mercoledì 20 ottobre 2010

Afghan update

Un collage di articoli sugli ultimi sviluppi della guerra in Afghanistan: ennesime elezioni farsa, negoziati "segreti" con i talebani, combattimenti delle truppe italiane.

I talebani preparano la rentrée...


Annullato il 23 percento dei voti
da www.peacereporter.net - 20 Ottobre 2010

Secondo la Commissione elettorale 1,3 milioni di schede sarebbero non valide a causa dei brogli

Un voto su quattro è stato gettato nel cestino. Questa mattina la Commissione elettorale afgana ha annunciato di aver annullato 1,3 milioni di schede delle scorse elezioni politiche.

Brogli e violazioni alla legge elettorale sarebbero la causa dell'annullamento del 23 percento dei voti. Nelle prossime ore verranno annunciati i risultati preliminari, mentre per i dati definitivi bisognerà aspettare. Alle elezioni del 18 settembre circa 2.500 candidati si sono contesi 249 seggi alla Camera bassa.


Afghanistan, trattative segrete. "Taliban a Kabul con scorta Nato"
da www.repubblica.it - 20 Ottobre 2010

Il New York Times conferma le voci di negoziati tra governo Karzai, militari e fondamentalisti. E rivela: coinvolti i massimi capi che stanno lasciando i rifugi in Pakistan per partecipare ai colloqui con la protezione delle forze occidentali. Frattini: "Non è vero"

New York - Trattative segrete ad alto livello tra leader taliban ed esponenti afgani, alle quali collaborano anche esponenti della Nato, sono in corso in Afghanistan per far finire la guerra. Lo riferisce il New York Times, citando fonti militari coinvolte nelle trattative.

I colloqui coinvolgono tutti i principali gruppi taliban, molti dei quali, con l'aiuto della Nato, stanno abbandonando i loro santuari in Pakistan per poter partecipare ai colloqui segreti.

Circostanza però smentita dal ministro italiano Frattini: non ci sarebbe nessuna trattativa segreta, ma piuttosto "una trattativa pubblica tra il presidente Karzai e gruppi taliban che non sono legati ad Al Qaeda e decidono di rinunciare al terrorismo". Ma la Nato, ha ribadito in un'intervista radiofonica,"non partecipa in alcun modo".

Secondo il New York Times i colloqui, alcuni dei quali avrebbero luogo a Kabul, sono portati avanti da alcuni dei più stretti collaboratori del presidente afghano, Hamid Karzai, e da alti membri della shura di Quetta, il gruppo leader che sovrintende alle operazioni di guerra dei talebani.

Secondo il New York Times, che cita fonti militari americane e afgane a conoscenza dei colloqui, nei negoziati sono coinvolti anche i leader della rete Haqqani, considerata una delle fazioni più estremiste delle forze ribelli.

Sarebbero in corso colloqui reiterati anche con membri della shura di Peshawar, i cui ribelli operano nella zona orientale dell'Afghanistan. Il quotidiano riferisce che i leader taliban che si sono spostati in Afghanistan avrebbero lasciato i loro rifugi in Pakistan previa assicurazione che non sarebbero stati né attaccati, né arrestati dalle forze Nato.

In almeno un caso, leader talebani del Pakistan hanno varcato la frontiera e sono stati aerotrasportati dalla Nato verso Kabul. In altri casi, le truppe Nato hanno garantito il passaggio proteggendo vie di terra per raggiungere zone in Afghanistan controllate dalle forze afghane e della Nato.

La maggior parte dei colloqui hanno luogo in una zona segreta non distante da Kabul. Il quotidiano riporta anche che, su richiesta della Casa Bianca e del governo afgano, non può rivelare l'identità di chi partecipa ai colloqui.

Si limita a precisare che oltre ad esponenti afgani, prendono parte alle trattative segrete quattro leader taliban "del massimo livello". Tre di loro fanno capo alla shura di Quetta, mentre il quarto è un membro della famiglia Haqqani. Il quotidiano scrive che rivelare la loro identità potrebbe per loro equivalere a morte certa.

I colloqui avrebbero già avuto luogo in diverse occasioni e paiono rappresentare il più significativo tentativo di far finire la guerra da quando il conflitto ha avuto inizio, nove anni fa.

"Sono colloqui faccia a faccia. basati su relazioni personali di mutua fiducia" ha dichiarato al New York Times una fonte afgana coinvolta nelle trattative. "Qui non si tratta di far contenti gli americani o di far contento Karzai - ha aggiunto - Qui si tratta di ciò che è meglio per il popolo afgano".


Accordi impossibili senza il Pakistan
di Guido Olimpio - Il Corriere della Sera - 20 Ottobre 2010

I difficili equilibri delle trattative segrete tra i talebani e Kabul. E le possibili vie d'uscita per la Nato

Il New York Times conferma l’avvio di negoziati segreti tra alcuni esponenti talebani e il governo Karzai. Un dialogo favorito dalla Nato che, in alcuni casi, ha messo a disposizione suoi aerei per trasportare gli emissari dei ribelli.

OBIETTIVI PALESI E NON - Sempre il quotidiano sostiene che Kabul vuole raggiungere un accordo tagliando fuori i pachistani. Con tre obiettivi: spezzare il fronte talebano, trovare un modus vivendi con il clan Haqqani (responsabile di molti attentati) e isolare i “falchi”. A cominciare dal mullah Omar. Ma non si può escludere che accanto al primo canale di dialogo – quello di Karzai – ve ne sia un secondo, altrettanto riservato.

Pochi giorni fa i pachistani hanno liberato il mullah Baradar, braccio destro di Omar. Lo avevano catturato a febbraio insieme ad altri talebani. Le fonti ufficiali avevano parlato di un arresto avvenuto “per caso” mentre ambienti diplomatici avevano ipotizzato un dispetto dei servizi segreti pachistani (Isi) per sabotare l’avvio di un negoziato nato alle spalle di Islamabad.

LA CELLA DORATA DI BARADAR A ISLAMABAD - Ora il Pakistan – sostiene Asia Times- potrebbe cercare di rientrare usando proprio Baradar che, godendo della fiducia del mullah Omar, è certamente più rappresentativo di altri esponenti. I pachistani, dopo averlo arrestato, lo hanno tenuto in riserva. Invece che di una scomoda cella, Baradar è stato ospitato in una residenza sorvegliata, sempre a stretto contatto con gli 007 di Islamabad.

QUALE FIDUCIA - La morale della storia è che se la Nato cerca una via d’uscita negoziale è difficile pensare che la possa trovare lasciando fuori della porta il Pakistan. Giustamente gli americani non si fidano di chi ha dimostrato di aver troppi rapporti con il nemico ma, proprio per questo, è altrettanto rischioso ignorare i pachistani.

Gli uomini dell’Isi, se vogliono, possono attivare burattini capaci di rovinare il gioco. Washington deve trovare la sponda di Islamabad, evitando però di premiare – anche se lo sta facendo con una montagna di aiuti militari – un paese dalla politica ambigua.


Afghanistan, Iran e Pakistan. Cortocircuito tra Roma e Herat
di Alessandro Cislin - www.ilfattoquotidiano.it - 19 Ottobre 2010

Coincidenza del tutto casuale, densa peraltro di amarezza e di interrogativi senza risposta sul seguito della missione afgana. A Herat si è tenuto ieri l’avvicendamento semestrale tra due brigate di Alpini al vertice del Regional Command West dell’Isaf, proprio mentre a Roma si riunivano i vertici diplomatici e militari globali a discutere sul concetto di “road map”.

