle altrettanto ricche portate in dote dalla nuova legislatura.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con effetti paradossali. Come bene dimostrano i rimborsi della quindicesima legislatura aperta nel 2006 e finita nel 2008 che continueranno ad essere incassati dai partiti fino al 2011 e si sommeranno a quelli della sedicesima che dovrebbe durare fino al 2013. Ci sono partiti, come i Verdi, Rifondazione, i Comunisti italiani che non sono più in Parlamento ma vengono ancora sovvenzionati dagli italiani.

Di astuzia in cavillo, le coalizioni hanno divorato oltre 2 miliardi 300 milioni di euro, frutto non solo dei rimborsi per le elezioni di Camera, Senato e Parlamento europeo, ma anche per quelle regionali. La Finanziaria del 2008 ha promesso le forbici: un taglio del dieci per cento su questi fondi. Che però si fatica a seguire nella loro destinazione finale, soprattutto da quando la competizione è tra blocchi di alleanze.

Chi ha incassato di più? Secondo la stima che "L'espresso" ha elaborato spulciando i piani di ripartizione stilati dalla Tesoreria della Camera e i bilanci annuali delle forze politiche, a fare la parte del leone è stato proprio colui che da sempre sostiene di essere sceso in campo per affrancare gli italiani dai partiti-parassiti: l'attuale presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

La creatura da lui fondata nel 1994, Forza Italia, risulta infatti in testa alla lista dei beneficiati con oltre 638 milioni di euro di rimborsi elettorali incassati, pari a mille 235 miliardi di lire.

Il calcolo è semplificato dal fatto che nel Pdl i conti restano separati: Fi e An si spartiscono le elargizioni pubbliche in modo netto. Più complesso decifrare le geometrie finanziarie della sinistra. In tre anni il Partito Democratico ha maturato ben 253 milioni di euro, frutto soprattutto delle ultime politiche.

In più ci sono quelli del Pds-Ds con 184 milioni di euro alla voce "contributi dello Stato per rimborso delle spese elettorali". Troppo poco, è evidente, ma a questa cifra ci sono da aggiungere le quote Ds nei fondi per le coalizioni di centrosinistra e soprattutto per l'Ulivo: ma i rami della pianta di sinistra sono così intricati che nessuno riesce a distinguerne i colori.

Anche la tesoreria del partito ha replicato alla richiesta de "L'espresso" allargando le braccia. E che si tratti di cifre considerevoli lo testimoniano le posizioni di assoluto rililevo conquistate nella nostra graduatoria dalle coalizioni di centrosinistra come L'Ulivo e L'Ulivo per l'Europa che insieme hanno totalizzato oltre 260 milioni.

In casa Fini prima delle ultime turbolenze era invece facile fare i calcoli: 237 milioni. Al settimo posto c'è poi l'Udc di Pier Ferdinando Casini con i suoi quasi 114 milioni, seguita da Rifondazione comunista che, a dispetto delle traballanti fortune elettorali che l'hanno vista sparire dalla scena parlamentare nel 2008, in tre lustri ha raccolto 105 milioni di euro, mentre Lega e Margherita vantano rispettivamente 102 e 85 milioni di euro.

Cifre ragguardevoli che si attestano sopra i 72 milioni iscritti nei bilanci dell'Italia dei valori e che doppiano i 35 dei Verdi, altri desaparecidos in Parlamento. Si può infatti anche non avere rappresentanti alle Camere ma, incredibilmente, riscuotere lo stesso i rimborsi pubblici.

Se per farsi eleggere serve più del 4 per cento dei suffragi, per incassare è sufficiente un modesto 1 per cento. Come è capitato alla Destra di Francesco Storace e Daniela Santanché che, nonostante sia restata fuori con il 2,4 per cento dei voti, sta intascando oltre 6 milioni di euro.

Viva la differenza

Fondare un partito e presentarlo alle elezioni è infatti sempre un grande affare. Il denaro impegnato in spese elettorali è un investimento sensazionale. Qualche cifra: a fronte dei 2 miliardi e 254 milioni di euro di rimborsi erogati dal 1994 al 2008, secondo l'indagine della Corte dei conti le forze politiche hanno speso solo 579 milioni di euro.

In pratica ci hanno guadagnato 1600 milioni: il che vuol dire (vedere tabella) che i soldi investiti nella campagna elettorale hanno avuto un rendimento di oltre il 389 per cento, con punte massime del 959 registrate alle politiche del 2001.

Con qualche partito più bravo di altri. Il Pdl che nel 2008 ha dichiarato spese elettorali per 68 milioni 475 mila euro ha maturato rimborsi per più di 200 milioni di euro con un guadagno di oltre il 200 per cento. Mentre il Pd che ha speso 18 milioni 418 mila euro, riscuoterà 180 milioni con un guadagno di circa il 1.000 per cento. Un vero record.

Dati choc che smascherano l'effettiva natura di quelle erogazioni: altro che rimborsi, è sempre quel finanziamento dei partiti tout court che è sopravvissuto al referendum. Lo sottolinea la Corte dei conti nel dossier sui consuntivi delle spese delle forze politiche per le elezioni del 2008. Queste cifre, hanno sentenziato i magistrati contabili, dimostrano "che quello che viene normalmente definito contributo per il rimborso delle spese elettorali è, in realtà, un vero e proprio finanziamento".

