martedì 27 luglio 2010

Wikileaks, media e assuefazione ai crimini di guerra

Un compendio del perverso rapporto guerra-media, alla luce dei 92.000 files "segreti" resi pubblici ieri da Wikileaks sulla fallimentare guerra in Afghanistan e sulle potenziali conseguenze di ciò.

Files che, come già si diceva ieri, non rappresentano nulla di nuovo per chi è informato sullo stato delle cose ma che confermano l'assuefazione e il disinteresse di gran parte di media e opinione pubblica per i crimini di guerra che sono stati commessi, sono commessi e saranno commessi.

Comunque sia, è sempre positivo che siano stati resi pubblici piuttosto che il contrario. Meglio tardi che mai...


I file segreti sull’Afghanistan: com’è facile manipolare i media…
di Marcello Foa - www.ilgiornale.it - 26 Luglio 2010

Lo scoop di Wikileaks che poche ore fa ha diffuso 92mila file segreti del Pentagono dimostra che per sei anni il governo americano ha mentito ai media.

Sia chiaro: nessuno si aspetta che dalle autorità trapeli sempre la verità, ma qui siamo di fronte a una colossale manipolazione della realtà. Scopriamo stragi di civili fatte passare sotto silenzio, collusioni imbarazzanti dei servizi pakistani con Al Qaida, missili americani Stinger, che erano stati forniti a Bin Laden negli anni Ottana e poi usati contro le forze americane.

Veniamo a sapere che la situazione sul terreno è molto peggiore di quanto avessero ammesso ovvero che i talebani controllano zone molto ampie del territorio afghano e che la formazione delle forze di sicurezza di Karzai è poco più che una farsa; dunque che la missione internazionale è servita a poco.

A essere danneggiata è, innanzitutto, la reputazione degli Stati Uniti, che viene messa per la seconda volta fortemente in dubbio. Dopo le frottole sull’Irak ecco quelle sull’Afghanistan. Chi crederà ancora alla loro parola?

Da notare, a conferma di una tesi sostenuta da tempo su questo blog, che con Obama non è cambiato nulla: mente come mentiva Bush.

Durante i miei corsi universitari, incentrati sullo spin, evidenzio come sia possibile orientare l’insieme dei media. Sapendo che l’80% delle notizie è di fonte istituzionale, la qualità dell’informazione dipende non solo dai giornalisti, ma innanzitutto dalla correttezza e dalla trasparenza di chi opera all’interno delle istituzioni.

Se il governo o, nel caso specifico, la Casa Bianca e il Pentagono decidono una linea e riescono a imporre una disciplina ai propri funzionari, dunque a evitare fughe di notizie sgradite, riescono a orientare non un giornale, ma l’insieme dei media.

Una delle tesi, provocatorie, che sostengo è che gli scoop siano sovente illusori, in quanto impiantati ad arte da chi detiene il potere. La vicenda di Wikileaks rafforza questa mia convinzione: per sei anni il Pentagono ha nascosto notizie colossali. Non una, ma tante, tantissime; in teoria sarebbe stato facile venirne a conoscenza, perlomeno in parte, considerata anche la lunghezza del periodo. Invece nessun giornalista, nemmeno d’inchiesta è riuscito a bucare la ferrea disciplina dell’ufficio comunicazione di Pentagono e Casa Bianca.

Periodo nel quale all’opinione pubblica, americana e internazionale, sono state propinate tantissime frottole.

Come non indignarsi?


Afghanistan e Iraq. Le guerre USA piu' costose
di Vittorio Zucconi - La Repubblica - 26 Luglio 2010

Afghanistan e Iraq, le guerre più costose mai combattute dagli Usa. Ogni caduto "vale" 200 milioni di dollari. Per mandare al fronte due milioni di uomini e donne la nazione ha speso 1.021 miliardi di dollari, senza calcolare il costo per reinserire i reduci con stress psicologici e i feriti

Ogni cassa di zinco riportata a casa avvolta nella bandiera, ogni cadavere deposto nella terra di un cimitero smossa tra lacrime e salve di fucile sono costati finora all'America 200 milioni di dollari per caduto. Un lugubre record.

Quando il tassametro delle guerre senza fine, senza prospettive e, nel caso dell'invasione dell'Iraq, senza onore, volute da Bush e continuate da Obama ha superato i mille milliardi di dollari all'inizio di luglio, le operazioni "Iraqi Freedom" ed "Enduring Freedom" come furono retoricamente denominate sono divenute le spedizioni militari più costose pro capite nella lunga storia delle guerre americane.

Non le più care in assoluto, perché il record di spesa appartiene ancora ai quattro anni della Seconda Guerra Mondiale quando il tesoro nazionale dovette sborsare più di 4 mila miliardi di dollari, in valore attuale, per sconfiggere Germania, Italia e Giappone e liberare il mondo dall'infestazione nazista e fascista.

Ma il risultato dello studio condotto dal servizio ricerche del Parlamento, una commissione apolitica e apartitica, non mente. Per mandare al fronte i due milioni di uomini e donne che si sono avvicendati fra Iraq e Afghanistan negli ormai quasi dieci anni di combattimento, e per vederne tornare 5 mila e 400 nelle casse di zinco, la nazione ha speso mille e 21 miliardi di dollari.

Nella Seconda Guerra, i soldati furono ben 16 milioni, con 480 mila caduti. Ogni caduto costò, oltre al sangue e alle lacrime, 9 milioni di dollari, nell'orribile rapporto "costo caduti" che ogni guerra impone.

Una delle tragedie dentro la tragedia morale e strategica di queste guerre su due fronti, e una delle ragioni per le quali sono ormai svanite dai radar delle ansie e dell'attenzione nazionale, è che Iraq e Afghanistan sono operazioni spaventosamente costose individualmente, ma ancora molto a buon mercato per l'economia americana.

Come fu osservato già nei primi mesi del conflitto, tra l'invasione dell'Afghanistan nel novembre del 2001 e i bombardamenti "shock and awe" su Bagdad per paralizzare e terrorizzare il regime di Saddam nel marzo del 2002, l'incidenza di queste azioni sulla vita quotidiana dei cittadini americani, sulle loro tasche o sui conti pubblici è marginale se non impercettibile.

Per permettere all'ultima "Grande Generazione" di liberare il mondo da Hitler, Mussolini e dal militarismo giapponese, l'America dovette impegnare più di un terzo, il 36%, del bilancio federale. Per mandare due milioni di soldati in Asia dopo l'11 settembre, quel "trilione", quei mille miliardi di dollari spesi finora sono appena l'1,6% del budget.

Non si vedono dunque attori e campioni dello sport, grandi registi come Frank Capra o eroi immaginari come Topolino, battere gli Stati Uniti mobilitando gli spiriti patriottici dei cittadini perché sottoscrivano i "War Bonds", il prestito di guerra.

Nella fornace del debito nazionale e del disavanzo di bilancio, quei mille miliardi di dollari sono noccioline, come quei 5 mila e più caduti in dieci anni non sono neppure un'anomalia statistica nelle tabelle del censimento, rispetto ai 616 mila morti all'anno per malattie cardiovascolari o alle 115 vittime di incidenti stradali, ogni giorno.

Per la prima volta nella storia americana, e forse di tutte le grandi nazioni, non sono neppure state aumentate le tasse sul reddito o quelle indirette sui consumi per finanziare un conflitto, che sembra combattuto con i soldi degli altri e con i figli degli altri.

Nessuno che non abbia famigliari al fronte, ha dovuto sacrificare un centesimo del proprio reddito, o un minuto della propria giornata, per combatterle, perché così volle Bush quando annunciò che "l'Iraq si sarebbe pagato da solo con il petrolio", e come Obama non può permettersi di cambiare.

Mille miliardi e quasi dieci anni più tardi, morire per Kandahar o per Bagdad non fa notizia ormai da anni. L'opposizione di destra, che accusa Obama di avere sfasciato il bilancio nazionale con la riforma della sanità o i sussidi ai disoccupati, osa rimproverargli il prezzo di quei morti e di quelle guerre senza fine.

