lunedì 6 giugno 2011

"Primavera araba" update

Una serie di articoli sugli ultimi sviluppi della cosiddetta "Primavera araba"...


Obama, giù le mani dalle nostre rivoluzioni!
di Soumaya Ghannoushi* - The Guardian - 26 Maggio 2011

Gli USA vogliono trasformare le rivoluzioni arabe nell'Europa dell'Est parte seconda. Falliranno

La prima ondata delle rivoluzioni arabe sta entrando nella seconda fase, che riguarda lo smantellamento delle strutture del potere autoritario e l’inizio del difficile cammino verso il vero cambiamento e la democrazia.

Gli Stati Uniti, inizialmente spaesati per la perdita dei loro alleati chiave nella regione, sono ora determinati a dettare il corso e il risultato di queste rivoluzioni in atto.

Ciò che ha rappresentato una sfida al potere americano è ora un’ “opportunità storica”, come l’ha definita Barack Obama nel suo discorso sul Medio Oriente la scorsa settimana. Tuttavia egli non intende con ciò un’opportunità per i popoli che si sono sollevati, quanto piuttosto per Washington,

nel tentativo di modellare il presente e il futuro della regione, proprio come è avvenuto con il suo passato. Quando Obama parla del proprio desiderio di “rendere il mondo come dovrebbe essere”, non si riferisce alle aspirazioni delle persone, bensì agli interessi americani.

E come dovrebbe essere questo mondo? Il modello è quello dell’Europa dell’Est e delle rivoluzioni colorate. Il soft power e l’abilità diplomatica americani devono essere utilizzati per riconfigurare il panorama socio-politico nella regione.

Lo scopo è quello di trasformare le rivoluzioni popolari in rivoluzioni americane creando un nuovo gruppo di elite docili, addomesticate e amiche degli Stati Uniti.

Ciò richiede non solo la cooptazione dei vecchi amici del periodo pre-rivoluzionario ma anche il tentativo di contenere le nuove forze prodotte dalla rivoluzione, a lungo marginalizzate dagli Stati Uniti.

Come ha affermato Obama la scorsa settimana: “Dobbiamo sostenere le persone che rappresentano il futuro, soprattutto le giovani generazioni, fornendo assistenza alla società civile, inclusa quella che potrebbe essere non ufficialmente riconosciuta”. Per fare ciò egli ha raddoppiato il budget per la “protezione dei gruppi della società civile” da 1,5 milioni di dollari a 3,4 milioni.

I destinatari non sono soltanto i soliti elementi neoliberali, ma anche gli attivisti che hanno guidato i movimenti di protesta, oltre agli Islamisti tradizionali. I programmi destinati ai giovani leader includono il progetto ‘Leaders for Democracy’ sponsorizzato dalla ‘Middle East Partnership Initiative’ del dipartimento di Stato americano.

Alcuni attivisti arabi, compreso l’attivista egiziano per la democrazia e i diritti umani Esraa Abdel Fattah, sono stati invitati a un evento organizzato dal ‘Project on Middle East Democracy’ che si è tenuto a Washington lo scorso mese (uno dei numerosi seminari e conferenze recenti).

Sempre lo scorso mese al Cairo si sono tenuti gli incontri tra alcuni alti funzionari americani, come il leader della maggioranza alla Camera, Steny Hoyer, e i Fratelli Musulmani, mentre il numero due del partito islamista tunisino Ennahda è tornato da poco da una visita a Washington dove si è recato “per discutere della transizione democratica”.

Washington spera di distogliere queste forze emergenti dalla propria opposizione ideologica nei confronti dell’egemonia americana e di trasformarle in attori pragmatici, completamente integrati all’interno dell’ordine internazionale esistente guidato dagli Stati Uniti.

Le loro posizioni non rappresentano un problema, fintanto che gli attori accettano di operare all’interno dei parametri che vengono delineati per loro, e di lottare per il potere senza mettere in discussione le regole del gioco. Bisognerà vedere, tuttavia, se in cambio dei favori americani essi non rischieranno di perdere il sostegno della propria base popolare.

Il contenimento e l’integrazione non avvengono soltanto sul piano politico, ma anche su quello economico attraverso il libero mercato e gli accordi commerciali nel nome delle riforme economiche.

I piani “per stabilizzare e modernizzare” le economie tunisine ed egiziane, che sono già stati stesi dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Europea per lo Sviluppo su ordine di Washington, verranno presentati al vertice del G8 di questa settimana [26-27 maggio (N.d.T.)].

È stato annunciato un fondo di 2 miliardi di dollari per sostenere gli investimenti privati, una delle tante iniziative “basate sui fondi che hanno sostenuto le transizioni nell’Europa dell’Est”.

Come sempre gli investimenti e gli aiuti sono condizionati all’adozione del modello americano nel nome delle liberalizzazioni e delle riforme, e all’esigenza di vincolare sempre più le economie della regione ai mercati americani ed europei nel nome dell’“integrazione del mercato”.

Ci si chiede che cosa rimarrà delle rivoluzioni arabe in società civili che sono così infiltrate, caratterizzate da partiti politici addomesticati e da economie dipendenti.

Tuttavia, sebbene l’amministrazione Obama potrà avere successo con alcune organizzazioni arabe, il suo tentativo di replicare ciò che è avvenuto nell’Europa dell’Est potrebbe essere destinato al fallimento.

Praga e Varsavia guardavano agli Stati Uniti quale fonte d’ispirazione, mentre per la gente del Cairo, di Tunisi e di Sana’a gli Stati Uniti rappresentano l’equivalente dell’Unione Sovietica nell’Europa orientale: essi sono il problema e non la soluzione.

Per gli arabi gli Stati Uniti sono una forza di occupazione che agisce sotto le mentite spoglie della democrazia e dei diritti umani.

Nessuno più dello stesso Obama avrebbe potuto offrire una prova eloquente di tutto ciò. Egli ha iniziato il suo discorso sul Medio Oriente con un elogio della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli uomini e le donne, e ha concluso parlando dell’“carattere ebraico d’Israele”, che di fatto nega i diritti di cittadinanza al 20% dei propri abitanti arabi, e il diritto al ritorno di 6 milioni di rifugiati palestinesi.

Il tentativo degli Stati Uniti di conciliare l’inconciliabile – e cioè di parlare di democrazia e agire da potenza occupante o di venire in aiuto all’occupazione – è vano.

*Soumaya Ghannoushi è una giornalista freelance; è ricercatrice alla School of Oriental and African Studies (SOAS) dell’Università di Londra


Democrazia polacca in Africa
di Manlio Dinucci - Il Manifesto - 31 Maggio 2011

Quale modello di transizione democratica dovrebbero adottare Egitto e Tunisia, appena liberatisi dalle dittature di Mubarak e Ben Ali?

Il presidente Obama non ha dubbi: quello polacco. La Polonia – ha dichiarato il 28 maggio a Varsavia – ha effettuato un «percorso verso la libertà che ha ispirato molti in questo continente e oltre».

Elenca quindi i grandi meriti di Varsavia. Anzitutto, quello che «Stati uniti e Polonia hanno forgiato una eccezionale partnership nella difesa, radicata nella duratura alleanza della Nato».

Per forgiarla ancor più, il presidente Obama e il presidente Komorowski hanno annunciato che in Polonia sarà dislocato un distaccamento della U.S. Air Force, formato da cacciabombardieri F-16, affiancati a quelli venduti dagli Usa alla Polonia.