Prelievo quotidiano

È quello per tanti anni consumato da molti dei cosiddetti organi di partito.
Un altro pozzo senza fondo alimentato dal dipartimento per l'Editoria della presidenza del Consiglio e che secondo i dati disponibili sul sito di palazzo Chigi e analizzati da "L'espresso" in sedici anni ha elargito finanziamenti per un totale di 598 milioni di euro.

A chi sono andati? In testa alla lista c'è "l'Unità" con quasi 100 milioni di euro. A sorpresa, al secondo posto, con oltre 50 milioni, rifulge la "Padania" dei leghisti di Umberto Bossi, grandi fustigatori della "Roma ladrona", ma non quando si tratta di incamerare pubbliche provvidenze.

Seguono "Liberazione" (48 milioni), voce di Rifondazione comunista e "Il Secolo d'Italia", di An (quasi 40 milioni). Dov'è lo scandalo? Anche nel fatto che a ramazzare questi denari ci sono testate di quotidiani e periodici che difficilmente comparirebbero se lo spirito della legge fosse stato correttamente rispettato.

Tra i grandi foraggiati, con oltre 35 milioni c'è "Il Foglio": fondato da Giuliano Ferrara, ha tra gli azionisti pure Veronica Lario, moglie del presidente Berlusconi prossima al divorzio. C'è "Il Denaro" (18 milioni), giornale napoletano diretto da Alfonso Ruffo; "Il Riformista" (14 milioni) fondato dall'ex senatore Antonio Polito ma edito dalla famiglia Angelucci, tra i maggiori imprenditori della sanità privata, il cui capostipite Antonio è stato eletto deputato nel Pdl.

E c'è "Libero", altra testata della famiglia Angelucci, che ha incassato circa una ventina di milioni. Anche in questo caso, una legislazione ambigua e volutamente sprecona ha permesso di confondere alti principi democratici e bassi interessi privati.

Nel 1990 si stabilisce che per ottenere i fondi basta essere organi di partito o di un movimento con almeno due rappresentanti eletti in Parlamento; poi via via si introducono regole nuove e strambi cavilli come l'apparentamento con almeno un gruppo parlamentare, anche a Strasburgo; o la trasformazione in cooperativa giornalistica. Le regole sono oscure, il fine è chiaro: mettere i soldi in tasca.

Come l'ultima trovata del 2006 che ha totalmente abolito il requisito del collegamento con una rappresentanza parlamentare per i giornali che in passato sono comunque stati organo di partito. In pratica, il privilegio è immortale.

È proprio grazie a questi "aggiustamenti" che "Il Foglio" ha potuto attingere ai finanziamenti in quanto organo della "Convenzione per la giustizia", creatura dell'ex presidente forzista del Senato Marcello Pera e del verde Marco Boato. Il "Denaro" invece ha fatto bingo in quanto bandiera di "Europa mediterranea", un'associazione che allineava l'ex ministro Antonio Marzano e l'ex parlamentare Claudio Azzolini.

Ma il caso più eclatante resta quello di "Libero", quotidiano fondato nel 2000 da Vittorio Feltri. Questo giornale per accedere ai fondi per l'editoria di partito, a cominciare dal 2003 ha preso in affitto il bollettino "Opinioni nuove"che già riceveva modeste provvidenze in quanto organo del movimento Monarchico italiano. Questo supplemento coronato ha portato in dote a "Libero" i fondi pubblici riservati agli organi di partito. Avanti Savoia, tutto serve per fare cassa.


L'ecomafia padana

di Alessandro Iacuelli - Altrenotizie - 12 Luglio 2010

C’è la provincia di Brescia al primo posto per il traffico illegale di rifuti in Lombardia. Il dato emerge dal sedicesimo Rapporto Ecomafie presentato da Legambiente, che nel 2009 ha censito nella sola Lombardia 855 infrazioni contro l'ambiente con 340 sequestri e 865 persone denunciate.

Al primo posto per lo smaltimento illegale c'è il pericoloso asse Milano-Brescia, dove il capoluogo lombardo si pone come crocevia, anche finanziario dei traffici, mentre la provincia bresciana cresce come luogo di smaltimento.

Si tratta soprattutto di rottami metallici, protagonisti indiscussi dei traffici. Rottami di provenienza spesso dubbia, contaminati da cose che solo una serie accurata di analisi (ancora non effettuate) potrà censire seriamente.

Rottami classificati come rifiuti in ferro pericolosi, che oltre a prendere la solita strada del Sud Italia, dell'Africa, della Cina, hanno trovato una nuova rotta: quella di Brescia, dove vengono smaltiti illegalmente nelle discariche o rivenduti alle acciaierie locali, che trasformano il tutto in tondini di ferro destinati all'edilizia. Lo rivelano soprattutto le indagini del biennio 2007/2009, ad indicare come l'ecocriminalità sia sempre in grado di inventare nuove rotte.

Il dato più preoccupante è però quello che riguarda Milano. Negli ultimi otto anni, il 35 per cento di tutte le inchieste sui crimini ambientali in Italia ha toccato a vario titolo la Lombardia, come punto di partenza, transito o arrivo dei rifiuti, per la corruzione di funzionari pubblici, per il riciclaggio di denaro o come sede delle società coinvolte. Lo spiega Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia: "L'ecomafia lombarda non conosce la crisi. Si stima che il fatturato nel 2009 ammonti a più di un miliardo di euro".