Sono accorsi praticamente tutti dal cosiddetto “International Contact Group” per l’Afganistan, con foto di gruppo a Villa Madama e conferenze stampa alla Farnesina: il ministro degli Esteri di Kabul Zalmai Rassoul, accanto all’omologo padrone di casa Franco Frattini e ai rappresentanti di 46 paesi, inclusi 9 Stati membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica.

Non funzionari di second’ordine, tra l’altro, bensì l’intero stuolo di “Inviati Speciali”, termine generalizzato dall’intitolazione del delegato della Casa Bianca Richard Holbrooke.

E poi il personaggio più atteso, il generale David Petraeus, che dirige la missione della Nato e da giorni gira l’Europa a persuadere le cancellerie alleate sul senso delle operazioni in corso da oltre nove anni, tra escalation di vittime militari e civili, esorbitanti costi annuali e trattative ora avviate col nemico talebano.

Un sì preventivo circa la “piena adeguatezza della missione” è giunto nei giorni scorsi dal ministro della Difesa La Russa all’indomani dell’ultima strage di soldati italiani, con tanto di conferma all’incremento del contingente fino a 4000 soldati entro la fine dell’anno.

Il vertice romano era però consacrato all’obiettivo apparentemente opposto, ossia alla “transizione della sicurezza e del controllo del territorio dalle mani della coalizione internazionale a quelle delle forze afgane”, in preparazione del vertice della Nato fissato tra esattamente un mese a Lisbona.

Traduzione: si comincia a discutere su come andarsene senza che risulti una sconfitta.

L’Inviato dell’Onu Staffan De Mistura ha spiegato che l’incremento delle violenze segnala un “indebolimento dei talebani” (anziché il contrario) e al contempo la loro “volontà di aprire un dialogo”. La disponibilità negoziale è stata confermata da Holbrooke, sia nei confronti dei ribelli afgani che verso i paesi limitrofi, incluso l’Iran (anch’esso rappresentato ieri a Roma), peraltro con la cerniera delle basi aeroportuali americane in costruzione presso tale frontiera.

L’altra, quella col Pakistan, segna il confine col nuovo epicentro della guerra identificato dal Pentagono: là oltre, secondo quanto fatto filtrare ieri dalla Nato alla Cnn, vivrebbero tuttora – oltre al mullah Omar, anziano leader dei talebani afgani – gli stessi Bin Laden e il suo vice al-Zawahiri, “indisturbati” e anzi “protetti da alcuni membri dei servizi segreti pakistani”.

In cima alle preoccupazioni militari e politiche di Washington sembrano dunque ora trovarsi Teheran e Islamabad, anziché Kabul.

E l’Afganistan? “Lo sosterremo su sviluppo, sicurezza e addestramento anche dopo il 2014”, precisa Frattini.

Ma secondo il ministro Rassoul, commentando le ultime ambizioni militari esternate da La Russa, “le bombe sugli aerei non sono la soluzione neppure per proteggere i vostri soldati”.


La guerra nota
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 16 Ottobre 2010

L'Espresso 'rivela', sulla base di nuovi documenti di Wikileaks, una realtà nota da anni: la 'missione di pace' italiana in Afghanistan è in realtà una vera e propria guerra. Una verità che PeaceReporter denuncia da oltre quattro anni

Il servizio esclusivo sulle operazioni di guerra italiane in Afghanistan pubblicato dal settimanale L'Espresso si intitola 'Ecco la verità - La guerra segreta'.

Un segreto di Pulcinella. A parte alcuni dettagli sulle armi usate e i colpi sparati, infatti, le informazioni riportate nel lungo articolo, scritto sulla base di nuovi documenti di Wikileaks, non fanno che confermare una realtà nota da anni: la 'missione di pace' italiana in Afghanistan è in realtà una vera e propria guerra, con tanto di vittime tra la popolazione civile. Una verità che PeaceReporter denuncia da oltre quattro anni.

Settembre 2006 - I soldati italiani sono impiegati in un'operazione militare, avviata ieri nella provincia occidentale di Farah "in risposta al crescente numero di attacchi terroristici" verificatisi nella zona: la stessa dove l'8 settembre quattro incursori della Marina Italiana (Comsubin) sono stati feriti in un'imboscata dei talebani.

La notizia è stata data oggi dal comandante Usa Michael Horan, capo delle operazioni di Isaf nella provincia occidentale di Farah. L'operazione, nome in codice "Wyconda Pincer" (Tenaglia Wyconda - località del Missouri), interessa i distretti di Bala Baluk e Pusht-e Rod, e coinvolge truppe italiane, statunitensi, spagnole e afgane in un numero che non è stato reso noto.

Ottobre 2006* - Le forze italiane prendono parte (assieme a forze afgane e Usa) all'operazione ‘Wyconda Rib' nel distretto del Gulistan, provincia di Farah, allo scopo di riprendere il controllo di questa zona, conquistata due settimane prima dai talebani. I ribelli vengono cacciati dal distretto, ma non vengono forniti particolari sui combattimenti.

Febbraio 2007 - La guerra, finora confinata al sud, sta contagiando anche le regioni occidentali sotto comando italiano. Un fenomeno già emerso lo scorso 10 dicembre, quando, sempre nella provincia di Farah, il generale Satta coordinò l'attacco terrestre delle truppe afgane e delle forze speciali Isaf e i bombardamenti aerei dell'aviazione Nato nel distretto di Balabaluk, dove un gruppo di talebani si era infiltrato per compiere attacchi lungo la ‘ring-road' che conduce ad Herat. L'offensiva "made in Italy" si concluse, secondo fonti ufficiali, con l'uccisione di nove talebani.

Febbraio 2007* - I militari italiani prendono parte all'offensiva dell'esercito afgano per la riconquista del distretto di Bakwa, occupato dai talebani due giorni prima. Almeno venti guerriglieri vengono uccisi nell'operazione.

Marzo 2007 - Soldati italiani e spagnoli della Forza di Reazione Rapida (QRF) - basata ad Herat e comandata dal generale italiano Antonio Satta - sono impegnati in un'operazione militare nell'ovest dell'Afghanistan volta a "impermeabilizzare" la frontiera tra le province occidentali (Farah, Herat, Ghor e Badghis) e quella meridionale di Helmand, dov'è in corso l'offensiva della Nato "Achille".

Aprile 2007 - Gli incursori del 9° reggimento Col Moschin dell'Esercito e del Gruppo Operativo Incursori della Marina (reparti che hanno avuto entrambi un ferito nell'ultima settimana) cercano, trovano e annientano le forze talebane penetrate da sud nel settore italiano. Numerose fonti, italiane e alleate confermano anonimamente che gli italiani, soprattutto le forze speciali, hanno affrontato combattimenti in molte occasioni soprattutto nella provincia di Farah dove dal settembre scorso si registra una crescente presenza talebana che ha subito un ulteriore incremento nelle ultime settimane a causa dell'Operazione "Achille".

Aprile 2007* - Il generale Antonio Satta coordina un attacco aereo (aviazione Usa) sulla Valle di Zerkoh, nel distretto di Shindand, provincia di Herat. Nei ripetuti raid rimangono uccisi 51 e 136 talebani. Nonostante Satta dichiari che l'operazione era stata pianificata dal comando italiano di Herat e che aveva anche predisposto elicotteri per l'evacuazione dei feriti, il ministero della Difesa afferma di esserne all'oscuro.

