Ieri il Parlamento greco ha approvato il piano di austerity - tra deputati bloccati all’interno del parlamento, violentissimi scontri al suo esterno e uno sciopero generale che ha paralizzato la Grecia per 48 ore -, cercando così di salvarsi dalla bancarotta  e far sbloccare il prestito di Ue e Fondo Monetario Internazionale.Un voto obbligato da una pistola puntata alla tempia ma che porterà ugualmente alla bancarotta economica e sociale del Paese.
Grecia, il piano di salvataggio del Paese. Tra privatizzazioni a rischio e tagli al lavoro
di Federico Simonelli - Il Fatto Quotidiano - 29 Giugno 2011
L'obiettivo è quello di attuare 150mila tagli entro il 2015, il 20 per cento della forza lavoro statale. Scende la soglia di esenzione fiscale: pagherà anche chi guadagna 600 euro al mese. Incerta la riuscita della vendita di aziende statali altamente indebitate
Ventotto miliardi e altri più di 50 che dovranno arrivare dalle privatizzazioni, il tutto su base quinquennale. Sono queste le risorse che il governo Papandreou conta di recuperare con il durissimo piano fiscale di mediotermine.
Per sapere quali sono le misure nello specifico bisognerà aspettare almeno il voto procedurale di domani, ma il quadro generale al momento è questo.
Innanzitutto arriva un ulteriore taglio degli stipendi pubblici, questa volta soprattutto di quelli dei funzionari di grado più elevato che guadagnano fino a 18 mensilità. Per snellire il sovradimensionato settore statale greco è poi previsto un accorpamento degli enti, cioè una ulteriore riduzione del numero dei dipendenti.
Per farlo, serviranno delle modifiche costituzionali, che renderanno possibile per il Governo licenziare con ammortizzatori sociali i lavoratori in esubero. Che riceveranno il 60 per cento del loro stipendio di base per un periodo di 12 mesi. L’obiettivo è quello di attuare 150mila tagli entro il 2015, il 20 per cento della forza lavoro statale.
La soglia di esenzione fiscale per i greci poi scende da 12mila a 8mila euro, quindi anche i redditi che finora erano esenti, quelli più bassi, intorno ai 600 euro al mese, dovranno pagare.
E’ previsto anche un prelievo di solidarietà una tantum, simile a quello che ci fu in Italia nel 1992: sarà compreso tra l’1 e il 5 per cento e dovrebbe essere applicato ai pensionati e ai lavoratori dipendenti. Non solo. Tra le misure fiscali c’è anche una minimum tax per i lavoratori autonomi.
Fin qui i tagli. Poi ci sono gli aumenti. Cresceranno le tasse sul gasolio da riscaldamento e le accise sulla produzione di benzina, il cui prezzo da poco più di un anno a questa parte è già raddoppiato.
Poi c’è il capitolo delle privatizzazioni: che nella pratica significa altri licenziamenti, visto lo stato disastrato delle casse di molto società pubbliche e semi pubbliche del Paese.
Nel 2011 verranno messi in vendita i pacchetti azionari che il governo detiene in aziende come Dei, la società elettrica statale, nella compagnia delle lotterie e in quella delle corse dei cavalli, nel porto del Pireo, nelle società che gestiscono l’acqua e le fognature ad Atene e Salonicco, nelle ferrovie statali.
Il problema è trovare chi le voglia comprare. Perché, se quelle più appetibili hanno già acquirenti esteri che si sono messi in coda, per le tante altre che versano in condizioni disperate il futuro non promette nulla di buono. Come per le ferrovie di Stato che negli anni hanno accumulato debiti per 10 miliardi di euro.
