sabato 23 ottobre 2010

Update iracheno

Una serie di articoli con le ultime "novità" dall'Iraq...


Wikileaks, 400 mila file shock. "In Iraq un bagno di sangue"
da www.repubblica.it - 23 Ottobre 2010

Le nuove rivelazioni sul sito di Assange. "Vogliamo correggere gli attacchi alla verità. Stragi e abusi coperti, 109 mila morti di cui oltre la metà civili". Bagdad: "Nessuna sorpresa". Washington: "Si mette a rischio la vita di cittadini americani"

Un "bagno di sangue" con oltre centomila morti di cui oltre la metà civili. Di questi diverse migliaia hanno perso la vita in incidenti di cui finora non si sapeva nulla e che nella maggior parte dei casi sono ascrivibili ai militari iracheni. Sei anni di orrori testimoniati da 400 mila nuovi documenti sul conflitto iracheno ora pubblicati sul sito WikiLeaks.

"Vogliamo correggere gli attacchi alla verità" ha dichiarato il fondatore del sito, Julian Assange, in una conferenza stampa organizzata a Londra subito dopo la diffusione. "Questi documenti rivelano sei anni di guerra in Iraq con dettagli dal terreno, le truppe sul territorio, ciò che vedevano, facevano e dicevano".

"Nessuna sorpresa" è la prima reazione ufficiale del governo di Bagdad, affidata al ministero dei Diritti umani. "Avevamo già dato notizia di molte cose che sono accadute, compresi gli abusi nella prigione di Abu Ghraib, e di molti casi che hanno coinvolto le forze Usa", ha riferito il portavoce del ministero. Washington ha invece condannato la divulgazione di qualsiasi documento che metta a rischio la vita di soldati o civili americani.

Assange: "Correggiamo attacchi a verità". "Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità. Così è stato ed è ancora oggi", ha detto Assange, annunciando che presto saranno pubblicati altri 15 mila documenti sulla guerra in Afghanistan. Le nostre fonti rischiano grosso, ha aggiunto, spiegando che il materiale raccolto è il frutto "del lavoro coordinato" tra Wikileaks e numerosi media, come il New York Times o il Washington Post e altri gruppi, come Iraq Body Count il cui rappresentante, John Sloboda, presente all'incontro stampa, ha riferito che i soldati dell'esercito Usa tennero un registro delle vittime civili della guerra in Iraq, ma questo registro fino a oggi è rimasto segreto. I documenti pubblicati consentono ora di dare un'identità alle persone uccise, ha aggiunto Sloboda: "Abbiamo trovato i nomi dei morti. Non era mai successo prima. Ora abbiamo l'elenco completo delle vittime, anche quelle nelle fosse comuni".

Documenti serviranno per azioni legali.
Il materiale servirà ad avvocati per aprire azioni legali in Gran Bretagna. "I torturatori saranno individuati e perseguiti", ha detto Phil Shiner, rappresentante dell'organizzazione Public Interest Lawywers, intervenendo alla conferenza stampa a Londra.

"Abbiamo verificato la violazione dei diritti umani in numerosi casi. Ci sono abusi di ogni tipo, e i prigionieri venivano costretti a dire una verità già scritta - ha aggiunto - vogliamo aprire le inchieste, sulla base delle modalità di interrogatorio che abbiamo scoperto".

Migliaia di morti di cui non si sapeva nulla. Dai documenti usciti dopo che al Jazeera ha rotto l'embargo 1 e ne ha anticipato la pubblicazione - attualmente non consultabili su WikiLeaks 2 per problemi di connessione causa un eccesso di collegamenti - è emerso che tra il 2003 e il 2009 in Iraq ci sono stati più di 109mila morti, di cui oltre 66 mila civili.

In particolare si apprende di 15 mila persone che hanno perso la vita in incidenti di cui finora non si era saputo nulla e per i quali nella maggior parte dei casi la responsabilità ricade sulle truppe irachene.

Documentate anche torture sistematiche sui detenuti da parte dei militari di Bagdad, senza che ci fosse un intervento degli Usa, e uccisioni di civili inermi. Nel materiale anche alcune rivelazioni riguardanti la morte di Nicola Calipari 3.

"Un bagno di sangue paragonato all'Afghanistan".
Per Assange questi documenti militari segreti offrono una fotografia molto più nitida rispetto al materiale pubblicato sull'Afghanistan che aveva documentato la morte di 20 mila persone.