Con buona pace per chi, per anni, ha creduto ingenuamente che questo tipo di crimini fosse in qualche modo riservato alla Campania, in Lombardia sono dilaganti i reati che Legambiente definisce collegati al "ciclo del cemento": appalti pubblici truccati, scavi illegali nei fiumi e nelle campagne, bonifiche fasulle. E, come proprio il caso campano ha insegnato, il ciclo del cemento ed il ciclo dei rifiuti presentano un numero tale di punti di contatto da poter essere considerati sovrapposti.

Una recente operazione nel Parco del Ticino, condotta dalla Procura di Busto Arsizio, ha svelato che un giro di società gestiva scavi abusivi in territori intorno a Lonate Pozzolo per la realizzazione della Tav Torino-Milano.

Anche qui sono comparse le cave abusive. Anche qui qualcuno è arrivato con le ruspe a scavare le buche. Secondo le indagini, dalla cava sequestrata sono stati portati via abusivamente almeno 450 mila metri cubi di sabbia e ghiaia in 2 anni, una quantità di materiale in grado di riempire 82 mila camion.

Nelle buche vuote sono stati poi sepolti rifiuti pericolosi, intrecciando i due filoni più redditizi della criminalità ambientale. Guai a dirlo, per anni. Amministratori locali, politici di vari colori, si sono sempre affrettati a dire che queste "sono cose da Castelvolturno", o che sono "attività casertane".

Nell’ultimo anno sono stati ritirati i certificati antimafia a ben 17 aziende lombarde nel settore del "movimento terra", come in quello dello smaltimento dei materiali delle demolizioni. Per fare un esempio, la tesi dell'accusa nel processo "Cerberus" è che i rifiuti tossici sono stati smaltiti nei cantieri di costruzione o di demolizione di immobili. In quegli scavi sono stati scaricati eternit, idrocarburi, catrame, gasolio.

Sotto i cantieri ferroviari, sotto le strade, le case e in alcuni casi i parchi giochi. Per la "sepoltura" dei rifiuti tossici, gli scavi arrivano fino a 15 o 20 metri sotto il piano campagna, per poi ricoprire con terra buona ed eludere i controlli. Proprio come sul litorale casertano 15 o 20 anni fa.

D'altronde c'era da aspettarselo: se 20 anni fa l'imprenditoria italiana, che già all'epoca si lamentava di questa o quella "crisi", sfruttò la pericolosa alleanza con le mafie per spedire in Campania una cifra che oggi è stimata attorno ai 30 milioni di tonnellate di rifiuti tossici, nel tempo, quella stessa imprenditoria ha imparato a muoversi con i suoi piedi, diventando a sua volta ecocriminale, e risparmiando anche il costo del trasporto verso sud. E si sa, in tempi di crisi...

Di sicuro anche in questo caso la mortifera alleanza con le mafie non è mancata. Lo si evince dalle intercettazioni telefoniche, quelle che si vorrebbe eliminare ad ogni costo, durante le inchieste Cerberus e Parco Sud, che hanno ricostruito gli affari della ’ndrangheta a partire dai territori di Corsico, Buccinasco e Trezzano sul Naviglio.

Ancor più significativa una delle rare ammissioni di un imprenditore, raccolta dagli inquirenti durante le indagini: "In sostanza il movimento terra è monopolio dei padroncini calabresi ma, a parer mio, la responsabilità di tutto ciò è anche dei committenti che permettono a costoro di lavorare sottocosto.

I calabresi spesso non hanno alcuna autorizzazione e soprattutto, dopo gli scavi, non conferiscono il materiale inerte nelle discariche autorizzate ma lo buttano in giro". E ancora: "I prezzi sono buoni perché queste imprese spesso e volentieri operano smaltimenti abusivi di materiali tossici, non sostenendo così i costi" di un corretto trattamento.

Ancora una volta, la Campania, rimasta inascoltata, avrebbe dovuto fare scuola: scavare, spostare terra, riempire cave, smaltire rifiuti tossici falsa il mercato, attrae industria ed imprenditoria verso il lavorare fuorilegge, come è stato dimostrato dalle inchieste e, soprattutto, ricorda Legambiente, provoca disastri ecologici. In tutta l'Italia.

Ma sono disastri che in qualche modo si accetta e si ammette, sacrificando non solo la legge ma anche la nostra salute: c'è la "crisi", e l'industria italiana per essere competitiva sul mercato globale deve tagliare i costi. Anche quelli dell'eliminazione delle proprie scorie, dei propri scarti di produzione. A noi invece, come disse non molto tempo fa qualcuno molto famoso, tocca essere ottimisti.


I troppi interessi di Gaetano Pecorella

di Antonella Mascali - www.ilfattoquotidiano.it - 25 Luglio 2010

Le sue denunce, a parole, contro la ‘ndrangheta sono forti. Ma gli affari sono affari. E così il presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie, Gaetano Pecorella, con una mano lancia l’allarme in Lombardia “sulle infiltrazioni anche in grandi società”, e con l’altra difende Francesco Lampada, arrestato il primo luglio scorso nel milanese assieme alla moglie Maria Valle. Entrambi sono “figli d’arte”, delle cosche omonime di Reggio Calabria, legate ai Condello e ai De Stefano.