Neppure l'enormità del costo sociale, le cure mediche - quando ci sono - la riabilitazione, il difficilissimo reinserimento dei feriti, dei mutilati, dei reduci con le loro profonde lesioni psicologiche, costo che nel prezzario delle guerre per "esportare la democrazia" non è calcolato, spaventa e turba ormai un pubblico che ha fatto il callo alle notizie e ai lutti dai fronti orientali, riservate ai volontari in uniforme, senza incubi di cartoline precetto per gli altri.

Un trilione e 21 milioni (ma la cifra aumenta ogni secondo, come registra il sito angoscioso www. costofwar. com dove si vede il prezzo salire di mille dollari al secondo) sono meno di quando la nazione abbia speso, dal 2001 a oggi in fast food, in cheeseburger, frappé e patatine fritte, mille e duecento miliardi di dollari.

Dunque la guerra che non esiste, che cosa meno di uno "happy meal", di un pasto per bambini da McDonald's con omaggio di pupazzetti di plastica, non sarà fermata dal costo finanziario e neppure da quello umano. Gli Stati Uniti si possono permettere altri venti, o trent'anni di operazioni militari in Iraq o in Afghanistan, ignorare altre migliaia di bare, meno costose di patatine e frappé.



Falluja, crimine di guerra
di Michele Paris - Altrenotizie - 26 Luglio 2010

Alla fine del 2004, l’esercito americano occupante in Iraq, sferrò una durissima offensiva sulla città di Falluja con metodi che rientrano abbondantemente nella definizione di crimini di guerra.

Il prezzo pagato dalla città irachena, oltre alle migliaia di civili massacrati, continua a farsi sentire pesantemente ancora oggi, come ha messo in luce un recente studio epidemiologico condotto da tre ricercatori britannici, con un’incidenza di tumori, malattie genetiche, deformità e mortalità infantile addirittura superiore a quella rilevata tra i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.

A condurre il primo studio di questo genere su quasi cinquemila residenti della città di Falluja, sono stati i medici Chris Busby, Malak Hamdan ed Entesar Ariabi, i quali assieme ad un team di ricercatori, tra gennaio e febbraio di quest’anno, sono stati in grado di tracciare finalmente un quadro esaustivo delle conseguenze a lungo termine della battaglia scatenata dalle forze statunitensi.

Il rapporto, intitolato “Cancro, mortalità infantile e rapporto tra i sessi alla nascita a Falluja, Iraq 2005-2009”, è stato pubblicato qualche giorno fa sull’International Journal of Environmental Studies and Public Health (IJERPH).

La causa principale dell’emergere di dati così preoccupanti tra la popolazione di Falluja è l’impiego di uranio impoverito da parte degli americani. Utilizzato come componente per granate e munizioni, l’uranio impoverito risulta particolarmente efficace per la sua elevata densità. Dopo l’impatto con l’obiettivo, l’esplosione determina la fuoriuscita di uranio nell’area circostante, dove può rimanere anche per molti anni provocando danni irreparabili alle persone. L’uranio impoverito attacca i linfonodi e il DNA, causando tumori e gravi malformazioni genetiche.

Proprio la percentuale di malati di cancro a Falluja da cinque anni a questa parte è aumentata di quattro volte e le forme in cui esso si sviluppa appaiono molto simili a quelle riscontrate nelle due città giapponesi dopo il lancio delle bombe atomiche nel 1945.

La drammaticità della situazione è evidenziata anche dal rapporto con i paesi circostanti. Nella città irachena, a una settantina di chilometri a ovest di Baghdad, il numero di malati di leucemia è 38 volte superiore rispetto all’Egitto, alla Giordania e al Kuwait.

Il numero di bambini affetti da cancro é poi dodici volte più alto, così come la diffusione del cancro al seno è dieci volte superiore. I livelli d’incidenza di linfomi e tumori al cervello tra la popolazione adulta sono ugualmente al di sopra della media. La mortalità infantile tocca gli 80 decessi ogni mille nati, un numero cinque volte maggiore di quello normalmente registrato in Egitto e in Giordania e otto volte più grande rispetto al Kuwait.

Possibilmente ancora più preoccupante è l’inversione del rapporto tra i sessi alla nascita. Normalmente, nascono 1050 maschi per ogni 1000 femmine, mentre a Falluja tra il 2004 e il 2009 si è scesi ad un rapporto di 860 maschi per 1000 femmine.

Un’alterazione quest’ultima già manifestatasi a Hiroshima al termine del secondo conflitto mondiale e che indica il verificarsi di un grave evento mutageno. Mentre i maschi hanno un solo cromosoma X, le femmine ne posseggono due, così da poter rimediare alla perdita di un cromosoma X in seguito ad un danno genetico come quello causato dagli effetti dell’uranio impoverito.

Prima della pubblicazione di questo studio, erano stati parecchi i segnali d’allarme lanciati da Falluja. Nell’ottobre dello scorso anno, ad esempio, alcuni medici iracheni e britannici avevano chiesto all’ONU di avviare un’inchiesta sulla diffusione di malattie collegate all’esposizione a radiazioni nella città.

In quell’occasione veniva rivelato come le donne erano terrorizzate dall’idea di partorire figli a causa dell’aumento di deformità segnalate negli ospedali di Falluja. Nel settembre 2009, l’ospedale più grande della città contava 170 neonati, dei quali il 24 per cento morti entro i primi sette giorni di vita. Di questi, ben il 75 per cento presentava una qualche deformità.

Alle presenti e passate accuse, il Dipartimento della Difesa americano ha sempre sostenuto che non esistono studi qualificati che dimostrino il legame tra l’elevata incidenza di malattie genetiche con le azioni delle proprie forze armate.

Una carenza di dati scientifici dovuta in larga parte anche all’ostruzionismo delle stesse autorità statunitensi e dei regimi da esse sostenuti. Proprio l’attività di ricerca condotta a Falluja, era stata infatti ostacolata dai media e dai rappresentati locali del governo di Baghdad che avevano bollato i medici britannici come terroristi.

Nonostante la prevalenza di cittadini sunniti, legati al regime di Saddam Hussein, la città di Falluja era stata una delle aree relativamente più pacifiche dell’Iraq dopo l’invasione americana.

Il malcontento iniziò tuttavia a diffondersi dalla fine di aprile del 2003 dopo che l’esercito statunitense sparò indiscriminatamente su una folla di cittadini che protestavano contro la trasformazione di una scuola locale in una base USA uccidendo 17 persone. La reazione degli abitanti di Falluja trasformò la città nel centro di resistenza sunnita all’occupazione americana.

Il 31 marzo del 2004, poi, quattro dipendenti della famigerata compagnia privata di sicurezza Blackwater, alla guida di un veicolo, vennero bloccati e fatti scendere per poi essere picchiati e uccisi.

I loro corpi dati alle fiamme sarebbero stati successivamente trascinati per le vie della città e appesi ad un ponte sull’Eufrate. L’uccisione dei quattro cittadini americani scatenò la reazione dell’esercito occupante, che nel mese di maggio fu però costretto ad abbandonare l’assedio di Falluja malgrado l’imbarazzante superiorità militare.

Nel novembre dello stesso anno, dietro autorizzazione del governo-fantoccio iracheno, guidato dall’allora primo ministro Ayad Allawi, venne scatenata una nuova e più violenta offensiva contro quella che era stata definita la roccaforte degli insorti iracheni.

La città venne circondata e tutti gli abitanti rimasti vennero dichiarati “combattenti in armi”. Numerose famiglie furono uccise dagli americani nel tentativo di fuggire da Falluja, mentre durante l’attacco le forze USA fecero largo uso di fosforo bianco e, appunto, uranio impoverito.

L’operazione militare contro Falluja - nella quale 36 mila case delle 50 mila dell’intera città vennero rase al suolo - rappresentò per stessa ammissione dei vertici statunitensi, una punizione esemplare e collettiva per piegare la resistenza sunnita in tutto l’Iraq occupato.

