martedì 5 ottobre 2010

Update italiota

Un'altra serie di articoli di buon auspicio sulla situazione italiota...


Assalto al mondo del credito: il Carroccio di lotta e di poltrona
di Ferruccio Sansa - www.ilfattoquotidiano.it - 5 Ottobre 2010

In Veneto, Lombardia e Piemonte, istituti colonizzati dai finanzieri del senatur. Fondazione Cariverona, 10 verdi su 25

Prima provarono a mettersi in proprio. A creare una banca padana. Ma finirono con le ossa rotte e capirono che c’era una strada molto più semplice e meno rischiosa: conquistare il ponte di comando di banche già esistenti e solide.

La defenestrazione di Alessandro Profumo ha portato alla luce del sole quello che nel mondo bancario ormai era un segreto di Pulcinella: la Lega è scesa in campo e sta facendo incetta di poltrone negli istituti di credito.

Un ruolo che ha portato Pier Ferdinando Casini a bollare Bossi come “trafficante di banche e di quote latte”.

E non soltanto in Lombardia, la culla del Carroccio. La strategia si è rapidamente diffusa in tutto il Nord. Lottizzazioni in salsa padana, verrebbe da dire. La strategia parrebbe simile a quella della Dc che governava proprio il Veneto bianco.

Ma il piglio è più deciso. E il paradosso è evidente: la Lega si presenta ancora come partito di lotta eppure pochi altri movimenti stanno occupando ugualmente le stanze del potere.

Dove il Pdl si ritira, subito subentra la Lega. Non senza qualche scintilla, perché tra il potere lombardo (azzurro formigoniano) e i giovani leoni veneti non tutto fila sempre liscio.

E torniamo al golpe Profumo: la fondazione Cariverona con il 4,98 delle azioni di Unicredit ha pesato molto nella sostituzione dell’amministratore delegato. Ma il primo passo dell’assalto a piazza Cordusio è partito all’inizio di settembre quando sono scaduti 25 dei 32 consiglieri della Cariverona. Tra i nominati ben 10 sono di area leghista, compresi ex assessori e capi gruppo nei consigli comunali.

Anche Amedeo Piva, presidente del Federazione Veneta delle Banche di Credito Cooperativo, è di area Carroccio.

Ma Luca Zaia non perde di vista le banche “minori”. Si dice che il governatore sia visto di buon occhio da Gianni Zonin, numero uno della Banca Popolare di Vicenza, e da Vincenzo Consoli (Veneto Banca). Un’invasione che approfitta della debolezza del Pdl, che non si lascia scappare nemmeno un tassello.

Anche in Piemonte i consigli di amministrazione di banche e fondazioni bancarie sono sempre più verdi. Prendete Cuneo, dove sulla Provincia governa Gianna Gancia, compagna di Roberto Calderoli.

È stata lei la grande sponsor di Giovanna Tealdi, sua collaboratrice, che ha battuto i candidati del Pdl nella corsa per un posto del consiglio della fondazione Caricuneo. Un piccolo strapuntino senza valore? Macché, le poltrone nelle fondazioni di provincia muovono leve molto lunghe, arrivano a Ubi Banca.

Non c’è banca del Nord senza qualche poltrona riservata a leghisti o amici del Carroccio. Ecco allora che, accanto a Giovanna Taldi, in Crt (Cassa di Risparmio di Torino) è arrivato Giovanni Quaglia, mentre alla Popolare di Novara, è approdato Domenico De Angelis.

In Lombardia il potere bisogna contenderlo anche ai formigoniani e a Comunione e liberazione. Però, la Lega non si fa problemi. E neanche la Compagnia delle Opere. Nuove alleanze potrebbero presto profilarsi, anche in barba a Formigoni, storicamente l’anima politica di Cl. Intanto la Lega qui ha messo in campo i suoi calibri più grossi. Bossi ha delegato direttamente il suo fido Giancarlo Giorgetti.

Ecco allora proliferare i banchieri del Carroccio. A cominciare da Massimo Ponzellini. Proprio l’ex prodiano che ha conquistato la presidenza della Popolare di Milano. Bossi dixit: “Con loro – le banche – faremo la galleria del Gottardo. Sta seguendo il progetto uno che abbiamo messo lì noi, Ponzini, Ponzoni, o come si chiama? Sì, sì, Ponzellini”.

Nella fondazione Cariplo troviamo Luca Galli e Rocco Corigliano. Marcello Sala invece è l’uomo vicino alla Lega in Intesa Sanpaolo (altro colosso nel mirino del Carroccio). Insomma, la Lega è nelle stanze dei bottoni delle banche. Sembrano passati secoli da quando, appena dieci anni fa, i salotti buoni della finanza guardavano con malcelata ironia a quei politici calati dalle montagne con fazzoletti verdi e cravatte dai colori improbabili.

Così nel 2000 nacque Credieuronord: tremila sottoscrizioni, fino a cento milioni di lire l’una. Bossi era il grande sponsor dell’istituto che presto rischiò di finire a gambe all’aria. Fino all’arrivo di Gianpiero Fiorani, il re dei Furbetti.

Se non ci fosse stato lui, con i suoi fidi e finanziamenti, il Carroccio forse neanche esisterebbe più: tutti i simboli del partito – dalla scuola leghista di Varese al prato di Pontida – sono stati comprati con i soldi del banchiere di Lodi.

Ma ormai il Carroccio ha imparato la lezione e ha un nuovo potentissimo alleato in Giulio Tremonti. Insomma, la Lega ha sempre più credito. La vicenda Profumo insegna molto.