Mercoledì scorso Pecorella ha tenuto una conferenza stampa in Prefettura a Milano per dare conto delle audizioni con magistrati, responsabili delle forze di polizia e amministratori locali, compreso il sindaco Letizia Moratti. Non il governatore Roberto Formigoni e neppure il presidente della provincia, Guido Podestà, che avevano altro da fare.

“Infiltrazioni in grandi società”

Pecorella, riferendosi alle aree Montecity e Santa Giulia (appena finita sotto sequestro per i terreni inquinati), tuona: “Almeno dai dati che abbiamo potuto acquisire, anche al di fuori delle audizioni, pare vi fossero anche delle infiltrazioni in queste grandi società”.

E per quanto accaduto a Santa Giulia, accusa: “Credo siano mancati soprattutto i controlli amministrativi: arrivare a un sequestro dopo tanti anni e con di fronte un evidente inquinamento della falda acquifera vuol dire che chi sarebbe dovuto intervenire non l’ha fatto: le autorità amministrative, la stessa Arpa (agenzia regionale per l’ambiente, ndr) e credo che anche la magistratura abbia nel suo passato una carenza di intervento”.

Pecorella insiste sull’espansione capillare della ‘ndrangheta in Lombardia: c’è una situazione sul territorio “allarmante, con una parte molto consistente della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti controllata dalla ‘ndrangheta”.

E ancora: “È cambiato il sistema di infiltramento (sic!) ci sono società che si presentano con la faccia pulita, ma al loro interno o nella rete dei subappalti vedono la presenza della criminalità organizzata. Abbiamo dovuto constatare che grandi imprese che si sono occupate delle bonifiche avevano al loro interno infiltrazioni mafiose”.

Una denuncia apprezzabile in una regione che finora vive una rimozione istituzionale e sociale dell’emergenza criminalità organizzata, ma che entra in contrasto con il Pecorella avvocato.

I videopoker e lo smaltimento di rifiuti

Nello stesso giorno delle sue dichiarazioni in Prefettura da presidente di un organismo parlamentare, il Tribunale del Riesame di Milano respinge la richiesta di scarcerazione per il suo assistito, il presunto boss Francesco Lampada, accusato di associazione mafiosa, estorsione e riciclaggio.

Lampada secondo gli inquirenti ricicla soldi attraverso una ventina di locali a Milano e controlla i videopoker dalla Calabria alla Lombardia. È anche amico di Antonio Oliverio, l’ex assessore al turismo della giunta provinciale di centrosinistra presieduta da Filippo Penati e ora passato al Pdl.

Proprio Oliverio, indagato, ha una società nel settore dello smaltimento dei rifiuti.
Pecorella è stato chiamato a difendere Lampada solo dopo un paio di settimane dal suo arresto. Prima la famiglia aveva scelto un altro avvocato.

Difensore del boss dei casalesi

Dunque il presidente di un organismo d’inchiesta sugli affari della criminalità organizzata nel settore dei rifiuti difende un indagato per mafia. Ma per il parlamentare del Pdl il conflitto di interessi non è mai stato un problema.

Non solo perché è lo storico difensore del conflitto vivente, Silvio Berlusconi, ma perché da presidente della commissione Giustizia della Camera, nel 2003, era l’avvocato di Nunzio De Falco, boss del clan dei casalesi, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di don Peppe Diana, ucciso a Casal di Principe il 19 marzo del ’94.

E l’anno scorso Pecorella ha infangato la memoria del parroco anti-camorra: “Io dico che tra i moventi indicati, agli atti del processo, ce ne sono tra i più diversi. Qualcuno ha parlato di una vendetta per gelosia, altri hanno riferito che sarebbe stato ucciso perché si volevano deviare le indagini su un altro gruppo criminale. E altri hanno riferito anche il fatto che conservasse le armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è avvenuto questo omicidio. Se uno conosce le carte del processo, sa che ci sono indicate da diverse fonti, diversi moventi”.

Non è così, gli ha ricordato Roberto Saviano: “Dalle carte del processo emerge invece che è tutto chiaro. E pure la sentenza della Corte di Cassazione del 4 marzo 2004 conferma che Don Peppe è stato ucciso per il suo impegno antimafia e per nessun’altra ragione”.

Ogni cittadino, pure criminale, ha diritto a un difensore. Pecorella, da avvocato può scegliere di assistere chi preferisce, naturalmente. Ma non si può combattere la mafia e prendere soldi da mafiosi o presunti tali, sia pure per ragioni professionali.

Il caso Taormina

Nel 2001, dopo pochi mesi, l’avvocato Carlo Taormina, sottosegretario all’Interno del governo Berlusconi, fu costretto a dimettersi perché difensore di vari imputati per mafia. Addirittura andava a trovare il suo assistito, il boss della sacra corona unita, Francesco Pudentino, con la scorta che gli spettava per l’incarico di sottosegretario con delega al “coordinamento delle iniziative anti-racket, antiusura e al coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime di reati di tipo mafioso”.


Papi girls, tutte in carriera
di Claudio Pappaianni e Emiliano Fittipaldi - L'espresso - 22 Luglio 2010

Un'estate fa lo scandalo dei festini. Ma quasi tutte le ragazze che frequentavano il Cavaliere hanno fatto strada. Tra politica e show, ecco dove sono finite

Alcune sono diventate assessori e ministre della Repubblica. Altre hanno girato film e spot per la televisione. Poche fortunate sono finite sulle copertine dei settimanali della Mondadori, una ha dato la maturità da privatista e deve scegliere a quale università iscriversi, molte continuano a fare le escort.