Sarà realizzato in territorio polacco anche un sito missilistico dello «scudo anti-missili». Intanto il Pentagono vi ha dislocato batterie di missili Patriot.

Grandi progressi anche nella partnership tra le forze speciali dei due paesi e nell'addestramento congiunto delle truppe (2.600 uomini) che la Polonia tiene in Afghanistan sotto comando Usa. E si annuncia un ulteriore accordo che «ridurrà fortemente le barriere al commercio in articoli della difesa», permettendo alla Polonia di importare (indebitandosi ancora di più) altri armamenti Usa.

Si capisce quindi perché Obama sia così entusiasta del modello polacco e dichiari: «Vogliamo incoraggiare le nazioni del Medio Oriente e Nordafrica che lottano per la transizione alla democrazia, soprattutto Egitto e Tunisia, a beneficiare dell'esempio polacco». L'incoraggiamento non è solo verbale.

A Varsavia i due presidenti hanno incontrato gli «attivisti polacchi per la democrazia», appena rientrati da una «riuscita visita» in Tunisia guidata dall'ex-presidente Walesa (insignito, come Obama, del Premio Nobel per la pace). Visti i risultati, hanno deciso di inviare in Tunisia altri «esperti di transizione perché collaborino col nuovo governo».

Molto apprezzato da Obama anche il fatto che, in Libia, attivisti polacchi collaborino col consiglio di Bengasi per una «transizione politica» del paese, ossia per il rovesciamento del governo di Tripoli.

Meritevole opera ispirata da Washington. Elisabeth Sherwood-Randall, influente consigliera di Obama, ha precisato che «istituzioni democratiche statunitensi, tra cui il National Democratic Institute (Ndi), stanno già sostenendo l'impegno dei polacchi nei movimenti arabi per la democrazia».

Quale sia il ruolo di queste «istituzioni democratiche», dirette e finanziate dalla Cia e da altre agenzie federali, lo conferma il Ndi quando scrive che il suo lavoro a Bengasi è stato facilitato dal fatto che «importanti personalità libiche avevano già partecipato a suoi corsi tenuti in Marocco e negli Stati uniti». Non mancano i soldi per queste attività.

La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, dopo aver smantellato e privatizzato le proprietà pubbliche della Polonia e di altri paesi dell'Est, sbarca in Egitto e Tunisia offrendo 5 miliardi di dollari in cambio di «adeguate riforme», che spalanchino le porte alle multinazionali e alle basi militari straniere.

È la nuova crociata con in prima fila gli attivisti polacchi, fieri di portare sul petto l'emblema di un F-16 sullo sfondo del dollaro.


Escalation militare: "fase due" della guerra in Libia

di Michel Chossudovsky - www.globalresearch.ca - 1 Giugno 2011

Una nuova fase della guerra si sta svolgendo in direzione di un processo di escalation militare e dell'atterraggio finale di commandos USA-NATO sulle coste della Libia.
Uno spiegamento senza precedenti di potenza navale nel Mediterraneo è in corso.


La Super portaerei USS George HW Bush, la nave più avanzata nell'arsenale navale statunitense, insieme al suo gruppo d'assalto e gruppo vettore è entrata nel Mediterraneo, fino ad unirsi con la Sesta Flotta a Napoli.

La portaerei USS George HW Bush (CVN77) è la più grande nave da guerra del mondo: "Quattro ettari e mezzo di spazio sul suo ponte di volo, che la rende in grado di ospitare 90 aerei ed elicotteri. Ospita 5.500 elementi di equipaggio".

Dotata di sofisticati sistemi di guerra elettronica, è la "base militare mobile" più grande del mondo (Manlio Dinucci, "Boots on the Ground": Sarkozy e Cameron si preparano a sbarcare in Libia, Global Research, 31 maggio 2011).

Il Gruppo d'Assalto della portaerei USS George HW Bush è stato inviato nel suo "viaggio inaugurale" nell'area di operazioni navali della Sesta Flotta, vale a dire il Mediterraneo. E' stato "certificato pronto per le operazioni di combattimento" un mese prima dell'inizio della guerra in Libia. (USS George H.W. Bush Strike Group Certified Combat Ready, 21 febbraio 2011)

Ridurre il nemico alla totale Sottomissione

Le dimensioni della Super-portaerei USS George HW Bush, i suoi sistemi avanzati di armi, le sue capacità distruttive, per non parlare del suo costo, sono l'espressione pura e semplice delle ambizioni imperiali impazzite dell'America.

Sotto la dottrina "Shock and Awe", la USS George H. W. Bush è destinata a stupire e ridurre il nemico in totale sottomissione.

Escalation militare

Dall'inizio della guerra il 19 marzo, sono state condotte circa 10.000 missioni. La NATO riconosce un totale di 9.036 missioni, tra cui 3.443 missioni d'attacco in un periodo di due mesi (31 marzo 2011-31 maggio 2011).

Con lo spiegamento della USS George HW Bush e del suo Carrier Strike Group insieme ad altre navi da guerra alleate, si sta aprendo una nuova fase della guerra.

Le operazioni militari non sono più limitate ad una campagna di bombardamento ad alta quota, dove gli obiettivi da colpire sono "pre-approvati" e pianificati in anticipo. E' previsto l'impiego di elicotteri e operazioni aeree a bassa quota. Queste ultime sono per supportare lo spiegamento dei commandos USA-NATO e delle forze ribelli a terra.

L'HMS Ocean britannica schierata al largo di Cipro, è attrezzata come portaelicotteri, per gli elicotteri Apache.

Gli Apache partirebbero dalla HMS Ocean, la più grande nave da guerra della Gran Bretagna. A metà maggio, al largo della costa di Cipro si sono svolte esercitazioni navali con la partecipazione di navi da guerra della marina britannica e olandese e con la HMS Ocean che giocava un ruolo centrale come portatore di elicotteri. "L'esercitazione includeva esercitazioni di difesa aerea e tiro in diretta in mare con esercitazioni anfibie nelle acque costiere".

A sua volta, la Francia ha confermato che avrebbe dispiegato i suoi elicotteri da combattimento Tiger.

Possiamo quindi aspettarci nelle settimane a venire un importante cambiamento nella natura delle operazioni militari; l'invio di commandos a sostegno delle operazioni di terra, con elicotteri e aerei schierati a bassa quota giocano un ruolo importante. (Questi voli a bassa quota non si limiterebbero ai droni Predator).

La natura delle operazioni di volo diventeranno, pertanto, più mirate. L'obiettivo dichiarato è di "portare la campagna aerea più vicina al terreno". La Superportaerei USS GNWB e il suo gruppo d'attacco giocheranno un ruolo chiave nell'attuazione della fase successiva della guerra.


Simulare il teatro di guerra del Mediterraneo: Giochi di guerra "Saxon Warrior"

Nella settimana prima del suo "viaggio inaugurale" per il Mediterraneo, la USS HW Bush (CVN77) insieme con il suo Carrier Strike Group 2, ha partecipato a giochi di guerra su vasta scala al largo della costa della Cornovaglia (UK) sotto l'egida della HM Royal Navy (19-26 maggio 2011).

Soprannominati "Exercise Saxon Warrior", i giochi di guerra sono stati effettuati in ambiente marittimo, con la partecipazione di navi da guerra inglesi, americane, francesi, tedesche, svedesi e spagnole. In tutto, i giochi di guerra hanno visto la partecipazione di 26 unità navali distinte. (EGFE Movements » Exercise Saxon Warrior ).