Maggio 2007 - Quattro distaccamenti di forze speciali italiane combattono da mesi a fianco delle special forces Usa impiegate nella guerra ai talebani nell'ambito di Enduring Freedom, rispondendo agli ordini del comando Usa (che ha sempre mantenuto l'esclusivo controllo diretto di tutti i contingenti nazionali di forze speciali presenti in Afghanistan).

Il ‘Task Group' di forze speciali italiane è attualmente composto da quattro distaccamenti operativi provenienti da quattro corpi d'élite: Ranger del 4° Reggimento Alpini Paracadutisti Monte Cervino, incursori di Marina Comsubin, 185° Reggimento Acquisizione Obiettivi (Rao) della Brigata Folgore e 9° Reggimento d'Assalto Paracadutisti Col Moschin, sempre della Folgore. Quando abbiamo chiesto allo Stato Maggiore italiano quale fosse l'entità numerica, in termini di uomini, di questi distaccamenti impegnati in combattimento la risposta è stata: "Non abbiamo informazioni in merito e anche se le avessimo non potremmo renderle pubbliche".

Agosto 2007* - I bersaglieri del 1° reggimento della Brigata Garibaldi della Forza di Reazione Rapida prendono parte a una battaglia di due ore e mezzo nel distretto di Murghab, provincia di Badghis, dove un convoglio militare afgano-spagnolo era stato attaccato dai talebani. Per la prima volta entrano in azione gli elicotteri da attacco italiani Mangusta A-129. Decine di guerriglieri rimangono uccisi.

(Pochi giorni dopo) un convoglio italiano di blindati ‘Lince' viene attaccato dai talebani nel distretto di Bala Buluk, provincia di Farah, durante una missione di perlustrazione. I soldati italiani ingaggiano un combattimento con i guerriglieri, ma non riuscendo a "disimpegnarsi" chiedono copertura aerea alla base di Herat. Entrano così nuovamente in azione gli elicotteri Mangusta che aprono il fuoco contro i talebani, disperdendoli.

Settembre 2007* - Le forze speciali italiane della Task-Force 45 e i bersaglieri della Forza di Reazione Rapida, con l'appoggio di due elicotteri Mangusta, prendono parte all'operazione ‘Palk Wahel' con il compito di bloccare le vie di fuga ai talebani che scappano dalla provincia di Helmand (epicentro dell'offensiva) cercando scampo nella provincia di Farah.

Settembre 2007 - I due militari italiani del Sismi rapiti sabato in zona di guerra, nell'ovest dell'Afghanistan, sono stati liberati questa mattina all'alba nella provincia di Farah con un blitz
della Nato guidato dagli incursori italiani (Col Moschin e Comsubin) affiancati dalle Sas britanniche. Durante l'azione è scoppiato un violento scontro a fuoco nel quale sono rimasti uccisi tutti gli otto o nove rapitori e feriti i due ostaggi italiani.

Uno dei due è in gravi condizioni. Quando sono stati rapiti, pare da una banda di predoni locali che stava per venderli ai talebani, i due agenti dei servizi militari italiani stavano operando nella zona di Shindand, nell'estremo sud della provincia di Herat.

Non è dato sapere cosa stessero facendo, ma di certo non si trattava di una missione umanitaria, visto che quella è una zona di guerra sotto controllo dei talebani, una zona più volte bombardata dall'aviazione Nato. Il 27 aprile scorso, decine di civili erano morti sotto le bombe da una tonnellata sganciate dai bombardieri Usa B-1 sui villaggi della zona.

Ottobre 2007* - Gli alpini del 5° reggimento della brigata 'Julia' vengono attaccati nottetempo dai talebani nel loro avamposto nella Valle di Musahi, 40 chilometri a sud di Kabul. Ai lanci di granate e alle raffiche di mitra, i soldati italiani rispondono con le mitragliatrici pesanti, mettendo in fuga i guerriglieri.

Novembre 2007 - Si combatte ormai da cinque giorni sul fronte occidentale di Farah, provincia rientrante sotto il comando regionale italiano di Herat. L'esercito afgano, nonostante il supporto aereo della Nato, non riesce a fermare l'avanzata talebana partita all'inizio della settimana. Oltre settecento guerriglieri armati fino ai denti e dotati di decine di fuoristrada erano scesi lunedì dalle loro roccaforti sulle montagne di Musa Qala, nella provincia di Helmand, muovendo verso ovest e prendendo il controllo del distretto montano di Gulistan, nella parte orientale della provincia di Farah.

Da lì, due giorni dopo, hanno proseguito la loro avanzata verso ovest, calando in forze nelle vallate del distretto di Bakwa. L'esercito governativo e la polizia afgana non hanno potuto fare altro che ripiegare e chiamare i rinforzi Nato arrivati sotto forma di cacciabombardieri e forze speciali - che in questa area comprendono alcune decine di incursori dell'esercito e della marina italiani.

Qari Mohammad Yousuf, portavoce dei talebani, ha dichiarato che il loro obiettivo è prendere il controllo di tutta la provincia. Il bilancio ufficiale dei combattimenti, che ora infuriano a poche decine di chilometri dal capoluogo provinciale, è finora di oltre venti militari afgani morti e di circa sessanta presunti talebani uccisi. Si parla anche di diverse vittime tra i civili.

Novembre 2007* - Le forze speciali italiane della Task-Force 45 e i bersaglieri della Forza di Reazione Rapida, con l'appoggio di cinque elicotteri Mangusta e per la prima volta anche di otto cingolati Dardo, prendono parte (assieme a forze afgane e Usa) alla battaglia del Gulistan, nella provincia di Farah, per riprendere il controllo di questo distretto caduto nelle mani dei talebani alla fine di ottobre. Nei combattimenti vengono uccise decine di guerriglieri.

Febbraio 2008 - Il governatore della provincia occidentale di Farah, Ghulam Mohaidun Balouch, ha dichiarato questa mattina all'agenzia France Press che "truppe Nato italiane" hanno preso parte all'attacco avvenuto domenica notte nel distretto di Bakwa contro un abitazione nella quale si trovavano alcuni talebani, tra cui un loro comandante locale, il mullah Abdul Manan. Secondo il governatore, le vittime del raid, condotto con il supporto aereo dell'aviazione alleata, sono otto talebani e almeno due civili: una donna e un bambino, moglie e figlio di uno dei guerriglieri.

Ma il governatore del distretto di Bakwa, Khan Agha, sostiene che le vittime civili dell'attacco italiano sono di più: "Nell'operazione - ha dichiarato - sono state uccise nove persone, tra cui due donne e due bambini. Mullah Manan non è tra le vittime". Secondo Khialbaz Sherzai, comandante provinciale della polizia, "nel raid sono stati uccisi sette civili, tutti membri di una stessa famiglia, tra cui una donna e due bambini".

Febbraio 2008 - Domenica pomeriggio, attorno alle 16 ora locale, un civile afgano è stato ucciso dalle truppe Nato della Forza di reazione rapida italo-spagnola che scortavano un convoglio militare afgano. Il fatto è avvenuto lungo la ‘Ring Road' che collega Kandahar a Herat all'altezza di Farah Rud, nel distretto di Bala Buluk, provincia sud-occidentale di Farah - una delle quattro sotto comando italiano.