Codice Penale a misura di Lega
di Mariavittoria Orsolato - Altrenotizie - 4 Ottobre 2010

In questo giro di boa della legislatura a fare la voce grossa è ormai la Lega Nord. Sempre più forte sul piano dei consensi, sempre più inserita nei posti chiave delle istituzioni. Sarà che con Bossi e soci è sempre meglio trattare, fatto sta che dopo le innumerevoli leggi ad personam varate dall’esecutivo Berlusconi, finalmente è giunto il turno del Carroccio.

Lo segnala il Corriere della Sera e l’espediente è sempre lo stesso: utilizzando il cavallo di Troia di un provvedimento omnibus - in questo particolar caso, il nuovo Codice dell’Ordinamento Militare - s’inserisce un comma tramite cui aggirare gli impedimenti legali in corso.

Il disegno di legge 66 del 15 marzo 2010, a firma del ministro della Difesa La Russa e dell’omologo alla Semplificazione Roberto Calderoli, tra le sue 1085 norme nasconde infatti l’abolizione dell’articolo 306 del Codice Penale, un articolo che ai più giovani non dirà nulla di nuovo, ma che a molti riporta la memoria indietro di 30 anni.

Stiamo parlando dell’imputazione di banda armata, accusa principe delle centinaia di processi celebratisi a cavallo degli anni ‘70 e ’80 e punibile con la reclusione dai tre ai quindici anni; che però, è ufficiale, dal prossimo 8 ottobre uscirà dal novero dei reati penalmente perseguibili.

Ma non si tratta di un ripensamento giuridico sulla legislazione emergenziale e le storture che essa ha prodotto sul Codice Penale. Il motivo fondante per cui uno dei capisaldi dell’anti-terrorismo verrà bellamente smantellato è un altro e molto meno nobile: 36 esponenti del Carroccio sparsi fra il Piemonte, la Liguria, l’Emilia, la Lombardia e il Veneto sono attualmente sotto processo a Verona con l’accusa di aver messo in piedi una formazione paramilitare denominata “Guardia Nazionale Padana”.

Lo sparuto esercito del nord, noto ai più come “Camicie verdi” (in riferimento all’immancabile divisa, oltretutto di sinistra memoria) doveva fungere da baluardo per la secessione e da deterrente contro l’immigrazione - clandestina o meno, per la Lega c’est la même chose - ma nel 1996 arrivò il procuratore della Repubblica Guido Papalia a guastare la festa.

Grazie alle indagini della Digos e ad una serie di intercettazioni telefoniche, si veniva infatti a sapere che, al momento del reclutamento, chi aderiva alla formazione paramilitare doveva indicare se era in possesso di armi da fuoco e se ne aveva il porto, e quando Papalia - nel frattempo pesantemente insultato sui muri di tutta la città di Giulietta - mandò gli ispettori in via Bellerio, sede della Lega Nord a Milano, sequestrò elenchi che confermavano la sua intuizione: ovvero che il Carroccio e la sua base si preparavano alacremente in visione di uno scontro futuribile.

Probabilmente forte di questa certezza, il Senatùr ha in più occasioni minacciato un’azione diretta: l’ultima castroneria di questo tipo in ordine di tempo è datata 18 agosto, quando in risposta ad alcuni attivisti vicentini che durante un comizio gli hanno gridato “Fuori le doppiette” Bossi ha risposto: “Per i fucili c’è tempo, abbiamo comunque milioni di uomini che vogliono liberarsi e che vogliono il cambiamento per loro e per i loro figli”.

Tra gli imputati di attentato alla Costituzione, attentato all’unità e all’integrità dello Stato e costituzione di banda armata figuravano lo stesso Bossi, Maroni, Borghezio e naturalmente Calderoli, all’epoca tutti eurodeputati o parlamentari che godevano dell’immunità votata dai colleghi. Ora, a 14 anni dall’avvio dell’istruttoria, due dei tre capi d’imputazione sono decaduti tramite il medesimo meccanismo di cancellazione del reato per decreto.

Sulla carta rimaneva perciò solo la terza delle accuse e al momento della riapertura del processo, lo scorso venerdì a Verona, la difesa ha prontamente segnalato al giudice Guidorizzi che i suoi assistiti non avrebbero più avuto motivo di presentarsi in aula, dato che nel giro di venti giorni il reato per cui sono attualmente sotto processo sarà dichiarato estinto.

Il presidente della Corte non ha perciò potuto fare altro che accogliere l’eccezione sollevata dai legali della difesa e rinviare il processo al prossimo 19 novembre quando, di fatto, ci si recherà in aula solo per dichiarare la chiusura dell’istruttoria e l’assoluzione degli imputati per la non sussistenza del reato.

Ci troviamo quindi nuovamente di fronte alla cancellazione di una voce del codice penale in nome del più bieco tergiversare giudiziario, e poco importa se in questi stessi giorni il Dipartimento di Stato americano ha emesso un “travel alert”, un avvertimento ai connazionali per la possibilità di attacchi terroristici in Europa.

Al Governo che ha vinto le elezioni berciando sull’assoluta necessità di sicurezza e ai leghisti che vedono in ogni raduno di preghiera coranica una potenziale cellula di Al Quaeda, frega solo che Dike non ponga su di loro il suo sguardo inquisitore.


"Attentato" a Maurizio Belpietro: ecco a voi tutte le stranezze del caso
da http://nonleggerlo.blogspot.com - 5 Ottobre 2010

Gli investigatori parlano di un vero e proprio "rompicapo": dell'uomo che avrebbe tentato di uccidere il Direttore di Libero Maurizio Belpietro si sa poco e nulla. Un fantasma. Nonostante questo, la legione papale si è mossa immediatamente, quel killer è stato armato da Gianfranco Fini, da Antonio Di Pietro, anzi da Facebook, dai Blogger, no!, dai grillini, e pure dal Popolo Viola, Travaglio e Lisa Simpson. Quella roba lì insomma. Dinamiche che vanno sfruttate nel brevissimo periodo, a prescindere da verità, falsità e riscontri esaustivi.

