martedì 26 ottobre 2010

Crisi economica globale: update

Qualche articolo sullo stato dell'arte della crisi economica, in particolare negli Usa, e su ciò che li/ci aspetta all'orizzonte...


La finanza rapace: la nuova modalità di guerra globale
di Michael Hudson - www.globalresearch.ca - 12 Ottobre 2010
Traduzione a cura di Jjules per www.comedonchisciotte.org

“Gli eventi che stanno per manifestarsi proiettano anticipatamente la loro ombra” – Goethe

Cosa succederebbe se impedissimo alle banche americane e ai loro clienti di creare 1.000 miliardi, 10.000 miliardi o addirittura 50.000 miliardi di dollari sulla tastiere dei loro computer per comprare tutte le obbligazioni e le azioni del mondo, oltre a tutte le proprietà terriere e agli altri asset in vendita, nella speranza di realizzare guadagni in conto capitale e intascare gli spread sull’arbitraggio con una leva sul debito di meno dell’1% del costo dell’interesse? E’ questo il gioco a cui si sta giocando oggi.

L’afflusso di credito in dollari nei mercati stranieri perseguendo questa strategia ha fatto salire i prezzi degli asset e delle valute straniere, consentendo agli speculatori di ripagare le propria presenza negli Stati Uniti con dollari più convenienti, tenendosi per sé il passaggio di valuta oltre al margine del tasso di interesse dell’arbitraggio.

La finanza è diventata una nuova modalità di guerra – senza l’aggravio delle spese militari e l’occupazione forzata di un altro paese. E’ una sfida nella creazione del credito per comprare proprietà immobiliari e risorse naturali in tutto il mondo, infrastrutture e la proprietà di obbligazioni e azioni aziendali.

Chi ha bisogno di un esercito quando si può ottenere la ricchezza monetaria e l’appropriazione di beni semplicemente con strumenti finanziari? La vittoria si può prevedere che andrà all’economia il cui sistema bancario potrà creare la maggior parte del credito, utilizzando un esercito di tastiere di computer per appropriarsi delle risorse del mondo.

L’ostacolo principale di fronte a questa Lebensraum finanziaria è che essa richiede che le banche centrali delle economie prese di miro accettino il credito elettronico in dollari in via di deprezzamento come mezzo di pagamento per gli asset nazionali.

I funzionari americani demonizzano i paesi che subiscono di questi afflussi di dollari come aggressivi “manipolatori di valuta”, per quella che il Segretario al Tesoro Tim Geithner definisce “una mancata rivalutazione competitiva”, nella quale i paesi bloccano l’aumento di valore delle loro valute”.

Oscar Wilde si sarebbe dovuto impegnare molto per trovare un termine più contorto per quei paesi che si proteggono dai predatori che cercano di far aumentare le loro valute per guadagnare enormi fortune. “Mancata rivalutazione competitiva“ suona come “mancato suicidio cospiratorio”.

Questi paesi stanno semplicemente cercando di proteggere le proprie valute dagli arbitraggisti e dagli speculatori che stanno inondando i loro mercati finanziari di dollari, sballottando le loro valute per ricavare miliardi di dollari dalle loro banche centrali.

Queste banche centrali sono state costrette a scegliere se permettere passivamente che questi afflussi spingano verso l’alto i loro tassi di cambio – in tal modo non riuscendo più ad esportare nei mercati stranieri a causa dei prezzi troppo alti – o riciclando questi afflussi in Buoni del Tesoro americano che hanno come rendimento un 1% con un valore di scambio in discesa (le obbligazioni a lungo termine rischiano una diminuzione del prezzo se i tassi di interesse degli Stati Uniti dovessero aumentare).

L’eufemismo utilizzato per inondare le economie di credito è l’alleggerimento quantitativo, il cosiddetto “quantitative easing”. La Federal Reserve sta pompando un’ondata di liquidità e di riserve nel sistema finanziario per ridurre i tassi di interesse, apparentemente per consentire alle banche di “uscire” dall’equity negativo che è risultato dai prestiti deteriorati concessi nel corso della bolla dell’immobiliare.

La liquidità si sta riversando sulle economie straniere, aumentando i loro tassi di cambio. Joseph Stiglitz ha recentemente ammesso che anziché aiutare la ripresa globale, l’inondazione di liquidità da parte della Fed e della Banca Centrale Europea sta creando il “caos” nei mercati valutari stranieri.

“La cosa ironica è che la Fed sta creando tutta questa liquidità nella speranza che possa far ripartire l’economia americana... invece non sta facendo nulla per l’economia americana, ma sta portando il caos nel resto del mondo”.

Quello che sta ottenendo il quantitative easing americano è spingere al rialzo il dollaro e al ribasso le altre valute, con la piena approvazione degli speculatori monetari che si stanno godendo dei rapidi e facili guadagni.

Tuttavia, è per difendere questo sistema che i diplomatici e i lobbisti bancari americani stanno minacciando di mandare il rovina il sistema finanziario internazionale e far cadere il commercio mondiale nell’anarchia se gli altri paesi non sono d’accordo in una riproposizione dell’Accordo del Plaza del 1985 come “una possibile struttura per pianificare una diminuzione controllata del dollaro ed evitare flussi commerciali potenzialmente destabilizzanti”.

L’Accordo del Plaza fece deragliare l’economia del Giappone aumentando il suo tasso di cambio e abbassandone nel contempo i tassi di interesse, con un’inondazione dell’economia che gonfiò una bolla immobiliare.

Il direttore del FMI Dominique Strauss-Kahn è stato più realista. “Non sono sicuro che sia il momento giusto per avere un nuovo accordo del Plaza o del Louvre”. “Ora ci troviamo in un periodo diverso”.

Ammettendo la necessità dell’”applicazione di un qualche elemento per il controllo dei capitali”, egli ha anche aggiunto che in vista dell’insistenza americana su mercati dei capitali aperti e non protetti, “l’idea che in un mondo globalizzato ci sia una necessità assoluta di lavorare insieme potrebbe perdere forza”.

E’ in discussione il fatto di quanto tempo dovranno soggiacere le nazioni all’eccesso speculativo di dollari. Il mondo è stato costretto a scegliere tra la subordinazione al nazionalismo economico americano o il periodo transitorio dell’anarchia finanziaria.

Le nazioni stanno rispondendo cercando di creare un sistema finanziario alternativo, rischiando un periodo di transizione anarchico allo scopo di creare un’economia mondiale più equa.

Rigonfiare la bolla finanziaria anziché svalutare i debiti

Il sistema finanziario globale ha già visto un lungo e inutile esperimento di quantitative easing con il carry trade del Giappone. Dopo lo scoppio della bolla finanziaria nel 1990, la Banca del Giappone ha cercato di permettere alle sue banche di “uscire dall’equity negativo” fornendo loro credito a basso tasso di interessere da poter prestare all’esterno.

La recessione giapponese ha lasciato una scarsa domanda nazionale, e quindi le banche hanno sviluppato il carry trade: prestiti a tassi bassi di interesse ad arbitraggisti per acquistare titoli ad alto rendimento. L’Islanda, ad esempio, stava pagando il 15%.

Quindi venivano presi a prestito yen per essere convertiti in dollari, euro, corone islandesi e renminbi cinesi per poter poi acquistare obbligazioni governative, obbligazioni private, azioni, opzioni valutarie ed altri intermediazioni finanziarie.

Di questi soldi, solamente una piccola parte è stata utilizzata per finanziare la formazione di nuovo capitale. E’ stata una caratterizzazione puramente finanziaria – estrattiva, e non produttiva.

Nel 2006 gli Stati Uniti e l’Europa stavano subendo una bolla finanziaria e immobiliare. E dopo il suo scoppio nel 2008, si comportarono come le banche giapponesi dopo il 1990. Nel tentativo di aiutare le banche americane ad uscire dall’equity negativo, la Federal Reserve ha inondato l’economia di credito.

L’obiettivo era quello di garantire altra liquidità, nella speranza che le banche potessero prestare più soldi ai mutuatari nazionali. L’economia “avrebbe preso a prestito la propria via d’uscita dal debito”, rigonfiando i prezzi degli asset per il settore immobiliare, le azioni e le obbligazioni in modo da dissuadere i pignoramenti e la conseguente cancellazione del collaterale sui bilanci delle banche.

Il quantitative easing sovvenziona il flusso di capitali americani, facendo aumentare i tassi di cambio delle valute straniere

Il quantitative easing potrebbe non essere stato istituito per sconvolgere il sistema commerciale e finanziario globale o iniziare un circolo di speculazione monetaria, ma si tratta del risultato della decisione presa dalla Fed nel 2008 di impedire che i debiti astronomici fossero insolventi rigonfiando l’immobiliare e i mercati finanziari americani.

L’obiettivo è quello di rimuovere l’equity negativo dalla proprietà delle abitazioni, tirando in salvo i bilanci delle banche e risparmiando quindi al governo la concessione di un TARP II, che appare politicamente irrealizzabile considerato l’umore di buona parte degli americani.

L’obiettivo annunciato non si sta concretizzando. Anziché aumentare i loro prestiti all’immobiliare, ai consumatori e alle aziende americane, le banche stanno ancora riducendo la propria esposizione. E’ questo il motivo per cui il livello dei risparmi negli Stati Uniti sta schizzando in alto.

Il “risparmio” di cui si ha notizia (dallo zero al 3% del PIL) sta prendendo la forma del pagamento dei debiti contratti in passato, e non la costituzione di fondi liquidi. Come l’accaparramento impedisce alle entrate di essere spese in beni e servizi, allo stesso modo il ripagamento dei debiti riduce le entrate spendibili.

Allora perché le banche dovrebbero prestare di più nella situazione in cui un terzo delle abitazioni degli Stati Uniti sono già in equity negativo e l’economia si sta contraendo come risultato di una deflazione del debito?