Una condotta perciò contraria al dettato stesso della Convenzione di Ginevra, la quale all’articolo 51 del Protocollo 1 proibisce “le punizioni collettive e qualsiasi misura di intimidazione o terrorismo”.

I crimini americani commessi a Falluja rappresentano uno degli episodi più dolorosi della recente storia militare nei confronti della popolazione civile di un paese occupato. Gli effetti su una città tuttora in rovina tuttavia, a differenza di altre stragi, come quelle quasi quotidianamente perpetrate in Afghanistan o in Pakistan, peseranno ancora per molti anni sulle generazioni future.


Afghangate. Come morivano i civili

di Antonio Marafioti - Peacereporter - 26 Luglio 2010

Il testo di alcuni rapporti diffusi da Wikileaks. Errori umani o di valutazione che hanno provocato morti innocenti e sono stati coperti dal segreto di Stato

I 45 civili, tra cui donne e bambini, rimasti uccisi la scorsa settimana in un attacco missilistico delle forze a guida Nato, nella provincia meridionale di Helmand, sono solo la punta dell'iceberg della fallimentare missione USA in Afghanistan.

Oggi i vari portavoce dei governi coinvolti in battaglia lo hanno riferito alla stampa, fino a ieri non è stato così. Nella terra dei talebani dal 2004 sono morti migliaia di innocenti spesso nel corso di "azioni amichevoli" a causa della totale incompetenza degli uomini in forza alle truppe della coalizione.

Top Secret. I rapporti riservati diffusi da Wikileaks iniziano, o terminano, con formule con le quali si raccomanda la riservatezza.

Per non dare vantaggi al nemico, per evitare colpi all'immagine, per nascondere la tragica verità.

Che i "danni collaterali", le morti di civili, siano all'ordine del giorno in ogni guerra è cosa, ancora inaccettabile ma, ormai tristemente nota. Quello che, invece, stupisce ancora è la totale leggerezza dei vertici militari nel cercare di evitare che i danni collaterali si ripetano. "Is classified secret" - è classificato segreto.

Si apre così il verbale numero 172100Z TF redatto dai comandi militari statunitensi. "Missione [...] uccidere/catturare Layth Abu Al Libi. - riporta il verbale - Obiettivo: Abu Layth Al Libi è un alto comandante militare di Al Qaida, leader del gruppo combattente islamico libico (LIFG). Ha sede a Mir Ali, Pakistan e gestisce campi di addestramento in tutto il Nord Waziristan. [...]. Risultato: 6 nemici uccisi in azione; 7 Non combattenti uccisi in azione, 7 detenuti".

I 7 non combattenti erano bambini innocenti fatti saltare in aria durante l'attacco aereo che aveva preceduto l'arrivo della squadra speciale Task Force 373. Durante il raid nella provincia di Paktika i soldati non hanno trovato Al Libi, che sarebbe stato ucciso solo un anno dopo da un bombardamento condotto con un drone.

Nel luogo dell'attacco c'erano solo sei presunti sospetti terroristi che dopo aver perso i propri figli hanno cercato di scappare dalle truppe statunitensi. Tentativo vano visto che fuori dall'edificio erano di pattuglia degli elicotteri che hanno fatto fuoco sul gruppo. Risultato dell'azione: obiettivo mancato, sei nemici, presunti, e sette non combattenti uccisi.

L'Europa in guerra. Un'altra azione, numero di protocollo 020845SEP08, ha coinvolto le truppe francesi che il 2 ottobre del 2008 hanno "aperto il fuoco - riporta il verbale segreto - su un autobus che giungeva troppo vicino al loro convoglio" nei pressi del villaggio di Tangi Jalay alla periferia di Kabul. Il bollettino di guerra allora ha fatto segnare il ferimento di otto bambini che sono stati poi trasferiti nell'ospedale più vicino con dei taxi.

Dal comando di un ufficiale tedesco della squadra ricostruzioni si è generato quello che il New York Times bolla come "uno degli errori più sanguinosi del 2009". In particolare si è trattato di due camion che si credeva fossero stati rubati dagli insorgenti, nei pressi di Kunduz, e sui quali era stato dato l'ordine di sganciare 500 libbre di bombe a guida laser da un F-15.

Secondo il quartier generale alleato non ci sarebbero stati civili intorno all'area indicata per l'attacco. Invece di civili ce n'erano 60 e tutti loro hanno perso la vita nel corso del bombardamento. Dopo le indagini, interne, si è appurato che gli studi iniziali erano totalmente sbagliati e che i due mezzi erano stati abbandonati e che le sessanta persone si trovavano lì per ripulire il versamento di benzina.

Reazione Assange. Intanto oggi pomeriggio il fondatore di Wikileaks ha tenuto una conferenza stampa rispondendo alle critiche piovute in poche ore da parte del governo di Washington con la frase: "Se è un buon giornalismo è controverso per natura, e poi a me piace schiacciare i bastardi".

Il numero uno di Wikileaks, ed ex hacker australiano, ricercato dalla Cia per aver reso note diverse notizie di interesse nazionale, ha anche aggiunto: "È compito del buon giornalismo parlare degli abusi di potere, e quando gli abusi di potere sono messi in luce c'e' sempre una reazione contraria. Così - ha aggiunto - mentre vediamo che arrivano le polemiche, riteniamo che sia una buona cosa impegnarsi".


Quelle cose strane nei rapporti "segreti" del Pentagono diffusi da Wikileaks

di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24 Ore - 27 Luglio 2010

C'è qualcosa di strano nei rapporti segreti del Pentagono giunti in possesso di Wikileaks
e pubblicati da New York Times, Guardian e Der Spiegel. Innanzitutto la mole di rapporti dell'intelligence, delle forze speciali e dei reparti operativi statunitensi e alleati.

Ben 92 mila, un numero senza precedenti che non può essere liquidato parlando di semplice fuga di notizie, ma che dovrebbe mettere in discussione la carriera dei vertici politici e militari del Pentagono.

Come rivela il Wall Street Journal, il Dipartimento della Difesa concentri suoi sospetti sul 22 enne Bardley Manning, l'analista intelligence dell'Us Army già in carcere da maggio con l'accusa di aver consegnato a Wikileaks un video che mostrava il raid di un elicottero che a Baghdad provocò la morte di numerosi civili e di un cameraman dell'agenzia Reuters.

Il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha dichiarato che il presidente Barack Obama era stato informato ''già la settimana scorsa'' che alcuni media avrebbero pubblicato documenti segreti rivelati da Wikileaks aggiungendo che "è già stata avviata un'indagine sulla fuga di notizie che risale alla fine della settimana scorsa". Quindi i rapporti sarebbero stati sottratti al Pentagono quando Bardeley si trovava da tempo in carcere.

Ma l'aspetto più strano di questi segreti è rappresentato dal fatto che tali non sono. Non c'è rivelazione di Wikileaks che non fosse ben nota a tutti e già pubblicata dai media. Sul ruolo a dir poco ambiguo dei servizi segreti militari pachistani (Isi) a supporto di talebani e al-Qaeda sono stati scritti negli ultimi nove anni centinaia di articoli e decine di libri e in più occasioni la questione ha portato ai ferri corti i rapporti diplomatici tra Washington e Islamabad.

La stessa cosa si può affermare a proposito delle vittime civili provocate dal fuoco alleato ai check-points, durante i combattimenti o nei raids delle forze speciali. "Segreti" che riempiono le pagine dei giornali ormai da anni.

Neppure i rapporti sulle task force di reparti speciali incaricate di eliminare i capi talebani sono una novità dal momento che da almeno tre anni ne parlano diffusamente i reportage dall'Afghanistan.

Che hanno anche riferito diffusamente dell'intensificazione delle incursioni compiute con i velivoli teleguidati Reaper contro i santuari talebani e di al-Qaeda nell'Area Tribale pakistana.

Anche il ruolo dei pasdaran iraniani nel fornire armi e addestramento ai talebani non è certo una novità poiché è stato più volte denunciato pubblicamente dagli ultimi tre comandanti alleati a Kabul; i generali Dan McNeil, David McKiernan e Stanley McChrystal.