Di grande rilevanza, la "Saxon Warrior" è tra i più grandi giochi di guerra condotti dalla Royal Navy, in stretto collegamento con la Marina degli Stati Uniti, la NATO e il Pentagono:

"[Sono] destinati a perfezionare le competenze del gruppo Carrier Strike Bush ... inmodo che possa funzionare senza problemi con le forze europee nel corso della sua implementazione corrente. [Nel Mediterraneo nei confronti della Libia ((MC)]

"Il Gruppo d'Attacco della George HW Bush è ben preparato per questo spiegamento," ha detto l'ammiraglio Nora Tyson, il comandante del gruppo di lavoro - e la prima donna ammiraglio di una forza di trasporto statunitense.

"Siamo felici di essere protagonisti nella Saxon Warrior. Rappresenta l'occasione ideale per tutte le navi del gruppo per migliorare la nostra capacità di operare in modo trasparente ed efficace con le altre unità della NATO. "( La George Bush salpa per Portsmouth dopo i giochi di guerra con la Royal Navy navynews.co.uk, enfasi aggiunta)

I giochi di guerra hanno una relazione diretta con la "vera guerra". L'esercitazione "Saxon Warrior" ha simulato sia la struttura di comando multi-nazionale, che la configurazione navale della guerra condotta dalla NATO nel Mediterraneo, ossia in termini di forza marina, aerea, schieramento degli elicotteri ed eventuali operazioni di forze di terra. I 5500 marinai a bordo della USS George HW Bush sono destinati ad essere utilizzati in caso di sbarco del commando in territorio nemico:

[La Saxon Warrior è] "un'esercitazione per sviluppare specifiche competenze nello specifico teatro di battaglia, ma anche per rafforzare la cooperazione tra la forza multi-nazionale e le agenzie governative. ... Saxon Warrior presenta una miriade di sfide per la forza multi-nazionale e multi-piattaforma creando un ambiente di guerra vario ed imprevedibile sulla base di scenari fittizi geo-politici e militari. " (Il George HW Bush Strike Group partecipa a Saxon Warrior, http://www.navy.mil/search/display.asp?story_id=60543, enfasi aggiunta)

Dal momento che viene condotta sotto l'egida della Marina britannica, le esercitazioni con aerei militari ed elicotteri a bassa quota sono state effettuate anche nel Sud Ovest dell'Inghilterra e parti del Galles, simulando le condizioni di un paese nemico fittizio.

L'attenzione su elicotteri ed operazioni di volo a bassa quota è pienamente coerente con la fase successiva della guerra in Libia (come discusso in precedenza).

I giochi di guerra "Saxon Warrior" sono visti dai militari USA come portatori di "un'opportunità, come uno spiegamento di forze, per integrare i partners della coalizione nella nostra struttura di comando e questo sta accadendo per la prima volta," (il capitano Patrick. O. Shea , Ufficiale Comandante della USS Gettysburg, Military News: Gettysburg Participates in Saxon Warrior, 24 maggio 2011).

Mentre La Royal Navy ha coordinato i giochi di guerra, la forza navale statunitense, in termini di schieramenti militari e di "strutture di comando simulato" era di gran lunga il giocatore chiave.

L'esercitazione di otto giorni ha coinvolto scenari stand-alone "single-mission" "che comprendono combattimenti di superficie, sottomarini, e aerei." L'ultimo giorno il 26 maggio è culminato "con una guerra simulata" in un ambiente marittimo.

Sebbene sulla base di "finti" scenari geopolitici e militari, i partecipanti alla "Saxon Warrior" erano profondamente consapevoli che si stavano addestrando per la guerra in Libia:

"Ci stiamo esercitando in un'operazione schierata, in modo da migliorare la nostra disponibilità nel caso dovessimo essere coinvolti in operazioni nel mondo reale".(Ibid, enfasi aggiunta)

Saxon Warrior presenta l'opportunità di affrontare una varietà di situazioni geopolitiche che cambiano di giorno in giorno, ...

"Saxon Warrior ci offre un ambiente stimolante in cui utilizzare le nostre abilità di combattimento in guerra", "Dobbiamo pensare in fretta fuori dagli schemi. Più agilisiamo, più saremo pronti per qualsiasi missione che si presenterà durante lo svolgimento. Questa è la bellezza di Saxon Warrior ".

"La bellezza di operare con i partners della coalizione è che facciamo pratica con loro, imparariamo i loro punti di forza e poi questi punti di forza si fondono insieme per rendere la coalizione il più potente possibile." (George H.W. Bush Strike Group participates in Saxon Warrior 11. norfolknavyflagship.com 26 maggio 2011, enfasi aggiunta)

L'Asse Militare Anglo-Americano

Questi giochi di guerra sono parte di un quadro di avanzata cooperazione militare tra Londra e Washington, che prevede l'integrazione di fatto delle strutture di comando britannico e statunitense.

I giochi di guerra che erano stati pianificati per coincidere con la visita di Stato ufficiale del presidente Barack Obama nel Regno Unito, hanno evidenziato una "Relazione Speciale" tra Gran Bretagna e America.

Di grande rilevanza, le riunioni ad alto livello tra il presidente Barack Obama e il primo ministro David Cameron tendevano alla costituzione formale di una Commissione per la Sicurezza Nazionale congiunta, con il compito di coordinare le decisioni militari così come la politica estera.

Guidata dagli Stati Uniti e da consiglieri per la sicurezza nazionale della Gran Bretagna, la Commissione per la Sicurezza Nazionale congiunta intende consolidare ulteriormente l'asse militare anglo-americano.

La prossima fase della guerra in Libia

Ciò che si sta svolgendo è un'escalation delle operazioni militari, che nello stesso tempo sta portando ad una guerra di lunga durata.

Questo cambiamento nella direzione delle operazioni militari orientate verso il sostegno di aerei ed elicotteri ai commandos "boots on the ground" non porterà necessariamente ad un'invasione totale, almeno nel futuro prevedibile.

La nave USS HW Bush e il suo gruppo vettore comune avrà un ruolo chiave nel sostenere le operazioni di terra attraverso elicotteri e missioni aeree a bassa quota.

"La portaerei George HW Bush è affiancata da un gruppo da combattimento composto dai cacciatorpedinieri missile guidati Truxtun e Mitscher, gli incrociatori lancia missili Gettysburg e Anzio e otto squadroni di aerei. Sta andando a rafforzare la Sesta Flotta, il cui comando è a Napoli, a fianco di altre unità, compresi i sottomarini nucleari Provvidenza, Florida e Scranton.

Alla Sesta Flotta è stato aggiunto anche uno dei gruppi anfibi d'attacco più potenti, guidato dalla USS Bataan, che da sola può sbarcare più di 2.000 marines, dotata di elicotteri e aerei a decollo verticale, artiglieria e carri armati.

E' affiancata da altre due navi d'assalto anfibio, la Mesa Verde e la Whidbey Island, che dal 13 al 18 maggio hanno visitato Taranto in Italia. La Whidbey Island ha quattro enormi mezzi da sbarco a cuscino d'aria che, entro un raggio di 300 miglia, sono in grado di recapitare 200 uomini in una sola volta molto velocemente sulla costa di un paese senza che la nave sia visibile da terra. (Manlio Dinucci "Boots on the Ground": Sarkozy e Cameron si preparano ad atterrare in Libia, Global Research, 31 Mag 2011)

Le forze speciali sono sul campo in Libia fin dall'inizio della campagna aerea.