Bernanke propone di risolvere il problema iniettando altri 1.000 miliardi di dollari di liquidità nel corso del prossimo anno, oltre ai 2.000 miliardi di dollari di nuovo credito che la Federal Reserve ha creato nel biennio 2009-2010.

Questo quantitative easing è stato inviato all’estero, principalmente ai paesi del BRIC – Brasile, Russia, India e Cina. “Le ultime ricerche del Fondo Monetario Internazionale hanno mostrato alla fine che l’alleggerimento monetario del G4 si è trasferito in passato quasi del tutto nelle economie emergenti... a partire dal 1995, la posizione della politica monetaria in Asia è stata quasi del tutto determinata dalla posizione monetaria del G4 – vale a dire gli Stati Uniti, l’Eurozona, Giappone e Cina – guidato dalla Fed”.

Secondo il FMI, “i prezzi dell’equity in Asia e America Latina in genere aumentano quando una liquidità in eccesso viene trasferita dal G4 alle economie emergenti”. Questo è ciò che ha portato il rialzo del prezzo dell’oro e gli investitori ad abbandonare il dollaro dall’inizio di settembre, suggerendo alle altre nazioni di proteggere le proprie economie.

Il credito speculativo dalle banche americane, giapponesi e britanniche per acquistare obbligazioni, azioni e valuta nei paesi del BRIC e del Terzo Mondo è un’espansione autoalimentante, che spinge al rialzo le loro valute oltre al prezzo dei loro asset.

Le loro banche centrali finiscono con questi dollari, il cui valore diminuisce in rapporto alle loro valute nazionali. I funzionari americani sostengono che questo fa tutto parte del mercato libero.

“Per risolvere questo problema più ampio non è bello che il mondo... si appoggi sulle spalle degli Stati Uniti”, ha insistito mercoledì il Segretario al Tesoro Tim Geithner, come se l’eccesso di quantitative easing americano e deregolamentazione non fosse per favorire l’eccesso speculativo di dollari.

Quindi gli altri paesi sono costretti a risolvere il problema da soli. Il Giappone sta tenendo basso il proprio tasso di cambio vendendo yen e comprando Buoni del Tesoro americani nonostante il suo carry trade sia in via di annullamento perché gli arbitraggisti restituiscono gli yen che avevano preso a prestito in precedenza per comprare debito sovrano a maggior rendimento ma potenzialmente rischioso da paesi come la Grecia.

Queste restituzioni hanno fatto aumentare il tasso di cambio dello yen del 12% nei confronti del dollaro nel corso del 2010, portando il governatore della Banca del Giappone Masaaki Shirakawa a dichiarare martedì 5 ottobre che il Giappone “non aveva altra scelta” se non quella di “spendere 5.000 miliardi di yen (60 miliardi di dollari) per acquistare obbligazioni governative, cambiali aziendali, fondi fiduciari immobiliari e ETF – gli ultimi due rappresentano una novità dalle consuetudini del passato”.

La “sterilizzazione” di afflussi indesiderati è il motivo delle critiche degli Stati Uniti alla Cina. La Cina ha tentato metodi più ortodossi per riciclare la sua eccedenza commerciale, cercando attentamente aziende americane da acquistare.

Ma il Congresso alcuni anni fa non aveva permesso che la CNOOC acquisisse la capacità produttiva delle raffinerie di petrolio americane e ci sono ora pressioni sul governo canadese per bloccare il tentativo cinese di acquistare le sue risorse di idrossido di potassio.

Un simile protezionismo lascia poche possibilità alla Cina e agli altri paesi se non quella di mantenere stabili le proprie valute acquistando obbligazioni governative americane ed europee.

Il problema per tutti i paesi oggi è che, per come è attualmente strutturato, il sistema finanziario globale ricompensa la speculazione e rende difficile alle banche centrali mantenere la stabilità senza riciclare gli afflussi di dollari provenienti dal governo americano, che gode di un monopolio quasi totale nel fornire riserve alle banche centrali mondiali avendo un deficit nel bilancio e nella bilancia dei pagamenti.

Come fatto notare in precedenza, gli arbitraggisti ottengono un duplice guadagno: il margine tra il rendimento di quasi il 12% sulle obbligazioni governative a lungo termine brasiliane e il costo del credito americano (1%), oltre al guadagno risultante sul foreign exchange che deriva dal fatto che la fuga dal dollaro al real ha spinto al rialzo il tasso di cambio del real di circa il 30% - da 2,50 real all’inizio del 2009 a 1,75 real la settimana scorsa.

Considerando la possibilità di alzare una leva di 1 milione di dollare sul proprio investimento di equity per acquistare titoli stranieri da 100 milioni di dollari, da gennaio 2009 i profitti sono del 3000%.

Il Brasile è stato più una vittima che un beneficiario di quello che eufemisticamente è stato definito “afflusso di capitali”. L’afflusso di denaro dall’estero ha fatto aumentare il real del 4% in appena un mese (dal 1° settembre all’inizio di ottobre), e la fase preparatoria dello scorso anno ha eroso la competitività delle esportazioni brasiliane.

Per impedire l’aumento della valuta, il 4 ottobre il governo ha imposto una tassa del 4% sugli acquisti dall’estero delle proprie obbligazioni. “Non è solamente una guerra monetaria”, ha spiegato il Ministro delle Finanze Guido Mantega. “Tende a diventare una guerra commerciale e questa è la nostra preoccupazione”.

Il direttore della banca centrale thailandese Wongwatoo Potirat ha dichiarato che il suo paese stava prendendo in considerazione un’imposta analoga e anche restrizioni valutarie sulle attività commerciali per contrastare l’aumento del baht. Subir Gokarn, vicegovernatore della Reserve Bank indiana, ha annunciato che il suo paese sta anch’esso valutando delle difese contro la “minaccia potenziale” di afflussi di capitale.

Simili afflussi non forniscono capitale per investimenti tangibili. Sono rapaci e provocano fluttuazioni nelle valute che scompigliano gli schemi commerciali creando nel contempo enormi profitti per i grandi istituti finanziari e i loro clienti.

Eppure la maggior parte delle discussioni considerano la bilancia dei pagamenti e i tassi di cambio come se fossero determinati unicamente dal commercio delle materie prime e dalla “parità del potere d’acquisto”, e non da flussi finanziari e spese militari che in realtà dominano la bilancia dei pagamenti.

La realtà è che il l’interregno finanziario odierno – “liberi” mercati anarchici davanti a paesi che rapidamente stanno allestendo le loro difese monetarie – fornisce l’opportunità arbitraggista del secolo. E’ questo su cui stanno facendo pressioni i lobbisti bancari ed ha poco a che vedere con il benessere dei lavoratori nei loro paesi. Il premio speculativo potenzialmente più importante si prevede che sia una rivalutazione del renminbi cinese.

La Commissione Finanze e Previdenza sta chiedendo che la Cina aumenti il suo tasso di cambio del 20%, come stanno suggerendo il Tesoro e la Federal Reserve. Una rivalutazione di tale portata consentirebbe agli speculatori di abbattere l’1% di equity – diciamo, 1 milione di dollari per prendere a prestito 99 milioni di dollari – e comprare renminbi cinesi a termine.

La rivalutazione che viene chiesta produrrebbe un utile del 2000% equivalente a 20 milioni di dollari trasformando la scommessa di 100 milioni di dollari (e con appena 1 milione di dollari di “denaro serio”) in 120 milioni di dollari. Le banche possono negoziare su margini molto più alti e con una leva pressoché infinita, quasi come sottoscrivere CDO e altri giocattoli derivati.

Questo genere di denaro è stato ottenuto speculando sui titoli brasiliani, indiani e cinesi e su quelli degli altri paesi i cui tassi di cambio sono stati aumentati dalla fuga di crediti in dollari, diminuiti del 7% nei confronti di un paniere di valute dall’inizio di settembre quando la Federal Reserve aveva fatto balenare l’idea di un quantitative easing.

Nel corso della settimana che ha portato alle riunioni del FMI a Washington, il bath thailandese e la rupia indiana sono aumentate sospettando che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbe bloccato qualsiasi tentativo da parte dei paesi stranieri di cambiare il sistema finanziario e mettere un freno al dirompente gioco speculativo sulle valute.

Questa fuga di capitali dagli Stati Uniti ha sicuramente aiutato le banche nazionali a ricostruire i propri bilanci, come aveva inteso la Fed. Ma nel processo il sistema finanziario internazionale è stato vittimizzato come danno collaterale.

Questo ha suggerito ai funzionari cinesi di opporsi ai tentativi americani di far ricadere sulla Cina la colpa di avere di avere un’eccedenza commerciale ribattendo che l’aggressione finanziaria degli Stati Uniti “ha rischiato di portare una distruzione reciproca nelle due grandi potenze economiche”.

Dal gold standard allo standard della banconota del Tesoro all’anarchia del “libero credito”

Sicuramente, la situazione di stallo tra Stati Uniti e gli altri paesi alle riunioni del FMI a Washigton di questo fine settimana minaccia di provocare la spaccatura più grave dalla Conferenza Monetaria di Londra del 1933.

Il sistema finanziario globale minacia ancora una volta di voler rompere tutto, sconvolgendo il commercio mondiale e i rapporti di investimento – o di prendere una nuova forma che terrà isolati gli Stati Uniti a fronte del loro deficit strutturale a lungo termine sulla bilancia dei pagamenti.

Questa crisi fornisce un’opportunità – per la verità, una necessità – per fare un passo indietro e valutare la longue durée dell’evoluzione finanziaria interazionale per vedere dove ci stanno portando le tendenze del passato e quali percorsi debbano essere ridisegnati.

Per molti secoli, prima del 1971, le nazioni saldavano la propria bilancia dei pagamenti in oro o argento. Questo “denaro del mondo”, come Sir James Steuart definiva l’oro nel 1767, formò la base inoltre della valuta nazionale.