Via subito ai mandanti morali, ai generatori d'odio, è il ritorno agli anni di piombo, scrive Pansa. Vabbè, vedremo. Intanto mi sono permesso di raccogliere tutte le curiosità del caso: sapete, quando si ha a che fare con una certa parte politica e giornalistica è sempre meglio andarci piano.

Tra cimicioni-farsa, auto-minacce, allarmi-falsi, pseudo-bombe ed interviste-pacco, laddove si continua a mischiare verità e menzogna, violenza informativa e "Betulla" recidiva, beh, la prudenza è d'obbligo.

No, nessuna strana teoria complottistica, sono felicissimo che nessuno si sia fatto male ed aspetto con interesse i risultati della Magistratura. Nell'attesa ragiono sui fatti. Ecco tutte le stranezze sull'"attentato" alla vita di Maurizio Belpietro.
  1. Belpietro è appena stato accompagnato in casa. Il capo-scorta, dopo anni di routine, decide di non prendere l'ascensore, ma di scendere per le scale. Per potersi fumare una sigaretta, dice. Sarà proprio questa provvidenziale casualità a farlo imbattere nel malintenzionato, prima che questi possa bussare alla porta del Direttore di Libero.
  2. L'attentatore prova immediatamente ad uccidere l'agente, sparandogli "in faccia" da una distanza ravvicinata. La pistola però s'inceppa, fa "click", poi il killer scappa. Un'altra provvidenziale casualità. La seconda.
  3. La pistola viene descritta dal miracolato come una "Beretta", quindi una semiautomatica. Pistola affidabilissima, scelta come arma ufficiale da molti eserciti del mondo, compreso quello italiano. Da quello che ho capito non è possibile che questo tipo di arma vada a vuoto nel modo descritto dal capo-scorta ("click" più inceppamento, al primo proiettile). Un proiettile difettoso? Forse, ma le probabilità sono in ogni caso remote.
  4. Spunta anche l'ipotesi pistola-giocattolo, ma i media vicini al Premier sono gli unici a non prenderla nemmeno in considerazione: non ne fanno cenno.
  5. La reazione dell'attentatore alla vista del capo-scorta (sparo in faccia) appare eccessiva, immotivata. Il poliziotto era vestito in borghese, perché ucciderlo? E se fosse stato un normale condomino? Perché non provare a far finta di niente, e risalire tranquillamente le scale? E soprattutto, perché bruciare il vero obiettivo dell'attentato, perché bruciare l'intera operazione?
  6. E ancora: perché l'attentatore non aspetta l'uscita del capo-scorta per agire - sarebbe bastato attendere qualche minuto - magari servendosi di un complice, come sempre avviene in questi casi?
  7. La reazione del capo-scorta: dopo aver visto la morte in faccia (una Beretta puntata "ad un millimetro" dal volto, che fa "click") si getta a terra, o dietro un angolo, poi fa fuoco mirando al killer in fuga. Due colpi, quindi si alza, insegue giù per le scale l'attentatore - un paio di rampe - e spara una terza volta. Poi risale da Belpietro, per vedere che tutto sia apposto. Nessun colpo giunge a segno. La sezione balistica della Questura di Milano sta indagando sulla traiettoria dei proiettili esplosi. Inizialmente si era parlato di "3 colpi in aria", sparati con il semplice obiettivo di dissuadere il malintenzionato.
  8. Gli agenti di scorta sono figure molto preparate, che devono saper fronteggiare qualsiasi situazione di pericolo. In questo caso il poliziotto ha sì messo in fuga l'attentatore, ma non è riuscito a colpirlo da una distanza ravvicinata ed in uno spazio ristretto, dopo aver subito un tentato omicidio. Poi se l'è lasciato scappare, desistendo dall'inseguirlo dopo una manciata di rampe. Inoltre non è prudente (consentito?) tenere le mani occupate con una sigaretta (o altro) a pochi metri dalla abitazione della persona protetta, la bonifica va fatta con cura ed attenzione anche in uscita.
  9. Sono attimi concitati, fuori è notte, la luce fioca delle scale, a rischio la vita, il criminale in fuga. Tutto avviene in un lampo, ma il capo scorta riesce a descrivere con precisione il tipo di pistola, il volto, l'età, il naso, la carnagione, le pupille, la corporatura, le scarpe, i capelli ingellati e l'abbigliamento del fuggitivo: prima si parla di un uomo vestito da finanziere, poi le ore passano e si scopre che quel tizio aveva i pantaloni di una tuta "tipo adidas", bianca con righe nere, ed una camicia "grigio-verde con mostrine" che potrebbe ricordare una pettorina della Gdf. Siamo passati da killer professionista sapientemente travestito da finanziere per fregare Belpietro a semplice sgherro di periferia, conciato con qualcosa di verde.
  10. Il racconto di Maurizio Belpietro: a Repubblica afferma di essere entrato in casa e di aver lasciato la porta socchiusa, di aver sentito gli spari, di essersi girato ed aver visto l'agente proteggersi dietro ad un angolo, per poi rispondere al fuoco. Alla maggior parte dei media che lo hanno intervistato dichiara invece qualcosa di diverso: e cioè di aver chiuso la porta di casa alle proprie spalle, una volta entrato, e di aver sentito solo in un secondo momento gli spari. Una contraddizione.