Saranno dispiegate anche le forze mercenarie a contratto presso la NATO. (Cfr. Manlio Dinucci,un esercito segreto di Mercenari per il Medio Oriente e Nord Africa, Global Research, 24 maggio 2011).

"Shock and Awe"

Come parte di una strategia "Shock and Awe", bombe bunker buster BLU 109 da 2000 libbre saranno lanciate sulla Libia con i caccia Tornado della RAF (Royal Air Force) della Gran Bretagna. Shock and Awe è parte della "dottrina del dominio rapido" o "forza decisiva", utilizzata per intimidire l'avversario fino alla sottomissione, come pure per terrorizzare la popolazione civile. (Vedi video sotto)

Armi nucleari contro la Libia

Vale la pena notare che l'uso di armi nucleari tattiche Shock and Awe contro la Libia è stato previsto come parte di questa "guerra umanitaria". Nel 1996, la Libia è stato il "paese scelto" in Medio Oriente e Nord Africa per essere preso di mira con un'arma nucleare tattica B61-11. Quest'ultima è una bomba distruggi-bunker dotata di una testata nucleare.

Il piano per bombardare la Libia non è mai stato annullato. Di massima importanza, poco dopo l'inizio della campagna di bombardamenti il ​​19 marzo, il Pentagono ha ordinato la verifica della funzionalità delle bombe nucleari B61-11.

Questi test sono stati condotti utilizzando gli stessi B2 Stealth Bombers, fuori dalla stessa base militare americana in Missouri, che sono stati utilizzati per coordinare i bombardamenti B2 Stealth sulla Libia all'inizio della guerra il 19 marzo. (Si veda Michel Chossudovsky, Bivio pericoloso: l'America sta considerando l'uso delle armi nucleari contro la Libia? Global Research, 7 aprile 2011)

Questi diversi sviluppi puntano ad un pericoloso processo di escalation militare, che potrebbe potenzialmente estendersi oltre i confini della Libia. Le più vaste implicazioni economiche e geo-strategiche di questa guerra sono di vasta portata.

NOTA

La George HW Bush Strike Group è formata da:
Carrier Strike Group (CSG) 2,
USS George HW Bush (CVN 77),
Carrier Air Wing (CVW) 8,
Destroyer Squadron (DESRON) 22 dipendenti,
incrociatore lanciamissili guidati USS Gettysburg (CG 64) e
USS Anzio (CG 68),
cacciatorpediniere lanciamissili guidati USS Truxtun (DDG 103)
e Mitscher USS (DDG 57).



Libia: una guerra fatta soprattutto di disinformazione
di Enrico Oliari - www.italiasociale.net - 23 Maggio 2011

Italiasociale intervista in esclusiva Fausto Biloslavo, uno dei giornalisti italiani inviati di guerra con maggior esperienza. Rientrato da poco dalla Libia, ha raccontato in un servizio trasmesso da Matrix di informazione volutamente distorta. E non solo ad opera dei media occidentali.

- Dott. Biloslavo, recentemente lei ha avuto modo di dire che spesso l’informazione viene manipolata e che, in tema di Libia, la stessa Al Jazeera, ritenuta in passato abbastanza neutrale, qualche bugia l’ha detta…

E’ l’altra faccia della medaglia della tv satellitare e dei grandi network, un mondo nel quale ci metto anche la Fox News che manda in Iraq, come ho visto con i miei occhi, il colonnello Oliver North quale inviato con la divisa da marines: come soldato ci poteva anche stare, ma proprio per questo non riciclato come commentatore dell’invasione dell’Iraq.

Una volta si diceva che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi e nello specifico Al Jazeera si è dimostrato non meno di altri uno strumento che partecipa alla guerra dell’informazione e della disinformazione.

Ogni media ha un propria linea editoriale con i propri reportages sul terreno fatti un po’ come si vuole che vengano fatti. Si tratta di una prassi che sta diventando davvero pericolosa, nel senso che Al Jazeera, nel caso della Libia, ha attirato l’intervento militare occidentale, cosa che invece ha visto come il fumo negli occhi o come il diavolo in Iraq o in Afghanistan.

E questo non lo dico solo io, ma mi è stato riferito anche da alcuni colleghi della stessa tv del Qatar fra i quali il capo redattore a Beirut. Vi sono colleghi di quella tv satellitare che si sono dimessi perchè si è oltrepassati la linea dell’accettabile.

- Noi abbiamo visto il suo servizio sulla Libia trasmesso da Matrix, dove ci ha parlato di una guerra fatta di bugie con fosse comuni che in realtà non ci sono e colonne di ribelli che non esistono…

Sì, io sono rimasto molto colpito perché arrivando a Tripoli con l’ultimo aereo mi aspettavo che Gheddafi fosse stato sconfitto in due settimane, mentre così non era. Mi aspettavo di trovare crateri di bombe di aereo nel centro di Tripoli che in realtà non ho trovato, come pure tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, mentre le cose stavano ben diversamente.

Dalle immagini sui telefonini, ed anche questo un elemento interessante, ho visto maltrattamenti dei prigionieri da entrambe le parti ed ho quindi capito che la realtà, anche quella che noi giornalisti raccontavamo, era completamente distorta. Anche le informazioni della stessa Al Jazeera, da cui riprendevamo le notizie, erano completamente sbagliate, a cominciare dalle fosse comuni che altro non erano che vecchi cimiteri.

Questo è molto pericoloso, perché se non si racconta la verità, la gente non sa neppure perché abbiamo mandato i nostri aerei a bombardare la Libia, giusto o sbagliato che sia.

Poi devo dire che è tornata di nuovo questa retorica della guerra umanitaria, del ‘volemose bbene’, del ‘portiamo le caramelle ai bambini’ anche con le bombe nonostante anche dall’altra parte abbiano ammazzato prigionieri, soldati ed agenti che si erano arresi. Ci sono le squadre della morte anche a Bengasi, hanno strappato il cuore ad uno dei miliziani di Gheddafi in diretta tv, lo hanno messo come trofeo su un carro armato.

Non è, ovviamente, che bisogna fare di tutta l’erba un fascio e neppure che dalle parti di Gheddafi siano dei santarellini, tanto che a Tripoli ho visto io stesso sparare ad altezza d’uomo sui manifestanti ed ammazzarli, ma almeno dobbiamo smetterla con questa bubbola della guerra umanitaria. Dovremmo dirci onestamente che volevano un cambiamento in Libia e che Gheddafi si era messo di traverso. Forse, prima, potevamo trovare una’altra soluzione.

- E dei mercenari che arrivano dal Ciad, dall’Angola e da tutta l’Africa?

Sicuramente ci sono dei mercenari, ma io penso che i professionisti, i veri mastini della guerra, siano pochi. Penso invece, come ho potuto appurare di persona, che non poche persone che si trovavano da quelle parti in quanto immigrati per motivi di lavoro, spesso irregolari e senza ambasciate alle spalle, sono state integrate nelle file dei combattenti in modo coatto, probabilmente senza ricevere neppure una paga.

Non li definirei quindi mercenari, li definirei disgraziati che con la baionetta alla schiena vanno ad ammazzare per non farsi ammazzare. In Tripolitania sono stati fermate alcune colonne di questi immigrati irregolari che stavano tentando di lasciare la Libia ed in pratica i ‘ribelli’ hanno detto che o li avrebbero considerati mercenari e quindi passati per le armi, o si sarebbero dovuti arruolare con loro.