Fino al 1971 ogni banconota della Federal Reserve degli Stati Uniti era garantita al 25% da oro, valutato 35 dollari l’oncia. I paesi dovevano procurarsi oro con un surplus nelle attività commerciali e nella bilancia dei pagamenti allo scopo di incrementare la loro offerta monetaria per facilitare l’espansione economica generale.

E quando andavano in deficit o intraprendevano delle campagne militari, le banche centrali riducevano l’offerta di credito nazionale per aumentare i tassi di interesse e attirare afflussi finanziari dall’estero.

Finché persisteva questa condizione, il sistema finanziario internazionale operava senza grosse difficoltà con “controlli e contrappesi”, sebbene con politiche di “stop & go” [politiche di breve termine mirate a tenere in equilibrio obiettivi spesso contrastanti tra loro, NdT] quando le espansioni delle attività commerciali portavano a deficit commerciali e nella bilancia dei pagamenti.

I paesi con simili deficit aumentavano i loro tassi di interesse per attirare capitale straniero, mentre tagliavano le spese governative, aumentavano le imposte sui consumatori e rallentavano l’economia nazionale in modo da ridurre l’acquisto di importazioni.

Ciò che destabilizzò il sistema furono le spese di guerra. Le transazioni belliche che si estesero tra la prima e la seconda guerra mondiale consentirono nel 1950 agli Stati Uniti di accumulare all’incirca l’80% dell’oro monetario del mondo. Questo rese il dollaro un rappresentante virtuale per l’oro.

Ma dopo lo scoppio della guerra di Corea, le spese militari all’estero degli Stati Uniti incisero sull’intera bilancia dei pagamenti nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta e inizio anni Settanta, mentre il commercio e gli investimenti del settore privato erano perfettamente in equilibrio.

Nell’agosto 1971, le spese belliche in Vietnam e negli altri paesi obbligarono gli Stati Uniti a sospendere la convertibilità del dollaro in oro attraverso con vendite realizzate tramite il London Gold Pool.

Ma, soprattutto per inerzia, le banche centrali continuarono a saldare le loro bilance dei pagamenti in titoli del tesoro americano. Dopotutto, non c’era una quantità sufficiente di altri asset per formare la base per le riserve monetarie della banca centrale.

Ma la sostituzione dell’oro – un asset puro – con un debito del Tesoro americano espresso in dollari ha trasformato il sistema finanziario globale, basato ora sul debito e non sugli asset. E dal punto di vista geopolitico, lo standard della banconota del Tesoro ha reso immuni gli Stati Uniti dai tradizionali vincoli finanziari e della bilancia dei pagamenti, consentendo ai suoi mercati dei capitali di diventare sempre più fortemente indebitati e “innovativi”.

Ha inoltre consentito al governo degli Stati Uniti di intraprendere campagne politiche e militari all’estero senza doversi preoccupare troppo della bilancia dei pagamenti.

Il problema è che l’offerta di credito in dollari è diventata potenzialmente infinita. “L’eccesso di dollari” è aumentato in proporzione al deficit americano sulla bilancia dei pagamenti. La crescita delle riserve della banca centrale e dei fondi sovrani ha preso la forma del riciclaggio dell’afflusso di dollari in nuovi titoli del Tesoro americano – in tal modo rendendo responsabili le banche centrali (e i contribuenti) stranieri del finanziamento della maggior parte del deficit federale di bilancio degli Stati Uniti.

Il fatto che questo deficit sia costituito in larga parte da spese di natura militare – per scopi verso cui la maggior parte degli elettori si opporrebbe – rende questa convenzione particolarmente fastidiosa. Dunque, non c’è da stupirsi che i paesi stranieri stiano cercando un’alternativa.

Contrariamente all’atteggiamento di buona parte dei media pubblici, il saldo negativo sulla bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti – e quindi, i saldi attivi sulla bilancia dei pagamenti degli altri paesi – non è principalmente un deficit commerciale.

Le spese militari all’estero sono accelerate nonostante la fine della Guerra Fredda con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991. Ancor più importante è stato l’aumento delle fughe di capitali dagli Stati Uniti.

Le banche hanno prestato ai governi stranieri, dai paesi del Terzo Mondo ad altri paesi in deficit, per coprire i loro deficit nazionali sulla bilancia dei pagamenti, ai mutuatari privati per acquistare infrastrutture all’estero che venivano privatizzate o per acquistare azioni e obbligazioni straniere, e agli arbitraggisti che prendevano soldi a prestito con un basso tasso di interesse per acquistare titoli ad alto rendimento all’estero.

Il corollario è che i saldi attivi sulla bilancia dei pagamenti degli altri paesi non hanno origine principalmente dai rapporti commerciali ma dalla speculazione finanziaria e da un eccesso delle spese militari degli Stati Uniti.

In queste condizioni gli stratagemmi per ottenere rapidamente dei profitti da parte delle banche e dei loro clienti arbitraggisti sta distorcendo i tassi di cambio del commercio internazionale.

Il “quantitative easing” americano sta iniziando ad essere percepito come un eufemismo per un attacco finanziario rapace al resto del mondo. Le attività commerciali e la stabilità della valuta fanno parte del “danno collaterale” causato dall’inondazione di liquidità da parte della Federal reserve e del Tesoro per rigonfiare i prezzi degli asset degli Stati Uniti.

Di fronte a questo quantitative easing che sta inondando l’economia di riserve per “salvare le banche” da un equity negativo, tutti i paesi sono costretti a comportarsi come “manipolatori di valuta”. Si guadagnano così tanti soldi per pura speculazione finanziaria che le economie “reali” vengono distrutte.

Il futuro controllo dei capitali

Il sistema finanziario globale è stato smembrato quando i funzionatori monetari americani hanno cambiato le regole che avevano stabilito mezzo secolo fa. Prima che gli Stati Uniti abbandonassero l’oro nel 1971, nessuno si sarebbe sognato che l’economia potesse creare credito illimitato sulla tastiera di un computer e non vedesse precipitare la propria valuta. Ma questo è quello che succede nello standard globale della banconota del Tesoro.

I paesi stranieri possono impedire il rialzo delle loro valute nei confronti del dollaro (che mette fuori prezzo le loro esportazioni e la loro manodopera nei mercati stranieri) solamente (1) riciclando gli afflussi di dollari in titoli del Tesoro americano (2) imponendo controlli sui capitali oppure (3) evitando di utilizzare il dollaro o altre valute adoperate dagli speculatori finanziari nelle economie che favoriscono il “quantitative easing”.

La Malaysia ha usato il controllo dei capitali nel corso della crisi asiatica del 1997 per impedire ai venditori allo scoperto di coprire le loro scommesse. Gli speculatori si sono trovati di fronte ad un drastico giro di vite che ha fatto perdere a George Soros un sacco di soldi nel tentativo di incursione.

Altri paesi stanno ora valutando come imporre il controllo dei capitali per proteggersi dallo tsunami di credito che sta affluendo nelle loro valute e che sta comprando i loro asset – insieme all’oro e alle altre materie prime che si stanno trasformando in altri strumenti speculativi anziché essere di reale utilizzo produttivo.

Il Brasile ha intrapreso un timido passo in questa direzione utilizzando una politica fiscale anziché controlli sui capitali immediati quando la settimana scorsa ha tassato gli acquirenti stranieri che compravano obbligazioni governative.

Se anche altre nazioni dovessero intraprendere questa strada, si invertirà la politica dei mercati dei capitali aperti e non protetti adottata dopo la seconda guerra mondiale. Questa tendenza minaccia di portare al genere di procedura monetaria internazionale che si è vista dagli anni Trenta fino agli anni Cinquanta – vale a dire un duplice tasso di cambio, uno per i movimenti finanziari e un altro per il commercio. E questo probabilmente significherebbe la sostituzione del FMI, della Banca Mondiale e del WTO con un nuovo insieme di istituzioni, isolando le posizioni di Stati Uniti, Regno Unito e dell’Eurozona.

Per difendersi, il FMI ha intenzione di comportarsi come una “banca centrale” creando quella che alla fine degli anni Sessanta veniva definita “carta dorata”– credito artificiale sotto forma di Diritti Speciali di Prelievo (in inglese, Special Drawing Rights). Tuttavia, altri paesi si sono già lamentati del fatto che il controllo delle votazioni rimane dominato dai principali sostenitori della speculazione dell’arbitraggio – Stati Uniti, Gran Bretagna e l’Eurozona.

E gli articoli dello statuto del FMI impediscono ai paesi di proteggersi, definendo tutto questo come una “interferenza” con i “mercati dei capitali aperti”. Quindi lo stallo a cui si è arrivati nel fine settimana sembra essere permanente. Una nota ha così riassunto la vicenda: “C’è solo un ostacolo, che è l’accordo tra i membri”, ha detto un frustrato Strauss-Kahn. Aggiungendo: “La lingua non ha alcun effetto”.

Paul Martin, l’ex primo ministro canadese che ha contribuito alla creazione del G20 dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997-1998, ha fatto notare che “i poteri forti sono stati perlopiù immuni dal venire tirati in ballo o incolpati”.

E in un’intervista rilasciata al Financial Times, Mohamed El-Erian, un ex alto funzionario del FMI e ora amministratore delegato di Pimco, ha dichiarato: “Avete un tubo nel muro che perde e l’acqua sta uscendo. Dovete riparare il tubo e non coprire solamente le macchie sul muro”.

I paesi del BRIC stanno semplicemente creando il proprio sistema parallelo. A settembre, la Cina ha appoggiato una proposta russa di iniziare le attività commerciali dirette tra lo yuan e il rublo. Un accordo simile è stato sottoscritto con il Brasile.