Il civile viaggiava assieme ad altri a bordo di un fuoristrada Toyota che ha incrociato la colonna militare. Come previsto dalle regole d'ingaggio, i soldati italiani (bersaglieri del 1° reggimento della brigata Garibaldi) e spagnoli sui blindati di scorta hanno fatto cenno all'autista del mezzo di accostare o fermarsi, ma questi ha tirato dritto. A quel punto i militari, temendo si trattasse di un'autobomba, hanno aperto il fuoco colpendo a morte uno dei passeggeri.

Maggio 2008 - Secondo indiscrezioni, a marzo il governo Prodi ha autorizzato la partecipazione degli incursori italiani della Task Force 45 a un'operazione anti-guerriglia (ufficialmente si trattava di un'esercitazione) delle Sas britanniche e dei Berretti Verdi statunitensi nelle province meridionali di Helmand e Kandahar. Da agosto in poi, i duecento incursori italiani della Task Force 45 e i nostri elicotteri da guerra della Task Force Fenice potranno venire liberamente e stabilmente impiegati nella guerra contro i talebani nel sud dell'Afghanistan.

Le mille truppe italiane da combattimento dei due Battle Group attivi dalla prossima estate nel settore ovest potranno operare con le regole d'ingaggio Nato, quindi non dovranno più limitarsi a entrare in azione solo in caso di attacco talebano, ma potranno effettuare anche operazioni offensive preventive come fanno oggi le truppe Usa, britanniche e canadesi nel settore meridionale.

Maggio 2009 - Aveva solo tredici anni la bimba afgana morta oggi sotto il fuoco dei militari italiani in Afghanistan. Assieme a lei sono state ferite altre tre persone. La bimba, alle 11 ora locale in Afghanistan, era a bordo di una Toyota Corolla quattro chilometri a sud di Camp Arena, la base dove ha sede il comando regionale della zona ovest dell'Afghanistan. Lo ha reso noto il comandante del contingente italiano, il generale Rosario Castellano.

Secondo la ricostruzione del generale, una pattuglia italiana composta da tre mezzi ha incrociato lungo la strada l'auto che procedeva in senso opposto. La pattuglia italiana ha adottato le procedure previste: avvertimento con la mano, con un grido, lampeggiando con gli abbaglianti, infine sparando colpi in aria. Ma la vettura ha continuato a procedere a forte velocità verso la pattuglia italiana.

Giunta a meno di dieci metri dal convoglio italiano, il mitragliere ha fatto fuoco prima sul terreno poi sul cofano della vettura. la pattuglia italiana ha quindi proseguito il percorso. Solo in seguito si è avuta conoscenza della morte della bambina e del ferimento degli altri tre occupanti la macchina: un uomo e due donne, il padre e la madre della bambina e una terza donna.

Giugno 2009 - Secondo fonti della nota associazione femminista afgana Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), lo scorso 16 maggio i soldati italiani avrebbero ucciso un contadino afgano nella provincia sud-occidentale di Farah. La vittima di chiama Abdul Manan, aveva trent'anni e viveva nel distretto di Pushtrod.

"Abdul Manan - scrive Rawa - era un povero contadino che la sera del 16 maggio stava lavorando nel suo campo quando truppe straniere gli hanno sparato e lo hanno ucciso usando un'arma che gli ha provocato gravi ustioni sul volto e sul corpo.

Anche se la nazionalità dei militari non è stata resa nota, la gente del posto dice che erano italiani. (Pochi giorni dopo: "Abbiamo nuovamente contattato gli abitanti del villaggio - scrive Rawa a PeaceReporter - e ci hanno detto che sul blindato da cui hanno sparato al contadino c'era scritto ‘Italia' in caratteri persiani. Ne sono sicuri").

Giugno 2009 - Tre soldati italiani sono stati feriti, uno di loro in maniera grave, in un combattimento avvenuto questa mattina nella provincia afgana di Farah, dove operano i parà della Folgore. Nella stessa zona, durante la notte, una pattuglia di parà della Folgore era stata attaccata dopo aver condotto un rastrellamento.

Solo martedì, durante un combattimento a Bala Murghab, due elicotteri italiani Mangusta erano stati colpiti dai talebani: nessun militare italiano era stato ferito; ingenti invece le perdite tra i guerriglieri afgani. La notte precedente, un'altra pattuglia della Folgore era stata attaccata dai talebani nella valle di Musahi, a sud di Kabul.

Lo scorso 29 maggio il comando italiano di Herat ha dato la notizia di una violenta battaglia a Bala Murghab (provincia di Badghis) nel corso della quale i paracadutisti del reggimento ‘Nembo', reagendo a un'imboscata, hanno bombardato con l'artiglieria le postazioni talebane, uccidendo "25 insorti", precisando poi che gli avamposti nemici sono stati "neutralizzati" anche con mortai da 120 millimetri e con l'intervento degli elicotteri da attacco Mangusta. "I nostri ragazzi hanno risposto con qualità e professionalità, ricorrendo anche all'uso dei mortai", ha orgogliosamente commentato il ministro della Diefesa, Ignazio La Russa.

Il 4 giugno la Difesa ha annunciato che le truppe italiane - fino ad allora ufficialmente impegnate solo in azioni ‘difensive', cioè in reazione ad attacchi - stavano partecipando da giorni a un operazione "pianificata" nell'area di Bala Murghab, nel corso della quale "sono state individuate ed eliminate diverse postazioni di insorti grazie all'intervento congiunto e perfettamente coordinato dei mortai dell'esercito afgano con gli elicotteri italiani Mangusta".

Giugno 2009 - Un militare italiano è rimasto ferito insieme ad altri quattro militari dell'esercito afgano nel corso di un'operazione congiunta dalle forze di sicurezza afgane e Isaf avvenuta questa mattina nella valle di Bala Murgab, nella provincia di Badghis, a 200 chilometri a nord di Herat. Nello scontro a fuoco è rimasto lievemente ferito uno dei paracadutisti del 183esimo reggimento italiano ‘Nembo'.

Ieri nell'area di Farah, al sud dell'Afghanistan, i paracadutisti del 187 reggimento ‘Folgore' erano intervenuti a supporto dell'esercito afgano a seguito di un attacco che era stato condotto contro una loro base e nel corso del quale erano rimasti uccisi due militari.

Luglio 2009 - Le truppe italiane sono penetrate in territorio nemico, lanciando un'offensiva volta a strappare ai talebani il controllo della provincia sud-occidentale di Farah, nel tentativo di arginare la loro avanzata verso il nord-ovest dell'Afghanistan. Primo obiettivo: la riconquista della strada 517, l'unica che collega il capoluogo provinciale, Farah City, alla 'Ring Road', la statale circolare che collega tutte le città del Paese. E' proprio sulla 517 che è avvenuto l'agguato di oggi.

Da maggio, per 'mettere in sicurezza' questa strada, le truppe italiane stanno combattendo senza sosta nel distretto di Bala Buluk con carri armati e elicotteri da guerra, uccidendo guerriglieri talebani e, a quanto pare, anche qualche civile. "Prima la gente di qui vedeva di buon occhio i soldati italiani perché aiutavano la popolazione - racconta a Peacereporter Bilquees Roshan, consigliera provinciale di Farah - ma ultimamente le cose sono cambiate". Anche gli attacchi della guerriglia talebana contro le nostre truppe sono aumentate esponenzialmente negli ultimi due mesi.