"In Iraq parliamo di un livello di uccisioni cinque volte superiore, un bagno di sangue paragonato all'Afghanistan - afferma il fondatore di Wikileaks - ora di quei morti vediamo non solo il totale, ma anche come è avvenuto il decesso di ogni singola persona, abbiamo le precise coordinate geografiche e l'operazione in cui hanno perso la vita, non si tratta più di anonimi". Per Assange "il risultato di questo materiale è potente e un po' più facile da comprendere rispetto alla complessa situazione in Afghanistan".

Pentagono minimizza: "Episodi già noti". Nel racconto della guerra emergono storie imbarazzanti per gli Usa che potrebbero avere effetti imprevedibili sulle elezioni di Mid-Term 4 del 2 novembre. Anzitutto la copertura delle torture praticate dai militari iracheni, ma anche le tantissime uccisioni di civili ai posti di blocco Usa, 681, tra cui donne in gravidanza e bambini.

Il Pentagono ha minimizzato osservando che molti episodi "erano stati a suo tempo ampiamente riportati in servizi di cronaca", ma il danno resta potenzialmente enorme. Il segretario di Stato, Hillary Clinton, condanna la divulgazione di qualsiasi documento che metta a rischio la vita degli americani.

Le torture inflitte ai prigionieri.
Nei file desecretati, c'è il racconto delle torture inflitte ai prigionieri da parte dei soldati iracheni (abusi fisici di ogni tipo, con particolari raccapriccianti, comprovati dai referti sanitari) e sistematicamente ignorati dagli americani, tranne un intervento isolato nel 2005. Sistemi simili a quelli impiegati durante il regime di Saddam Hussein: detenuti frustati con cavi pesanti, appesi a ganci o che ricevevano scosse elettriche sul corpo, violenze sessuali. Almeno sei sono morti per le violenze.

I militari Usa scoprirono migliaia di vittime di esecuzioni sommarie senza che questo venisse denunciato. C'è poi il caso di un elicottero Apache, quello già coinvolto nell'uccisione di due giornalisti della Reuters documentata da WikiLeaks, che avrebbe sparato a due miliziani che volevano arrendersi. E si scopre che nel 2005 al Qaeda voleva attaccare il carcere iracheno di Abu Graib, la "prigione delle torture" chiusa dall'amministrazione Obama.

Lo "scoop" di WikiLeaks.
WikiLeaks scatenò un putiferio mesi fa 5, rendendo pubblici 77mila documenti sulla guerra in Afghanistan, e annunciando di averne nel cassetto altri 15mila altrettanto esplosivi.

Lo "scoop", incentrato sui rapporti riservati dei comandi Usa che hanno rivelato numerosi punti oscuri ha fatto piovere sulla testa di Assange moltissime critiche, seguite dalle accuse di stupro in Svezia 6 in un'inchiesta dai contorni oscuri, e un mandato di arresto spiccato e poi ritirato. "E' uno sporco trucco", accusò l'australiano puntando l'indice contro l'intelligence statunitense.


Impunità assicurata
di Antonio Marafioti - Peacereporter - 23 Ottobre 2010

Il Dipartimento della Giustizia Usa archivia il caso dell'ex agente Blackwater, Andrew J. Moonen, che nel 2006 uccise la guardia del corpo del vicepresidente iracheno Adel Abdul Mahdi

Soldi e impunità. Questi i due benefit garantiti dal governo degli Stati Uniti alla Blackwater Security, la società di sicurezza privata macchiatasi di gravi violazioni dei diritti umani in Iraq e Afghanistan. Dopo aver fatto rientrare la Xe Service, nuovo nome di Blackwater, nel contratto da dieci miliardi di dollari, stipulato col Dipartimento di Stato per la difesa nei teatri di guerra, Washington continua a tenere la società lontana dai guai.

Il Dipartimento della Giustizia ha, infatti, comunicato l'archiviazione del caso di Andrew J. Moonen, ex mercenario in forza all'azienda di Moyock, North Carolina, accusato di aver ucciso, il 24 dicembre del 2006, con tre colpi di arma da fuoco, Raheem Khalif, la guardia del corpo dell'allora vicepresidente iracheno Adel Abdul Mahdi.