E alla vigilia delle riunioni del FMI a Washington di venerdì 8 ottobre, il premier Wen ha fatto sosta ad Istanbul per raggiungere un accordo con il primo ministro turco Erdogan per utilizzare le proprie valute nazionali per triplicare le attività commerciali Turchia-Cina fino a 50 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni, con questo escludendo di fatto il dollaro americano. “Stiamo formando una partnership strategica economica... in tutte le nostre relazioni, abbiamo convenuto ad utilizzare la lira e lo yuan”, ha detto Erdogan.

Andando più in profondità sul piano economico, l’attuale dissesto finanziario globale fa parte del prezzo da pagare per la Federal Reserve e il Tesoro americano che si rifiutano di accettare il primo assioma del sistema bancario: i debiti che non possono essere ripagati, non lo saranno mai. Hanno tentato di “salvare” il sistema bancario dalla svalutazione dei debiti nel 2008 lasciando il peso del debito mentre si rigonfiavano i prezzi degli asset.

Di fronte all’onere del ripagamento dei debiti che sta contraendo l’economia americana, l’idea della Fed per aiutare le banche ad “uscire dal loro equity negativo” è quella di fornire delle opportunità alla finanza rapace, portando ad un’indondazione di speculazione finanziaria.

Le economie prese di mira dagli speculatori globali stanno comprensibilmente cercando delle alternative. Non sembra che queste possano essere raggiunte attraverso il FMI o altre tribune internazionali con modalità che gli strateghi finanziari americani saranno disposti ad accettare.


NOTE:

[1] Sewell Chan, “Currency Rift With China Exposes Shifting Clout,” The New York Times, October 11, 2010.
[2] Walter Brandimarte, “Fed, ECB throwing world into chaos: Stiglitz,” Reuters, Oct. 5, 2010, reporting on a talk by Prof. Stiglitz at Columbia University, http://www.reuters.com/article/idUSTRE6944M920101005. Dirk Bezemer and Geoffrey Gardiner, “Quantitative Easing is Pushing on a String” (paper prepared for the Boeckler Conference, Berlin, October 29-30, 2010), make clear that “QE provides bank customers, not banks, with loanable funds. Central Banks can supply commercial banks with liquidity that facilitates interbank payments and payments by customers and banks to the government, but what banks lend is their own debt, not that of the central bank. Whether the funds are lent for useful purposes will depend, not on the adequacy of the supply of fund, but on whether the environment is encouraging to real investment.” (p.c., G. Gardiner)
[3] Tom Lauricella, “Dollar's Fall Roils World: As Global Leaders Meet, Strains Rise Among Nations Competing to Save Exports,” Wall Street Journal, October 8, 2010, quoting Edwin Truman, a former U.S. Treasury official now a senior fellow at the Peterson Institute for International Economics.
[4] Alan Beattie, Chris Giles and Michiyo Nakamoto, “Currency war fears dominate IMF talks,” Financial Times, Oct. 9, 2010, and Alex Frangos, “Easy Money Churns Emerging Markets,” Wall Street Journal, Oct. 8, 2010.
[5] Gavyn Davies, “The global implications of QE2,” Financial Times, October 5, 2010.
[6] Alan Beattie, “Global economy: Going head to head,” Financial Times, October 8, 2010.
[7] Megumi Fujikawa and David Wessel, “Central Banks Open Spigot,” Wall Street Journal, October 6, 2010.
[8] Jonathan Wheatley, “Investors calm over Brazil tax rise,” Financial Times, October 6, 2010.
[9] Alan Beattie, Joshua Chaffin and Kevin Brown, “Wen warns against renminbi pressure,” Financial Times, October 7, 2010.
[10] Alan Beattie, “Global economy: Going head to head,” Financial Times, October 8, 2010.
[11] Chris Giles and Alan Beattie, “Leaders pledge cooperation on currencies,” Financial Times, October 9, 2010.
[12] Chris Giles and Alan Beattie, “Global clash over economy,” Financial Times, October 10, 2010.
[13] Alan Beattie and Chris Giles, “IMF meeting dashes hopes for co-operation,” Financial Times, October 10, 2010.
[14] Joe Parkinson, “Turkey, China Shun the Dollar in Conducting Trade,” Wall Street Journal, October 8, 2010.


Krugman frustrato
di Rick Wolff - http://mrzine.monthlyreview.org - 3 Ottobre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Francesco Scurci

Povero Paul Krugman, intrappolato nella vecchia routine keynesiana in mezzo agli accecati. La recessione sarebbe finita, egli afferma, se solo il governo fosse ricorso all’aumento del deficit per fornire la necessaria spinta fiscale.

Se solo Obama e la sua gente e quei pazzi Repubblicani fossero stati meno preoccupati da quest’audace manovra, meno confusi dall’ideologia e meno ignoranti in economia. Krugman continua ad avvertire che il 2010 sostituirà il 1937 e farà di nuovo crollare l’economia.

Persino i più conservatori nella politica fiscale, i Repubblicani e i ricchi (gruppi d’interesse che d‘ora in poi chiameremo FCRR) preferiscono che Washington prenda in prestito i soldi piuttosto che essere tassati. In un certo senso essi sostengono il Keynesiano deficit di spesa.

Inoltre vedono che non tutto il male viene per nuocere poiché saranno coloro i quali presteranno il denaro e di conseguenza traggono interesse dall’azione del governo.

Così quando le recessioni sono potenti e minacciano depressioni economiche, l’FCRR a malincuore sostiene il ricorso a politiche keynesiane (come fecero nel tardo 2008 e a inizio 2009). Le vogliono però limitate sia nel tempo sia nella portata. Paragonano Krugman a Chicken Little …..

Di cosa stanno discutendo così animatamente? All’FCRR non piacciono debiti grandi e di lunga durata a causa dei rischi che comportano. Per prima cosa temono che Washington, gonfio di capitali presi a prestito, sia tentato (o politicamente pressato) ad assumere i disoccupati per produrre beni o servizi e competere così direttamente con i privati.

Seconda cosa, l’FCRR teme che le imprese dello Stato possano operare diversamente da quelle private ovvero in maniera più democratica e con maggiore partecipazione dei lavoratori nei processi decisionali, portando i lavoratori impiegati nel settore privato a richiedere simili condizioni.

Terzo l’FCRR, in qualità di finanziatore della spesa a deficit, ha paura che il crescente peso fiscale del debito nel budget della spesa pubblica provocherà una richiesta dell’opinione pubblica di diminuire, tagliare o addirittura eliminare tale fiscalità.

Quarto, essi ritengono che il prendere a prestito una grande quantità di denaro da parte dello Stato taglierà fuori i privati che vogliono accedere al credito o imporrà su di loro tassi di interesse più elevati. Quinto e ultimo, l’FCRR dubita che il debito di oggi sarà ridotto dagli utili futuri.

Ma soprattutto l’FCRR non gradisce il deficit di spesa keynesiano poiché esso rinvia nel tempo gli aggiustamenti strutturali necessari per porre fine alla recessione e rigenerare la crescita economica, l’occupazione e i ricavi.

Essi affermano che il deficit di spesa, riducendo la disoccupazione, rallenti o fermi la caduta dei salari necessaria a ravvivare la produttività e i profitti che da soli bastano per garantire gli investimenti e la crescita. Allo stesso modo, rallentando la riduzione dell’offerta, il deficit di spesa impedisce il crollo del prezzi delle materie prime necessario a rinverdire i profitti.

Per farla breve, l’FCRR ritiene che la spesa a deficit, aldilà di una rapida e modica iniezione di capitali per fronteggiare una congiuntura estremamente sfavorevole, sia una inefficace misura di autodifesa per resuscitare il capitalismo in crisi.

Essa rischia di esasperare e quindi di peggiorare le fasi del capitalismo piuttosto che consentire loro di effettuare la cosiddetta “distruzione creativa” eliminando ciò che l’FCRR vede come inefficienze.

Tutte le precedenti questioni emergono logicamente dalla teoria neoclassica di come funziona il capitalismo. I keynesiani hanno un differente punto di vista e principalmente vanno in un'altra direzione. Per loro la “distruzione creativa” può provocare un movimento sociale che sfidi il capitalismo stesso e reclami un radicale cambiamento.

Questo acceso dibattito ricalca la classica contesa tra centrodestra e centrosinistra su come i governi dovrebbero interagire con i cicli economici del capitalismo. Il loro obiettivo condiviso è sempre stato quello di mettere al sicuro il capitalismo e ridare slancio all’economia prima della successiva crisi.

Certamente ognuna delle due parti rinvia all’altra accusandola che “le sue politiche minacciano il capitalismo fingendo di ridargli slancio”.

Le discussioni infinite fra le fazioni sono spettacoli di “distrazione di massa”. Il teatrino politico di “come superare la crisi”. Bush ha fatto relativamente poco nel 2007 e nel 2008; i suoi consiglieri erano devoti nel permettere la “distruzione creativa”.

Quando la crisi si è approfondita, espansa ed ha minacciato di andare fuori controllo molti di quegli stessi consiglieri sono diventati keynesiani interventisti.

Obama li ha tenuti per fare più di questo. Krugman era speranzoso. Una volta che la ripresa sembrava essersi messa in moto nel 2009 e ad inizio 2010, le forze politiche di nuovo sono tornate verso il pensiero dell’FCRR, l’impegno keynesiano di Obama si è affievolito e Krugman ha cominciato ad entrare nel panico.

Nel contempo, sotto la superficie di questi dibattiti, l’attuale economia procede seguendo i suoi cicli con le classiche caratteristiche del capitalismo. Il perdurante alto tasso di disoccupazione, i pignoramenti delle case e la produzione stagnante hanno spinto giù il livello dei salari, dei benefit e dei costi materiali nel settore privato (il crollo dei prezzi delle attrezzature, degli affitti etc.).