Pane, istruzione, libertà
di Margherita Dean - Peacereporter - 30 Giugno 2011
Atene. Uno slogan che tocca corde sensibili dei greci, recitato dagli studenti che occuparono il Politecnico nel '73 contro i colonelli. Una saldatura sociale a lungo dimenticata
Mentre il Parlamento greco votava, nel pomeriggio del 29 giugno, a favore della manovra finanziaria di 28 miliardi che, entro il 2015 dovranno tutti essere pagati da dipendenti e pensionati, la manifestazione di Atene annunciava una saldatura sociale a lungo dimenticata.
C'erano tutti a piazza Syntagma, la piazza che, col suo nome, onora la Costituzione ellenica. Eppure, la sera del 29 giugno, la piazza è stata ribattezzata in ‘'piazza della morte della Costituzione'', quando è stato chiaro che la polizia aveva fatto un uso scellerato di gas lacrimogeni e granate assordanti nel corso di tutta la giornata e fino a tarda notte.
L'occasione per lo schieramento di agguerritissimi agenti antisommossa che, al grido ‘'ora vi faremo vedere di cosa è capace la polizia'' hanno occupato piazza Syntagma e decine di strade adiacenti, tutte molto turistiche, è stata la manifestazione di protesta contro la manovra finanziaria che veniva approvata dal Parlamento.
Una manifestazione, dunque, scontri tra  manifestanti incappucciati e polizia, vergognoso zelo di quest'ultima,  ancora una volta incapace di contenere i disordini: niente di nuovo, sembrerebbe, per la realtà greca che, almeno dal dicembre del 2008, è avvezza alla violenza.
Eppure qualcosa è cambiato e se gli scioperi generali dell'ultimo anno hanno fatto registrare un buon successo di partecipazione, ora si osserva un momento di coesione sociale che la Grecia non conosceva dai tempi della dittatura del 1967-74.
Pensionati e ragazzini, nonni e nipoti,  signore che, se non fossero state in piazza avrebbero sfornato i  biscotti della settimana, operai e studenti, avvocati e piccoli  imprenditori, impiegati di banca e maestre d'asilo.
C'erano tutti: donne e uomini, quelli dallo sguardo cupo di rabbia, quelli dallo sguardo smarrito del novizio alle manifestazioni, quelli i cui occhi mostravano la melanconia del futuro greco, quelli che traspiravano sicurezza e convinzione nella lotta.
Ma non c'erano solo ateniesi a piazza Syntagma: pullman da Salonicco, dal Peloponneso, da Corfù; auto private che hanno attraversato il Paese per unirsi ai manifestanti e agli ‘'aganaktismenoi'', gli indignati greci che, da trentasette giorni, invitano i cortei di ogni piccola o grande manifestazione a terminare in piazza Syntagma, unendosi a loro.
C'erano tutti in piazza: movimenti studenteschi, migranti, movimenti anti razzisti, sindacati di base, le grandi confederazioni sindacali, quella del settore pubblico (Adedy) e quella del settore privato (Ghesee). Problematiche di categorie professionali, sindacali e sociali accomunate da uno slogan su tutti: ‘'pane, istruzione, libertà'', recitato con la passione di quando nacque, trentotto anni fa, durante la dittatura.
Uno slogan che tocca corde sensibili dei greci, recitato dagli studenti che occuparono il Politecnico nel '73 contro i colonelli;  tre parole tornate a significare molto nel momento del disastro  economico, cui non si accompagna solo l'impoverimento di settori sempre  più grandi della società greca ma anche e, soprattutto, l'abbattimento  dei diritti.
Quello al lavoro e alla dignità del lavoratore, quello all'istruzione e alla sanità pubbliche e gratuite, quello alla libertà che, nel caso di un debitore cronico come è lo Stato greco, è compromessa.
Grecia, piangere per non morire
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 29 Giugno 2011
Per quanto faccia male, una gamba in cancrena va amputata. Altrimenti  si muore. Lo hanno capito anche i parlamentari di Atene, rassegnandosi  ad approvare il nuovo piano lacrime e sangue che spezzerà la schiena  alla Grecia nei prossimi anni, ma le consentirà di sopravvivere.