Proprio alle forniture di armi iraniane è attribuito il probabile arrivo di nuovi ed efficienti missili terra aria portatili nelle mani dei talebani.

A rivelare nel 2009 le preoccupazioni dell'intelligence per la minaccia rappresentata da queste armi (in particolare il modello russo Sa-18) fu il Sunday Times. Dei vecchi e poco affidabili missili antiaerei Stinger, forniti negli anni '80 dalla Cia ai mujhaiddin per combattere i sovietici, i media si occuparono fin dall'inizio del conflitto afghano anche perché nel dicembre 2001, quando era in pieno svolgimento l'operazione Enduring Freedom che cacciò i talebani da Kabul, i miliziani ne lanciarono senza successo almeno un paio contro aerei cargo americani.

Successivamente gli statunitensi recuperarono alcuni degli Stinger ancora presenti in Afghanistan offrendo a chi li avesse consegnati 500 dollari per ogni esemplare come rivelarono a chi scrive fonti militari statunitensi a Bagram nel 2002.

Inutile quindi cercare "scoop" nelle rivelazioni di WikiLeaks mentre varrebbe la pena chiedersi, con un po' di malizia, come sia possibile che su 92 mila rapporti sottratti neppure uno contenga informazioni davvero sensibili.

Quello che abbonda invece nei rapporti sono le drammatiche descrizioni della prima linea, i dettagli sui combattimenti, i danni collaterali e i soldati colpiti dal "fuoco amico".

Dettagli utili a impressionare l'opinione pubblica che sembrano avere un obiettivo ben preciso. "Dimostrare che la natura della guerra deve cambiare'' e ''modificare l'opinione pubblica e far cambiare la posizione di chi ha influenza politica e diplomatica'' come ha dichiarato ieri Julian Assange, l'hacker australiano che fondò ne 2006 WikiLeaks definendola "un'organizzazione che si oppone alla politica americana in Afghanistan".


Qualche dubbio riguardo “Wikileaks”
di Matteo Pistilli - www.cpeurasia.eu - 27 Luglio 2010

Da cittadini interessati, responsabili e per quanto possibile informati, leggiamo con interesse ogni tipo di informazione possibile. In tempi come questi in cui il pensiero unico è più che mai forte c’è poco da fare gli schizzinosi e c’è bisogno della giusta apertura mentale per ascoltare le più diverse fonti.

Ma, chiaramente, quello che non deve mai mancare è uno spirito critico necessario per interpretare quello che leggiamo così da potergli attribuire un giusto valore. E’ per questo motivo che ci pare interessante porre brevemente l’attenzione sul fenomeno “Wikileaks”(1) in questi giorni agli onori della cronaca per aver diffuso documenti “segreti” sulla guerra in Afganistan.

In questi rapporti si leggono le difficoltà Usa, i civili morti, i fallimenti che per persone informate non rappresentano niente di nuovo se non che le fonti sarebbero documenti ufficiali.

Ma alla luce di anche altre informazioni contenute in questi rapporti e alla luce della lettura del “manifesto” di Wikileaks vengono spontanei alcuni dubbi, che probabilmente investono tutti noi.

Intanto tali documenti segreti oltre a dire banalità evidenti a tutti -bastano le immagini pilotate dai mass media per comprendere l’eccidio di civili e gli obiettivi geopolitica della guerra Usa- si limitano a ripetere le opinioni di una parte dell’amministrazione americana e inoltre contengono altri spunti come il rapporto Pakistan-“talebani” (oppure Al-Quaeda) e il ruolo dell’Iran nell’addestramento di ipotetici terroristi, che richiamano strane analogie. Questi due accenni sono, guarda caso, proprio in linea con gli interessi statunitensi, riguardanti il controllo del Pakistan (2) e l’antagonismo contro la sovrana Repubblica iraniana (3).

Come è possibile che quella che si vorrebbe contro-informazione, vada a conformarsi invece sugli obiettivi strategici di chi l’informazione la controlla, ossia Stati Uniti e Israele? Come mai si chiama all’azione contro Pakistan e Iran, ossia Paesi da tempo indicati come obiettivi principali dal governo Usa?

Lasciamo ai lettori il compito di approfondire, vogliamo solo sottolineare invece gli scopi del sito Wikileaks:

“Il nostro principale interesse è smascherare le azioni di regimi oppressivi in Asia, nell’ex blocco sovietico, nel Medio Oriente e nell’Africa Sub-sahariana, ma collaboriamo anche con le persone che desiderano svelare comportamenti non etici dei loro governi e delle loro aziende.”

Questo si può leggere nella versione italiana del sito; è evidente la comunanza di vedute con il pensiero globalizzatore e mondialista che ha il proprio centro negli Stati Uniti; si considerano vari Stati come oppressivi semplicemente perché non si conformano al dettato espansionista Usa, e soprattutto, guarda caso, si citano proprio quelle aree del pianeta – il cuore dell’Eurasia e il medio oriente controllato dal sionismo – che sono al centro della strategia globale nord-americana: la Cina, l’heartland eurasiatico, il vicino Oriente ossia le varie zone in cui l’azione Usa si fa concreta, sono proprio quelle accusate da Wikileaks di avere regimi oppressivi; sembra di sentir parlare il Dipartimento di Stato Usa.

“Wikileaks è stato fondato da dissidenti cinesi, da matematici, e da compagnie tecnologiche “startup”, in vari centri che includono Taiwan, l’Europa, l’Australia, ed il Sudafrica.”

Come sopra: a sentire quello che affermano (anche se non fosse vero è importante che ci tengano a dirlo) il sito è opera di dissidenti cinesi, ossia coloro che vengono coccolati da Washington per colpire un futuro (e presente) antagonista degli Usa nel mondo come Pechino, e poi Taiwan (!), Europa, Australia: praticamente il sistema di riferimento della Nato!

Sarà un caso, non sarà una macchinazione, ma di certo qui si paga una banalità di pensiero e una mancanza di visione strategica che comporterà l’utilizzo “partigiano” dei materiali pubblicati, che verranno con tutta probabilità sfruttati dall’azione globale statunitense, per giustificare ogni tipo di decisione.

Detto questo ribadiamo è importante accogliere qualsiasi fonte di informazione, ma è altrettanto fondamentale analizzarne idee e provenienza, perché non tutto è oro quello che luccica, e dietro a quella che sembra sana contro-informazione potrebbe sempre nascondersi volente o nolente la disinformazione di regime.

Note:

1) http://wikileaks.org/

2) http://www.eurasia-rivista.org/5194/5194

3) Uno fra i tanti: http://www.eurasia-rivista.org/5013/chi-ha-paura-del-nucleare-civile-iraniano


Wikileaks, uno scoop e tanti misteri
di Andrea Malaguti - La Stampa - 27 Luglio 2010

Un soldato di 22 anni ha passato i file al sito di controinformazione, 15mila sono ancora nel cassetto

Con la sorprendente fretta di chi è costretto a compiere un atto che nessuna forza può impedire, mosso da un senso di giustizia dal sapore robespierriano, ormai diventato una figura mitica a metà tra Robin Hood e il Kaiser Soze de «I soliti sospetti», Juliane Assange, indecifrabile fondatore di Wikileaks, sito libero e senza censure capace di collezionare in meno di quattro anni oltre un milione di documenti segreti e di illuminare a giorno il lato oscuro della guerra in Afghanistan, punta diritto allo sconvolgimento del potere mondiale.

Così, dopo avere rovesciato sul tavolo della politica internazionale 92 mila file (e 15 mila sono ancora nel suo cassetto) che potrebbero riscrivere la storia del conflitto esploso dopo l’11 settembre, ora è pronto a difendere con i propri avvocati l’onore e il destino del soldato Bradley Manning, 22enne analista militare rinchiuso in una cella d’isolamento in Kuwait con l’accusa di avere girato proprio a lui, prima i filmati passati alla cronaca come «Collateral Murder» e poi i documenti dello scandalo emerso in queste ore.

Siamo di fronte a un grande complotto contro l’America e il suo presidente o a una rivoluzionaria battaglia per la libertà di essere informati su ogni passo, scelta e crimine degli uomini più potenti del pianeta?