  11. In molti già ciarlano di terrorismo e anni di piombo - apocalittico il tono dei vari Pansa, Feltri, Zurlo, Vespa, Sechi, Farina, Maroni, Capezzone, Cicchitto e tanti altri - ma il fallito attentato non è stato ancora rivendicato. Un po' insolito.
  12. La scientifica ha analizzato scale e garage: nessuna traccia dell'attentatore. Pure le possibili vie di fuga, tra cespugli, mura e siepi alte 2 metri da scavalcare, appaiono immacolate.
  13. Un solo testimone. Per ora la quasi totalità della ricostruzione si basa sulle parole dell'agente coinvolto, tale Alessandro M., promosso agente scelto dopo aver sventato un altro possibile attentato. Era il 1995, e la vittima designata il procuratore D'Ambrosio. La dinamica ricorda molto quella avvenuta nel palazzo di Belpietro: anche allora A.M. mise in fuga l'attentatore, ma non riuscì a catturarlo o a colpirlo. Nessun testimone, oltre ad A.M., vide quella scena. Ed i responsabili del tentato omicidio non furono mai individuati. Pensate, è lo stesso D'Ambrosio in queste ore ad affermare quanto segue: "Mi sembrò strano quell’attentato, in una terribile giornata di pioggia. A. mi disse di non scendere, mi affacciai e vidi soltanto un uomo che parlava con una donna all'interno dell'asilo. Una volta in strada A., bagnato fradicio e in stato di alterazione, mi spiegò che aveva inseguito una persona dentro l’asilo, un uomo armato di fucile che poi aveva saltato un muro ed era scappato su una moto guidata da un complice. L’indagine non approdò poi a nulla. Sinceramente non ci ho mai creduto molto".
  14. Gli investigatori hanno deciso di riascoltare il capo-scorta: nella sua ricostruzione ci sarebbero alcune "incongruenze" (Tg La7, 3.10).
  15. L'attentatore è molto probabilmente fuggito dall'uscita secondaria, che dà su Corso Borgonovo (quella principale era presidiata da un agente). D'obbligo quindi imbattersi nella relativa telecamera, o nel custode, che abita proprio lì. Ma nessuno ha notato niente, né l'occhio umano, né quello bionico. Pensate, il custode all'ora X si trovava proprio nel cortile indicato da tutti come unica possibile via di fuga: e di lì non è passata anima viva. Stesso discorso per il portiere di casa-Belpietro: visto o sentito niente. Da dove sia fuggito l'attentatore, rimane un mistero. Da dove sia entrato, pure: nessun condomino ha visto o segnalato qualcosa di strano.
  16. Il baccano a quell'ora di sera - erano circa le 23 - ha fatto sobbalzare tutti gli abitanti dell'edificio. In molti si sono precipitati a vedere cosa fosse successo, ma nessuno ha visto l'attentatore in fuga.
  17. Casa-Belpietro è situata in pieno centro a Milano - vicino allo show room di Armani - ed è circondata da telecamere di ogni genere. Se qualcuno fosse davvero entrato o uscito da quel palazzo, impossibile farla franca, soprattutto a quell'ora di sera, quando la zona è particolarmente calma. Ma gli investigatori hanno già controllato tutte le registrazioni, e vagliato telecamere fino a 4 isolati di distanza: per ora niente, i video sono molti, la risoluzione bassa, e ogni esito è risultato negativo.
  18. Oddio, in realtà un colpevole c'è già. Visti gli scarsi risultati dell'inchiesta - e non credo per demerito degli investigatori - Maurizio Gasparri ha cominciato a seminare infamie sul Procuratore che si occupa del caso, quell'Armando Spataro che ha speso una vita intera a combattere ogni tipo di criminalità organizzata, da quella mafiosa a quella terroristica: "Bisogna togliere l'indagine a Spataro, ed affidarla ad un altro Pm, imparziale ed autorevole: Spataro non lo è". Ho come l'impressione che agli amici di Belpietro comincino a tremare un pochino le gambe, in fondo si sono esposti parecchio, nelle ultime ore. Hanno utilizzato pochi condizionali e troppi imperativi, strumentalizzando un caso clamorosamente incerto per scagliarsi su oppositori e libera informazione. Speriamo che la giustizia faccia velocemente il proprio corso: non vorrei che a qualcuno venisse in mente di cominciare a fabbricarsele, queste benedette prove.
  19. 4 ottobre: a soli 3 giorni dall'attentato, la notizia scompare dal Giornale. Nada, nemmeno un trafiletto. Stessa cosa per tutti i media vicini al Presidente del Consiglio: come se non fosse successo niente. Ma scusate, non erano tornati gli Anni di Piombo?
  20. 5 ottobre: oh-oh ... a pagina 27 del Corriere della Sera si scrive questo: «Tra i poliziotti circola uno strano convincimento: che l’agente di tutela del direttore di “Libero” si sia inventato tutto».