Con 155 voti favorevoli, 138 contrari e cinque astenuti, è passata la manovra da 28 miliardi: 14 di tagli, altri 14 di nuove tasse da riscuotere nel prossimo quinquennio.
Misure dolorose ma indispensabili per intascare il prestito da 110  miliardi concordato con Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale.  Non solo: l'approvazione del piano farà scattare anche il via libera  per definire i dettagli di un secondo prestito da 120 miliardi.
Con tutti questi soldi il Paese dovrebbe evitare la bancarotta e ripianare entro il 2014 il suo debito pubblico. Al momento la voragine è da 340 miliardi. Il che vuol dire 30mila euro che pendono sulla testa di ogni greco, neonati compresi.
La manovra e gli aiuti però non bastano. Per allontanare l'incubo del  default la Grecia ha bisogno di un'altra iniezione. La vera anima del  piano di risanamento annunciato dal primo ministro Geroge Papandreou è  un programma di privatizzazioni del valore di 50 miliardi da realizzare  entro il 2015.
Ma anche su questo fronte i problemi non mancano. Al  momento, il Governo di Atene può contare su 15 partecipazioni in società  quotate in Borsa, più altre 70 partecipazioni in aziende non quotate.
Peccato che, secondo i dati forniti dal Privatisation Barometer, una banca dati che contiene informazioni su ogni singola transazione di questo tipo, anche vendendo tutte queste quote la Grecia non riuscirebbe a ricavare più di 13,6 miliardi.
Facendo una rapida sottrazione, il risultato è abbastanza preoccupante: per arrivare alla cifra prefissata mancano poco più di 36 miliardi. Secondo Bernardo Bortolotti, economista e fondatore del Privatisation Barometer, questo significa che l'Esecutivo dovrà iniziare a vendere praticamente qualsiasi cosa: terreni, immobili, concessioni, infrastrutture e altro ancora.
Forse il disastroso quadro generale sfugge a buona parte del popolo  greco, giustamente accecato dalla rabbia nei confronti di chi avrebbe  dovuto evitare che si arrivasse a tanto. Può essere comprensibile  perfino la violenza con cui molti manifestanti hanno cercato di impedire  ai politici di entrare in Parlamento per votare la manovra.
La polizia in assetto antisommossa si è scontrata con circa 400 dimostranti che cercavano di sfondare i blocchi per accedere alla piazza Syntagma di Atene, dove ha sede il Governo. Almeno tre persone sono finite in ospedale.
Il rifiuto è una reazione normale quando si è posti di fronte alla  certezza di non aver alcun futuro nel proprio Paese. Ma la verità è che  in questo caso il Governo doveva prendere una decisione semplice. Se non  altro per la totale mancanza di alternative.
Nemmeno il suicidio era un'opzione calcolabile, perché il fallimento della Grecia avrebbe effetti sistemici più o meno in tutto il pianeta. Come se un depresso, sparandosi in testa, uccidesse tutta la città.
Da questo punto di vista, parlare di potenziale effetto domino non  vuol dire essere fanatici della catastrofe. L'ipotesi è fondata. Una  ricostruzione di quello che potrebbe avvenire in caso di default greco è  stata fatta da Business Insider.
Innanzitutto, nelle banche di Francia e  Germania sono stipati buoni del tesoro ellenici per un valore di 46  miliardi.
Di qui l'apprensione di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, più che ansiosi di soccorrere i fratelli di Atene. La società di rating Moody's ha già messo in guardia i tre maggiori istituti di credito transalpini (Crédit Agricole, BNP Paribas, e Société Générale) sulla possibilità di un declassamento.
Fin  qui i big, ma c'è molto più. Ad essere esposta in modo preoccupante sul  debito greco è praticamente tutta l'area euro. Sono sotto pressione  soprattutto i sistemi bancari di Austria e Portogallo.