Quando sono stato nelle roccaforti dei soldati anti-Gheddafi come ad Al Zawia, che ora è stata spazzata via, ho visto un militare nero di pelle perché proveniente dal Fezzan, che è nella parte meridionale della Libia, il quale era stato fatto passare davanti alle tv per mercenario straniero, quando in realtà era un poliziotto libico. In Libia oggi, è proprio il caso di dirlo, il migliore ha la rogna.

- Il ruolo dell’America è un po’ strano: qualche missile all’inizio e poi sono spariti…

Secondo me non è assolutamente strano poiché gli USA vogliono lavarsene le mani, ne hanno le scatole piene. Non vogliono più Gheddafi, ma vogliono, come ha detto nelle ultime ore Obama, appoggiare la protesta ed il cambiamento, cioè ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.

Anche perché in Iraq hanno avuto 4000 morti, in Afghanistan sono ancora là e non vedono l’ora di venirne fuori e figurarsi se sarebbero andati ad impantanarsi anche in Libia. Se ne lavano quindi le mani, lasciano la patata bollente a noi europei che non sappiamo come gestirla.

- Poco prima di partire lei ha intervistato Gheddafi: italiani traditori, immagino…

Quando parlava degli inglesi, beh… Gheddafi faceva gesti, li odia. Quando parlava di Sarkozy, puntava il dito alla testa come dire che è picchiatello e, testuali parole, lo ha definito un malato mentale.

Quando ha parlato degli italiani e di Berlusconi ha detto di essere rimasto scioccato per gli amici e l’amico che li hanno traditi. “Proprio voi, avevamo chiuso tutti i contenziosi, la tradizionale vicinanza fra Italia e Libia…”: c’era insomma stupore per questa sorta di pugnalata alla schiena.

Un sentimento, penso anche oggi, non di odio, di avversione come nei confronti di inglesi e di francesi, semplicemente di stupore.


Lo Yemen va a fuoco
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 6 Giugno 2011

Alla fine sono arrivati i colpi di mortaio. Hanno centrato la moschea del palazzo presidenziale di Sana'a durante la preghiera del venerdì. All'interno c'era Ali Abdullah Saleh, leader dello Yemen dal 1978, che è riuscito a scappare nonostante le ferite.

La tv Al Arabiya ha dato la notizia della sua morte, ma presto è stata smentita. Il Presidente in persona ha diffuso un messaggio audio: "Sto bene. Quella banda di fuorilegge ha ammazzato sette persone".

Insieme al dittatore sono rimasti feriti anche il presidente del Parlamento, quello della Camera, il primo ministro e il suo vice. Sabato le vittime dell'attacco sono salite a otto: il premier Ali Mohammad Moujawar è morto in un ospedale saudita.

Anche Saleh è stato affidato alle cure dei medici di Riyadh. L’hanno operato per rimuovergli dal torace una scheggia metallica conficcata in un polmone, appena sotto al cuore. Meno gravi le ustioni sullo stomaco e sul volto.

Secondo Al Jazeera, l'interim della presidenza è stato assunto dal vice di Saleh, Abd-Rabbu Mansour Hadi, che per il momento comanda anche le forze armate. Fonti ufficiali yemenite hanno fatto sapere che il Presidente tornerà in patria entro pochi giorni. Ma il fronte dell'opposizione è determinato ad evitare che questo avvenga.

Nel frattempo i combattimenti si sono spostati dal nord al sud della Capitale. Continui bombardamenti hanno colpito la casa dello sceicco Sadiq al-Ahmar, capo della confederazione tribale degli Hashid, che da un paio di settimane ha sposato la causa dei dissidenti. Sono stati loro ad attaccare il palazzo presidenziale.

In risposta, sabato le bombe della Guardia repubblicana, il corpo d'elite dell'esercito yemenita, sono cadute anche sulla casa di un altro leader tribale, lo sceicco Hamid, dirigente del partito islamista Al Islah e fratello di Sadiq. Distrutta anche l'abitazione di un terzo fratello, Mizhij, e quella del più potente fra i generali ribelli, Ali Mohsen.

Nelle stesse ore, secondo fonti militari, sarebbe passato al fronte dei ribelli anche un altro pezzo grosso dell'esercito: il generale Jebrane Yahia al Hashedi. Si tratta del comandante della 33esima divisione blindata dell'esercito, che controlla la vasta regione sudoccidentale del Paese, un'area di collegamento strategico tra l'Oceano Indiano e il Mediterraneo, dove passano le petroliere.

Hashedi ha annunciato la sua defezione dalla città meridionale di Taiz. Qui a fine maggio un sit in di manifestanti era stato disperso a suon di pallottole. Sono morte 50 persone. Ancora oggi le forze di sicurezza sparano con regolarità contro i gruppi che scendono in piazza a protestare. Venerdì si sono registrati altri sei morti. A quel punto i soldati della 33esima divisione si sono rifiutati di continuare a premere il grilletto.

Mentre lo Yemen va a fuoco, il resto del mondo sta a guardare, nemmeno troppo interessato. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, ha assicurato che la Ue si sta organizzando per evacuare i suoi cittadini.

La Germania ha già chiuso la sua ambasciata. Gli Usa si sono sprecati a chiedere il cessate il fuoco e l'avvio pacifico del trasferimento dei poteri in base al piano stabilito dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. Le monarchie arabe, a loro volta, hanno detto di voler riprendere l'opera di mediazione interrotta lo scorso 23 maggio.

Dall'inizio della rivolta yemenita, nel gennaio scorso, sono state uccise circa 400 persone. Di queste, oltre 150 sono morte a Sana'a negli ultimi 10 giorni. Cosa succederà adesso è difficile da prevedere.

L'unica certezza è che gli scontri armati continueranno a lungo. Sul piano diplomatico e politico, data la sonnolenza degli Stati Uniti e l'assoluto menefreghismo dell'Onu, la comunità internazionale spera nella mediazione dell'Arabia Saudita.

Ryiadh teme il rafforzarsi di Al Qaeda nella Penisola Arabica, che in passato ha tentato di assassinare diversi membri della famiglia reale saudita. Ma soprattutto la ribellione yemenita si concentra nei territori settentrionali del Paese, pericolosamente vicini alla frontiera con l'Arabia. E il contagio della rivolta sciita è più temibile della peste nera.

Per riprendere la strada della trattativa, nei prossimi giorni alcuni rappresentante degli Ahmar potrebbero atterrare a Riyadh. Con ogni probabilità le parti cercheranno di sedurre il grande arbitro saudita affermando la propria autorità, la propria capacita di controllo del territorio. Saleh continuerà a ripetere che, nonostante tutto, la maggior parte dell'esercito è ancora fedele a lui.

Ma non sarà sufficiente. Nessuno ha più rispetto del vecchio e malridotto Presidente. In un cablo pubblicato da WikiLeaks, il ministro degli Interni saudita ha scritto ad alcuni diplomatici americani che ormai "al leader yemenita la situazione è completamente sfuggita di mano".

D'altra parte gli Ahmar sono dei semi-sconosciuti. Lo sceicco Sadiq è un politicante d'esperienza, ma non ha mai ricoperto alcun incarico pubblico. Sono i soldi e la leadership tribale a dargli credibilità, al punto che perfino molti degli studenti da cui è partita la rivolta vedono in lui un'alternativa accettabile a Saleh.

Se qualcosa è cambiato negli ultimi giorni, oltre all'escalation di violenza, è proprio il ruolo dell'Arabia Saudita. Accogliendo il dittatore yemenita nei propri confini, il più importante fra i Paesi arabi si é definitivamente assunto delle precise responsabilità. E a Washington hanno tirato un bel sospiro di sollievo.