Alla fine questi crolleranno abbastanza da far risultare sufficientemente appetibili i profitti e persuadere i capitalisti ad effettuare nuovi investimenti. Dopo di che potrà avere luogo la solita ripresa.

Comunque in questo lasso di tempo di criticità e di sofferenza per l’economia si potrebbero generare tensioni sociali e movimenti che necessitano di essere contenuti. Tutto ciò richiederà nuovi interventi di matrice keynesiana.

Le prospettive dell’FCRR riprenderanno il loro status di leale opposizione e i gruppi di interesse aspetteranno la ripresa economica per ricompattare le forze e ritornare al potere.

Nessuna delle due operazioni metterà al sicuro la struttura del capitalismo dalle sue congenite instabilità. Piuttosto è l’oscillazione della politica pubblica fra le due vision che meglio può perseguire l’obiettivo.

Allo stesso modo né i Repubblicani né i Democratici sono in grado di proteggere meglio il sistema dalla subordinazione del governo all’organizzazione capitalistica dell’economia. L’obiettivo è meglio raggiunto soprattutto attraverso l’oscillazione fra le due politiche rendendone una l’antidoto per i fallimenti dell’altra.

Argomentazioni che il capitalismo rappresenti il problema e un sistema economico alternativo la soluzione si sentono raramente. I media, i politici, l’FCRR e Paul Krugman sono allineati nel mantenere il silenzio.

In questo strano balletto, l’alternativa del socialismo è spuntata fuori di nuovo. I tipi del Tea Party, specialisti nella tendenza americana di incolpare dei problemi economici prima e soprattutto il governo, criticano Obama e le sue politiche “socialiste”.

Siccome i nemici di Obama hanno reintrodotto il termine, i suoi numerosi sostenitori rimasti, specialmente i giovani, hanno cominciato ad interrogarsi su questo “socialismo”. Esso è un genuino interesse (piuttosto che colpevolezza) corporativo.

In innumerevoli sedi, affrontiamo ora amichevolmente domande sul socialismo e sulle soluzioni che potrebbe fornire al capitalismo in crisi. Gli Stati Uniti oggi hanno una reale opportunità storica.

Rick Wolff è Professore Emerito all’Università di Amherst nel Massachusetts e anche Professore in Visita al “Programma Laurea in Affari Esteri” alla New School University di New York. Egli è autore di “New Departures in Marxian Theory” (Routledge, 2006) oltre a molte altre pubblicazioni. Guardate il film documentario di Ricky Wolf sulla attuale crisi economica,”Capitalism Hits the Fan”, sul sito www.capitalismhitsthefan.com. Visitate il web site di Wolf all’indirizzo www.rdwolff.com, e ordinate una copia del suo nuovo libro “Capitalism Hits the Fan: The Global Economic Meltdown and What to Do about “. Titolo originale: "Krugman Frustrated"


Gli Stati Uniti verso la bancarotta
di Attilio Folliero e Cecilia Laya - www.ariannaeditrice.it - 25 Ottobre 2010

Passato, presente e futuro del debito pubblico di un paese destinato al default

1) Il passato ed il presente del debito pubblico USA

Il debito pubblico degli Stati Uniti, al 30 settembre scorso, giorno di chiusura dell’anno fiscale, ha raggiunto i 13.561,62 miliardi di dollari. Al 19 di ottobre è già salito a 13.676,11 (1).

Il debito USA ha superato per la prima volta i 13.000 miliardi lo scroso primo giugno. Se consideriamo il tempo necessario per accrescersi di mille miliardi di dollari (Tabella n. 1), ci rendiamo conto che il debito USA ha subito una forte accellerazione negli ultimi anni.

Tabella n. 1
Resoconto della crescita del debito pubblico USA ogni 1.000 miliardi
(a partire dai 5.000 miliardi)
Debito USA (Miliardi di dollari)
Raggiunto in data
Giorni Necessari
Media Giornaliera (miliardi di dollari)
5.000
23/02/1996
-
-
6.000
26/02/2002
2.195
0,46
7.000
15/01/2004
688
1,45
8.000
18/10/2005
642
1,56
9.000
31/08/2007
682
1,47
10.000
30/09/2008
396
2,53
11.000
16/03/2009
167
5,99
12.000
16/11/2009
245
4,08
13.000
01/06/2010
197
5,08
Fonte: elaborazione Attilio Folliero su dati del Dipartimento del Tesoro USA

Come si evince dalla Tabella n. 1, il debito USA è arrivato a 5.000 miliardi di dollari il 23/02/1996; per crescere di mille miliardi e quindi arrivare a 6.000 sono stati necessari 2.195 giorni; infatti, ha toccato i 6.000 miliardi il 26/02/2002. In questo periodo il debito è mediamente cresciuto di circa mezzo miliardo di dollari al giorno.

Successivamente, per crescere di altri mille miliardi ed arrivare a 7.000 sono stati necessari 688 giorni; per arrivare a 8.000 miliardi sono stati necessari 642 giorni e per arrivare a 9.000 miliardi, altri 682 giorni.

Quindi constatiamo la forte accellerata nella crescita del debito ed infatti siamo nel periodo della presidenza di Bush, sotto il quale si sviluppa una política di invasioni militari che appunto si riflettono nella crescita del debito.

Fra il 2002 ed il 2007 il debito cresce mediamente di circa 1,5 miliardi di dollari al giorno. Nell’ultimo anno della presidenza di Bush la crescita arriva a 2,5 miliardi al giorno. Il debito tocca i 10.000 miliardi di dollari il 30 settembre del 2008 e per passare da 9.000 a 10.000 impiega 396 giorni.

Con l’avvento di Barack Obama, la situazione letteralmente precipita e sembra diventare incontrollabile. Il debito Usa passa da 10.000 a 11.000 miliardi in soli 167 giorni, ossia si accresce di quasi 6 miliardi al giorno nel periodo degli ultimi 3 mesi di presidenza Bush ed i prmi 3 dell’era Obama.

Obama prosegue la política intrapresa da Bush, dei forti aiuti di stato alle imprese in crisi; ma rispetto a Bush, il presidente Obama aumenta fortemente le spese militari. Per la cronaca, il bilancio di quest’anno 2010, relativo solamente al ministero della difesa prevede oltre 700 miliardi di dollari.

In questo primo periodo di presidenza, Barack Obama ha fortemente incrementato la presenza militare statunitense in America centro-meridionale, con nuove basi in Colombia e nella triplice frontiera Brasile, Argentina e Paraguay; nell’America centrale e caraibica, nelle Antille Olandesi, in Costa Rica, Haiti, Panama, Honduras e prossimamente probabilmente anche a Trinidad; sta estendendo le guerre iniziate dal suo predecessore in Asia ed incombe la minaccia di un possibile attacco all’Iran ed al Pakistan; anche nelle acque della Corea del Sud e del Giappone è fortemente aumentata la presenza militare statunitense in questi ultimi mesi; Yemen, Sudan e Corno d’Africa sono altri luoghi del mondo dove si sta intensificando la presenza statunitense. Ovviamente tutto questo dispiegamento di forze ha avuto un notevole riflesso nel bilancio del Ministero della Difesa e nell’incremento del debito pubblico.

Durante i 637 giorni di presidenza di Obama, dal 20 gennaio 2009 al 19 ottobre 2010, il debito pubblico USA dopo aver toccato gli 11.000 miliardi il 16 marzo del 2009, arriva a 12.000 miliardi il 16 novembre del 2009, quindi a 13.000 miliardi il primo giugno e ad oggi, 19 ottobre è a quota 13.676,11 miliardi di dollari.

Sotto la presidenza Obama, il debito pubblico statunitense si accresce di 4,8 miliardi al giorno e complessivamente di 3.049,23 miliardi. Il suo predecessore Bush, nei suoi otto anni di presidenza, per l’esattezza 2.922 giorni, ha fatto crescere il debito pubblico degli Stati Uniti di 4.899,10, somma che sembrava stratosferica.

Il premio Nobel per la pace Barack Obama, in soli 637 giorni è stato capace di accumulare un deficit pari al 62,24% di quello accumulato da Bush nei suoi otto anni!

Stimiamo che a Barack Obama, grazie alle sue folli spese nel settore militare ed al trasferimento incontrollato di denaro pubblico alle imprese in crisi, saranno necessari circa 1.000 giorni di presidenza (più o meno verso la fine di ottobre o inizio novembre del 2011) per accumulare gli stessi debiti lasciati in eredità da Bush al termine dei suoi otto anni di presidenza.

Obama vanta anche un altro record, sempre in relazione al debito pubblico: durante la sua breve gestione si sono avute le giornate con il maggior aumento del debito pubblico USA (Tabella 2).

Infatti, se consideriamo i dieci giorni in cui il debito pubblico statunitense è cresciuto di più, ai primi tre posti troviamo tre giorni della presidenza di Obama; il 30/06/2009 è in assoluto il giorno in cui gli USA hanno accumulato il maggior debito pubblico in una sola giornata, ben 186,87 miliardi di dollari.

Tabella n. 2
I dieci giorni con la più alta crescita del debbito pubblico USA
(Variazione assoluta e percentuale)
N
Data
Debito Pubblico USA in Miliardi
Variazione rispetto al giorno precedente (miliardi dollari)
Variazione % giornaliera
Presidente
1
30/06/2009
11.545,28
186,87
1,65%
Barack Obama
2
31/12/2009
12.311,35
166,46
1,37%
Barack Obama
3
30/06/2010
13.203,47
165,93
1,27%
Barack Obama
4
31/12/2008
10.699,80
146,79
1,39%
George W. Bush
5
30/09/2009
11.909,83
133,72
1,14%
Barack Obama
6
20/10/2008
10.464,89
130,68
1,26%
George W. Bush
7
30/06/2008
9.492,01
128,20
1,37%
George W. Bush
8
31/12/2007
9.229,17
108,62
1,19%
George W. Bush
9
28/06/2002
6.126,47
107,72
1,79%
George W. Bush
10
30/11/2009
12.113,05
104,40
0,87%
Barack Obama
Fonte: elaborazione Attilio Folliero su dati US Treasury

Nei suoi 637 giorni di presidenza Obama, 442 giorni erano lavorativi, quindi utili per accumulare o ridurre debiti. Nel 40% dei casi, ossia in 176 giorni, si è avuta una diminuzione del debito rispetto alla giornata precedente, mentre nel restante 60% dei casi, cioè 266 giorni, il debito è cresciuto; in 162 giorni si è avuto un nuovo massimo storico del debito pubblico statunitense.