Tutte, al di là di cosa fanno e cosa diventeranno, resteranno nell'immaginario collettivo come le "Papi Girls", l'esercito di belle donne che per due stagioni ha ballato alle feste di Villa Certosa e frequentato le stanze di Palazzo Grazioli, la residenza romana del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

A un anno dagli scandali firmati Noemi Letizia e Patty D'Addario, il premier dice di aver cambiato vita. Con il divorzio da Veronica Lario è tornato single, anche se le battute sul gentil sesso continuano ad essere uno dei suoi cavalli di battaglia. Di liaison ufficiali nemmeno l'ombra.

L'estate 2010 è appena iniziata, ed è probabile che ai vecchi bagordi sardi Silvio preferirà la quiete del castello di Tor Crescenza, la dimora dei Borghese immersa nel verde a cui fa sempre più spesso visita, location per matrimoni (organizzati dalla Relais le Jardin, società del genero di Gianni Letta) ben lontana da occhi indiscreti.

Profumo di Noemi


Ma che fine hanno fatto le ragazze che collezionavano ciondoli a forma di farfallina e si facevano tatuare sulla caviglia frasi tipo: "L'incontro che ha cambiato la mia vita: S.B."? L'elenco delle fanciulle che sono entrate in confidenza con Silvio e con le prime pagine di quotidiani importanti e periodici rosa è lungo.

Partiamo da Noemi Letizia, che minorenne partecipò al capodanno 2007 a Villa Certosa e che chiama ancora oggi "Papi" il Cavaliere che presenziò al suo diciottesimo compleanno. Dopo essere passata dal chirurgo plastico, punta ancora sul cinema e sogna di sfondare nel mondo dello spettacolo.

Poche occasioni, finora. Quest'anno ha seguito corsi di dizione e canto, e ha studiato italiano e matematica da privatista. Da qualche giorno è ragioniere: "L'esame di maturità? La ragazza ha sfiorato il massimo dei voti", dice il padre Elio. Noemi andrà all'università, ma intanto sta lavorando per lanciare una linea di abbigliamento e profumi, "Noemi L.". L'estate la passerà in Sardegna.

Escort e dintorni

Patrizia D'Addario, invece, non fa più la escort. La donna che ha registrato la voce del premier in camera da letto e che ha dato il nome a un emendamento della legge sulle intercettazioni, ha scritto due libri sulle sue avventure ("Gradisca Presidente" è uscito a novembre ma non è mai entrato in classifica, la prossima fatica - legge bavaglio permettendo - dovrebbe uscire a dicembre).

Da poco Patrizia ha ottenuto la licenza edilizia per costruire il famoso residence sui terreni di famiglia. Una pratica bloccata da 40 anni, tanto che chiese aiuto (inutilmente) al Cavaliere durante l'incontro del 4 novembre 2008.

Giampaolo Tarantini, oltre alla D'Addario, ha portato a via del Plebiscito altre ragazze e modelle che hanno guadagnato gettoni di presenza per passare una sera insieme al leader: Graziana Capone, detta l'Angiolina Jolie di Bari, da gennaio collabora con Roberto Gasparotti, l'esperto che cura l'immagine televisiva di Berlusconi.

La prostituta Terry De Nicolò, famosa per essersi concessa anche all'ex assessore del Pd Sandro Frisullo, fa la ragazza immagine e di tanto in tanto appare nei salotti tv di Michele Santoro, Monica Setta e Gad Lerner. Durante l'anno si è anche dovuta difendere dalle (presunte) persecuzioni del finanziere che coordinava le inchiese sul premier, il colonnello Nicola Paglino, arrestato qualche settimana fa anche per stalking. Vanessa Di Meglio, a Palazzo Grazioli il 5 settembre 2008, è invece stata avvistata a Parigi: sembra che faccia ancora l'accompagnatrice.

Chi sta provando a trasformarsi da "Ape Regina", questo il nomignolo affibbiatole da Dagospia, in protagonista di fiction Mediaset è invece Sabina Began, la ragazza col tatuaggio che ha presentato Tarantini al Cavaliere: ancora molto vicina a Silvio, ha strappato una particina ne "Il falco e la colomba" (in conferenza stampa è scoppiata a piangere lamentandosi dei tagli in montaggio sul suo personaggio, praticamente muto) e un'altra in un horror Usa in fase di pre-produzione: si intitolerà "The reapers", regia di tal Sargon Yoseph.

Niente di eccezionale, ma sempre meglio di Barbara Montereale, la girl amica di Emilio Fede che scattò le foto nei bagni di Palazzo Grazioli: nel suo carniere ha solo uno spot per una catena di negozi di gioielli, la "Giallo Oro" di Bari in compagnia di Corrado Tedeschi e Gigi di Gigi e Andrea.

I love Naples

Berlusconi, si sa, ama la città del Vesuvio e adora le sue abitanti. A parte Noemi da Casoria, le Papi Girls che parlano con accento del Golfo non si contano. Il Cavaliere è generoso, e nonostante i chiacchiericci e le malelingue, un anno dopo sembra averle piazzate tutte, o quasi. La stragrande maggioranza si è buttata in politica. Francesca Pascale, fondatrice del comitato "Silvio ci manchi" ed ex velina di Telecafone, nel novembre 2006 saliva sull'aereo privato di Silvio, destinazione Villa Certosa.