Palestina, le grandi manovre

di Christian Elia - Peacereporter - 27 Maggio 2011

Obama, Abbas, Hamas e Netanyahu: tutti al gran ballo della diplomazia

L'unica notizia è che le agenzie di stampa internazionali definiscono Mahmud Abbas 'omologo' di Shimon Peres. Quest'ultimo è infatti il presidente eletto d'Israele, mentre Abbas mantiene una carica impedendo le elezioni da anni.

Nell'accordo di riconciliazione firmato con Hamas nelle scorse settimane, tra i vari punti, si prevedono elezioni entro la fine del 2011, ma senza fissarne la data.

Per il resto nessuna nuova. Che Peres e Abbas abbiano trattato in segreto nei mesi scorsi è un'ovvietà. Si sarebbero visti, di nascosto, a Londra, alcune settimane fa. Lo racconta il quotidiano israeliano Ma'ariv, secondo cui Peres è rimasto sorpreso e ferito dalla notizia della riconciliazione con Hamas.

Nessuno ha commentato, come si fa quando le cose sono vere. Abbas e tutta la struttura dirigente del suo partito, Fatah, ha trattato per anni con Israele. Non sempre per il bene dei palestinesi, come raccontano i Palestinian Papers resi pubblici da al-Jazeera nei mesi scorsi.

Il governo israeliano, adesso, è nervoso. I confini si fanno agitati. L'Egitto, dove il processo del post-Mubarak è ancora in alto mare, non dà garanzie. Ieri hanno deciso, al Cairo, di riaprire senza condizioni il valico di Rafah, l'unica porta di Gaza verso il mondo. Una mossa, magari, politica dei militari che si trovano ad affrontare la rabbia popolare, a causa dalla lentezza del cambiamento.

Non vuol dire che la linea delle relazioni internazionali tra il Cairo e Tel Aviv sia mutata per sempre, ma l'assenza di certezze nello scenario egiziano preoccupa non poco il governo d'Israele.

Anche in Giordania la situazione non è serena. La monarchia hashemita, per ora, pare solida, ma molte cose si muovono all'interno della società giordana. Non è detto affatto, inoltre, che la situazione in Siria non degeneri al punto di influenzare anche la Giordania. Hezbollah, al confine settentrionale d'Israele, è sempre saldamente al suo posto. E l'appoggio Usa, di questi tempi, non è granché.

Almeno sembra. Il presidente Usa Obama, durante la visita ufficiale del premier israeliano Netanyahu negli Stati Uniti, è sembrato molto lontano dalle posizioni dei 'falchi' d'Israele. ''I confini del '67'', un mantra.

Salvo poi, dicono a Ma'ariv dopo un colloquio riservato tra Obama e Peres, specificare che la Casa Bianca non si aspetta che la nascita di uno stato palestinese passi da un voto dell'Assemblea Generale dell'Onu a settembre.

Quindi Obama, in pochi giorni, fa passare per una grande conquista il mero riconoscimento (quello dei confini del 1967) di un diritto dei palestinesi e nega il diritto sovrano dell'Assemblea Onu di pronunciarsi sulla nascita di uno Stato che il diritto internazionale reclama dal 1948.

Gli Usa non abbandoneranno mai Israele. Questo è un fatto. Abbas, pressato dall'opinione pubblica interna palestinese, si è riconciliato con Hamas. Ma forse l'accordo (necessario anche ad Hamas, che sta per perdere Damasco come base 'politica') è meno inviso a Israele e Usa di quello che a livello di dichiarazioni ufficiali si fa pensare all'opinione pubblica.

Non è un mistero che, da tempo, si tratta per quali territori scambiare con i palestinesi per lasciare a Israele i principali insediamenti illegali attorno a Gerusalemme.

Il rischio, in questa fase, è quello che per impedire un pronunciamento dell'Assemblea Generale Onu che comunque imbarazzerebbe Washington, venga affrettato lo scambio di territori, facendo leva sui problemi di Hamas e Abbas per fargliela digerire.

Staremo a vedere, ma mentre ribollono le cancellerie occidentali, restano le parole di un gruppo di intellettuali israelani. ''La proclamazione dello stato di Palestina rappresenta una sfida ed una opportunità per tutte le parti in causa. Per questa ragione è auspicabile che esso sia riconosciuto da tutti i Paesi al mondo''.

Lo affermano, in un appello pubblico, alcune decine di intellettuali israeliani, fra cui l'ex presidente della Knesset (parlamento israeliano) Avraham Burg; i filosofi Yirmiahu Yovel e Avishay Margalit, e gli scrittori Nir Bar'am e Ronit Matalon.

Elaborato dai membri del gruppo Solidariut (solidarietà, in ebraico) - che lotta contro la costituzione di un nucleo di insediamento ebraico nel rione palestinese di Sheikh Jarah, a Gerusalemme est - il testo accusa il governo israeliano di «tenere in ostaggio» il processo di pace mediante la sua politica di colonizzazione. Barlumi, flebili, di futuro. Quando il conflitto diventerà vicinanza.


Se nel Golan ci fossero stati 23 morti israeliani, caduti sotto il piombo siriano…
di Francesco Lamendola - Arianna Editrice - 6 Giugno 2011

Domenica 5 giugno 2011 era il 44° anniversario della Nakasa, la bruciante sconfitta subita dagli eserciti arabi nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, con la quale non solo svanì il sogno dei profughi palestinesi di poter fare ritorno nei loro paesi d’origine, dopo l’espulsione del 1948, ma altri territori vennero occupati dall’esercito israeliano.

Si trattava delle alture del Golan, sottratte alla Siria; della Transgiordania, sottratta alla Giordania; della Striscia di Gaza e della Penisola del Sinai, sottratta all’Egitto: così, altre centinaia di migliaia di profughi presero la via dell’esilio, mentre gli Arabi che rimasero dovettero adattarsi a vivere sotto un regime di occupazione.

Il Sinai è poi stato restituito all’Egitto, dopo una nuova guerra (quella del Kippur, nel 1973) e il trattato di pace con l’Egitto; Gaza e la Transgiordania avrebbero dovuto costituire il nuovo, fantomatico Stato palestinese; mentre le alture del Golan non sono mai state restituite alla sovranità siriana e, anzi, il governo israeliano ha fatto capire che non lo saranno nemmeno in futuro, data la loro decisiva importanza strategica.

Fu in quella occasione che l’esercito con la stella di Davide occupò il settore giordano di Gerusalemme, aprendo la più grave di tutte le ferite nella coscienza del popolo palestinese e, più in generale, del mondo arabo: perché, oltre al fatto che la città vecchia era abitata da Palestinesi da tempo immemorabile, Gerusalemme è, oltre che il centro morale dell’Ebraismo, anche la terza città santa dell’Islam, dopo La Mecca e Medina, e vanta la presenza di due degli edifici più sacri di quest’ultima religione, la Moschea di Omar e la Moschea di Al Aqsa.

Il 30 giugno 1980, poi, la Knesset, il Parlamento israeliano, ha proclamato unilateralmente che Gerusalemme è la capitale «una e indivisibile» dello Stato d’Israele, benché l’O.N.U. e la comunità internazionale non abbiano mai riconosciuto tale decreto: su 83 Stati che hanno una rappresentanza diplomatica in Israele, 64 la mantengono a Tel Aviv e nessuno a Gerusalemme; solo due, Bolivia e Paraguay, ce l’hanno nel distretto di Gerusalemme, ma fuori dalla città.