Il 12 luglio 2007 un elicottero americano Apache sorvola il cielo di Baghdad e apre il fuoco, apparentemente senza motivo, su dodici civili. Li uccide tutti. Due, si scoprirà poi, sono giornalisti della Reuters. I militari ridono, l’Apache si allontana, il filmato della mattanza - Collateral Murder - finisce miracolosamente a Manning, che dalla sua postazione afghana riesce a violare e a saccheggiare i computer del Pentagono.

Il soldato bambino si confida - chissà perché - con l’hacker Adrian Lemo. «Ho consegnato tutti i file rubati a Wikileaks, non potevo reggere da solo questo peso». Errore imperdonabile. Lemo lo denuncia, i militari dell’Army Criminal Investigators lo arrestano e Julian Assange diventa ufficialmente un nemico pubblico.

Ma è possibile immaginare che un piccolo analista militare - e dunque potenzialmente tutti i suoi anonimi colleghi sparsi per il mondo - sia stato in grado di violare il segreto più protetto del pianeta?

O è più facile, come fanno alcuni commentatori inglesi, pensare a una battaglia all’interno del Pentagono? Le ipotesi sull’obiettivo si sprecano. La necessità di spostare in Pakistan lo scontro militare e la voglia di mettere in difficoltà un presidente che ha preteso la pubblicazione dei verbali di Guantanamo, sono le più gettonate.

Julian Assange, nato a Townsville, nel Queensland, figlio di attori teatrali, costretto a una vita nomade, ex hacker del gruppo «International Subersives», cultore di Orazio da cui ha mutuato il primo soprannome «Mendax» («Bugiardo, ma nel senso dello splendido bugiardo delle Odi»), ha fondato il sito che oggi può contare su 800 collaboratori, sui fondi di finanziatori anonimi e volontari - nell’ultimo anno sono arrivati 650 mila dollari - e che ha Noam Chomsky come amministratore del gruppo su Facebook, all’inizio del 2006.

Da allora, scampando a un tentativo di omicidio in Kenya, ha svelato i segreti di governi, banche e politici americani, svizzeri, africani e ha affrontato scontri legali con Sarah Palin e Scientology. Ha raccolto attorno a sé un popolo anonimo che ogni giorno invia al sito diecimila fascicoli scottanti. Guerra, droga, sesso, torture.

Come se Assange avesse risvegliato un antico bisogno di giustizia universale. Il suo amico Ben Laure che lo ospita a Londra nei viaggi a sorpresa dice di lui: «Julian ha la testa piena di complotti e di ossessioni. Ma ha cuore, forza e ideali. È un genio, insomma, un genio del bene». Un pazzo, forse buono, deciso a cambiare il mondo.


Il giornalismo che cambia la storia
di Lucia Annunziata - La Stampa - 27 Luglio 2010

Una meditazione sulla guerra e una meditazione sul giornalismo.Eforse una preghiera sulla tomba di quella che fu la nostra sensibilità di cittadini. Questo dobbiamo alle rivelazioni emerse ieri sulla guerra in Afghanistan, il cui impatto si profila già come capace di ridefinire il corso della storia attuale degli Stati Uniti, e dunque, in parte,anche della nostra.

Novantaduemila rapporti classificati del Pentagono che coprono sei anni di guerra in Afghanistan, dal gennaio 2004 al dicembre 2009, dunque sia durante l’amministrazione Bush che durante quella Obama, sono stati resi noti domenica da tre dei maggiori quotidiani internazionali, l’americano New York Times, l’ingleseTheGuardian e il tedesco Der Spiegel, che hanno lavorato su archivi segreti della guerra resi pubblici da Wikileaks, il portale Internet creato per diffondere documenti riservati.

Il racconto che ne esce è quello di un conflitto combattuto con approssimazione, cattiva coscienza e, soprattutto, schermato da un altomuro di bugie di Stato.

Si tratta della maggiore fuga di notizie militari mai avvenuta. E, come si diceva, si presta a una lettura a tanti livelli da muovere interrogativi che vanno dalla capacità e trasparenza delle istituzioni mondiali alle nostre coscienze individuali, infilzando, nel passaggio, la credibilità dell’intera macchina informativa.

Cominciamo dal conflitto afghano. Dalle migliaia di pagine di racconti in prima persona, rapporti ufficiali e testimonianze - molte delle quali, siamo sicuri, saranno negate dalla amministrazione americana, come ha già iniziato a fare - prendono forma tre indiscusse verità.

La prima, la più dolorosa, riguarda i numerosi morti civili di cui non è mai stata data notizia. La seconda, la più dannosa per Washington, è la confusione e la pochezza decisionale nella conduzione della guerra.

Si apprende ad esempio che gli americani nell’epoca Obama hanno aumentato l’uso di droni, aerei senza pilota, nel tentativo di risparmiare il pericolo per i propri uomini, in realtà mettendo in moto un meccanismo più pericoloso di prima per i civili e per gli stessi militari, costretti spesso a pericolose operazioni di recupero degli aerei caduti, per evitare che i taleban ne catturino la tecnologia.

Ma il maggior fallimento militare riguarda la natura stessa dell’alleanza intorno a cui si incardina il conflitto, quella fra forze Nato e Pakistan: i documenti rivelano infatti che sono gli stessi agenti segreti del Pakistan (Paese con l’atomica) a aiutare i taleban, in un doppio gioco, un vero e proprio tradimento consumato con continuità e convinzione da parte di un Paese che nelle stesse parole del Dipartimento di Stato questa guerra dovrebbe difendere da una presa del potere dei taleban.

La considerazione finale che si trae dai documenti è che «dopo aver speso 300 miliardi di dollari in Afghanistan, gli studenti coranici sono più forti ora di quanto non lo fossero nel 2001». Ma, per dirla con l’editorialista Leslie Gelb, «non sono tutte cose che conoscevamo già?».

In fondo i giornalisti in questi anni non sono stati esattamente con le mani in mano. Un’idea di come stessero le cose ce l’eravamo già fatta.

Le rivelazioni che stiamo leggendo in effetti hanno valore, più ancora che per quello che ci dicono, per tutto il resto che implicano. La differenza fatta da queste carte è proprio nella loro resa pubblica: come già accaduto in passato, la differenza non è fatta dalla notizia ma dalla volontà di farla apprendere.

Non è la prima volta, infatti, che questa dinamica tra informazione e conflitti si materializza nella storia recente, e anche oggi, come nelle volte precedenti, è frutto di una lacerazione nella tela del consenso ancor prima che in quella della verità.

L’esempio del Vietnam è sempre quello da cui ripartire. In quel conflitto il giornalismo riuscì a intercettare e incanalare la rottura di consenso intorno a una guerra che pure era definitoria della identità stessa degli Usa.

Sono nati in quell’epoca paradigmi giornalistici che hanno ispirato generazioni, dal lavoro di Peter Arnett, a quello di Philip Caputo, David Halberstam, a Neil Sheehan, Tom Wolfe e Sydney Schanberg. Anche allora, alla fine la notizia capovolse il consenso.

Pensiamo alla storia della strage di My Lai a firma di Seymour Hersh, e alle parole con cui nel 1968 Walter Cronkite concluse un reportage della Cbs report: «Appare sempre più chiaro a questo giornalista che l’unica via razionale per uscirne è negoziare, non come vincitori, ma come uomini d’onore».

Leggenda narra che furono quelle frasi a far dire al presidente Johnson «Se ho perso Cronkite, ho perso l’opinione pubblica americana». Anni dopo qualcosa del genere è accaduto in Usa sul fronte interno, con il caso del Watergate. E, più di recente ancora, è accaduto, nel 2004, con un reportage di 60 Minutes sulle torture agli iracheni da parte di soldati Usa nella prigione di Abu Ghraib.

In ognuno di questi casi la pubblicazione di una notizia ha segnalato la fine di un consenso, prima ancora che di una verità ufficiale. Così accade oggi, per l’amministrazione Obama.Ma non solo.