Settembre 2009 - Lo Stato Maggiore a Roma non è ancora in grado di fornire dettagli sull'attacco di questa mattina contro una pattuglia militare italiana a Herat, nella quale un soldato è rimasto ferito a un braccio durante lo scontro a fuoco. Il comando militare italiano a Herat ha diffuso questo comunicato ufficiale: "Mercoledì mattina le forze di sicurezza afgane e i militari italiani sono stati attaccati da insorti nella località di Shindad mentre stavano effettuando un'operazione congiunta mirata al controllo del territorio. Nel corso dello scontro a fuoco è rimasto lievemente ferito a un braccio uno dei militari italiani.

Maggio 2010 - All'inizio dell'estate scorsa, tra maggio e giugno 2009, le truppe italiane ottennero ''vittorie decisive'' sul fronte nord-occidentale di Bala Murghab, combattendo lunghe battaglie (video) con l'impiego di artiglieria e aviazione, e uccidendo centinaia di guerriglieri afgani (una novantina solo nel corso della battaglia del 9 giugno 2009, che vide impegnati i paracadutisti del 183° reggimento Nembo della brigata Folgore).

Ciononostante - dopo una breve tregua raggiunta in occasione delle elezioni presidenziali dello scorso agosto - per tutto l'autunno e l'inverno i talebani di Bala Murghab hanno continuato a impegnare senza sosta le truppe italiane, con agguati come quelli di oggi, con imboscate ai loro convogli e attacchi ai loro avamposti, spesso seguiti da duri scontri a fuoco. L'ultimo attacco è avvenuto tre settimane fa contro l'avamposto 'Columbus', dove oltre alle truppe italiane sono acquartierati anche soldati americani e afgani: 48 ore di razzi contro la base, a cui gli italiani hanno risposto con i mortai della 106esima compagnia del 2° reggimento alpini di Cuneo. Questo è stato il 'battesimo del fuoco' per gli alpini della brigata Taurinense, che erano appena arrivati al fronte per dare il cambio alla brigata Sassari di fanteria meccanizzata.

Maggio 2010 - Si è conclusa con successo, secondo i comandi Nato, l'offensiva italo-americana sferrata contro le roccaforti talebane di Bala Murghab all'indomani del mortale agguato del 17 maggio contro gli alpini della brigata Taurinense. Dopo dieci giorni di combattimenti, bombardamenti di artiglieria e raid aerei (condotti dai bombardieri Usa B-1 e F-15), l'operazione 'Subh Bakhair' (Buongiorno, in dari) è terminata con la "rimozione della presenza degli insorti" dalla zona. All'offensiva hanno partecipato alpini italiani, marines americani e anche le truppe afgane del 207 corpo d'armata. Analoghe operazioni si ripeteranno nelle prossime settimane in altri distretti della provincia di Badghis, sempre con il coinvolgimento delle truppe da combattimento italiane.

Giugno 2010 - A fine maggio, terminata l'operazione Subh Bakhair ('Buongiorno', in dari), gli alpini italiani della brigata Taurinense si erano attestati sull'altopiano di Bala Mrughab, scavando trincee e costruendo capisaldi con posizioni fortificate. La prima settimana di giugno è trascorsa in relativa tranquillità: solo alcune scaramucce e qualche incursione notturna dei talebani nascosti nei campi e nei villaggi a nord del fronte.

Fino a martedì scorso, quando i soldati italiani, assieme alle truppe del 207° corpo d'armata dell'esercito afgano, hanno lanciato un attacco contro le postazioni nemiche localizzate nel villaggio di Dari Bom. Dodici ore di furiosi combattimenti proseguiti fino a notte fonda, terminati con la conquista del villaggio. Sul campo di battaglia sono rimasti i cadaveri di ventitré ribelli. Altri sette, feriti, sono stati fatti prigionieri. Poche, pare quattro, le perdite tra le fila delle truppe afgane. Nessuna tra gli italiani.

Luglio 2010 - Sono tre i militari italiani feriti in Afghanistan durante uno scontro a fuoco con i talebani avvenuto nella zona di Bala Murghab. Uno dei tre soldati, ferito a un polmone e a una spalla risulterebbe essere in gravi condizioni. Serie le condizioni del secondo militare ferito all'inguine mentre per il terzo le condizioni non sarebbero preoccupanti. I soldati italiani sarebbero stati attaccati dai talebani e durante la battaglia sarebbe stato danneggiato anche un elicottero del contingente.


* I dettagli su questa operazione sono stati riportati da PeaceReporter nel gennaio 2008


Afghanistan ecco la verità
di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi - L'espresso - 13 Ottobre 2010

«Molti leader talebani nel distretto di Farah vogliono organizzare attacchi contro gli italiani. Gli abitanti sono favorevoli alle truppe della Nato e sostengono gli italiani perché si stanno impegnando per rendere sicura la regione. I guerriglieri hanno paura dei "veicoli neri" della Folgore mentre non temono le jeep color sabbia degli americani e delle forze occidentali. Il capo dell'intelligence locale ritiene che questo terrore nasca dalle perdite che la Folgore ha inflitto ai miliziani nelle ultime operazioni».

Eccoli i due volti della guerra in Afghanistan. Quello che ci viene raccontato da anni, con i nostri soldati che lavorano per aiutare la popolazione e proteggerla dagli estremisti islamici. E quello che è sempre stato nascosto, con i reparti italiani che combattono tutti i giorni e uccidono centinaia di guerriglieri.

Una sterminata serie di scontri, con raid dal cielo e anche tra le case dei villaggi. Ma anche una missione che deve fare i conti con traditori e doppiogiochisti, con militari afghani addestrati dalla Nato che invece aiutano i talebani, con sospetti sul destino di centinaia di milioni di euro di aiuti pagati anche dall'Italia per la ricostruzione del Paese e scomparsi nei ministeri di Kabul.

Una cronaca di reparti con la bandiera tricolore che sparano migliaia di proiettili in centinaia di battaglie, sfidando le trappole esplosive e le imboscate, convivendo con il terrore dei kamikaze che rende ogni auto una minaccia, mentre gli elicotteri Mangusta esplodono raffiche micidiali, incassando spesso i razzi dei talebani.

"L'espresso" è in grado per la prima volta di ricostruire la guerra segreta degli italiani grazie ai nuovi documenti concessi da Wikileaks: l'organizzazione creata da Julian Assange che raccoglie atti riservati e li diffonde sul Web.

Si tratta di oltre 14 mila rapporti dell'intelligence americana non ancora noti che il nostro settimanale presenta in esclusiva mondiale e che integrano i files divulgati due mesi fa: dossier che mostrano anche la lotta senza quartiere tra spie con una serie di episodi misteriosi.

Funzionari italiani che sparano contro uomini dei servizi afghani e vengono poi arrestati da questi ultimi, un presunto terrorista prigioniero degli americani che viene consegnato al nostro governo e trasferito a Roma.

Sono tutti documenti ufficiali, raccolti dai comandi Usa, in cui i reparti italiani spesso compaiono con i loro nomi di battaglia, Lupi, Fenice, Vampiri, Cobra, Tigre, Lince, o con gli acronimi delle loro Task Force, Center, North, South, TF45: resoconti in codice che raccontano l'orrore di battaglie e spesso anche la correttezza degli uomini che rischiano la pelle per non coinvolgere civili negli scontri.