Dopo un primo tentativo di insabbiamento delle indagini su Moonen, da parte del Dipartimento di Stato e della stessa Blackwater, un'inchiesta del New York Times, datata 4 ottobre 2007, ha rivelato l'identità dell'uomo che il governo iracheno ha sempre considerato, e tutt'ora considera, l'esecutore materiale dell'omicidio.

Due giorni prima Erik Prince, capo supremo di Blackwater, aveva certificato a una commissione parlamentare d'inchiesta che Moonen era già stato licenziato per "aver violato il regolamento sull'alcool e le armi da fuoco".

Ciò non ha impedito a Combat Support Associates, un'altra società alle dipendenze del Pentagono, di assoldare l'uomo per una missione in Kuwait, dove Moonen ha lavorato, prima delle rivelazioni del Nyt, da febbraio ad agosto del 2007, riuscendo a scampare a una richiesta di comparizione emessa dallo stesso Dipartimento della Difesa.

In seguito all'apertura delle indagini su Moonen l'impianto accusatorio è stato sempre più compromesso dalla difficoltà per gli inquirenti di reperire prove sulla scena del crimine.

"Il campo di battaglia non è un luogo che si presta alla preservazione delle prove", ha dichiarato al Nyt, Charles Rose, professore alla Stetson University College of Law in Florida. Come se ciò non bastasse, il lavoro dei magistrati statunitensi è stato messo a dura prova dall'incertezza sulla legge da applicare per un delitto commesso all'estero.

Il personale della Blackwater, come quello delle altre società private di sicurezza, era garantito da una sorta di immunità giudiziaria concessa dal governo di Baghdad a tutti coloro che lavoravano per aiutare e proteggere la popolazione.

Sarebbe proprio questo status d'immunità, secondo il professore Andrew Leipold dell'Università dell'Illinois, a "rendere difficile la perseguibilità di chi compie azioni criminose". Inoltre, in virtù del fatto che le varie agenzie sono vincolate per contratto col solo Dipartimento di Stato, ad esse non sarebbe applicabile il Military Extraterritorial Jurisdiction Act, fatto per i contractor ma imposto unicamente ai dipendenti del Pentagono.

Su questa base anche chi conferma i fatti, viene considerato "intoccabile". Moonen era al corrente di tutto ciò quando in sede di interrogatorio con i funzionari dell'ambasciata Usa in Iraq, confermò di aver sparato al "gorilla" di Mahdi, precisando di esserne stato costretto per legittima difesa. Prima che l'ex agente iniziasse a parlare, i diplomatici lo rassicurarono sulla sua esenzione da possibili procedimenti penali, e lo minacciarono di licenziamento se non avesse collaborato con la giustizia.

Da allora tutti i casi riguardanti le presunte violazioni degli agenti di Blackwater nei teatri di guerra, si sono risolte con confessioni accompagnate dall'attenuante di aver agito per autodifesa. Così se la sono cavata, lo scorso settembre, due ex contractor dell'agenzia di Moyock, sui quali una giuria della Virgina si è detta incapace di raggiungere un verdetto per il caso dell'omicidio di due civili in Afghanistan.

Il crollo delle accuse ha seguito il proscioglimento più clamoroso riguardante gli agenti di Blackwater: quello sulla strage di 17 civili iracheni nella piazza Nisour di Baghdad, avvenuto il 17 settembre del 2007. La magistratura ha rinunciato a procedere, per mancanza di prove, nei confronti dei cinque impiegati dell'agenzia, responsabili del massacro, sui quali pendeva il capo d'accusa di omicidio colposo.

Quelle vittime non hanno trovato giustizia. Dopo quattro anni di indagini, il caso Moonen si è chiuso con un'archiviazione che lascia l'amaro in bocca. Perché con essa se ne va l'ultima speranza di vedere finire dietro le sbarre i responsabili della morte di civili innocenti. Blackwater non paga. Anzi, viene ancora pagata.


L'Iran sta tirando le fila in Iraq? Non esattamente
di Tony Karon - TIME - 19 Ottobre 2010
Traduzione di Ornella Sangiovanni per www.osservatorioiraq.it

Il fatto che l’Iran abbia dato la sua benedizione a un secondo mandato per il Primo Ministro iracheno Nuri al-Maliki — un sostegno che potrebbe contribuire alla sua rielezione — viene trattato in alcuni ambienti come una svolta degli eventi deprimente e inaspettata.