Insieme a lei le avvenenti Emanuela Romano e Virna Bello, oltre alle gemelline De Vivo. Da allora la Pascale ha lavorato nell'ufficio stampa di Forza Italia, poi con il sottosegretario Francesco Giro. Alle ultime elezioni è stata eletta consigliere provinciale con 7500 voti (tre anni prima alle comunali ne aveva presi 83).

L'agognata poltrona da assessore, però, l'ha guadagnata l'ex meteorina Giovanna Del Giudice, già ragazza immagine del Billionaire e frequentatrice del famoso corso di formazione targato Pdl nel quale si allevavano le ragazze da mandare a Bruxelles. Il presidente Luigi Cesaro, nonostante Giovanna sia arrivata penultima alle regionali, gli ha consegnato le deleghe alle Pari opportunità e alle politiche giovanili.

Di recente Giovanna ha litigato in radio con Luca Telese e Giuseppe Cruciani che le chiedevano quali fossero le sue esperienze: "Non fate battute maliziose solo perché una donna ha avuto un incarico politico", ha detto salutando i conduttori.

Un posto al sole

Emanuela Romano, dopo infinite peripezie culminate nel gesto del padre che si è dato fuoco davanti a Palazzo Grazioli è assessore al Lavoro a Castellammare.Virna Bello, l'ultima del terzetto del comitato, ex pr di Torre del Greco chiamata dagli amici "la Braciulona", è diventata assessore all'Istruzione nella sua città natale (ma la nomina le è stata revocata qualche mese fa).

Le altre vip care al presidente, le sorelle Valanzano, stanno seguendo carriere diverse: Benedetta recita in "Un posto al sole" e ha ballato sotto le stelle con Milly Carlucci; l'avvocato Maria Elena, nonostante la promessa di varie candidature, è ancora a spasso. Ora potrebbe entrare a far parte dello staff del neogovernatore Stefano Caldoro.

Nunzia De Girolamo
, detta "la Carfagna del Sannio", brilla ovviamente su tutte: deputata dal 2008, era presente all'incontro ristretto di Palazzo Chigi che ha portato alle dimissioni di Nicola Cosentino. Si vocifera che possa essere proprio lei a sostituire Nick o'Americano alla testa del Pdl Campano.

In ultimo, Elena Russo, una delle cinque "raccomandate" nelle telefonate Berlusconi-Saccà: in un anno ha inanellato uno spot per Napoli finanziato dal governo e due fiction Mediaset. Dopo molto tempo passato in Sicilia per accompagnare il fratello che lavora come elettricista su un set. Nel futuro un viaggio in Lituania per dieci pose per un film tv, che dovrebbe andare su Canale 5 il prossimo inverno.

Tutte in Parlamento


A parte l'inarrivabile Mara Carfagna che brilla ormai di luce propria, sono tante le ragazze di Silvio finite sugli scranni di Montecitorio e negli uffici di Strasburgo.

Licia Ronzulli
, insieme a un gruppetto di avvenenti pulzelle, fu fotografata a Ferragosto 2008 sul motoscafo di Berlusconi, immagini che "L'espresso" pubblicò in esclusiva lo scorso luglio. Lei smentì di essere un habitué di Villa Certosa, ma fece un passo indietro quando la Montereale la indicò come la responsabile "della logistica dei viaggi delle ragazze: è lei che decide chi arriva e chi parte. E smista nelle varie stanze".

Ex caposala dell'ospedale Galeazzi di Milano, con quasi 40mila preferenze è stata eletta europarlamentare. Di recente ha difeso la Nutella dagli attacchi dei tecnocrati ("Nessuno potrà impedirci di fare colazione con pane e Nutella"), e all'ultimo meeting di Confindustria a Parma si è seduta a tavola tra il premier ed Emma Marcegaglia.

Anche Barbara Matera e Laura Comi, che hanno seguito il famoso corso di formazione, ce l'hanno fatta: la prima, ex letteronza della Gialappa's e annunciatrice Rai, è stata la più votata - dopo il suo mentore - nella circoscrizione Sud e sta battendo a Strasburgo tutti i record di attivismo.

La seconda ha presentato un'interrogazione sui giocattoli (prima di andare a Strasburgo lavorava come brand manager per la Giochi Preziosi) e promosso, insieme all'amica Gelmini e ai ministri Frattini e Bondi, la fondazione "Liberamente".

A colpi di tacco Elvira Savino, invece, è deputata. Celebre per essersi presentata il primo giorno a Montecitorio con un tacco 14 marchiato Gucci, è lei a far conoscere Tarantini alla Began (sua compagna di appartamento a Roma). Si è sposata un anno e mezzo fa con il napoletano Ivan Campili - testimone di nozze Berlusconi in persona - ed è finita in una brutta inchiesta della magistratura pugliese su mafia e appalti: accusata di aver aiutato una banda di malviventi a riciclare denaro sporco (nell'ordinanza ci sono anche nomi di spicco del clan Parisi), è di fatto scomparsa dalle cronache mondane e politiche dall'inizio del 2010. Ufficialmente, ha scritto in una nota, per problemi di salute del figlio piccolo.