Nuove regole sul debito
di Superbonus - www.ilfattoquotidiano.it - 3 Ottobre 2010

L'Italia rischia di dover varare una manovra da 50 miliardi, ma il governo continua a rimandare il problema

“Il grande successo ottenuto dal governo sui nuovi principi di conteggio del debito”, rivendicato da Silvio Berlusconi alla Camera dei deputati mercoledì, in realtà è un’invocazione di pietà indirizzata alla Germania.

I tedeschi sono dietro la proposta della Commissione europea secondo cui i Paesi con un rapporto tra debito e Pil superiore al 60 per cento dovranno diminuire l’extra indebitamento del 5 per cento all’anno.

LA CORREZIONE. Facciamo un poco di calcoli: l’Italia ha un rapporto debito/Pil del 118 per cento. Quindi un eccesso di debito del 58 per cento, ossia 1044 miliardi di euro di debito in più di quello che sarebbe consentito dal nuovo patto di stabilità. In queste condizioni il governo dovrebbe varare una manovra di 55 miliardi per il solo 2011.

Secondo la ricostruzione del Sole 24 Ore, il ministro del Tesoro Giulio Tremonti “ha lungamente e vigorosamente sostenuto” la tesi secondo cui oltre al parametro di debito devono entrare nel calcolo altre variabili quali il debito dei privati e la sostenibilità della spesa pensionistica.

Una arrampicata libera sugli specchi. Ma anche la Germania si è resa conto che un taglio di 50 miliardi all’anno del nostro debito pubblico è improponibile e significherebbe far scontare a un paio di generazioni tutti gli errori di finanza pubblica commessi negli ultimi 40 anni.

Così ha concordato sul principio che l’esigenza di risanamento possa essere mitigato da altre considerazioni: Italia, Belgio, Portogallo e Irlanda hanno trovato un appiglio per inserire i cosiddetti “other relevant factor”, cioè altri fattori economici rilevanti che saranno tenuti in considerazione prima della fissazione degli obiettivi di bilancio di ogni Paese e dell’erogazione delle sanzioni in caso di sforamento.

Difficilmente l’Italia potrà ottenere un via libera a non effettuare una manovra per la riduzione del debito.
Difficilmente Tremonti riuscirà a convincere i partner europei che il rapporto deficit/Pil al 119 per cento previsto per il 2011 sia sostenibile nel medio termine e vada invece subito ridotto di un punto percentuale.

La strada del ministro dell’Economia sta diventando sempre più stretta e ripida. Il governo ha perso tempo a celebrare la stabilità dei conti pubblici, il “non aver messo le mani in tasca degli italiani”, e ha ignorato la crisi e il suo effetto sulla finanza pubblica.

IL RINVIO. In tutti i documenti economici diffusi dal ministero viene dipinto un futuro economico roseo al solo scopo di rinviare il più possibile il momento doloroso delle manovre economiche.

Il risultato? Tagli lineari alla spesa che coinvolgono anche settori strategici per lo sviluppo come la ricerca e le infrastrutture e un aumento della pressione fiscale su coloro i quali le tasse già le pagano.

Nel 2009 il governo aveva previsto per gli anni 2011-2013 una crescita del Pil del due per cento, nella Decisione di finanza pubblica approvata mercoledì dal Consiglio dei ministri la previsione è stata abbassata al 1,3 per il 2011. Ma si mantiene miracolosamente al 2 per cento per il 2012 ed il 2013.

L’ottimistica visione della crescita consente a Tremonti di rinviare ancora un serio piano di finanza pubblica che affronti i nodi veri della spesa pubblica e del debito. La DFP pubblicata sul sito del ministero delle Finanze è il primo tentativo di traduzione numerica del motto “tiriamo a campare e speriamo nello stellone”.

Con la tabella a pagina 16, per esempio, si tenta di spiegare che l’Italia è messa meglio degli altri Paesi perché la somma del debito pubblico più quello privato è inferiore alla media europea.

Peccato che dalla stessa tabella apprendiamo che la Grecia ha un rapporto migliore del nostro. E’ bizzarro sostenere una tesi e smentirla nella stessa tabella. Se questo è il ragionamento sul quale si basa “il giudizio complessivo sulla sostenibilità finanziaria” dei Paesi europei sarà difficile che qualcuno ci consenta di non rimandare il risanamento.

Se non ce lo imporrà la Commissione europea, lo faranno i mercati che chiederanno un tasso di rendimento più elevato per sottoscrivere le emissioni obbligazionarie del Tesoro.

Un bel guaio per l’impalcatura propagandistica berlusconiana che anche in questi giorni promette riduzioni delle tasse. Ma un bel guaio anche per chi si troverà a governare dopo Berlusconi.


Saldi di fine regime
di Massimo Giannini - La Repubblica - 5 Ottobre 2010

Dopo ben centocinquantatre giorni di colpevole latitanza e di irresponsabile iattanza, il presidente del Consiglio ha finalmente nominato il nuovo ministro dello Sviluppo Economico.

Dovremmo essere compiaciuti, per la fine di un grave "vuoto di potere" che su questo giornale avevamo denunciato da tempo, indicandolo come vero paradigma di un ancora più grave "vuoto di politica" che ormai caratterizza lo stadio terminale del berlusconismo. E invece non c'è proprio nulla da festeggiare.

La scelta di Paolo Romani soddisfa la "meccanica" di governo: c'era una poltrona vuota, quella di Claudio Scajola, che ora viene nuovamente occupata. Ma offende l'etica: c'è un conflitto di interessi strutturale, quello di Silvio Berlusconi, che ora viene ulteriormente codificato.

Romani, già viceministro, è infatti un perfetto ingranaggio della "macchina" Mediaset. È l'uomo che ha contribuito a scrivere la scandalosa legge Gasparri sulle tv. Ha fatto pressioni sulla Ue per negare a Sky la deroga sull'asta per il digitale terrestre.

Ha tentato di sfilare la rete a Telecom, per consentire all'azienda del premier di prendersene un pezzo. Ha regalato alla stessa Mediaset il canale 58, per permettergli di sperimentare il digitale in alta definizione prima della gara. Ora che è stato promosso ministro, dovrà firmare il contratto di servizio della Rai, scaduto a fine 2009.

Immaginiamo con quanta equanime solerzia saprà valorizzare il servizio pubblico, e difenderlo dallo strapotere di quello privato. Il Cavaliere e i suoi scudieri brindano. "Vendono" la nomina di Romani come il segno che il governo è vivo, e va avanti.

È vero il contrario. Siamo ai "saldi" di fine regime. Caligola ha incoronato il suo cavallo. Sistemerà gli ultimi affari. Poi l'Impero potrà finalmente cadere.