Un diario impressionante in cui sono elencate diverse centinaia di combattimenti, con decine di italiani feriti in modo più o meno grave di cui non si è mai saputo nulla. Il database parte dal 2005 e arriva fino al 31 dicembre 2009: "L'espresso" si è concentrato sulle informazioni dello scorso anno, quando rinforzi e nuove regole d'ingaggio hanno provocato l'escalation delle operazioni sotto bandiera tricolore.

Battaglie taciute

Tra maggio e dicembre la Folgore ha cambiato il volto della presenza italiana in Afghanistan. I parà, sostenuti da elicotteri da combattimento Mangusta e dai blindati dei bersaglieri, sono andati alla caccia dei talebani per riprendere il controllo di territori sperduti.

E, altra differenza, hanno cominciato ad operare fianco a fianco con gli americani, oltre che con le truppe afghane. I files segnalano oltre 200 scontri in cui sono stati coinvolti i nostri soldati, ma è una raccolta parziale che contiene solo le notizie trasmesse agli Usa.

Uno dei combattimenti più discussi avviene il 31 maggio 2009 intorno alla base Colombus. Siamo a Bala Murghab sulla frontiera occidentale, il settore strategico per esportare l'oppio che finanzia i talebani. Un confine invisibile: i files segnalano inseguimenti che proseguono nel territorio turkmeno. Poco prima del tramonto, sulle postazioni italiane e su quelle degli alleati afghani cominciano a piovere razzi.

I parà rispondono anche con i mortai pesanti da 120 millimetri, quattro granate potenti come cannonate. Poi arriva una coppia di elicotteri Mangusta, che spara almeno un missile Tow «neutralizzando gli avversari». Il primo rapporto del comando italiano sostiene che siano stati uccisi 25 guerriglieri: 20 dai mortai e cinque dal missile.

Ma il dossier viene corretto nove giorni dopo: ci sarebbe anche un civile ucciso e due feriti. «Non si sa chi li abbia colpiti. Un'indagine è in corso». Non si può escludere quindi che siano vittime dei talebani.

La base Columbus nel maggio 2009 viene attaccata quasi tutti i giorni. Uno degli assalti meglio organizzati è all'alba del 9, con più gruppi di guerriglieri che massacrano un plotone di soldati afghani mentre razzi piovono sulle postazioni italiane. I parà escono dal fortino per soccorrere gli alleati, ma vengono aggrediti alle spalle. A quel punto i mortai pesanti aprono il fuoco.

Si spara per oltre tre ore. Alla fine il bilancio è drammatico: 11 soldati afghani morti, 12 finiti nelle mani dei fondamentalisti, un civile ucciso e uno ferito, tre italiani colpiti in modo non grave.

Si stima che 20 talebani siano stati ammazzati e dieci feriti, ma nessuno può confermarlo: queste vittime vengono catalogate con una formula di incertezza. Due giorni dopo un uomo e un ragazzo feriti da proiettili si presentano alla base in cerca di cure: un elicottero italiano li trasporta in ospedale.

I limiti dell'autodifesa

Come accade in tutti gli eserciti del mondo, le forze Nato in Afghanistan si comportano in modo molto più determinato quando bisogna salvare commilitoni sotto attacco. L'apocalisse nella zona controllata dall'Italia è l'11 giugno. Una squadra di americani e afghani finisce in trappola nelle viuzze di un villaggio.

Una ventina di loro vengono feriti in pochi minuti, anche l'elicottero che li soccorre incassa un razzo. A quel punto si scatena un diluvio di fuoco «in una zona densamente popolata»: viene usato tutto l'arsenale statunitense, razzi al fosforo bianco, dieci bombe, 2.300 proiettili da 30 millimetri.

Infine l'ordigno più grande: la Bunkerbuster da 2 mila libbre che spazza via un edificio dove i talebani si erano barricati. Nel combattimento muoiono sei americani e 19 afghani. Nessuna informazione sulle vittime civili. Gli italiani partecipano solo ai soccorsi. Ma come fanno poi i civili a distinguere tra noi che amministriamo il territorio con grande rispetto per la popolazione e chi bombarda? Le divise sono pressoché identiche e i reparti vanno in azione sempre più spesso insieme.

Due mesi di fuoco


Per rendersi conto di quello che fanno le truppe mandate in Afghanistan per volontà bipartisan del Parlamento basta esaminare i files relativi a due soli mesi. Un campione impressionante della situazione, nonostante si tratti di rapporti parziali.

Partiamo dal 16 giugno 2009. La Task Force Lince finisce sotto attacco, risponde usando anche mortai leggeri: si ritiene che i talebani uccisi siano sei. Il 20 nuova sparatoria, tre giorni dopo un blindato finisce su una mina, ma l'equipaggio se la cava. Il 25 una pattuglia combatte a sud, verso il confine iraniano.

Il 27 a nord verso Bala Murghab un lungo scontro: cinque guerriglieri uccisi. Quasi contemporaneamente a sud si spara per ore per salvare un convoglio di camion americani. Una colonna italiana interviene, ma viene bloccata dalle pallottole.

Dal cielo arriva una coppia di elicotteri, si ritiene Mangusta, che spara 20 colpi da 20 millimetri. A dirigere il tiro è un commando italiano, nome in codice Bardo 5. Si stima che sei aggressori restino sul campo. Poche ore dopo un'altra squadra della Folgore viene centrata: salta in aria un Lince, ma c'è solo un ferito leggero.

Il 28 fuoco con mitragliere e mortai: un nemico ucciso. Il giorno dopo bomba contro un convoglio logistico: un italiano ferito e un mezzo danneggiato. Il 30 all'alba razzi contro la base Tobruk, che risponde con i mortai da 120, e poco più tardi ancora un raid per aiutare poliziotti afghani in difficoltà.

Il 2 luglio uno scontro confuso. Ci sono agenti "amici" intrappolati in un edificio. Parà italiani e soldati afghani intervengono, ma sembra che i poliziotti gli sparino contro. Arrivano due elicotteri Mangusta che non risparmiano munizioni: 424 proiettili con il cannoncino e un missile. Nessuna valutazione delle vittime. Il giorno dopo a sud un kamikaze su una moto si lancia contro un blindato italiano: il mezzo si rovescia, due soldati restano feriti.

Il 4 all'alba c'è una scaramuccia intorno a un ospedale. Poi nella luce del tramonto i talebani attaccano la cittadella di Herat, dove c'è il comando e vivono quasi 2 mila militari italiani: tirano sette razzi. Due Mangusta decollano e danno la caccia agli incursori, sparando raffiche d'avvertimento. L'indomani una colonna viene bersagliata, ma quando arrivano i caccia americani i miliziani scappano.

Il 7 attacco con ordigno e reazione contro gli attentatori in fuga: uno ucciso, uno ferito e uno catturato. Il 9 una pattuglia nei guai risolve la situazione a colpi di mortaio. Il 12 razzi contro le basi Tobruk e Tarquinia.

Il 14 a Farah una bomba capovolge un Lince: il mitragliere Alessandro Di Lisio muore, altri due parà all'interno vengono feriti in modo leggero. Il 15 cercano di lanciare un missile contro l'aeroporto di Herat. Il 20 razzi contro la base Tobruk: colpiscono anche una casa, un civile morto e tre feriti. Il giorno dopo a Bala Murghab due bambini finiscono su un ordigno destinato ai parà: uno muore, l'altro viene ferito.