Chi è sempre sulla breccia è invece Gabriella Giammanco, giornalista del Tg4 che Berlusconi volle inserire a sorpresa nelle liste siciliane per le politiche del 2008: nipote del boss di Cosa Nostra Michelangelo Alfano, condannato in via definitiva per mafia e morto suicida nel 2005, la reporter nata a Bagheria oggi si batte soprattutto contro la caccia e per la difesa degli animali ("grazie a me sono state introdotte agevolazioni fiscali a favore dei circhi senza animali") e fa coppia fissa nella Dolce Vita romana con il "direttorissimo" del Tg1 Augusto Minzolini.

Show-girl e ballerine

Altre Papi girls si sono invece dovute accontentare. Al corso per volare a Strasburgo c'erano anche Angela Sozio, Camilla Ferranti e Eleonora Gaggioli. La rossa del Grande Fratello, fotografata da "Oggi" mano nella mano con il premier mentre passeggiavano nei vialetti della Certosa, non è mai stata candidata, nonostante le voci insistenti che venivano da via dell'Umiltà, sede del Pdl dove Frattini e Brunetta tenevano le lezioni.

Da qualche tempo ha lasciato il posto come contabile della società di Antonio Flora (imprenditore del ramo sanità) e lavora, anche lei, per Mediaset. L'ultima fatica: giurato del reality "La pupa e il secchione", insieme ai giudici-colleghi Platinette, Claudio Sabelli Fioretti, Vittorio Sgarbi ed Alba Parietti.

Angeli e diamanti

La compagna di banco Camilla Ferranti, ballerina e figlia di un medico del premier, vanta nel suo lungo curriculum una parte da tronista di "Uomini e donne" e una raccomandazione di Silvio Berlusconi ad Agostino Saccà intercettata dalla procura di Napoli. È tra quelle che, nell'ultimo periodo, ha lavorato di più.

In questi giorni è nei cinema protagonista di "Alice", prodotto dalla Videodrome e distribuito dalla Medusa, mentre nel 2011 tornerà su Mediaset: sarà attrice in "Angeli e Diamanti", una sorta di Charlie's Angels all'italiana.

Nemmeno la Gaggioli, anche lei finita nell'inchiesta - poi archiviata - su Saccà, può lamentarsi: dopo le lezioni non è stata candidata ("allieva sveglia e informata" raccontava "Il Foglio"), ma intanto ha recitato su Canale 5 nel tv-movie "Fratelli Benvenuti". Si prepara a sbancare il botteghino con il cinepanettone di Natale, senza dimenticare che nel 2008 ha avuto l'onore di presentare il concerto della polizia di Stato.

Pure le altre due "raccomandate" non sono restate con le mani in mano: Antonella Troise, che il Cavaliere definiva affettuosamente una "pazza pericolosa", ha girato "Negli occhi dell'assassino" (Canale 5 in prima serata) e un cammeo in un'altra serie di quattro puntate, mentre Evelina Manna, dopo aver comprato una casa a via Giulia da 950mila euro, ha girato come protagonista il mistery "La donna velata", in arrivo sui piccoli schermi. Ovviamente Mediaset.

Starlette in cerca d'autore

Le Papi Girls sono tante, e sono ovunque. Non tutte hanno avuto lo stesso destino. Se le gemelle De Vivo sembrano in sonno e l'aristocratica Virginia Sanjust da tempo si è ritirata a vita privata, Susanna Petrone (con la Renzulli fotografata sul Magnum 70 di Berlusconi nell'estate del 2008) non ha ottenuto la candidatura alle europee ma è la conduttrice sexy di Guida al Campionato (Mediaset) e regina del gossip milanese. Siria De Fazio, conosciuta come la "lesbica" del GF9, fa ancora show come mangiafuoco, ma non ha ancora sfondato nel jet-set dello spettacolo.

Nessuna notizia recente della vincitrice di "Un-Due-Tre Stalla", Imma Di Ninni, due volte ospite a Villa Certosa, né delle gemelline e meteorine Ferrera, mentre la collega del Meteo 4 Francesca Lodo oggi è nota soprattutto alle riviste rosa e al pm Frank Di Maio, che la interrogò per l'inchiesta su vip e cocaina.

Carolina Marconi
(finita secondo i racconti di Tarantini due volte a Palazzo Grazioli) si è sposata pochi mesi fa con l'imprenditore Salvatore De Lorenzis, il re delle slot-machine del Salento, mentre l'altra attrice venezuelana Aida Yespica (che Berlusconi presentò addirittura al presidente Chavez) resta una delle show girl più note d'Italia.

Anche Barbara Guerra, ex Fattoria, è ancora un personaggio in cerca d'autore: l'ultima apparizione è nella giuria di Sanremo per l'elezione del più bello d'Italia 2010, con lei Lele Mora, Alfonso Signorini e Siria De Fazio.

Più fortunata Nicole Minetti, l'igienista dentale del Cavaliere: buttati spazzolini e filo interdentale, è stata eletta consigliere per la Regione Lombardia alle ultime elezioni. Ora passa le giornate seduta vicino a Renzo "la trota" Bossi. Insomma, quasi tutte le Papi Girls se la passano bene.

Brave e capaci? "Per fare questo mestiere" ha detto al mensile di Mondadori "First" la Manna "non serve lo sculettare delle vallette tivù. Il giro dei soldi è tale che se non vali nessuno ti prende, non serve essere raccomandati". Se lo dice lei...