Perfino la  finanza privata bulgara e romena in questi giorni non fa che mangiarsi  le unghie. Al vertice della piramide c'è naturalmente la Banca Centrale  Europea, che è esposta addirittura per 120 miliardi di euro.
Non è totalmente da escludere che un'eventuale insolvenza di Atene porti con sé rischi analoghi anche per la Bce, che in ogni caso uscirebbe dalla vicenda con le ossa rotte. A quel punto, sentendo puzza di morte, gli avvoltoi della speculazione inizierebbero a fare i loro giri in cielo, avventandosi sui Paesi col debito più insostenibile, Italia e Belgio.
Alcuni economisti si sono spinti perfino più in là con le previsioni.  Se Parigi e Berlino si ritrovassero improvvisamente con l'acqua alla  gola, potrebbero mettere in atto una qualche forma di neo-protezionismo.
A sua volta l'implosione dei mercati europei farebbe sentire i suoi effetti sulle esportazioni americane e asiatiche, portando a una progressiva contrazione dei consumi. Nel frattempo la Cina finirebbe schiacciata sotto il peso dell'inflazione, che già oggi rappresenta il primo guaio economico di Pechino.
Di fronte a uno scenario simile, il crollo innescato da Lehman  Brothers sembrerebbe poco più di una simpatica merenda. Che paura.  Bisogna fare qualcosa per evitare che la prima tesserina del domino  perda il suo precario equilibrio.
E allora via libera ai prestiti da centinaia di miliardi alla Grecia. Quello che ancora non è chiaro è come farà un Paese in ginocchio a restituire tutti quei soldi.
Debtocracy
di Katerina Kitidi e Haris Hatzistefanou - www.nazioneindiana.com - 8 Giugno 2011
⇨ DEBTOCRACY [ Χρεοκρατία ]
[ Sito Ufficiale EN ]
Per la prima volta in Grecia un documentario prodotto dal pubblico. ⇨ DEBTOCRACY [Wikipedia EN] cerca le cause della crisi provocata dal debito pubblico e propone soluzioni che non vengono prese in considerazione dal governo e dai media dominanti.
χρέος [krèos] debito e κράτος [kràtos] potere
δήμος [dèmos] popolo e κράτος  [kràtos]potere.
Il documentario, finanziato attraverso donazioni, si avvale della partecipazione di personalità del mondo socioeconomico e culturale:
- David Harvey geografo e antropologo
 - Hugo Arias Presidente del comitato per l’analisi del debito dell’Ecuador
 - Samir Amin economista
 - Gerard Dumenil
 - Costas Lapavitsas economista
 - Alain Badiou, filosofo
 - Manolis Glezos membro della Greek Resistance e politico di sinistra
 - Avi Lewis giornalista e regista cinematografico
 - Fernando Solanas regista cinematografico.
 
Debtocracy International Version di BitsnBytes
[ quando inizia il video click CC in alto a destra per i SOTTOTITOLI IT ]
Il prezzo della crisi
di Guido Viale - Il Manifesto - 29 Giugno 2011
Una crisi finanziaria di dimensioni globali è di nuovo alle porte. E non sarà l'ultima. Il mondo si sta avvitando intorno ai suoi debiti. Con liberismo e globalizzazione («finanzcapitalismo», orribile termine introdotto da Luciano Gallino) gli Stati hanno ceduto il potere di creare il denaro - il diritto di «battere moneta» - al capitale finanziario. Quasi tutti gli Stati dei paesi sviluppati si sono pesantemente indebitati con il sistema finanziario (quelli dell'ex Terzo Mondo lo sono da sempre).
Lo hanno fatto in parte per salvare banche o aziende sull'orlo del crack; in parte per finanziare spese sia essenziali (infrastrutture, «welfare» o stipendi del Pubblico impiego non sostenuti da sufficienti entrate fiscali), sia illegittime (costi della corruzione e dell'evasione fiscale), sia inutili e dannose (armamenti, costi della «politica», di grandi opere o di «grandi eventi»).