La Gara del Ponte, Madre di tutte le Turbative
di Antonio Mazzeo - Megachip - 1 Ottobre 2010

“L’apologia dell’illegalità”. Potrebbe essere intitolato così uno dei passaggi chiave dell’intervento del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il 30 settembre 2010, a Palazzo Madama.

Una fiducia conquistata dopo una lunga auto-celebrazione, lui, l’uomo della provvidenza, artefice unico dello sblocco dei lavori del Ponte sullo Stretto, padre-madre di tutte le Grandi Opere.

«Entro dicembre sarà pronto il progetto esecutivo, già molto avanzato, del Ponte di Messina», ha dichiarato Berlusconi.

«Era stato dato anche l’appalto ad una cooperativa di imprese italiane dopo che eravamo riusciti, prodigando molti sforzi, ad evitare la partecipazione all’appalto di grandi imprese straniere, perché volevamo che quest’opera fosse un orgoglio tutto italiano. Con l’intervento del Governo della sinistra il piano è stato accantonato. Avevo personalmente, con il sottosegretario Letta, partecipato a 32 riunioni per il varo di questo piano, sino a giungere all’appalto, che è stato dato. In cinque minuti il Governo della sinistra ha accantonato il progetto. Cinque anni per costruire e cinque minuti per distruggere».

Un’esternazione shock che ha spinto due senatori del Partito Radicale, Donatella Poretti e Marco Perduca, a presentare un’interpellanza urgente alla Presidenza del Consiglio dei ministri. «Il presidente Berlusconi si è autodenunciato per avere diretto la gara d’appalto per il Ponte di Messina», scrivono i parlamentari.

«Non solo ha candidamente ammesso di avere fatto di tutto per evitare che alcune imprese partecipassero solo perchè straniere, ma anche che vincesse una italiana. Berlusconi dovrà spiegare in aula in cosa sono consistiti i suoi “molti sforzi” e se le 32 riunioni citate erano state fatte per la realizzazione del piano per arrivare ad un appalto realizzato su misura per la cooperativa di imprese».

In verità, non scorre nulla di nuovo sotto il Ponte. Berlusconi, infatti, ha ripetuto in Parlamento quanto aveva impunemente dichiarato nel corso di un comizio tenuto nel novembre 2008 durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore della regione Abruzzo.

«Sapete com’è andata col Ponte sullo Stretto?», aveva esordito il premier a L’Aquila. «Avevamo impiegato cinque anni a metter d’accordo le imprese italiane perché non si presentassero separate alla gara d’appalto ma in consorzio... Eravamo andati dai nostri colleghi chiedendo che le imprese non si presentassero in modo molto aggressivo, proprio perché volevamo una realizzazione di mano italiana, e poi avremmo saputo ricompensarli con altre opere pubbliche».

L’ammissione di aver blindato (o turbato?) la gara del Ponte giungeva dopo che parlamentari, ambientalisti e ricercatori avevano denunciato anomalie ed evidenti conflitti d’interesse nell’espletamento dei bandi.

Tra le carte dell’inchiesta della procura di Monza su presunti reati societari in ambito Impregilo (la società di costruzione che guida l’associazione general contractor del Ponte), conclusasi con il rinvio a giudizio dei vecchi amministratori Paolo Savona e Pier Giorgio Romiti, uscì fuori un’intercettazione telefonica dove l’economista Carlo Pelanda, rivolgendosi al Savona, si dichiarava sicuro che «la gara per il Ponte sullo Stretto la vincerà Impregilo».

Nel corso della stessa telefonata, avvenuta alla vigilia dell’apertura delle offerte, Pelanda sosteneva di avere avuto assicurazioni del probabile esito della gara «dal senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri».

Incuriositi dalla singolare vocazione profetica dell’interlocutore, i magistrati lombardi interrogarono l’ex presidente d’Impregilo. «Era una legittima previsione», rispose Paolo Savona. «Il professor Pelanda mi stava spiegando che noi eravamo obiettivamente il concorrente più forte».

Carlo Pelanda, editorialista del Foglio e del Giornale, ricopriva al tempo l’incarico di consulente del ministro della difesa Antonio Martino, origini messinesi e uomo di vertice di Forza Italia.

Pelanda era pure un intimo amico di Marcello Dell’Utri, al punto di aver ricoperto l’incarico di presidente dell’associazione “Il Buongoverno”, fondata proprio dal senatore su cui pesa una condanna in appello a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Ad interessarsi al possibile esito della gara del Ponte c’era pure Francesco Cossiga (recentemente scomparso), di cui proprio il Pelanda era stato consigliere durante il settennato trascorso da Presidente della Repubblica.

Nel corso di una puntata di Porta a Porta dedicata alle intercettazioni telefoniche, in onda il 5 ottobre 2005, fu lo stesso Cossiga a dire: «Sono stato intercettato mentre parlavo con un mio amico, un imprenditore che brigava pesantemente per ottenere gli appalti del ponte».

Poi l’ex Presidente si rivolse all’avvocata Giulia Buongiorno (oggi parlamentare di Futuro e Libertà), presente in studio: «Avvocato che faccio? Lo sputtano questo Pm o mi consiglia di lasciar perdere?».

«Presidente, io difendo quell’imprenditore e il Pm mi ha garantito che il suo nome non comparirà. Stia tranquillo», rispose con imbarazzo la Buongiorno. Nell ’inchiesta di Monza non c’è traccia del nome dell’amico di Cossiga che «brigava» per gli appalti nello Stretto.

«Quella che è stata una delle gare d’appalto più rilevanti della storia d’Italia, presenta pesanti ombre ed anomalie», scrivono i ricercatori di Terrelibere.org, che agli interessi criminali del Mostro sullo Stretto hanno dedicato inchieste e un libro-dossier.