Vogliono imbavagliare (anche) la Rete
di Guido Scorza - www.ilfattoquotidiano.it - 26 Luglio 2010

Il nostro Premier non ama la Rete e questo non è né un mistero né una notizia.

Perché mai, d’altra parte, il Signore dell’oligopolio dell’informazione italiana ed il Re del TELE-COMANDO dovrebbe guardare anche solo con interesse ad uno strumento come la Rete che consente a chiunque di dire la sua a pochi click di distanza dal sito internet di RAI UNO che pubblica i video promo del prode Minzolini?

In un mondo che guarda al web – eccezion fatta per qualche regime totalitario – come ad una straordinaria risorsa democratica ed ad un diritto fondamentale dell’uomo e del cittadino, la radicale assenza, da parte di questo Governo, di qualsivoglia politica dell’innovazione è di per sé un fatto preoccupante.

Difficile sentirsi sereni e cittadini di un Paese moderno quando il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta – mentre il resto d’Europa investe milioni di euro per promuovere la diffusione della banda larga per uscire dalla crisi – ti dice che noi investiremo in banda larga solo dopo che – non è dato sapere come – saremo usciti dalla crisi o, piuttosto, quando il Ministro dell’Innovazione nel promuovere un progetto vecchio di cinque anni e anti-innovativo come la PEC, destinata a far la gioia solo di Poste Italiane aggiudicataria – non certo a sorpresa – di una concessione da 50 milioni di euro l’anno, lo battezza “la più grande rivoluzione culturale mai prodotta in questo Paese” nonché “la migliore riforma italiana dal dopoguerra ad oggi” .

Negli ultimi mesi, tuttavia, sta accadendo qualcosa di più.

C’è un disegno nel Palazzo che ha per obiettivo quello di imbavagliare anche l’informazione libera online e consegnare la Rete nelle mani dei Signori dell’informazione di un tempo perché la utilizzino come una grande TV.

Nessuna teoria complottista ma solo l’analisi dei fatti.

L’ormai celebre – nel senso dello strangolatore di Boston e non certo di un premio nobel per la pace – DDL intercettazioni, tra le tante disposizioni liberticida, contiene un art. 29 che estende a tutti i gestori di siti informatici – e dunque all’intera blogosfera italiana – l’obbligo di rettifica previsto dalla vecchia legge sulla Stampa datata 1948 e scritta dai padri costituenti quando Internet non esisteva neppure nell’immaginario degli scrittori di fantascienza.

All’indomani dell’approvazione del DDL, se un blogger ricevuta una richiesta di rettifica non provvederà entro 48 ore sarà passibile di una sanzione pecuniaria fino a 12 mila e 500 euro: una pena accettabile per un editore tradizionale ma di gran lunga superiore agli utili di un lustro di uno dei tanti blog che popolano la blogosfera italiana, garantendo quell’informazione libera che solo pochi giornali e poche TV hanno potuto e saputo sin qui assicurare.

Il malcelato obiettivo perseguito dal Palazzo con questa disposizione, ancora una volta, non ha niente a che vedere con la tutela della privacy dei cittadini e risponde, piuttosto, alla finalità di disincentivare i non professionisti dell’informazione ad occuparsi di informazione in modo tale che, anche nell’era di internet, l’informazione, in Italia, possa essere controllata esercitando pressioni politiche ed economiche su un numero quanto più limitato possibile di persone.

Nei giorni scorsi due emendamenti al comma 29 dell’art. 1 del DDL intercettazioni presentati, in Commissione Giustizia alla Camera, al fine di “ammorbidire” l’impatto della disposizione sull’ecosistema Internet, sono stati, addirittura, dichiarati – del tutto inspiegabilmente – inammissibili dal Presidente, Giulia Bongiorno .

La Rete ha reagito con una lettera aperta indirizzata al Presidente Fini ed a tutti i deputati italiani, ma, naturalmente, le chance che il testo del comma 29 venga modificato nella discussione in aula appaiono prossime allo zero.

Frattanto – ed è proprio questa coincidenza e sovrapposizione di eventi a non consentire più di giustificare quanto sta accadendo sulla base del fatto che il Palazzo sia abitato da dinosauri che non conoscono la Rete – l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni ha pubblicato, nell’ambito di una consultazione pubblica, gli schemi di due Regolamenti volti a disciplinare la diffusione di contenuti audiovisivi a mezzo internet in ossequio all’ormai famoso Decreto Romani.

Tutte le web tv ed i video blogger italiani, in forza degli emanandi regolamenti, dovranno chiedere all’Agcom un’autorizzazione – o almeno indirizzarle una dichiarazione di inizio attività -, versare 3000 euro per il rimborso delle spese di istruttoria (quali?) e, soprattutto, finiranno assoggettati, tra gli altri al solito obbligo di rettifica, sempre entro 48 ore e sempre sotto la minaccia di una sanzione fino a 12 mila e 500 euro .

L’obiettivo dell’ultimo scellerato progetto di Palazzo sembra evidente: ora che il Cavaliere si accinge a sbarcare in Rete avendone forse, almeno, subodorato le enormi potenzialità, la vuole tutta per lui, per i suoi amici e per i soli suoi nemici che ha, comunque, la garanzia di poter controllare almeno in termini economici.