C’è qualcosa in più da segnalare in questa vicenda. Qualcosa che ci parla anche di giornalismo e cittadini. Da anni non vedevamo i media impegnati in operazioni come quella i cui risultati stiamo leggendo.

Le sue dimensioni e complessità riportano a galla un modo di lavorare che appare da lungo tempo defunto nelle redazioni di tutto il mondo. Con in più un intreccio fra new media e grande comunicazione tradizionale, che seppellisce molte sciocchezze dette sulla fine del giornalismo nell’epoca di Internet.

I new media, per la loro stessa facilità di uso, flessibilità e, non ultima, economicità, si rivelano in questa inchiesta il motore di un potenziale rinnovamento dello spirito stesso del giornalismo sempre più appannato negli intrighi commerciali e proprietari del nostro attuale sistema editoriale.

Operando così lo squarcio di un miracolo: i 92 mila documenti, peraltro consultabili da chi volesse, sono un trillo di sveglia anche per noi stessi, i lettori. Noi stessi forbiti interpreti di troppi cinismi, su tante guerre, vicine e lontane, signori del chissenefrega, contenti e accontentati da una informazione senza verifiche e senza fonti.


Guerra semantica: la nuova propaganda
di Robert Fisk - www.independent.co.uk - 21 Giugno 2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Concetta Di Lorenzo
Il giornalismo è diventato un campo di battaglia linguistico - e quando i giornalisti usano termini come ‘picco della violenza’, ‘ondata’ o ‘coloni’, fanno un gioco pericoloso.

State seguendo l'ultima in fatto di notizie sulla semantica? Giornalismo e governo israeliano si amano di nuovo. E' terrore islamico, terrore turco, terrore di Hamas, terrore della Jihad islamica, terrore di Hezbollah, attivista del terrore, guerra al terrore, terrore palestinese, terrorismo islamico, terrore iraniano, terrore siriano, terrore antisemita ...

Ma io sto facendo un' ingiustizia agli israeliani. Il loro lessico, quello della Casa Bianca – per la maggior parte - e il nostro lessico giornalistico, è lo stesso. Sì, cerchiamo di essere equi verso gli israeliani. Il loro lessico va in questa direzione: terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore.

Quante volte ho appena usato la parola "terrore"? Venti. Ma potrebbero anche essere 60, o 100, o 1000, o un milione. Siamo innamorati della parola, sedotti da essa, fissati con essa, attaccati da essa, assaliti da essa, rapiti da essa, impegnati ad essa.

C’è amore, sadismo e morte in una sola doppia sillaba, tema principale di una canzone, apertura di ogni sinfonia televisiva, titolo di ogni pagina, segno di punteggiatura del nostro giornalismo, punto e virgola, virgola, nostro punto più potente. “Terrore, terrore, terrore, terrore ". Ogni ripetizione giustifica il suo antecedente.

Per lo più, è sul terrore del potere e il potere del terrore. Potere e terrore sono diventati intercambiabili. Noi giornalisti abbiamo permesso che ciò accadesse. La nostra lingua è diventata non solo un alleato svilito, ma un partner a pieno titolo nel linguaggio verbale dei governi, eserciti, dei generali e delle armi.

Ricordate il "bunker buster" (bomba che scava in profondità prima di esplodere- ndt) e il "Buster Scud" (sistema anti-missilistico- ndt) e il "target rich environment" (equipaggiamento ad alta tecnologia-ndt) nella Guerra del Golfo (parte prima)? Dimenticate le "armi di distruzione di massa". Chiaramente troppo ridicolo. Ma l’arma di distruzione di massa nella Guerra del Golfo (parte seconda) aveva un potere proprio, un codice segreto - genetico, forse, come il DNA - per qualcosa che poteva mietere terrore, terrore, terrore, terrore, terrore. "45 minuti di terrore".

Potere e informazione non sono solo basati su rapporti cordiali tra giornalisti e leader politici, tra editori e presidenti. Non sono solo sul rapporto parassitario-osmotico tra giornalisti presumibilmente onorevoli e il legame di potere che corre tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato e Pentagono; tra Downing Street, il Foreign Office e il Ministero della Difesa; tra America e Israele.

Nel contesto occidentale, il potere e l’informazione si basano sulle parole - e sull'uso delle parole. Sulla semantica. Sull’uso delle frasi e le loro origini. Sull’abuso della storia e sulla nostra ignoranza della storia. Sempre più oggi, noi giornalisti siamo diventati prigionieri del linguaggio del potere.

Questo succede perché non ci interessa più nulla della linguistica o della semantica? Succede perché i portatili "correggono" la nostra ortografia, "snelliscono" la nostra grammatica in modo che le nostre frasi molto spesso si rivelano identiche a quelle dei nostri governanti? È per questo che gli editoriali di oggi spesso suonano come discorsi politici?

Per due decenni, le dirigenze degli Stati Uniti e Gran Bretagna - e israeliane e palestinesi - hanno usato le parole "processo di pace" per definire l'inadeguato, impossibile, disonorevole accordo che ha permesso agli Stati Uniti e Israele di dominare ogni scheggia di terra che sarebbe stata data ad un popolo occupato. Ho contestato questa espressione e la sua origine, al tempo di Oslo - anche se dimentichiamo facilmente che gli stessi accordi segreti di Oslo sono stati una cospirazione senza alcuna base giuridica.

Povera vecchia Oslo, penso sempre. Che cosa ha mai fatto Oslo per meritare questo? E' stato l'accordo della Casa Bianca che ha suggellato questo trattato ridicolo e discutibile - in cui i rifugiati, i confini, le colonie israeliane, anche gli orari – dovevano essere bloccati fino a quando non potevano più essere negoziati.

E dimentichiamo facilmente il prato della Casa Bianca - anche se, sì, ricordiamo le immagini - sul quale Clinton citò il Corano e Arafat disse: "Grazie, grazie, grazie, signor Presidente". Come chiamammo queste sciocchezze dopo? Sì, fu "un momento della storia"! Fu? Fu così?

Ricordate come la chiamò Arafat? "La pace dei coraggiosi". Ma io non ricordo nessuno di noi che abbia sottolineato che "la pace dei coraggiosi" fu utilizzata dal generale de Gaulle verso la fine della guerra d'Algeria. La Francia perse la guerra con l’Algeria. Noi non pubblicizzammo questa straordinaria ironia.

Lo stesso oggi. Noi giornalisti occidentali - usati ancora una volta dai nostri padroni – ci siamo occupati dei nostri allegri generali in Afghanistan, dicendo che la loro guerra può essere vinta solo con una campagna fatta con "i cuori e le menti”. Nessuno ha posto loro la domanda ovvia: non era questa la stessa identica frase utilizzata per i civili vietnamiti nella guerra del Vietnam?

E non abbiamo - non ha l'Occidente - perso la guerra in Vietnam? Ma ora noi giornalisti occidentali stiamo usando – per l’ Afghanistan - la frase "i cuori e le menti" nei nostri articoli come se fosse una nuova definizione nel dizionario piuttosto che un simbolo di sconfitta per la seconda volta in quattro decenni.

Basta guardare le singole parole che abbiamo recentemente cooptato dalle forze armate degli Stati Uniti. Quando noi occidentali scopriamo che i "nostri" nemici - Al-Qaeda, per esempio, o i talebani - hanno fatto esplodere più bombe e organizzato più attacchi del solito, lo chiamiamo "picco di violenza".

Ah, sì, un "picco"! Un "picco" è una parola usata per prima in questo contesto, secondo il mio file, da un generale di brigata nella Zona Verde di Baghdad nel 2004. Ma ora noi usiamo questa espressione, improvvisiamo su di essa, la trasmettiamo come fosse nostra, una nostra invenzione giornalistica.

Stiamo utilizzando, abbastanza letteralmente, un’ espressione creata per noi dal Pentagono. Una punta, naturalmente, va bruscamente verso l’alto poi bruscamente verso il basso. Un "picco di violenza" evita pertanto l'uso minaccioso delle parole "aumento della violenza" – perché un aumento, naturalmente, dopo, potrebbe non scendere di nuovo.