«Si sono registrati, ad esempio, un impressionante ribasso d’asta di 500 milioni di euro, una controversa penale che impegnerebbe le istituzioni alla prosecuzione dei lavori, ed infine la misteriosa defezione delle grandi imprese estere. A questo si aggiungono i conflitti di interesse tra finanziatori e finanziati, controllori e controllati e soprattutto gli incroci, le ricorrenze di nomi e società, le partecipazioni multiple che fanno pensare ad una maxi lobby che da anni sponsorizza e promuove le grandi opere».

Terrelibere.org ha denunciato, in particolare, come nella speciale commissione giudicatrice istituita dalla Società Stretto di Messina che ha assegnato l’appalto alla cordata Impregilo, ha partecipato l’ingegnere danese Niels J. Gimsing.

«Oltre ad essere stato membro (dal 1986-1993) della commissione internazionale di valutazione del progetto di massima del Ponte, risulta aver lavorato nella realizzazione dello Storbelt East Brigde, progettato dalla società di consulenza Cowi di Copenaghen a cui il raggruppamento temporaneo d’imprese guidato da Impregilo ha affidato “in esclusiva” l’elaborazione progettuale del Ponte sullo Stretto».

«Tra i più stridenti conflitti d’interesse nella gara per il general contractor del Ponte – aggiungono i ricercatori di Terrelibere - c’è quello legato alla partecipazione delle Coop “rosse”, su schieramenti contrapposti, con i due gioielli più rappresentativi del settore costruzioni, il CCC Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna (in associazione con Astaldi) e la CMC Cooperativa Muratori & Cementisti di Ravenna (in associazione con Impregilo).

Con l’“anomalia”, sempre tutta italiana, che proprio la CMC di Ravenna risulta essere una delle 240 associate, la più importante, della cooperativa “madre”, CCC di Bologna.

Ciò avrebbe comportato la violazione delle normative europee e italiane in materia di appalti pubblici, le quali escludono espressamente la partecipazione ad una gara di imprese che “si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo”, ovverosia di società tra esse “collegate o controllate”».

L’ipotesi di violazione di queste norme da parte delle coop durante la gara per il Ponte è stata pure sollevata dal WWF Italia e dalla parlamentare Anna Donati. Il WWF è anche ricorso davanti all’Autorità per i Lavori Pubblici e alla Commissione Europea per chiedere, inutilmente, l’annullamento della gara.

Nonostante i pesanti rilievi, la Società Stretto di Messina scelse di non intervenire, ma alla vigilia dell’apertura delle buste, il Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna scomparì provvidenzialmente dalla lista delle società della cordata Astaldi.

La coop “madre” lasciò il campo libero alla coop “figlia” che si aggiudicò con Impregilo il bando di gara. Forse era a queste “cooperative d’imprese” che si è riferito erroneamente il Presidente del Consiglio nel suo ultimo intervento in Senato.

In realtà la vincitrice della più che sospetta gara del Ponte è “Eurolink”, l’associazione temporanea costituita da Impregilo con una quota del 45%, Sacyr (18,7%), Società italiana per condotte d’acqua (15%), CMC di Ravenna (13%), Ishikawajima- Harima Heavy industries (6,3%) e Consorzio stabile Aci (2%).

Le anomalie e i tentativi, anche mafiosi, di condizionare le gare per la realizzazione del Ponte sullo stretto di Messina, sono stati approfonditi nei volumi:

A. Mangano, A. Mazzeo, Il mostro dello Stretto. Sette ottimi motivi per non costruire il Ponte, Sicilia Punto L, Ragusa, 2006.

B. A. Mazzeo, I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina, Alegre Edizioni, Roma, 2010.


Arriva il Papa, Costituzione sospesa
di Paolo Flores D'Arcais - www.ilfattoquotidiano.it - 4 Ottobre 2010

Che il ducetto bestemmiatore sia disposto a tutto per riconquistarsi l’omertà della Chiesa gerarchica può apparire scontato. Che il suo ministro degli interni – di un partito che celebrava i riti pagani celtici! – fosse pronto, con analogo bacio della pantofola clericale, a calpestare i diritti costituzionali più elementari dei cittadini di Palermo, sarà solo l’ennesimo “stupro della Costituzione” che giustamente Di Pietro ha addebitato a questo regime ogni giorno più infame.

Ma che di fronte a tanta enormità i giornali che si definiscono “indipendenti” non facciano titoli di scatola, che i loro editorialisti sempre pronti a sbandierare i “valori liberali” facciano spallucce, che le opposizioni Pd e altri Casini neppure si accorgano dello scempio compiuto, che il Capo dello Stato, che rappresenta l’unità della nazione sotto il vincolo della Costituzione, faccia lo gnorri, tutto questo lascia esterrefatti e agghiacciati.

Ieri, infatti, a Palermo sono state sospese le libertà costituzionali, e tranne questo sito non ha ancora protestato nessuno. Eppure è un vero e proprio “stupro della Costituzione” che venga rimosso uno striscione con cui dei cittadini volevano “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altri mezzo di diffusione” (articolo 21 della Costituzione italiana, teoricamente non ancora abrogato).

Quello striscione sarebbe stato un diritto anche qualora vi fosse stato scritto “Abbasso Ratzinger!” in tutte le sue articolazioni e varianti, sia chiaro.

Invece riportava semplicemente una frase del vangelo di Matteo, 21,13: “La mia casa è casa di preghiera ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri”, parole che per Ratzinger dovrebbero essere le parole stesse di Dio, ma che solerti funzionari del governo del bestemmiatore e del celtico hanno fatto rimuovere, facendo intervenire addirittura i vigili del fuoco.