Non appena le truppe da combattimento statunitensi se ne sono andate, questo è il ragionamento, l’Iran si è mosso per riempire il vuoto e installare al potere il suo uomo, ordinando all’esponente religioso estremista e anti-americano di appoggiare con forza Maliki, che Sadr detesta. "Possa Dio sbarazzare dell’America in Iraq, in modo che i problemi del suo popolo vengano risolti", ha detto la Guida Suprema iraniana, Ayatollah Ali Khamenei, ricevendo ieri Maliki. Ed ecco a Washington un coro di "Chi ha perso l’Iraq?".

E’ fuori discussione che gli Stati Uniti si siano sforzati invano di far arrivare al potere il loro favorito, l’ex Primo Ministro Iyad Allawi. Ciò è coerente con le politiche democratiche in Iraq dalla cacciata di Saddam Hussein.

Sembra probabile che gli ammonimenti di Washington contro il dare a Sadr una partecipazione significativa in un nuovo governo verranno ignorati — anche se si prevede che Maliki limiterà l’accesso dei sostenitori di Sadr ai ministeri cruciali per la sicurezza, dove la storia delle violenze da parte dei sadristi contro i sunniti e le forze Usa sarebbe motivo di allarme.

Inoltre, proprio come tutti i governi iracheni eletti dalla caduta di Saddam, una nuova amministrazione Maliki sarebbe più vicina all’Iran che a Washington. Tuttavia, questo esito sarebbe dettato più dai modelli consolidati della democrazia irachena che da ingerenze esterne.

L’accordo che garantirebbe un secondo mandato a Maliki non è ancora concluso. Sadr è della partita, forse dietro sollecitazione dell’Iran. Cosa più importante, l’esponente religioso estremista sarà arrivato alla conclusione che per quanto possa trovare sgradevole un secondo mandato di Maliki, lo preferirebbe a un governo guidato da Allawi, che è sostenuto dagli Stati Uniti. Maliki ha ancora bisogno dell’appoggio del blocco kurdo, nonostante anche questo abbia segnalato che, malgrado le sue riserve, lo preferisce ad Allawi.

L’Iran sembra stare lavorando per spianare la strada a Maliki, sia fra i partiti sciiti che forse nella regione, intercedendo presso la Siria — che sostiene Allawi — affinché accetti un altro mandato di Maliki. (Damasco aveva litigato con Maliki lo scorso anno, dopo che il leader iracheno l’aveva accusata di favorire la rivolta sunnita. Sì, nonostante l’alleanza regionale fra Iran e Siria, i due Paesi stavano da parti opposte dell’impasse irachena — niente è semplice in Medio Oriente).

Tehran può avere maggiore influenza di Washington, ma non è in grado di scrivere il copione del processo politico a Baghdad. Dopotutto, l’Iran avrebbe voluto che i partiti sciiti si presentassero alle elezioni con un’unica coalizione, che avrebbe battuto di parecchio quella di Allawi.

Né questa influenza rappresenta qualcosa di nuovo: nel 2003, quello che allora era l’alleato chiave dell’Iran, il Consiglio Supremo per la rivoluzione islamica in Iraq, nonché il partito di Maliki, al Da’wa, vennero inclusi nel governo a interim messo insieme dagli Stati Uniti, e tutte e tre le elezioni democratiche hanno visto i partiti sciiti fondamentalisti emergere dominanti.

Persino il ruolo di Sadr come ago della bilancia non è nulla di nuovo: nel maggio 2006 Maliki divenne Primo Ministro solo con l’appoggio del blocco dei parlamentari sadristi.

Il motivo per cui l’esponente religioso estremista era stato così ostile al premier in carica sta nel fatto che nel marzo 2008 Maliki aveva scatenato le sue forze di sicurezza governative appoggiate dagli Stati Uniti per smantellare l’Esercito del Mahdi – confessionale – di Sadr.

Fatto abbastanza curioso, la tregua che mise fine a quella particolare resa dei conti venne raggiunta, a quanto si dice, con la mediazione di un alto comandante del corpo dei Guardiani della rivoluzione iraniani.

Anche il fatto che il governo eletto dell’Iraq abbia preso le distanze dalla politica regionale di Washington che si oppone all’Iran e ai suoi alleati non è nulla di nuovo. Quando Maliki andò in visita a Washington nell’estate 2006, i parlamentari statunitensi tentarono invano di fargli condannare Hezbollah, la milizia sciita libanese appoggiata dall’Iran, che all’epoca era impegnata in una feroce battaglia contro le forze armate israeliane.