Di nuovo, quando i generali americani riferiscono di un improvviso aumento delle loro forze per un attacco a Falluja o al centro di Baghdad o di Kandahar - un massiccio movimento di soldati portati in paesi musulmani a decine di migliaia - questo lo chiamano "ondata". E un’ ondata, come uno tsunami o altri fenomeni naturali, può essere devastante nei suoi effetti.

Ciò che queste “ondate” in realtà sono - per usare le parole vere del giornalismo serio - sono rinforzi. E i rinforzi vengono inviati ai conflitti quando gli eserciti stanno perdendo quelle guerre. Ma la nostra televisione e i giornali per ragazzi e ragazze ancora parlano di "picchi" senza alcuna attribuzione a qualcosa. Il Pentagono vince ancora.

Nel frattempo il "processo di pace" è crollato. Quindi i nostri leader - o "attori chiave", come ci piace chiamarli - hanno cercato di farlo funzionare di nuovo. Il processo doveva essere rimesso "sul binario giusto". Si vede che era un treno. Le carrozze avevano deragliato. L'amministrazione Clinton per prima usò questa frase, poi gli israeliani, poi la BBC. Ma ci fu un problema quando il "processo di pace" fu messo ripetutamente "sul binario giusto" - e ancora deragliava.

Così abbiamo prodotto una "tabella di marcia” - gestita da un Quartetto e guidata dal nostro vecchio Amico di Dio, Tony Blair, che - in un’oscenità storica - oggi definiamo un "inviato di pace". Ma la "tabella di marcia" non funziona. Ora, mi accorgo, il vecchio "processo di pace" è ritornato sui nostri giornali e sugli schermi televisivi.

All' inizio di questo mese, sulla CNN, uno di quei vecchi parrucconi noiosi, che i ragazzi e le ragazze della Tv definiscono "esperti", ci ha detto di nuovo che il "processo di pace" era stato messo "sul binario giusto" per l'apertura di "colloqui indiretti" tra israeliani e palestinesi. Non si tratta solo di luoghi comuni - questo è giornalismo assurdo. Non c'è battaglia tra i media e il potere; attraverso il linguaggio, noi, i media, siamo diventati come loro.

Ecco un altro pezzo di codardia informatica che fa digrignare i miei denti 63enni, dopo che hanno mangiato humus e tahina in Medio Oriente per 34 anni. Ci viene detto, in molti articoli analitici, che ciò con cui abbiamo a che fare in Medio Oriente sono le "narrazioni concorrenti". Che caruccio! Non c'è giustizia, non c'è ingiustizia, solo un paio di persone che raccontano fatti storici diversi. Sulla stampa britannica le "narrazioni concorrenti" ora saltano fuori regolarmente.

La frase, dal falso linguaggio antropologico, elimina la possibilità che un gruppo di persone - in Medio Oriente, per esempio – sia occupato, mentre un altro sia l’occupante. Anche in questo caso, non c'è giustizia, né ingiustizia, non c’è oppressione né oppresso, ma solo alcune amichevoli "narrazioni concorrenti", una partita di calcio, se volete, su un piano di parità, perché le due parti sono – o no? - "in concorrenza". E a due parti deve essere dato un termine identico in ogni storia.

Così un’ "occupazione" diventa una "controversia". Un "muro" diventa un "recinto" o una "barriera di sicurezza". Così le azioni israeliane di colonizzazione della terra araba, contro ogni legge internazionale, diventano "insediamenti" o "avamposti" o "quartieri ebraici".

E' stato Colin Powell, nella sua protagonistica, impotente apparizione come Segretario di Stato di George W. Bush, che ha detto ai diplomatici degli Stati Uniti di riferirsi ai territori palestinesi occupati come "terra contestata" - il che era abbastanza buono per la maggior parte dei media statunitensi. Non ci sono "racconti concorrenti", naturalmente, tra i militari americani e i talebani. Quando ci saranno, saprete che l'Occidente ha perso.

Ma vi farò un esempio di come le "narrazioni concorrenti" vengono rifatte. Ad aprile ho tenuto una conferenza a Toronto in occasione del 95° anniversario del genocidio armeno del 1915, l'assassinio deliberato di massa di 1,5 milioni di cristiani armeni da parte dell'esercito e delle milizie turche ottomane.

Prima del mio intervento, sono stato intervistato dalla televisione canadese CTV, che possiede anche il Toronto Globe and Mail. Fin dall'inizio, ho potuto vedere che l'intervistatrice aveva un problema. Il Canada ha una numerosa comunità armena. Ma Toronto ha anche un’ ampia comunità turca. E i turchi, come il Globe and Mail dice sempre, "contestano accanitamente" che quello fu un genocidio.

Così l' intervistatrice chiamava il genocidio "stragi mortali". Certo, ho notato immediatamente il suo specifico problema. Non riusciva a chiamare le stragi " genocidio", perché la comunità turca si sarebbe scandalizzata. Ma lei sentiva che la parola "stragi" da sola - in particolare con le raccapriccianti fotografie di armeni morti come sfondo dello studio – non era sufficiente a definire l’uccisione di un milione e mezzo di esseri umani. Di qui le "stragi mortali". Che strano! Se ci sono stragi "mortali", ci sono quindi stragi che non sono "mortali" e da cui le vittime possono uscirne vive? E’ stata una ridicola tautologia.

Tuttavia, l'uso del linguaggio del potere - delle sue parole e frasi portanti - continua ancora tra noi. Quante volte ho sentito giornalisti occidentali parlare di "combattenti stranieri" in Afghanistan? Si riferiscono, ovviamente, ai vari gruppi arabi presumibilmente in aiuto dei talebani. Abbiamo sentito naturalmente la stessa storia per l’Iraq, per i combattenti sauditi, giordani, palestinesi, ceceni. I generali li hanno chiamati "combattenti stranieri".

Immediatamente, noi giornalisti occidentali abbiamo fatto lo stesso. Chiamarli "combattenti stranieri" significava che fossero una forza d'invasione. Ma non una volta - mai - ho sentito qualche importante stazione televisiva occidentale riferirsi al fatto che ci sono almeno 150.000 "combattenti stranieri" in Afghanistan, e che tutti loro indossano divise americane, britanniche e altre divise della NATO. Siamo "noi" ad essere i veri "combattenti stranieri".

Allo stesso modo, la maligna frase "Af-Pak" - tanto razzista quanto politicamente disonesta - è ora utilizzata dai giornalisti, sebbene fosse originariamente una creazione del Dipartimento di Stato Usa del giorno in cui Richard Holbrooke fu nominato rappresentante speciale americano per Afghanistan e Pakistan.

Ma la frase evita l'uso della parola "India" - la cui influenza in Afghanistan e la cui presenza in Afghanistan, è una parte vitale della storia. Inoltre, "Af-Pak" – eliminando l’India - ha di fatto eliminato tutta la crisi del Kashmir dal conflitto del sud-est asiatico.

E così ha privato il Pakistan di ogni voce nella politica locale degli Stati Uniti sul Kashmir - dopo tutto, Holbrooke è stato fatto inviato per l’ Af-Pak, con l’espresso divieto di discutere sul Kashmir. Così la frase "Af-Pak", che evita del tutto la tragedia del Kashmir - troppe "narrazioni concorrenti ", forse? - significa che quando noi giornalisti utilizziamo la stessa frase, "Af-Pak", che è stata sicuramente creata per noi giornalisti, stiamo facendo il gioco del Dipartimento di Stato.

Ora diamo un'occhiata alla storia. I nostri leader amano la storia. Soprattutto, amano la Seconda Guerra Mondiale. Nel 2003, George W. Bush pensava di essere Churchill. Certo, Bush aveva trascorso la guerra del Vietnam a proteggere i cieli del Texas dai vietcong. Ma ora, nel 2003, fronteggiava i "mediatori", che non volevano la guerra con Saddam, il quale era, naturalmente, "l' Hitler del Tigri".