Il nostro mese di fuoco si chiude con una giornata di sangue. Il 25 luglio un autobomba a sud esplode al passaggio di una colonna italiana: il Lince salva la vita di quattro soldati, che riportano solo ferite.

Nelle stesse ore a Bala Baluk una compagnia in ricognizione cade sotto il tiro incrociato di razzi, mortai e mitragliatrici. C'è un ferito. Dalla base partono i rinforzi. Ma i talebani sono bene appostati, sparano da case abitate e bloccano la ritirata. I parà rispondono anche con mortai.

Arrivano i Mangusta che lanciano un missile «in campo aperto», poi usano il cannone: 210 proiettili contro una casa. C'è pure un bombardiere americano, ma non gli viene permesso di sganciare: si rischiano vittime civili. Anche una compagnia di rinforzi afghani finisce sotto tiro. Nuova battaglia, i reparti si uniscono e si aprono la strada sparando tra le abitazioni fino al fortino.

Recita il rapporto: «Il fuoco è stato richiesto per autodifesa, al fine di permettere all'unità di uscire dalla trappola. Non sono stati visti civili dentro o intorno i luoghi da cui proveniva il fuoco nemico».

La prima stima è di 45 guerriglieri uccisi «ma non è stato possibile verificarlo perché le case erano presidiate dai talebani». Il bilancio finale è di 25 morti, confermato dalle nostre fonti di intelligence.

Cannoniere volanti

I Mangusta sono attivissimi. Vengono invocati in continuazione: volano a bassa quota, si ritiene che possano mirare con precisione, limitando i danni collaterali. A leggere i rapporti, non si capisce perché il ministro Ignazio La Russa ponga la questione delle bombe sugli aerei: basterebbe aumentare il numero degli elicotteri, che hanno missili filoguidati e cannoni a tiro rapido.

E che spesso - come indica il gergo Nato - "go kinetic" ossia fanno fuoco a volontà. Anche gli americani li invocano. Come quando il 16 agosto una squadra statunitense viene imbottigliata nel villaggio di Siah Vashan. I velivoli italiani gli permettono di fuggire con 400 colpi «in un campo aperto».

I talebani cercano in tutti i modi di abbatterli. Il 26 maggio 2008 uno dei nostri elicotteri riceve anche l'allarme laser: il segnale che un missile nemico lo ha inquadrato. Almeno due Mangusta e un Agusta della Marina vengono colpiti da pallottole.

Il 9 luglio 2009 i talebani organizzano un agguato su vasta scala. Una mina esplode al passaggio di un convoglio italo-spagnolo: ci sono 4 feriti gravi feriti. Dopo venti minuti arrivano due eliambulanze spagnole e scatta l'imboscata: cecchini sparano dai tetti, altri sono nascosti tra gli alberi. I soccorritori volano via e sulla scena irrompono due Mangusta che "la ripuliscono dagli insorti" a cannonate.

Il 18 agosto 2009 i miliziani gli lanciano contro due razzi che esplodono a pochi metri. Poco ore più tardi un'altra coppia di Mangusta soccorre una squadra italo-afghana: appena gli "insorti" li sentono, scappano. Il giorno dopo stesso servizio per liberare una compagnia statunitense.

Il 3 settembre i commandos spagnoli sono in difficoltà vicino al Sabzak Pass. Due coppie di Mangusta si alternano per coprirli con raffiche intense: gli vengono attribuiti 19 nemici uccisi e otto feriti.

Ma c'è chi ci aiuta

In diverse occasioni è la popolazione a segnalare agli italiani i pericoli, segno che riusciamo a farci stimare. In un paesino i bambini, normalmente festosi, rifiutano le bottiglie d'acqua offerte dai nostri fanti.

I soldati all'inizio sono sorpresi, poi capiscono e danno l'allarme: «Gli insorti ci stanno sorvegliando, possibile presenza nemica nelle abitazioni». Il 23 settembre 2009 una squadra sta percorrendo la strada alle porte del villaggio di Parmakan. Un civile li ferma: «Attenti è pieno di talebani».

Ma è troppo tardi. I guerriglieri sono ben piazzati, aprono il fuoco da due diverse posizioni con razzi, mitragliatrici e mortai. C'è un parà ferito in modo grave, gli altri sparano senza sosta. Arrivano due caccia, ma ci sono troppe case per bombardare: sganciano solo scie luminose, che convincono i fondamentalisti a fuggire, lasciandosi alle spalle quattro morti e otto feriti. Ci vuole poco però a perdere il consenso della gente.

Quattro giorni dopo americani e commandos afghani cadono in un'imboscata nelle vie di un villaggio. Ci sono cecchini sui tetti, altri tra le case. Poi arrivano gli aerei. I caccia vanno in picchiata con migliaia di colpi da 30 millimetri, due bombe, un razzo al fosforo bianco. Il rapporto indica che «tutte le coordinate colpite sono un'area abitata».

Sembra che il governatore e il comando italiano vengano tenuti all'oscuro del volume di fuoco. E all'indomani nei due ospedali di Farah e Balah Baluk si presentano molti civili feriti.

Natale di bombe

La Folgore ha una singolare fantasia nello scegliere i nomi delle operazioni. Quando arriva in Afghanistan lancia l'operazione "Buongiorno", per far capire ai talebani che il clima è cambiato. Poi scatta "Bestia feroce" e con l'avvicinarsi del Natale ecco "Guastafeste". Ma il pomeriggio del 25 dicembre i talebani festeggiano a modo loro: attaccano una pattuglia Usa in un borgo non lontano dal fortino di Bala Baluk.

Si muove la compagnia Cobra delle nostre forze speciali: 39 soldati e dieci Lince, in due colonne. I talebani li bloccano. Loro rispondono con 4 mila proiettili. Ma non basta. Dalla base tirano con i mortai da 120. Poi arrivano gli aerei: due bombe e tutti rientrano incolumi nell'avamposto per cena.

Due giorni dopo si combatte ancora nello stesso villaggio, i talebani sparano da tre case. I jet sganciano due bombe su una postazione fuori dal paese, ma viene proibito l'attacco sulle abitazioni. Il raid sembra avere riportato la quiete e comincia il rastrellamento. I Cobra si appostano, gli americani entrano nel paese.

Ma dai tetti rispuntano i cecchini talebani. Volano raffiche e razzi. Ed ecco di nuovo gli stormi americani: quattro bombe vengono dirette sugli obiettivi. Quattro le case sbriciolate: si stima che 25 guerriglieri siano morti, ma controllare è troppo pericoloso.

Il giorno dopo due bambini feriti si presentano al cancello della base: dicono che la madre è stata ammazzata. Raccontano una storia agghiacciante: la loro famiglia è stata tenuta in ostaggio dai talebani. Il rapporto è laconico: «Si ritiene che la bomba sganciata contro la casa confinante l'abbia uccisa».

Chi ci spara contro

I resoconti dell'intelligence americana mostrano la sfiducia nei confronti delle forze afghane, spesso addestrate dagli italiani. La diffidenza massima è nei confronti della polizia locale. A Herat, nel capoluogo della regione dove sventola il tricolore, sono ancora più espliciti: "La maggior parte della polizia afghana non può essere giudicata affidabile, perché molti dei poliziotti lasciano i loro posti e spesso si arruolano nelle fila dei talebani.