Fra Hezbollah e il partito di Maliki, al Da’wa, esiste un’alleanza di lunga data, e, secondo il britannico Guardian, leader di Hezbollah avrebbero contribuito alla mediazione che ha portato all’accordo fra Maliki e Sadr.

Anche se Allawi sta facendo appello al sostegno Usa e a quello arabo denunciando l’”interferenza” iraniana, in realtà sia lui che Maliki hanno trascorso un notevole tempo a sollecitare sostegno nelle capitali vicine per i loro tentativi di costruire un governo.

E non è che gli Stati Uniti non abbiano cercato di far eleggere quella che è la loro opzione preferita. Nessuna potenza esterna è in grado di installare tout court un proprio agente a Baghdad; l’unica strada per il potere è raccogliere l’appoggio parlamentare necessario.

E, anche se il blocco di Allawi può aver vinto due seggi in più di quello di Maliki, il premier in carica finora si è dimostrato più capace di costruire una coalizione di quanto non sia in grado di disporre di una maggioranza parlamentare.

Se Maliki verrà rieletto, i grandi perdenti saranno i sunniti, che avevano messo termine al loro boicottaggio delle elezioni irachene per votare in moltissimi a favore di Allawi, solo per vedere il loro uomo respinto dai numeri. Una rielezione di Maliki confermerà il loro senso di alienazione rispetto all’ordine dominato dagli sciiti che esiste da quando gli Stati Uniti hanno deposto Saddam.

E una conseguenza di questa alienazione è che molti membri dei "Figli dell’Iraq" — milizie sunnite di ex insorti che avevano aiutato gli Usa a emarginare “al-Qaeda in Iraq” — si dice stiano tornando nelle fila della rivolta.

Ironicamente, potrebbe essere la capacità di sunniti di destabilizzare l’Iraq attraverso la rivolta, piuttosto che i loro numeri in parlamento, a spingere Maliki alla fine a dare ai sunniti una quota del suo nuovo governo.

Questo perché, con lo Status of Forces Agreement negoziato dall’amministrazione Bush che stabilisce che gli Stati Uniti ritirino tutte le loro forze entro la fine del prossimo anno, il focus politico del prossimo Primo Ministro iracheno sarà quello di mantenere la sicurezza e impedire una recrudescenza della violenza confessionale.



Al Anbar contro l'accordo per il gas di Akkas
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 22 Ottobre 2010

Problemi in vista per la compagnia sudcoreana che si è aggiudicata il contratto per lo sviluppo del giacimento di gas di Akkas, nell’ovest dell’Iraq, nel terzo round di gare d’appalto che si è appena concluso.

La KOGAS, e i suoi partner kazaki della KazMunaiGas Exploration & Production, dovranno vedersela – con tutta probabilità – con l’opposizione delle autorità locali della provincia di al Anbar (nella quale si trova il giacimento), irritate per non essere state consultate dal governo centrale di Baghdad.

Che nella provincia a stragrande maggioranza sunnita, ex roccaforte della resistenza (quella, per intenderci di Falluja e Ramadi, solo per citare i due centri più noti) si preparavano grane lo si poteva capire, nei giorni immediatamente precedenti alle gare, leggendo i giornali arabi [in arabo].

Il messaggio delle autorità locali – al governo di Baghdad – non avrebbe potuto essere più chiaro: ci opponiamo a qualsiasi contratto che dovesse essere firmato fra il governo centrale e qualunque compagnia internazionale.

“Abbiamo le nostre vedute su come sviluppare il giacimento” – aveva detto il governatore, Qasim al Fahadawi, riferendosi ad Akkas, che si trova nei pressi del confine con la Siria, e, con le sue riserve stimate in circa 158 miliardi di metri cubi di gas, è il maggiore dei tre assegnati nelle recenti gare.

Dunque, ostilità annunciate.

Jassim Mohammed, presidente del Consiglio Provinciale, dice che Anbar vuole che il governo di Baghdad sia più attento alle esigenze della provincia, quando firma contratti per investimenti con le compagnie internazionali.

Compagnie che adesso non avranno vita facile.