I mediatori erano gli inglesi che non vollero combattere la Germania nazista nel 1938. Anche Blair, naturalmente, ci provò sulle dimensioni del panciotto e della giacca di Churchill. Egli non “mediava”. L'America era il più antico alleato della Gran Bretagna, proclamò - e sia Bush che Blair ricordarono ai giornalisti che gli Stati Uniti furono spalla a spalla con la Gran Bretagna nel suo momento di bisogno nel 1940.

Ma nulla di tutto questo era vero. Il più antico alleato della Gran Bretagna non erano gli Stati Uniti. Era il Portogallo, uno stato neutrale fascista durante la Seconda Guerra Mondiale, che abbassò la sua bandiera nazionale a mezz'asta quando Hitler morì (persino gli irlandesi non lo fecero).

Né l'America combatté al fianco della Gran Bretagna nel suo momento del bisogno, nel 1940, quando Hitler minacciava l'invasione e la Luftwaffe bombardò Londra. No, nel 1940 l'America si stava godendo un periodo molto proficuo di neutralità, e non si unì alla Gran Bretagna in guerra fino a quando il Giappone non attaccò la base navale statunitense di Pearl Harbour nel dicembre 1941.

Allo stesso modo, nel 1956, Eden chiamò Nasser il "Mussolini del Nilo". Un brutto errore. Nasser era amato dagli arabi, non odiato come lo era Mussolini dalla maggioranza degli africani, in particolare dagli arabi libici. Il parallelo con Mussolini non fu contestato o messo in discussione dalla stampa britannica. E tutti sappiamo cosa è successo a Suez nel 1956. Quando si tratta di storia, noi giornalisti lasciamo che i presidenti e primi ministri ci prendano in giro.

Ma la parte più pericolosa della nostra nuova guerra semantica, il nostro uso delle parole di potere - anche se non è una guerra, dal momento che ci siamo abbondantemente arresi - è che ci isola dai nostri telespettatori e lettori. Non sono stupidi. Capiscono le parole in molti casi - temo - meglio di noi. Anche la storia. Loro sanno che noi disegniamo il nostro vocabolario dal linguaggio di generali e presidenti, dalla cosiddetta élite, dalla prepotenza degli esperti dell'Istituto Brookings, o da quelli della Rand Corporation. Così siamo diventati parte di questo linguaggio.

Nel corso delle ultime due settimane, mentre stranieri - umanitari o " attivisti terroristi " - hanno cercato di portare cibo e medicinali via mare agli affamati palestinesi di Gaza, noi giornalisti avremmo dovuto ricordare ai nostri telespettatori e ascoltatori un giorno di tanto tempo fa, quando l'America e la Gran Bretagna sono andate in aiuto di una popolazione recintata, portando cibo e combustibile - i nostri stessi militari morirono nel farlo - per aiutare una popolazione affamata. Quella popolazione era stata rinchiusa in una recinzione eretta da un esercito brutale che voleva affamare il popolo per portarlo alla sottomissione. L'esercito era quello russo. La città era Berlino.

Il muro sarebbe venuto più tardi. Quelle persone erano state i nostri nemici solo tre anni prima. Eppure abbiamo attivato il ponte aereo di Berlino per salvarle. Ora, guardate oggi Gaza: quale giornalista occidentale - dal momento che amiamo paralleli storici - ha mai menzionato la Berlino del 1948 nel contesto di Gaza?

Invece, che cosa abbiamo ottenuto? "Attivisti" che si trasformò in "attivisti armati" nel momento in cui si sono opposti all’ imbarco armato dell'esercito israeliano. Come osano questi uomini sconvolgere il lessico?

La loro punizione è stata evidente. Sono diventati "terroristi". E i raid israeliani - in cui "attivisti" sono stati uccisi (un'altra prova del loro "terrorismo") – sono poi diventati "mortali" incursioni. In questo caso, "mortali" era più scusabile di quanto lo fosse stato sulla CTV - nove i morti di origine turca che è leggermente meno del milione e mezzo di armeni uccisi nel 1915.

Ma è stato interessante che gli israeliani - che per loro motivi politici fino ad allora avevano vergognosamente assecondato la smentita turca - ora, all'improvviso, hanno voluto informare il mondo del genocidio armeno del 1915. Questo ha provocato un brivido comprensibile tra molti dei nostri colleghi.

I giornalisti che hanno regolarmente evitato qualsiasi menzione del primo olocausto del 20° secolo - a meno che non facciano anche riferimento al modo in cui i turchi "contestano accanitamente" l’etichetta genocidio (ergo il Toronto Globe and Mail) – potrebbero improvvisamente riferirsi ad esso.

Il nuovo ritrovato interesse storico di Israele ha reso il soggetto legittimo, anche se quasi tutti i rapporti giornalistici hanno cercato di evitare qualsiasi spiegazione su ciò che effettivamente accadde nel 1915.

E cosa è diventato il raid marittimo israeliano? E' diventato un "raid rattoppato”. Rattoppato è una parola bellissima. Iniziò come termine tedesco di origine inglese medio, "bocchen", che significava “riparare malamente". E noi, ci siamo più o meno tenuti a tale definizione fino a quando i nostri consulenti di lessico giornalistico hanno cambiato il suo significato. I ragazzi delle scuole "rattoppano", un esame.

Potremmo "rattoppare" un pezzo di cucito, un tentativo di riparare un pezzo di materiale. Potremmo anche rattoppare un tentativo di convincere il nostro capo a darci un aumento. Ma ora noi "rattoppiamo" un' operazione militare. Non è stata un disastro. Non è stata una catastrofe. Ha solo ucciso alcuni turchi.

Quindi, data la cattiva pubblicità, gli israeliani hanno solo "rattoppato" il raid. Stranamente, l'ultima volta che giornalisti e governi hanno utilizzato questa particolare parola, è stato a seguito del tentativo di Israele di uccidere il leader di Hamas, Khaled Meshaal, per le strade di Amman. In quel caso, gli assassini professionisti israeliani furono catturati dopo aver tentato di avvelenare Meshaal, e re Hussein costrinse l'allora primo ministro israeliano (un certo B Netanyahu) a fornire l'antidoto (e a scarcerare molti "terroristi" di Hamas). La vita di Meshaal fu salva.

Ma per Israele e i suoi giornalisti occidentali obbedienti questo è diventato un "tentativo fallito" sulla vita di Meshaal. Non perché egli non fosse destinato a morire, ma perché Israele fallì nell’ ucciderlo. Si può così "rattoppare" un'operazione uccidendo turchi - oppure è possibile "rattoppare", un' operazione non uccidendo un palestinese.

Come si fa a rompere con il linguaggio del potere? Ci sta certamente uccidendo. Questo, temo, è uno dei motivi per cui i lettori si sono allontanati dalla "grande stampa” per Internet. Non perché la rete è libera, ma perché i lettori sanno di essere stati ingannati e truffati; sanno che quello che guardano e che leggono sui giornali è un'estensione di quello che sentono dal Pentagono o dal governo israeliano; che le nostre parole sono diventate sinonimi con il linguaggio di un governo legittimato, attentamente triturate, che nascondono la verità, mentre sicuramente ci rendono politicamente - e militarmente - alleati di tutti i principali governi occidentali.

Molti dei miei colleghi di diversi giornali occidentali rischierebbero infine il posto di lavoro se contestassero continuamente la falsa realtà del giornalismo d’informazione, nesso del potere mediatico - governativo. Quante testate giornalistiche hanno pensato di trasmettere un servizio, al momento del disastro di Gaza, del ponte aereo per rompere il blocco di Berlino? Lo ha fatto la BBC?

Col cavolo lo hanno fatto! Preferiamo le "narrazioni concorrenti". I politici non volevano che il viaggio di Gaza – l’ho detto alla riunione di Doha l’11 maggio - giungesse a destinazione, "sia che la sua fine fosse riuscita, farsesca o tragica ". Crediamo nel "processo di pace", nella "tabella di marcia". Manteniamo il "recinto" intorno ai palestinesi. Lasciamo che i "capoccioni" risolvano il problema. E ricordiamo che si tratta di: "terrore, terrore, terrore, terrore, terrore, terrore."