Da allora, le autorità israeliane hanno fatto di tutto per snazionalizzare Gerusalemme Est e per indurre la popolazione araba ad andarsene; e ciò a dispetto della risoluzione numero 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la quale si intimava allo Stato di Israele di ritirarsi dai territori occupati con la Guerra dei Sei Giorni nel giugno del 1967, e di restituirli alla legittima sovranità degli Stati arabi.

La Corte Internazionale di Giustizia si è espressa in maniera esplicita, affermando che la proclamazione israeliana di Gerusalemme come propria capitale è in palese violazione delle norme che regolano il diritto internazionale.

In occasione della triste ricorrenza della Nakasa, migliaia di manifestanti palestinesi e siriani hanno preso d’assalto le recinzioni di confine sulle Alture del Golan e hanno tentato di penetrarvi, per affermare simbolicamente il loro diritto a fare ritorno alle proprie case, dopo quasi mezzo secolo di esilio; ma la risposta israeliana è stata immediata.

Sotto il piombo delle armi automatiche sono caduti 23 manifestanti arabi (secondo la televisione di Damasco), fra i quali una donna e un bambino, mentre più di 200 persone sono rimaste ferite. Altre fonti parlano di cifre diverse, ma sempre su quell’ordine di grandezza: a partire da un “minimo” di quattordici morti, fino a un massimo di 320 feriti.

Anche se l’esercito di Damasco, tutto impegnato a sparare sui propri concittadini per difendere un regime sempre più screditato e traballante, ha un evidente interesse ad amplificare la strage, per ovvie ragioni di strategia mediatica, resta il fatto che essa c’è stata, ma non sembra aver scalfito più di tanto la coscienza dell’opinione pubblica internazionale.

Era già successo: per esempio, durane la cosiddetta Operazione Piombo Fuso, lanciata dalle Forze armate israeliane contro le posizioni di Hamas nella Striscia di Gaza, fra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 e che vide, fra l’altro, bombardamenti dall’aria e dal mare e l’impiego di proiettili al fosforo bianco, provocando un bilancio finale di 1.400 vittime palestinesi, delle quali 800 erano civili e 300 erano donne e bambini.

Questi 23 morti della giornata di ieri, sulle Alture del Golan, sono dunque gli ultimi di una lunga serie che non si è mai arrestata e che continua tuttora, fra l’indifferenza e le tiepide proteste della comunità internazionale che, al massimo, si dice “preoccupata” di quanto sta accadendo, senza distinguere tra uccisori e vittime e senza sbilanciarsi in affermazioni di principio circa la questione centrale della sovranità (con la sola eccezione dello status di Gerusalemme, come abbiamo già detto).

Ci domandiamo che cosa sarebbe accaduto se, nel giro di una sola giornata, fossero stati ventitre soldati israeliani a cadere sto il piombo arabo, o meglio, se fossero stati ventitre civili israeliani, compresi donne e bambini, a finire vittime di un attentato terroristico.

Vi sono pochi dubbi sul fatto che la reazione internazionale sarebbe stata fortissima: le maggiori potenze si sarebbero affrettate ad esprimere la loro piena solidarietà ad Israele; il Papa avrebbe espresso orrore per la violenza e cordoglio per le vittime; e la stampa occidentale, a cominciare da quella italiana, invece di dedicare al fatto un articolo in terza pagina, sarebbe uscita con titoli cubitali in prima pagina, corredati da foto scioccanti dei morti e dei feriti.

Evidentemente, i morti non sono tutti uguali: anche quando sono civili; anche quando si tratta di donne e bambini.
Alcuni sono più uguali degli altri; molto più uguali.

Alcuni vengono seppelliti in silenzio, pianti solo dai loro parenti; per altri, il mondo intero leva altissimi lamenti e invoca giustizia contro gli assassini.
Siamo arrivati al punto che persino fare ragionamenti come questo è diventato politicamente scorretto: si viene subito sospettati di antisemitismo.

Dire che ventitre civili palestinesi e siriani sono stati uccisi dall’esercito israeliano e che il mondo intero non ha fatto una piega non è un dovere di cronaca, né una testimonianza resa alla verità: è un atto di antisemitismo mascherato e, perciò, tanto più odioso e intollerabile.

Fino a questo punto è arrivato il ricatto morale della cultura politica dominante: se vengono uccisi dei civili israeliani è una barbarie; se vengono uccisi dei civili arabi, sembra che si stia parlando di mosche o di zanzare.

Due pesi e due misure davanti alla morte; due pesi e due misure davanti alla storia.
Bisogna che qualcuno lo dica, che qualcuno alzi la voce.

Vorremmo invitare tutti a rileggersi quel passo de «La casa in collina» di Cesare Pavese, in cui vengono dette parole memorabili sul senso dei morti ammazzati in guerra, in ogni guerra, sia essa vicina o lontana nel tempo e nello spazio:

«Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche morto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.»

Anche questi ventitre morti palestinesi e siriani, senza un volto, senza un nome, ci interrogano e chiedono che il loro sangue venga placato.

Anch’essi ci ricordano che se siamo vivi, se continuiamo la nostra vita di sempre nelle nostre comode case, affaccendati nelle nostre cose d’ogni giorno, lo dobbiamo un po’ anche a loro: a loro, che sono morti al posto nostro.

Dovremmo sentirci umiliati avanti a questi morti, anche se non possiamo vederli; né dovremmo chiederci per chi suona la campana.
Essa suona per noi.

E suona tanto più forte, con rintocchi tanto più sinistri, quanto meno la nostra coscienza si mostra capace d’indignazione; quanto più essa si adagia nel conformismo dominante, che non è solamente politico, ma anche etico.


Ad Assad da un comunista siriano

di Munif Malham - Altrenotizie - 4 Giugno 2011

DAMASCO. Separare ciò che sta accadendo oggi in Siria dalle rivoluzioni che hanno pervaso la regione araba, in particolare dalla rivoluzione tunisina e da quella egiziana, è difficile se non impossibile. Soprattutto se abbiamo imparato le ragioni e le motivazioni che stavano dietro a quelle rivoluzioni: (repressione, assenza di libertà e corruzione.

Sotto lo stato d’emergenza e la legge marziale, in cui la Siria soccombe da circa mezzo secolo, sono stati arrestati centinaia di migliaia di oppositori del regime di ogni appartenenza politica (nazionalisti, di sinistra, islamisti), alcuni dei quali trascorsero in prigione più di dieci anni senza processo. A migliaia sono stati uccisi o sono scomparsi, decine di migliaia gli esiliati dalla loro patria.

Soprattutto tra la fine degli anni settanta e la fine degli anni ottanta del secolo scorso, periodo che ha visto la lotta armata tra il regime e il movimento islamista armato e che è stato sfruttato per epurare tutte le forze politiche di opposizione.

La particolarità del movimento di protesta in Siria è che è un movimento di giovani nel fiore degli anni, la maggior parte appartenente alla classe media e ai gruppi emarginati dalla nascita del regime nel 1970 che precedentemente non conosceva alcuna appartenenza a movimenti politici.

Non c’è quindi da meravigliarsi se la coscienza politica di questi ragazzi è limitata. Non si tratta di qualcosa di strano per coloro di questa età, poiché durante gli anni ottanta del secolo scorso in Siria sono stati distrutti tutti i movimenti politici di opposizione.