Per esempio, gran parte del debito che sta portando la Grecia  al  fallimento è dovuto, oltre che alla corruzione e dall'evasione  fiscale,  alle spese sostenute (senza adeguati ritorni) per le Olimpiadi  di  Atene e per l'acquisto - da Francia e Germania, gli Stati che oggi la   stanno strangolando - di armamenti per «difendersi» dalla Turchia: due   paesi della Nato che si armano l'un contro l'altro, comprando le stesse   armi dagli stessi paesi e addestrandosi a farsi la guerra (c'è di mezzo   il petrolio dell'Egeo) nelle scuole militari degli stessi fornitori. 
 Gli Stati si indebitano perché di nuovo denaro non ne possono creare  più  di tanto. In parte se lo sono vietato, con leggi nazionali (come  negli  Usa) o accordi internazionali (come le regole di governo della  Bce e il  Patto di stabilità dell'Unione Europea).
In parte hanno già una montagna di debiti contratti perché per molto tempo indebitarsi era più facile che imporre nuove tasse o sostenere l'economia con l'emissione di nuova moneta e un'inflazione controllata.
Quello che gli Stati nazionali hanno perseguito indebitandosi (evitare nuove tasse o maggiore inflazione) adesso li strangola; e oggi i paesi europei, anche se potessero tornare alla moneta nazionale e svalutarla, difficilmente otterrebbero un aumento di competitività con cui accrescere le esportazioni e ripagare parte del loro debito, come recita l'ortodossia economia (quella che consiglia alla Grecia di «uscire dall'euro»); si ritroverebbero solo con un debito in valuta estera ancora più pesante.
Se invece, come  consiglia, anche in questo caso, l'ortodossia  economica, tagliano la  spesa pubblica - mettendo alle strette o alla  fame una parte crescente  dei propri cittadini - e svendono servizi,  demanio e beni comuni per  ottenere un avanzo primario, soffocano ancora  di più l'economia e non  saranno mai più in grado di pagare né debito  né interessi. È una strada  senza uscita.
Se la cosa  riguardasse solo la Grecia, che è un piccolo paese, una  soluzione forse  si troverebbe; ma riguarda anche l'Irlanda, il  Portogallo, la Spagna,  l'Italia, il Belgio e in prospettiva la Francia,  che adesso fa invece  la voce grossa.
E riguarda anche gli Stati Uniti (anche il loro debito rischia un ribasso del rating), gli unici che finora avevano potuto continuare a «creare moneta» perché i loro dollari non li rifiutava nessuno.
Ma crisi, salvataggi e sconti fiscali per i più ricchi (quelli che neanche Obama osa toccare) hanno moltiplicato per due il loro debito, che è quasi tutto in mani altrui; e poiché ora ne devono rinegoziare una quota consistente si trovano anche loro alle strette. La retorica - mai suffragata dai fatti - secondo cui ridurre le tasse «crea sviluppo» ha messo tutti nei guai.
Poi ci sono le  rivoluzioni dei paesi arabi, che a breve porranno  inderogabili scadenze  al sistema finanziario mondiale. Insomma,  qualunque cosa venga decisa  per la Grecia, si tratterà solo di  tamponare una falla per rinviare un  crack inevitabile. 
Gli  Stati non «comandano» più il denaro perché i cordoni della borsa  sono  ora nelle mani della finanza internazionale: basta la minaccia di  un  ribasso del rating ed è come se dal bilancio di uno Stato si   volatilizzassero di colpo miliardi di euro. E per un paese che va in   rovina c'è sempre, da qualche altra parte, qualcuno che guadagna   miliardi.