2) Il futuro del debito pubblico statunitense a breve e medio termine

Il debito degli Stati Uniti è destinato ad aumentare nei prossimi mesi. Innanzitutto la Legge 111-139 dello scorso 12/02/2010 (2), in conformità con l’articolo 31 del Codice degli Stati Uniti (3) ha portato il limite del debito pubblico statunitense a 14.294 miliardi di dollari, rispetto al precedente limite di 12.394 miliardi, ossia il Congresso degli USA in sostanza ha autorizzato il governo ad accumulare per l’anno corrente un deficit di bilancio di 1.900 miliardi.

Al di là del deficit di bilancio previsto dalla legge, anche altre considerazioni fanno pensare che il debito continuerà a crescere. E’ da sottolineare che anche quest’anno (e ricordiamo che l’anno fiscale in USA chiude il 30 settembre) ed è il terzo anno consecutivo che gli USA hanno un deficit di bilancio superiore al 10%. A titolo di confronto, evidenziamo che la Unione Europea prevede per i propri stati membri un deficit annuale non superiore al 3%.

Mensilmente, l’Ufficio del debito pubblico, ascritto al Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti presenta un bilancio riguardante la situazione del debito pubblico. L’ultimo bilancio mensile è relativo al mese di settembre (4).

Dall’analisi di detto bilancio, rileviamo che il debito pubblico USA alla fine di settembre è di 13.561,62
miliardi, contro i 13.449,65 miliardi di dollari di agosto. Di questi, 8.498,32 sono debiti negoziabili e 5.063,30 non sono negoziabili e nella maggior parte dei casi rimborsabili su richiesta.

Dall’analisi di quest’ultimo bilancio mensile risulta che nei prossimi sei mesi (fra ottobre 2010 e marzo 2011) scadono debiti negoziabili per un ammontare di 1.980,38 miliardi.



Time Magazine: la prospettiva di una guerra civile negli Usa "non sembra così inverosimile"
di Paul Joseph Watson - www.prisonplanet.com - 20 Ottobre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micaela Marri

Persino il portavoce dell’establishment considera la nozione dell’agitazione civile di massa come una conseguenza del crollo economico

Mentre i manifestanti in Francia entrano nel settimo giorno di sciopero e di dimostrazioni contro le misure draconiane di austerity, molti osservatori politici negli USA si domandano quanto tempo passerà prima che simili scene si svolgano sulle strade d’America, e persino il Time Magazine ammette che adesso la prospettiva di una guerra civile negli Stati Uniti ‘non sembra così inverosimile’.

Per essere chiari, l’articolo di Stephen Gandel intitolato “La Federal Reserve provocherà la guerra civile? “ esclude ampiamente la possibilità che la prossima riunione della Federal Reserve del 3 novembre, durante la quale Ben Bernanke dovrebbe annunciare un altro round di stampa di banconote, innescherà l’agitazione nazionale, ma non ridimensiona per l’appunto neanche la nozione della dislocazione sociale nel più lungo termine come conseguenza della sgretolazione dell’economia, come prevedono in molti.

Come abbiamo evidenziato ieri in un articolo che è stato poi ripreso dal Drudge Report , è solo una questione di tempo prima che gli Americani siano colpiti da misure di austerity quasi identiche a quelle che hanno spinto i Francesi al blocco della fornitura carburante, alle battaglie con la polizia anti sommossa, a bloccare il trasporto aereo e ferroviario e a paralizzare effettivamente del tutto alcune zone del paese.

La domanda che rimane è la seguente – come reagiranno gli Americani se l’amministrazione Obama andrà avanti con il suo piano di impadronirsi di tutte le pensioni private 401(k) , che saranno inghiottite dalla Social Security Administration secondo il programma dei Guaranteed Retirement Account (G.R.A.) obbligatori?

Come reagiranno gli Americani all’imminente annuncio che la Federal Reserve indebolirà ulteriormente il valore del dollaro con l’acquisto di asset spazzatura dai colossi bancari a prezzi esorbitanti con denaro stampato dal niente?

Il Time Magazine, che da guardiano dell’establishment ci aspetteremmo che sminuisse il potenziale della disobbedienza civile di massa, in effetti mette in luce tale nozione con un riferimento ad un articolo di Zero Hedge che parafrasava lo specialista di previsioni sull’economia David Rosenberg, che avverte che il piano della Fed di un allentamento più quantitativo, “mette la società americana ad un passo dalla guerra civile, se non peggio”.

L’articolo contiene inoltre una citazione da un articolo del Washington Blog che avvisa che le politiche della Fed potrebbero portare alla distruzione stessa della repubblica.

“In senso molto reale, Bernanke sta spingendo le nonne e i nonni giù dalle scale – e di proposito. Sta letteralmente minacciando gli appartenenti agli strati economici più bassi, oltre a chi è in pensione, con l’estrema povertà e la morte, e in una nazione giusta dove la legge controllava invece gli abusi dei cleptocrati, sarebbe accusato di cospirazione sediziosa, dato che le sue politiche porteranno inevitabilmente alla distruzione della nostra repubblica”.

Appoggiando tale nozione, Gandel scrive “con l’aumento dei seguaci del Tea Party, l’idea della guerra civile per questioni economiche non sembra così inverosimile di questi tempi”.

È sensato avere una fornitura duratura di cibi salutari (AD)

Sì, avete letto bene. Adesso persino il Time Magazine ammette che l’attuale andamento economico della nazione potrebbe portare dritto alla guerra civile e alla rivoluzione.

Gandel conclude l’articolo lasciando la prospettiva di un diffuso disordine civile come una domanda aperta.

“Quindi sembra chiaro quello che la Fed potrebbe fare,” scrive. “Il modo in cui l’economia, l’esercito e il resto di noi reagiremo sarà saltando in aria. Il conto alla rovescia è già iniziato. Mancano 15 giorni al Fedarmageddon. Ci si vede, speriamo”.

Certo, persone come Gerald Celente ed un gran numero di altri esperti di previsioni sull’economia hanno predetto agitazione civile, risse per il cibo e ribellioni per il fisco per gli ultimi due anni, ma il fatto che il Time Magazine consideri seriamente la nozione della guerra civile negli Stati Uniti ci ricorda in modo scioccante quanto siamo vicini al precipizio adesso.

Numerosi esperti di previsioni, governi, agenzie di spionaggio ed enti internazionali stanno prevedendo sommosse di massa e disordini in risposta al peggioramento del quadro economico.

Nel novembre del 2008, proprio mentre si stava dipanando l’implosione economica, lo U.S. Army War College ha pubblicato un rapporto ufficiale intitolato Known Unknowns: Unconventional ‘Strategic Shocks’ in Defence Strategy Development.

Il rapporto avvisava che l’esercito doveva essere pronto per una “violenta, strategica dislocazione all’interno degli Stati Uniti”, che avrebbe potuto essere provocata da un “crollo economico imprevisto”, da una “decisa resistenza nazionale”, “diffuse emergenze della salute pubblica” o dalla “perdita dell’ordine legale e politico funzionante”.

La “diffusa violenza civile”, come è scritto nel documento, “costringerebbe la difesa a riorientare le priorità in extremis per difendere l’ordine nazionale basilare e la sicurezza umana”>

Una relazione del Ministero della Difesa britannico ha toccato un simile tasto quando ha previsto che entro 30 anni, il crescente divario tra i super ricchi e la classe media, insieme ad una sottoclasse urbana minacciante l’ordine sociale avrebbe comportato che, “le classi medie di tutto il mondo potrebbero unirsi, usando l’accesso alla conoscenza, alle risorse e alle competenze per plasmare i processi transnazionali nell’interesse della propria classe”, e che “i ceti medi potrebbero diventare una classe rivoluzionaria”.

Il modo in cui gli Americani reagiranno a ciò che in molti vedono come il punto di svolta dell’economia americana, ossia l’annuncio della Fed del 3 novembre prossimo dipende in gran parte dalla misura in cui essi comprendono che il loro futuro finanziario e quello dei loro figli è ora sul filo del rasoio come non lo è mai stato prima.

Come indica l’Economic Collapse Blog , il QE2 rappresenta la più grande rapina bancaria della storia, e altro non è che un altro enorme trasferimento di ricchezza dai contribuenti americani alle grandi banche.

I soldi che Bernanke stampa dal nulla, che svaluteranno ulteriormente la valuta ed ogni dollaro guadagnato o risparmiato dai cittadini americani, saranno usati per comprare grandi quantità di “asset tossici” dalle banche americane ad un prezzo ben al di sopra di quello di mercato. Le piccole banche verranno lasciate avvizzire e morire, mentre gli enormi megaliti raccoglieranno montagne di denaro gratis alle spese dei lavoratori americani.

L’impatto nel lungo termine dell’acquisto da parte della Fed di questi asset spazzatura tossici con denaro stampato dal nulla sarà un olocausto inflazionario che non farà nulla per salvare l’economia americana, e che al contrario farà tutto per svalutare gli stessi patrimoni immobiliari dei contribuenti americani.

Siamo già sulla strada di una seria inflazione e la Federal Reserve non ha ancora nemmeno sparato fuori i soldi. Allora che succederà dopo che avrà pompato trilioni di dollari in più nell’economia?