"Rifiutiamo e respingiamo le compagnie straniere che hanno vinto il contratto per sviluppare il giacimento di gas di Akkas", dice Mohammed alla Reuters. "Non gli permetteremo di lavorare e di estrarre il gas, a meno che non venga ascoltata l’opinione del Consiglio Provinciale".

Da al Anbar arriva una prima richiesta: che nel contratto relativo ad Akkas venga inclusa una clausola che impegna le compagnie straniere a vendere il gas sul mercato interno, nonché a lavorarlo per la produzione di derivati che possano essere venduti localmente.

Il ministero iracheno del Petrolio ha stabilito come priorità quella del consumo interno, mantenendo tuttavia la possibilità per le compagnie straniere di esportare una parte del gas prodotto.

Linea dura dal ministero del Petrolio

Il suo portavoce, Asim Jihad, liquida gli avvertimenti delle autorità locali, dicendo che il ministero respingerà qualunque mossa, da qualunque parte arrivi, che voglia “approfittare di questi processi per ragioni politiche, elettorali, o di qualunque altro tipo".

Ma non è detto che questo tranquillizzi chi si prepara a investire miliardi di dollari.

E dunque, il ministro del Petrolio, Hussein al Shahristani, tenta di rassicurare, usando toni duri.

"Chiunque si opponga a questi contratti verrà chiamato a risponderne", ha avvertito due giorni fa.

“Disobbedienza civile”

Sarà. Da al Anbar rinviano a loro volta un avvertimento che suona come una minaccia: non provvederemo alla sicurezza delle compagnie straniere. Il che in una zona tribale non è proprio incoraggiante.

E aggiungono che utilizzeranno tutti i mezzi per opporsi – incluso quello della “disobbedienza civile”, se Baghdad ignorerà le loro richieste.

Due giorni fa, dopo l’annuncio dell’esito delle gare, nella provincia dell’ovest dell’Iraq sono scesi in piazza a centinaia – per protestare contro l’assegnazione del contratto di Akkas a KOGAS e ai suo partner kazaki. Molti portavano striscioni che esortavano il governo a proteggere le risorse del Paese.

No, lavorare in Iraq nel settore dell’energia per gli stranieri non è facile. Per niente. Ne sanno qualcosa i cinesi della CNPC, la compagnia che opera nel giacimento petrolifero di Ahdab, provincia di Wasit (sud-est), che non molto tempo fa si è trovata a fare i conti con un raid ordinato dalle autorità locali – subito condannato, con grande imbarazzo, dal ministero del Petrolio.

E adesso ci sono grane in vista per Akkas.

Forse il Gruppo Edison (che da tempo puntava al giacimento di gas iracheno) ha fatto bene a tenersene fuori.



L'inviato dell'Onu sfugge a un attentato a Najaf
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 20 Ottobre 2010

Ha rischiato di fare la fine del suo predecessore, Sergio Vieira de Mello. Ad Melkert, il Rappresentante Speciale per l’Iraq del Segretario Generale delle Nazioni Unite è rimasto illeso nell’attentato che ha colpito ieri il convoglio nel quale viaggiava, e che è costato la vita a un poliziotto iracheno.

Il fatto più rilevante è che l’attacco è avvenuto a Najaf, una delle due città sante sciite dell’Iraq, solitamente fra le zone più tranquille del Paese.

Melkert c’era andato per incontrare il Grande Ayatollah Ali al Sistani, il leader religioso più influente fra gli sciiti iracheni, e si stava dirigendo all’aeroporto, scortato da un’unità speciale della polizia locale, verso le 4 del pomeriggio, per rientrare a Baghdad.

Queste le informazioni fornite da Randa Jamal, portavoce della Missione Onu di assistenza all’Iraq (UNAMI).

Nell’esplosione che ha colpito il suo convoglio, una bomba collocata sul ciglio della strada (ordinaria amministrazione in Iraq), oltre al poliziotto ucciso, sono rimaste ferite altre tre persone, nessuno dei quali dipendenti delle Nazioni Unite, stando sia a fonti Onu che irachene.

Lo shock del 19 agosto 2003

Non si sa se obiettivo dell’attacco fosse proprio Melkert: certo è che le Nazioni Unite non si sono mai riprese veramente dallo shock dell’attentato suicida del 19 agosto 2003 contro il loro quartier generale di Baghdad, nel quale morirono il Rappresentante Speciale Vieira de Mello e altri 21 funzionari dell’organizzazione internazionale.