E non basta: nella libreria “Altroquando”, una delle librerie storiche di Palermo, di quelle poche librerie (vale per tutta l’Italia) che sono ancora centri di vita culturale anziché meri supermarket del libro, era affisso un ironico cartello che diceva “I love Milingo”.

La polizia lo ha tolto, senza alcun mandato di alcun magistrato, violando non solo l’articolo 21 ma anche l’articolo 14, della Costituzione, che recita: “Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale”.

Di fronte a tutto questo non è accettabile il silenzio, i furbi “distinguo”, le tiepide “prese di distanza”. E se gli intellettuali corrivi tacciono, lanciamo dai siti web una raccolta di firme.

Non solo. Chi ha ordinato di togliere striscioni e cartelli ha commesso un reato. E in Italia l’azione penale è obbligatoria. Ci domandiamo cosa aspetti la procura di Palermo ad aprire una inchiesta per individuare i responsabili di tali prevaricazioni, i mandanti – in tutta la loro catena gerarchica, perché i poliziotti obbediscono ai prefetti e i prefetti al ministro dell’interno e al primo ministro bestemmiatore – di questa inammissibile violazioni delle nostre libertà più elementari.


Notti vesuviane
da Peacereporter - 29 Settembre 2010

Gli scontri di questi giorni sullo smaltimento dei rifiuti sono la conseguenza di un’emergenza che va avanti da anni. E mentre il governo continua con discariche ed inceneritori, gli abitanti di Boscoreale e Terzigno hanno deciso di ribellarsi.

"Solo l'aria c'era rimasta, e adesso ci volete togliere pure quella!" è un grido che si sente spesso di questi giorni a Boscoreale e Terzigno, due piccoli paesi all'ombra del Vesuvio che in questi giorni stanno vivendo un'aggressione inaudita da parte dello Stato Italiano.
Ogni notte, accompagnate da centinaia di poliziotti in assetto anti-sommossa, arrivano centinaia di camion carichi di spazzatura da sversare nella locale discarica "Cava Sari".

Dopo un'estate passata chiusi in casa a causa delle esalazioni che ammorbano l'intera area, gli abitanti del luogo sembrano averne avuto abbastanza e hanno deciso di reagire, cercando ogni notte di impedire ai camion di raggiungere la discarica.

La reazione dello Stato, anche a causa dell'ennesima misteriosa "emergenza rifiuti" che nelle ultime settimane ha visto le strade di Napoli riempirsi di cumuli di spazzatura non raccolta, è inflessibile: il territorio è presidiato da esercito e forze di polizia e ogni notte i presidi dei cittadini vengono caricati e sgomberati a colpi di manganello.

Ma questo attacco concertato fatto di spazzatura e violenza, come l'emergenza rifiuti che perennemente minaccia la Campania, non è una cosa nuova: la prima discarica nella zona risale ai primi anni Ottanta, e per anni vi è stato sversato di tutto.

Nel 1994, con l'istituzione del Parco del Vesuvio, la discarica è stata chiusa ma, dopo la drammatica "emergenza rifiuti" del 2008 e grazie ai decreti di emergenza che ne sono scaturiti, è arrivata la Cava Sari.

Aperta in deroga praticamente a tutto (la legislazione ordinaria, quella relativa al rischio sismico e vulcanico, il fatto di essere in un Parco Nazionale che è pure Patrimonio Mondiale Unesco), la Cava Sari doveva originariamente ricevere solo FOS (Frazione Organica Stablizzata), uno dei vari prodotti dello smaltimento della spazzatura. Peccato che in Campania non ci siano stabilimenti funzionanti che producano il FOS, e che quindi la spazzatura che ogni notte arriva a tonnellate è "tal quale", cioè spazzatura e basta.

Al posto di costruire stabilimenti di compostaggio, lo Stato ha costruito un'inceneritore ad Acerra - che a tutt'oggi nemmeno funziona - e aperto discariche che inevitabilmente si riempiono: a poche centinaia di metri dalla Sari vi è Cava Vitiello, dove quando la prima sarà piena (il che dovrebbe accadere nei primi mesi del 2011) verrà aperta una nuova discarica, segnando per altri vent'anni il destino di questa terra e di questa gente.

Una soluzione ci sarebbe ed è la raccolta differenziata, che per un'ironia del destino viene anche fatta dagli abitanti di Boscoreale i quali tuttavia devono subire le conseguenze di un sistema che la differenziata non l'ha mai voluta, arrivando persino a commissariare il sindaco di Comigliano, colpevole di aver proposto per il suo comune un piano che prevedeva il riciclo del 65 percento dei rifiuti prodotti.

La spazzatura rende troppi soldi per riciclarla, meglio accumularla nelle cave del parco nazionale, bruciarla in costosissimi inceneritori inquinanti o addirittura lasciarla a marcire nelle strade per far salire la tensione, e quindi la possibilità di fare affari e manganellare chi si oppone.

In un'inchiesta della Procura di Napoli del 2008, il ciclo di smaltimento dei rifiuti in Campania è stato definito come "imperniato su una attività di lavorazione assolutamente fittizia" - la spazzatura non è smaltita, ma semplicemente sversata sul territorio, in un processo opaco pesantemente infiltrato dalla criminalità organizzata e dal traffico di rifiuti tossici, come dimostra il ritrovamento di materiale radioattivo in un camion della spazzatura a Terzigno denunciato in questi giorni dal commissario regionale dei Verdi Emilio Borrelli.

"I siti delle discariche sono stati individuati dal governo Prodi", ha commentato Giacomo del Movimento per la Difesa del Territorio - Area Vesuviana, "e Berlusconi sta aprendo discariche su discariche. La politica in questo territorio è stata nel migliore dei casi assente, e nei peggiori complice consapevole, di quelli che ci stanno avvelenando".