Per questo la forza politica di opposizione di tutti gli schieramenti (Fratelli Musulmani compresi) è limitata nella società e di conseguenza anche la loro partecipazione all’attuale movimento che si sta alzando in Siria non può che essere limitata.

Lo slogan più famoso sollevato dai manifestanti durante le proteste è “Dio, Siria, Libertà, e basta” ed è un riassunto di ciò che vogliono: rifiuto di un regime a partito unico, rifiuto di continuare un presidenzialismo della repubblica in carica in eterno e allo stesso tempo si contrappone allo slogan innalzato dai sostenitori del partito Baath che dice ‘Dio, Siria, Bashar, e basta’.

Manifestare all’uscita dalle moschee non sarebbe stata l’unica opzione dei manifestanti se non fosse stato reso impossibile il raduno in piazza o per strada tramite la proliferazione di servizi di sicurezza capaci di dissolvere qualsiasi protesta o manifestazione prima ancora che abbiano inizio. Così a volte ci sono dei laici o addirittura dei non musulmani che frequentano le preghiere del venerdì per poter uscire a manifestare.

Il regime tenta di chiamare il movimento di protesta con il nome di salafismo islamico e di individuare la presenza dei jihadisti armati al centro del movimento. Ma una parte considerevole della popolazione siriana non ci crede.

Questo non significa che la corrente salafita islamica sia del tutto assente dal movimento di protesta ma che la sua presenza nel movimento che si sta sollevando in Siria, al pari di altre correnti politiche, sia per il momento limitato.

Non c’è dubbio che la lotta armata condotta dagli islamisti jihadisti contro il regime alla fine degli anni settanta e nei primi anni ottanta in nome di slogan confessionali e contro la miscredenza ha lasciato un’influenza negativa e un atteggiamento prudente per non poche minoranze religiose e confessionali nei confronti del movimento islamista, specialmente tra coloro che hanno vissuto quel periodo di conflitto.

Il regime ha approfittato di queste preoccupazioni tra le minoranze religiose e confessionali e ha giocato con i suoi mass media utilizzando le voci di agitazione e confessionalismo provenienti dall’estero, sia siriane che arabe (come il canale televisivo Barada parlante a nome di alcuni oppositori siriani o il canale televisivo Safa finanziato da gruppi arabi del Golfo).

In breve tempo i manifestanti si sono resi conto di questo pericolo per l’unità nazionale e gli slogan che invocano l’unità nazionale si sono moltiplicati, come il grido ‘no al salafismo, no al terrorismo, noi vogliamo la libertà’. O come è avvenuto venerdì 22 aprile, Venerdì Santo, festa per le comunità cristiane.

Ma la partecipazione alle proteste da parte delle minoranze religiose e confessionali è ancora limitata ed è difficile rompere prudenza e paura nelle minoranze se le persone non fanno conoscenza nelle piazze. Tutto ciò appare oggi prematuro, visto che le forze di sicurezza chiudono la bocca dei manifestanti con i proiettili.

Il movimento di protesta si caratterizza per ora dall’assenza di leadership e dall’assenza di particolarismi politici. Non tanto la mancanza di leadership a livello nazionale quanto la mancanza di una leadership unita a livello delle singole città ora come ora rende difficile il contenimento e la loro repressione, ma in futuro l’assenza di una leadership unita potrebbe costituire un punto debole.

Il regime ha cercato di contenere la prima ondata del movimento di protesta, durante il quale sono cadute sotto i proiettili delle forze di sicurezza più di cento persone, con promesse riformiste, tra tutte la revoca dello stato di emergenza in vigore da circa mezzo secolo. Ma le promesse di riforma non hanno trovato ascolto tra i manifestanti… Perché?

Il giovane presidente Bashar al-Assad salì al potere nel 2000, dopo la morte del padre, Hafez al-Assad, che per 30 anni governò la Siria con il pugno di ferro. L’eredità che apparì maggiormente fu quella di un paese divorato dalla corruzione in tutte le sue direzioni e articolazioni (tra cui corti di giustizia, apparati di sicurezza e di formazioni militari) talmente ramificata, estesa e profonda al punto da ingoiare il partito Ba’th al governo e le sue istituzioni così come aveva ingoiato lo Stato e le sue istituzioni.

Dopo aver assunto le sue funzioni costituzionali il giovane presidente forse avrebbe potuto leggere ciò che fu scritto nelle note che non sfuggivano a un giovane osservatore come lui: questo regime, fondato nel 1970, ha terminato il periodo della sua autorità.

Fin dall’inizio tentò di introdurre alcune riforme al regime assoluto promesse nel discorso d’insediamento quando assunse le sue funzioni costituzionali. Le forze di opposizione al regime e ampi segmenti della popolazione accolsero le promesse del presidente e scommisero su di lui.

Il giovane presidente fallì nella realizzazione di qualsiasi progresso riformista durante gli undici anni del suo governo a causa della forza dispotica del potere e del patrimonio. E così oggi le promesse di riforma non trovano ascolto in ampi settori della popolazione siriana, specialmente dopo il fiume di sangue che ha macchiato l’intero paese negli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza e dopo il comportamento avuto in alcune città, dalle violazioni alla perdita di dignità.

Il regime sostiene che la Siria è sotto la minaccia delle potenze occidentali e di un complotto che coinvolge settori arabi in collaborazione con le potenze occidentali per punire il regime a causa delle sue posizioni nazionaliste.

Non escludiamo l’esistenza di queste forze, ma per quanto riguarda il movimento dei manifestanti che cercano il cambiamento, se questo cambiamento si attuasse pacificamente e con l’accettazione del regime come avvenuto in Tunisia ed Egitto, la Siria avrebbe maggior forza per affrontare i complotti stranieri senza far entrare la Siria in una spirale violenza.

Specialmente se sappiamo che la posizione del popolo siriano, passata, presente e futura, non nasconde la sua ostilità verso la politica degli Stati Uniti e di Israele. Inoltre le voci d’opposizione che risiedono a Washington e in alcune capitali occidentali e che sono alimentate dai circoli occidentali non hanno alcuna rappresentanza sulla scena siriana.

La storia nazionale siriana dimostra che il popolo siriano è il reale custode dalle deviazioni di qualsiasi regime dall’indipendenza a oggi.

Questo popolo ha abbracciato la resistenza palestinese fin dal suo inizio negli anni sessanta, ha abbracciato un milione e mezzo di iracheni in fuga dall’invasione americana dell’Iraq del 2003 e ha accolto gli emigrati libanesi in fuga dall’aggressione israeliana contro il Libano del 2006.

L’impiego dei militari siriani da parte del regime nella città di Daraa per affrontare i manifestanti è stato un atto folle, così come minacciare l’uso della forza militare in altre città non promette nulla di buono e getta il paese in una spirale di violenza e caos che indebolisce la Siria di fronte alle minacce esterne e ne minaccia l’unità nazionale.

Alcuni media raccontano di divisioni e insubordinazioni all’interno dell’esercito in maniera amplificata poichè per il momento si tratta solo di insubordinazioni individuali. Non è però da escludere che il fenomeno aumenti se l’esercito continuerà ad essere impiegato per questo scopo.

La via d’uscita alla crisi politica che sta devastando oggi la Siria è oramai nota a tutti ed è raffigurata nel cammino delle rivoluzioni arabe, sia di quelle avvenute in Tunisia e Egitto, sia dalla strada intrapresa in Yemen. O cambiare il regime stesso (responsabilità del presidente della repubblica considerato il garante dell’integrità del paese e del popolo) o andarsene.