Le condizioni nelle quali opera l’Onu, dopo il rientro nel Paese, sono ancora di grande allerta – gli spostamenti del personale limitati.

Najaf però è considerata una zona tranquilla, dove di solito non si registrano attentati.

Certo è che la visita di Melkert a Sistani era stata largamente pubblicizzata, e aveva finalità politiche.

Tre ore a colloquio con Sistani

Dopo l’incontro, durato tre ore, e prima di andare all’aeroporto per tornare a Baghdad, l’inviato di Ban Ki Moon aveva tenuto una conferenza stampa, in diretta televisiva, nel quale aveva espresso il sostegno delle Nazioni Unite a un’iniziativa che metterebbe attorno a un tavolo tutte le forze politiche irachene, nel tentativo di sbloccare la crisi politica che ha impedito finora la formazione di un governo, a più di sette mesi dalle elezioni del 7 marzo scorso.

Va detto anche che il sud dell’Iraq a maggioranza sciita non merita totalmente la sua reputazione di zona tranquilla, sotto l’aspetto della sicurezza, nonostante l’assenza di gruppi jihadisti genere al Qaeda.

Allerta Usa sul sud dell’Iraq

E’ di qualche giorno fa un’allerta diffusa dall’ambasciata Usa a Baghdad che avverte gli americani e gli altri occidentali che vivono e lavorano in Iraq del pericolo di sequestri, in particolare nella capitale.

La comunicazione fa seguito a due precedenti, diffuse il 14 e il 25 settembre, che raccomandavano ai cittadini americani di non andare nel sud sciita.

Si tratta infatti di zone dove operano – a singhiozzo – i cosiddetti “gruppi speciali” (questo è il termine usato dagli americani): formazioni sciite che avrebbero il sostegno dell’Iran, e che Tehran manovrerebbe a seconda della convenienza e delle necessità del momento.

I loro nomi? Asai’b Ahl al Haqq e Katai’b Hezbollah.

Ed è al primo che puntano i sospetti della polizia irachena per l’attacco contro il convoglio di Melkert. Che sarebbe stato colpito nella convinzione che assieme all’inviato Onu viaggiassero anche americani.

Messaggio da Tehran?

Improbabile - che le Nazioni Unite facciano errori di questo tipo in Iraq.

E allora? Chissà? Dall'UNAMI evitano di sbilanciarsi.

Ma l’ipotesi del messaggio politico non si può escludere. Un messaggio che arriva da Tehran.



La maggior parte dei rifugiati rientrati sono pentiti, dice l'Onu
da www.osservatorioiraq.it - 19 Ottobre 2010

La maggior parte degli iracheni che si erano rifugiati all'estero e sono rientrati sono pentiti della scelta fatta.

Lo ha detto oggi l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), citando i dati di una rilevazione condotta su un campione di 2.353 persone, tornate a Baghdad fra il 2007 e il 2008. Sei su dieci hanno detto di rimpiangere la decisione.

Il problema principale è la mancanza di sicurezza. Chi è rientrato dall'estero cita "attentati, molestie, operazioni militari, e sequestri" come prova del fatto che non si può vivere tranquilli.

Molti di loro hanno ammesso di essere stati costretti a tornare in Iraq perché non avevano più i mezzi per mantenersi nei Paesi in cui si trovavano.

Non che adesso il problema sia risolto: l'87% degli intervistati ha detto infatti che il proprio reddito in Iraq non è sufficiente a soddisfare i bisogni delle famiglie.

Più di tre quarti di quelli che sono rientrati non sono tornati nel posto nel quale vivevano prima, ma sono andati a stare presso parenti, amici, o hanno preso in affitto un'altra abitazione.

Dai dati della rilevazione, presentati oggi alla stampa a Ginevra dalla portavoce dell'UNHCR, Melissa Fleming, emerge inoltre che il 34% di coloro che sono tornati non sono certi di restare in Iraq permanentemente.

Se le condizioni nel Paese non dovessero migliorare – ha detto la funzionaria Onu – potrebbero chiedere nuovamente asilo nei Paesi vicini.

Dal canto suo, l'UNHCR non incoraggia i rientri in Iraq, e ha ribadito la propria "preoccupazione" per il fatto che alcuni Paesi europei stanno rimpatriando i rifugiati iracheni che ospitano.