È la finanza internazionale, bellezza! Quella che ha riempito di titoli fasulli banche e risparmiatori rivendendo un numero infinito di volte i propri crediti dopo averli impacchettati in titoli derivati di cui era - ed è, perche sono ancora in circolazione - impossibile conoscere origine e composizione.
A certificare che quei mucchi di  carte, ma ormai anche solo di bit,  sono moneta sonante ci pensavano e  pensano tre agenzia mondiali  interamente possedute da alcune delle  banche che quei certificati li  vendono.
Ora, e sempre con denaro  fittizio, la speculazione si è  spostata sulle materie prime e sulle  derrate alimentari, mettendo alla  fame mezzo mondo. E minaccia di far  fallire, uno dopo l'altro, un buon  numero di Stati. Ma dobbiamo per  forza continuare a lasciare in mano a  costoro le redini dell'economia?
C'è un altro modo per  affrontare la situazione: imporre ai propri  governi un cambio di rotta.  Il che richiede certo «rigore fiscale», ma  non quello che ci  vorrebbero imporre Tremonti. Il rigore, cioè i tagli  nel bilancio,  vanno imposti ai costi della politica, alla corruzione,  all'evasione  fiscale, alle rendite finanziarie, agli armamenti, alle  guerre contro  paesi che abbiamo contribuito ad armare fino a ieri, alle  grandi opere,  ai grandi eventi, alla burocrazia (ma senza segare  l'albero del  Pubblico impiego; curandolo invece ramo per ramo,  coinvolgendo che ci  lavora, perché dia frutti migliori).
Ma un cambio di  rotta richiede anche una montagna di nuove spese: in  ricerca, in  istruzione (scolastica e permanente), in manutenzione del  territorio, in  riconversione delle fabbriche obsolete o senza mercato,  in promozione  di una conversione energetica che ci liberi gradualmente  dalla  dipendenza dall'estero e dai combustibili fossili, in  un'agricoltura che  restituisca fertilità ai suoli e cibo sano ai  consumatori.
E  soprattutto per garantire a tutti e ciascuno possibilità  di non  dipendere giorno per giorno dai capricci di un mercato globale  fuori  controllo e dall'arbitrio di imprese attente solo alle quotazioni  del  loro capitale. 
Sono in gran parte le stesse  rivendicazioni (e persino le stesse parole:  «non vogliamo pagare la  vostra crisi») delle rivolte che infiammano le  strade della Grecia e  delle manifestazioni che riempiono quelle della  Spagna - e ora anche  del Belgio - e che hanno un unico sbocco possibile:  in prima istanza,  l'annullamento del patto di stabilità e della stretta  sui bilanci degli  Stati membri. Poi la garanzia di un reddito decente  per tutti.
Ma fin da subito c'è da adoperarsi per coinvolgere il maggior numero di soggetti, ciascuno con le sue competenze e a partire dai luoghi dove abita, vive e lavora, nella costruzione dal basso di un piano di interventi articolato su cui esigere l'impegno dei governi, quali che siano, sia a livello locale che nazionale.
Oggi programmi del genere non ci sono: troppo pochi ci pensano e quasi nessuno ne parla, perché cambiare radicalmente il paese sembra ancora un sogno. Ma l'Europa di domani, nel pieno di una crisi finanziaria che coinvolgerà l'intero continente e nel mezzo di una crisi ambientale che sta investendo l'intero pianeta, non sarà mai più come quella che abbiamo conosciuto fino a oggi.
Se non vogliamo precipitare nel caos che si sta avvicinando, bisogna cominciare a discutere concretamente, caso per caso, delle cose che vogliamo, senza aver paura della sproporzione delle forze in campo. Il vento sta cambiando. «Prepariamoci» titola il suo ultimo libro Luca Mercalli, parlando delle condizioni in cui dovremo a vivere nella crisi ambientale.
Prepariamoci anche a una nuova crisi finanziaria che cambierà radicalmente i rapporti di forza nelle situazioni in cui ci troveremo a operare.