Molti lo fanno perché non vengono pagati. Non è chiaro dove vanno a finire i soldi destinati agli stipendi». Gli agenti arrotondano con i sequestri di persona, a danno di possidenti, un business molto proficuo: "Si pensa che rapitori ed alti ufficiali della polizia siano d'accordo".

Il vicegovernatore di un'area nel nostro distretto si vanta di «avere un fratello nei talebani». Molto spesso sulle informative degli 007 è scritto in evidenza: «Queste notizie non devono essere condivise con il governo di Kabul e la polizia».

L'episodio più grave è avvenuto il 29 dicembre nella base Columbus. Un soldato afghano ha fatto fuoco sui suoi alleati occidentali, uccidendo un americano e ferendo due italiani. Pare che l'obiettivo fosse un elicottero appena atterrato.

Il 21 dicembre, dopo una lite, scoppia una battaglia davanti all'ingresso principale della cittadella di Herat, comando di tutte le nostre truppe: poliziotti afghani contro soldati afghani.

La stessa scena si ripete cinque giorni dopo su un ponte. Spesso gli afghani sparano senza motivo: una pattuglia di bersaglieri descrive come abbiano distrutto un negozio in un villaggio alle porte di Bala Murghab.

Persino quattro uomini assoldati per la sicurezza dell'ambasciata di Kabul vengono indicati come complici dei talebani e rimossi. E c'è il sospetto che l'attentato in cui è stato ammazzato un artificiere italiano sia stato organizzato con la complicità di poliziotti.

Molti di loro però pagano con la vita il sostegno agli occidentali: due agenti vengono decapitati a Chin. A un altro ufficiale uccidono la figlia e feriscono la moglie. Il 3 giugno i parà italiani scoprono un camion con i corpi di 12 civili, rapiti e assassinati perché lavoravano per gli americani.

I bambini perduti

Le informative occidentali e anche quelle italiane evidenziano come i talebani puntino a usare i bambini per i loro piani criminali. Viene descritto l'addestramento di dodicenni, destinati a diventare kamikaze alla guida di autobombe.

Ci sono progetti dettagliati per stroncare la campagna di scolarizzazione laica e spingere i piccoli verso le madrasse, le scuole religiose che formano i quadri talebani.

Temono il successo delle aule costruite dagli italiani: studiano come avvelenare il cibo donato dagli occidentali ai centri di istruzione e di infiltrare fondamentalisti tra gli insegnanti selezionati dal governo di Kabul. Nelle informative si parla anche di gas e sostanze chimiche per mettere a segno attentati clamorosi contro i fiancheggiatori della Nato.

Ci sono stati anche sospetti sull'incendio che ha distrutto l'accampamento della Task Force 45, l'unità speciale di commandos italiani, a Farah: le fiamme hanno fatto esplodere la scorta di munizioni e una granata ha centrato un elicottero americano parcheggiato nelle vicinanze. Ma alla fine la causa è stata individuata in un difetto del gruppo elettrogeno.

Tra tanti files confidenziali, uno è particolarmente suggestivo: ha il titolo “Berlusconi” e racconta la nascita di una protesta popolare anti-americana e anti-Karzai in un distretto del Nord, affidato ai tedeschi, in sostegno del generale Dostum, leggendario signore della guerra. Il dossier fa riferimento a informazioni di un documento del febbraio 2008 con il nome del premier, che in quei giorni era impegnato nella campagna elettorale.

Perché chiamarlo proprio con il nome del Cavaliere? L’ultimo mistero di una guerra tenuta nascosta agli italiani, una missione dove la pace è un ricordo remoto. E dove ogni giorno quasi quattromila militari combattono e rischiano la vita per portare a termine il compito che gli è stata assegnato da governo e parlamento.


Le nuove rotte della guerra
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 19 Ottobre 2010

Il Pentagono punta sempre di più sull'Asia centrale per il transito dei rifornimenti alle truppe impegnate sul fronte afgano. Una scelta che rischia però di destabilizzare la regione

Per portare avanti una lunga campagna militare in un paese lontano, come quella in Afghanistan, non bastano soldati, armi, proiettili, carri armati e aerei. Serve anche un continuo e massiccio rifornimento di carburante per i veicoli militari, i jet e gli elicotteri, di cemento e legname per costruire basi e avamposti, di barrire antiesplosive per erigere fortificazioni, di fosse biologiche per le caserme.

Fino ad oggi, questi rifornimenti 'non letali' per le forze armate americane e alleate impegnate sul fronte afgano arrivavano per l'80 per cento via mare al porto pachistano di Karaci e da lì i container venivano caricati su camion, autotreni e autocisterne, che in una decina di giorni raggiungevano i due valichi di confine sulla frontiera afgana - quello del Khyber Pass a nord di Peshawar e quello di Chaman a nord di Quetta - per poi proseguire fino alle grandi basi militari di Bagram e Kandahar.

Il restante 20 per cento arrivava in Afghanistan via aerea, con costi almeno dieci volte maggiori.

La rotta di rifornimento pachistana è però diventata sempre più insicura, non solo per gli attacchi dei talebani contro i convogli di camion e autobotti, e inaffidabile per i sempre più tesi rapporti tra Washington e il governo di Islamabad, che a fine settembre ha addirittura bloccato il passaggio dei rifornimenti per undici giorni, come rappresaglia ai continui bombardamenti aerei americani sulle regioni tribali pachistane.

Questa situazione ha spinto il Pentagono a prendere una decisione molto rischiosa per la stabilità della regione centroasiatica: spostare la maggior parte dei rifornimenti sulle due rotte, finora secondarie, della cosiddetta 'Rete di distribuzione nord': una che parte dal porto lettone di Riga per poi attraversare la Russia, il Kazakistan e l'Uzbekistan fino al valico afgano di Termez-Hairatan (da dove parte la nuova rete ferroviaria afgana); l'altra che collega il porto georgiano di Poti, sul Mar Nero, a quello azero di Baku, sul Mar Caspio, proseguendo su navi-cargo fino al porto kazaco di Aqtau, per poi ricongiungersi all'altra linea in Uzbekistan. Ne è prevista anche una terza, attraverso Kirghizistan e Tagikistan.

I primi rifornimenti hanno iniziato a percorrere queste rotte, prevalentemente ferroviarie, lo scorso marzo. Nei mesi successivi il traffico è stato gradualmente incrementato fino a raggiungere nelle scorse settimane un ritmo di cento container al giorno, arrivando a trasportare il 60 per cento dei rifornimenti di gasolio e il 30 per cento dei materiali edili, sanitari e di sicurezza.

Il piano del Pentagono, e dei vertici della Nato, è di potenziare ulteriormente nei prossimi mesi la rotta nord - più sicura, rapida ed economica - fino a farla diventare quella principale.

Il rischio è che il massiccio trasferimento delle rotte di rifornimento militari dal Pakistan alle repubbliche centroasiatiche, attiri su questi paesi le destabilizzanti attenzioni dei movimenti jihadisti storicamente attivi in queste regioni.

La minaccia più concreta è rappresentata dal Movimento Islamico Uzbeco (Miu), gruppo armato panislamico nato a fine anni '90 nella Valle di Fergana (a cavallo tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan) e successivamente trasferitosi in Afghanistan e in Pakistan.

La sua recente ricomparsa prima nella provincia afghana settentrionale di Kunduz e poi nella Valle di Rasht, in Tagikistan, ha già messo in allarme i regimi centroasiatici.