Stampare soldi per darli alle banche non risolverà i nostri problemi economici. Li aggraverà solamente.

Ma sfortunatamente, gli elettori americani non potranno esprimere un parere contrario a tutto ciò. La nostra politica monetaria nazionale è in mano ad una banca centrale non eletta che fa pressappoco tutto quello che vuole.

Se altrettanti Americani fossero a conoscenza di ciò che la Federal Reserve sta per fare con il loro futuro finanziario come quanti sono informati sugli intrighi di Dancing with the Stars, allora la “guerra civile”, che persino il Time Magazine presenta adesso come una risposta giustificabile alla crisi, sarebbe una prospettiva molto plausibile.

Per come stanno le cose, secondo la maggioranza dei votanti del nostro sondaggio su Prison Planet.com, gli Americani reagiranno alla situazione non organizzando blocchi del rifornimento di carburante, marciando per le strade e paralizzando il paese, ma grattandosi il didietro e accendendo la TV.

Guardate la spiegazione di Matt Taibbi su quello che la Fed sta per fare con i vostri soldi.




La crisi farà entrare la rivoluzione anche nelle teste di legno
di Eugenio Orso - http://pauperclass.myblog.it - 25 Ottobre 2010

Società e Movimento

La nostra è già, irreversibilmente, una società di mercato prodotta dalle dinamiche neoliberiste e dai processi di globalizzazione, oppure la transizione dai vecchi assetti sociali ai nuovi è ancora in corso e il periodo che stiamo vivendo è un tormentato e in incerto interregno, in cui l’affermazione del nuovo ordine può ancora essere messa seriamente in discussione, attraverso la resistenza propositiva della classe povera del terzo millennio?

Per quanto non sia facile rispondere a questa domanda, chi scrive propende con decisione per la seconda ipotesi, ed infatti le resistenze, gli scioperi contro la rischiavizzazione del lavoro, i blocchi nei rifornimenti energetici, le conseguenti repressioni, si estendono dalla Grecia alla Francia, dalla Spagna all’Italia, con un’estensione delle proteste fino in Nuova Zelanda.

E’ ancora d’attualità ciò che disse, a suo tempo, Karl Marx, e cioè che «la crisi farà entrare la rivoluzione anche nelle teste di legno», perché esistono dei limiti fisici e psicologici alla compressione in termini materiali dei subordinati e alla loro manipolazione, delle soglie invalicabili di esproprio che neppure questo capitalismo, il quale sta raggiungendo l’apice della propria potenza e il culmine della propria trasformazione storica, potrà superare restando indenne.

Ed è di una certa attualità, particolarmente per quando riguarda il caso italiano, ciò che scrisse nel 1922 su Ordine Nuovo Amedeo Bordiga: «Quando si dimostrerà che anche l'esperienza di un governo di sinistra della macchina statale borghese non fa fare un passo alla soluzione di quei problemi vitali per i lavoratori, allora l'azione di grandi masse sulla rete di lavoro e di organizzazione da noi tracciata, si svolgerà efficacemente sulle vie rivoluzionarie [...]»

Se ad Atene si occupa l’Acropoli, simbolo remoto di tutta la civiltà occidentale, nella Francia di Sarközy si bloccano i rifornimenti di carburante, minacciando di lasciare l’intero paese all’asciutto, mentre in Italia la vera opposizione politica e sociale inizia a radunarsi sotto le bandiere di un sindacato, la Fiom, ed elementi insurrezionali si insinuano nella protesta di popolo, alle pendici del Vesuvio e nei paesi prossimi al parco naturale, contro le discariche di rifiuti brutalmente imposte alle comunità.

Elementi insurrezionali si manifestano in contemporanea con tentativi di organizzazione della protesta anticapitalista e di costituzione del Nuovo Movimento, ed una tendenza dissolutrice, che non lascia spazio ad alcun progetto futuro, convive con il senso di responsabilità di quanti si impegnano a creare il nuovo, partendo da quel tanto di strutture e gruppi antagonisti che ancora sopravvive.

E’ sintomatico di una situazione sociale che tende ovunque a diventare intollerabile che il giorno 16 di ottobre c’è stata in Italia la pacifica ed oceanica manifestazione di Roma indetta dalla Fiom, politica nel senso più proprio del termine e non puramente sindacale, il 19 ottobre la Francia si è fermata per lo sciopero generale contro la riforma delle pensioni, e nella stessa settimana sono scesi in campo quindicimila lavoratori neozelandesi, a molte migliaia di chilometri di distanza.

Le ostilità si sono aperte a partire dai vecchi stati nazionali, dall’Europa mediterranea fino agli angoli più remoti del cosiddetto mondo occidentale, ma per ora non c’è un coordinamento della protesta che riesce a superarne i confini e a “sincronizzare” le azioni di lotta.

Su questo punto cruciale, con riferimento al vecchio continente, sappiamo bene che l'Unione Europea non è uno spazio politico autentico, accessibile a tutti noi, ma una creatura globalista, mascherata e neppure troppo bene da unione di popoli consenzienti, la cui funzione è di imporre certe politiche agli stati nazionali e garantire, nel contempo, l’allineamento dell’Europa con i centri di potere nordamericani.

Ma sappiamo altrettanto bene che nei singoli paesi vi sono ragioni comuni di lotta antiliberista ed antiglobalista che la crisi rende sempre più evidenti, ed esiste, o esiterà in futuro, quando circostanze più drammatiche lo imporranno, una possibilità di aggregazione sopranazionale.

Il problema può essere posto nel modo seguente, partendo dal presupposto che «il nostro mondo può essere considerato come una struttura in uno spazio a infinite dimensioni, uno spazio dentro il quale noi e le nostre menti ci muoviamo come pesci nell’acqua» [Rudolf von Bitter Rucker, La quarta dimensione].

Se le soggettività antagoniste dimorano in uno spazio bidimensionale, e quindi nel piano, che rappresenta metaforicamente i singoli paesi in cui si muovono e manifestano i subordinati, ancora divisi dai confini e talora da rivalità nazionali, il Nemico si muove agilmente in uno spazio tridimensionale, e così in effetti fanno la UE, la UEM, la BCE, gli altri organi della mondializzazione come il FMI o il WTO, ma soprattutto quella classe globale che ne determina le politiche e i diktat in base ai suoi interessi “privati”.

Il Nemico ci osserva dall’alto, tiene sotto controllo gli stati nazionali e le masse di subalterni come se fossero suoi strumenti, ha capacità di intervento nello spazio inferiore, ma non lo si vede chiaramente, e quindi non si riesce a combatterlo con efficacia.

Il Nemico si muove in una dimensione superiore a quella dei resistenti-antagonisti, e sappiamo bene che uno spazio con una dimensione in più non può essere visto da chi dimora nella dimensione inferiore, ma solo descritto con l’uso di algoritmi, attraverso le formule matematiche.

E’ proprio nella dimensione superiore che hanno preso forma le politiche globalizzatrici, ed è in questo empireo che sono stati pensati e generati gli strumenti di espropriazione finanziaria.

Per tale motivo c’è una generale difficoltà nell’individuare il Nemico Principale, nel dargli un volto riconoscibile, nel tracciarne un preciso identikit, e questo a differenza di quanto accadeva nello scorso millennio, in cui il despota contro il quale si sollevava il popolo era riconoscibile e dimorava nel castello [si sapeva, in linea di massima, “dove andarlo a prendere”], mentre il capitalista-proprietario aveva un nome, un cognome e un indirizzo.

Il despota contro il quale si sollevava il popolo e il capitalista-proprietario che estorceva il classico plusvalore si muovevano anche loro sul piano a due dimensioni, essendo interni all’organizzazione statuale e legando a questa le loro fortune e il loro potere.

Superare l'angusto piano, caratterizzato dalle due dimensioni rappresentate dallo stato nazionale e dalla classe antagonista interna allo stato, vorrebbe dire accedere alla terza dimensione, definita da tre coordinate: gli organi sopranazionali della mondializzazione che dettano le politiche e le strategie per conto della nuova classe dominante, gli stati nazionali che le trasmettono al loro interno, quale catena di trasmissione finale, e la classe antagonista [europea o planetaria] che le subisce.

Se nelle due dimensioni ci si può muovere soltanto avanti/ indietro e a destra/ a sinistra, il Nemico che popola la terza dimensione ha “una marcia in più”, perché può spostarsi anche dall’alto verso il basso e viceversa, surclassando i subordinati senza che questi se ne accorgano.

Accedere alla dimensione superiore – cioè aggregare la protesta a livello europeo o addirittura planetario – significherebbe poter vedere in piena luce il vero Nemico principale ed epocale, che a quel punto avrebbe grandi difficoltà a nascondersi, come ha fatto abilmente finora suscitando nemici immaginari o secondari, e vorrebbe dire combatterlo con qualche possibilità di successo nella sua stessa dimensione.

In altre parole bisogna affrontare il Nemico nel suo spazio “superiore”, invadendolo.

La metafora dimensionale potrà sembrare a qualcuno un po’ bizzarra, e così anche il riferimento ad un matematico, musicista e scrittore di fantascienza come Rudy Rucker, ma è un tentativo di chiarire con semplicità i motivi perché sino ad ora le lotte contro la de-emancipazione neoliberista, rinchiuse entro gli angusti spazi nazionali, si sono rivelate generalmente inefficaci, non riuscendo a fermare il processo di sussunzione capitalistica di intere società e di intere aree economico-culturali nel mondo.

Per la verità, c’è stato il movimento antiglobalista che ha dato l’impressione del superamento dei confini da parte della protesta, e dell’unificazione delle sue componenti sociali, culturali e nazionali, ma tale movimento si è rivelato effimero e scarsamente efficace, più simile ad un’occasionale “onda moltitudinaria” non riconducibile ad un’unica volontà politica che ad una vera sintesi planetaria dell’antagonismo sociale.

Alla fine del primo decennio di globalizzazione spinta, con crisi economico-finanziaria incorporata, le cose sembrano essere cambiate, pur non potendo ancora osservare la tanto attesa “internazionalizzazione della protesta”.

Per ora, si procede in ordine sparso, restando all’interno dei singoli paesi e in modo del tutto indipendente dagli altri gruppi e movimenti che altrove organizzano la lotta.

In Francia un intero popolo, a partire dai lavoratori dipendenti, mostra di resistere davanti al rullo compressore della riforma delle pensioni, che altro non è se non l’ennesimo duro colpo inferto in Europa al welfare, ma lo fa in modo del tutto indipendente dall’Italia, in cui si consuma l’attacco generalizzato ai diritti dei lavoratori, e dalla Grecia soggetta alla dittatura finanziaria e monetaria degli organi sopranazionali.

Eppure esistono centrali sindacali europee e mondiali, ed esiste un’evidente convergenza di interessi non soltanto fra gli operai italiani, quelli serbi e quelli polacchi vessati dal globalista Marchionne, ma fra questi e la “parte buona” del ceto medio declassato, e addirittura fra questi ed elementi della vecchia borghesia proprietaria, il cui mondo culturale e le cui prospettive future sono state distrutte dalla globalizzazione.

Dal professore universitario precarizzato che rivendica i suoi diritti all’operaio della grande industria manifatturiera ridotto a “fattore della produzione”, dal pensionato di Terzigno, in Campania, costretto a manifestare contro le discariche di “monnezza”, al marginale che partecipa ai sommovimenti popolari in Atene, sembra di udire una sola voce che si leva contro questo capitalismo, una voce che si leva da soggettività in passato forse contrapposte, sul piano sociale come su quello politico, ma oggi tutte impegnate nella resistenza alle dinamiche ultraliberiste.

Vittime sacrificali della classe globale trionfante, abbandonati a sé stessi dai cartelli elettorali che hanno sostituito gli storici partici, dai moderni sindacati “riformisti” che li usano come merce di scambio e dalle cosiddette istituzioni, nessuno di questi gruppi ha una vera rappresentanza politica all’interno del sistema, cosa che possiamo facilmente osservare in Italia, paese in cui l’astensionismo elettorale, per decenni di dimensioni modeste, avanza ad ampie falcate fino a raggiungere [e forse a superare] i livelli storicamente riscontrati nelle democrazie anglosassoni.

Con riferimento al nostro paese, in cui il dilemma “Società e Movimento” antagonista presentato nel titolo è sembrato negli ultimi vent’anni irresolubile, in presenza di una progressiva disgregazione della società e in assenza di un Nuovo Movimento di opposizione sistemica, la data del 16 ottobre 2010, che è quella della manifestazione Fiom a Roma, assume già fin d’ora un alto valore simbolico, anzitutto in termini di aggregazione e partecipazione.

Il 16 ottobre 2010 potrà segnare per moltissimi il momento del passaggio da una situazione di passività ad una nuova situazione di reattività organizzata, e potrà rappresentare il discrimine fra la rassegnata accettazione dei modelli neoliberisti e l’insorgenza concreta della protesta nel nostro universi cives.

La Fiom diventa nella società italiana contemporanea il catalizzatore di una protesta che esce dagli steccati dell’attività sindacale, per aggredire finalmente la dimensione politica.

Aggredire la dimensione politica, per ora a livello puramente nazionale, significa porre le questioni della rappresentanza di milioni di persone marginalizzate, della loro partecipazione al processo decisionale su materie che le riguardano, nonché delle alternative ai modelli politici, sociali ed economici vigenti.

I Nemici sono il Mercato globale e la sua società, il paradigma da rifiutare è quello della creazione del valore finanziaria, azionaria e borsistica, e sul piano sociale l’avversario è la nuova classe dominante, composita e stratificata, che possiamo unificare con l’espressione di Global Class.

Sullo sfondo c’è la formazione della nuova classe povera antagonista [Pauper Class], destinata a subire i rigori del capitalismo transgenico finanziarizzato del terzo millennio.

Questa classe è costituita non soltanto da operai [New Workers, il Nuovo Lavoro Operaio], ma da altre componenti significative, come i ceti medi novecenteschi ri-plebeizzati [Midlle Class Proletariat, che esprime il lavoro intellettuale dipendente nel pubblico e nel privato], dalla “parte buona” dei cosiddetti marginali [Under Class], non collusa con la delinquenza e le attività criminali, e addirittura da rappresentanze della vecchia borghesia proprietaria, a sua volta espropriata dai globalisti.

La precarizzazione si estende dal lavoro manuale al cosiddetto ceto medio ed è sintomatica, nella formazione del “nuovo mondo” e nell’affermazione di un nuovo modo di produzione sociale, l’espropriazione della stessa borghesia, un tempo dominante e oggi “cannibalizzata” dai globalisti.

Nel contempo, il lavoro operaio oscilla fra la minaccia dell’esclusione dal processo produttivo, con o senza l’anticamera della cassa integrazione, e la crescente invisibilità in termini di istanze e rivendicazione di diritti.

Se grattiamo lo strato superficiale delle appartenenze e dei simboli, che in apparenza hanno caratterizzato e colorato la grande manifestazione di Roma del 16 di ottobre, affiorano queste nuove appartenenze e con loro un’inedita strutturazione sociale.

Sotto le sigle ed i colori di numerosi soggetti e micro-soggetti politici extraparlamentari che si definiscono comunisti, ecologisti, anti-globalisti, decriscisti, si può certo nascondere un certo nostalgismo, ma questo sempre più spesso convive con la consapevolezza che è necessario costruire, e in fretta, un nuovo soggetto politico allargato, per non mancare il possibile appuntamento con la storia.

Non si tratta, perciò, della “battaglia di retroguardia” di chi vorrebbe un ritorno al passato, né della protesta di gruppi di “estremisti” del tutto minoritari nel corpo sociale, secondo le accuse strumentali lanciate dal governo, dalla Confindustria e dai sindacati gialli, e tanto meno di un sostegno indiretto ai “morti viventi” della principale opposizione parlamentare, l’informe cartello elettorale del Pd, che aderisce alla visione neoliberista e, perciò, si è ben guardato dal partecipare alla manifestazione di Roma.

Nuova strutturazione di classe, interessi convergenti fra il lavoro operaio e quello dei ceti medi ri-plebeizzati hanno mosso, in quella circostanza, la partecipazione.

Il movente economico e ridistributivo ha avuto una grande importanza, nella decisione di aderire alla manifestazione di Roma, ma non è certo l’unico, perché il disagio è ben più ampio e profondo.

L’altro movente fondamentale è la ricerca di una rappresentanza politica, così come è posto bene in rilievo in un articolo, dal titolo Se la Fiom coinvolge il ceto medio, comparso in rete proprio in questi giorni: «Oggi non esiste un'opposizione politica, ma non perché manchi lo spazio sociale per un'opposizione; al contrario: non viene permessa l'esistenza di un'opposizione proprio perché questa, altrimenti, avrebbe a disposizione uno spazio sociale storicamente senza precedenti per vastità.» [http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=381]

Una vera opposizione politica, in grado di esprimere alternative radicali in relazione alle politiche sociali, a quelle industriali, monetarie e finanziarie, non può esistere in una liberaldemocrazia dominata dal Partito Unico della Riproduzione Capitalistica e caratterizzata dalla politica come consumo, marketing, illusione mediatica.

E’ per questo che il Nuovo Movimento d’opposizione, nella società italiana agli albori del millennio, si costituisce fuori dei circuiti della politica liberaldemocratica, la quale lo nega e lo blandisce con ogni mezzo, applicando le tecniche del silenziamento e quelle della disinformazione mediatica, quando non si possono nascondere gli eventi, le proteste popolari, le manifestazioni di disagio diffuso.

Data la situazione con la quale dobbiamo fare i conti, in base all’analisi concreta della situazione concreta, con un piglio dal vago sapore leninista, appare chiaro che il Movimento non può che costituirsi intorno all’unico sindacato antagonista e combattivo del paese, caratterizzato da una storica militanza, mai venuta meno, e da strutture diffuse sul territorio.

Quello che per Lenin è stato il partito dei rivoluzionari di professione, quale avanguardia della Rivoluzione, catalizzatore della protesta e guida per i subalterni, nel nostro tempo potrebbe essere il Sindacato-Movimento, in cui le rivendicazioni salariali, per un’equa distribuzione del prodotto e per invertire la rotta dopo due decenni di espropriazione mercatista, si fondono con la richiesta di partecipazione al processo decisionale strategico-politico, in cui le istanze operaie si armonizzano con quelle dei ceti medi declassati, ed in generale con quelle delle altre componenti della classe povera del futuro.

Un sindacato immarcescibile quello degli operai e degli impiegati metallurgici – classe 1901 e perciò ultra-centenario –, da sempre in prima linea nel difendere i lavoratori ed il diritto alla partecipazione e al lavoro, ed oggi vero catalizzatore della protesta in tutti i suoi aspetti.

Se il gioco dei potentati locali – dalla maggioranza di governo all’opposizione formale del Pd, dagli industriali affamati di denaro pubblico alla centrale sindacale gialla della CISL – è quello di isolare la Fiom per ridurla a più miti consigli, sappiano, questi ascari della classe globale, che saranno loro ad essere isolati dal nuovo che emerge nella società italiana, rischiando di portare con sé, nella caduta, le stesse istituzioni statuali che hanno occupato e screditato.

Il Nuovo Movimento è forse l’unica speranza che ci rimane, per non sprofondare definitivamente, a milioni, nelle bassure e negli inferi della postmodernità capitalistica, in quel buco nero pronto ad inghiottirci che è la “globalizzazione senza veli”.