domenica 31 ottobre 2010

Tareq Aziz, il capro espiatorio

Una serie di articoli di commento alla condanna a morte comminata pochi giorni fa all'ex Ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz, vice di Saddam Hussein.

Una vendetta a 360 gradi...


Tareq Aziz, la vendetta Usa
di Michele Paris - Altrenotizie - 30 Ottobre 2010

La recente sentenza della Suprema Corte Criminale irachena che condanna all’impiccagione l’ex ministro degli Esteri di Saddam Hussein, è un vergognoso atto di vendetta politica ordinato dal governo fantoccio di Baghdad con il beneplacito dei padroni di Washington.

La condanna a morte di Tareq Aziz, il quale per anni ha rappresentato la faccia presentabile del regime di Saddam, si basa su prove che nessun tribunale di un paese civile considererebbe attendibili e serve a zittire definitivamente uno scomodo testimone del vero ruolo giocato dagli Stati Uniti e dall’Occidente nelle travagliate vicende irachene degli ultimi tre decenni.

Nato Mikhail Yuhanna da una famiglia cristiana caldea nel nord dell’Iraq, Aziz studiò inglese presso l’Università di Baghdad per poi dedicarsi al giornalismo ed entrare nel Partito Ba’th nel 1957 con l’aspirazione a liberare il suo paese dal colonialismo britannico e superare le divisioni etnico-religiose fomentate dall’imperialismo occidentale.

L’appartenenza ad una minoranza cristiana e l’adesione al nazionalismo secolare baathista rendono tragicamente ironica la condanna alla pena capitale proprio per l’accusa di aver perseguitato membri di un partito islamico.

Poco dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, Tareq Aziz si consegnò volontariamente agli americani, sperando forse che la sua statura internazionale e gli stessi legami diplomatici con i precedenti inquilini della Casa Bianca avrebbero potuto risparmiargli il carcere.

Aziz venne invece spedito in isolamento, prima sotto il controllo statunitense e dallo scorso mese di luglio affidato alle forze di sicurezza irachene. Al momento del trasferimento sotto la responsabilità dei suoi connazionali, pare che Aziz abbia confidato al suo avvocato, “Sono sicuro che mi uccideranno”.

Il 74enne braccio destro di Saddam Hussein si trovava già sulle spalle due condanne a ventidue anni di carcere. Praticamente una sentenza a vita alla luce dell’età avanzata e del precario stato di salute che ha richiesto svariati interventi negli ultimi anni.

Nel 2008, dopo cinque anni di detenzione senza accuse specifiche a suo carico, venne processato e condannato per presunta responsabilità diretta nell’esecuzione di 42 mercanti iracheni accusati di aver manipolato il prezzo del cibo nel 1992, quando il paese era sottoposto alle sanzioni occidentali.

Nonostante il crimine fosse sempre stato attribuito al solo Saddam, l’Alto Tribunale Iracheno, istituito dal governo provvisorio dopo l’invasione USA, gli inflisse una condanna di 15 anni.

Nell’agosto del 2009, poi, arrivarono altri sette anni per la deportazione di cittadini curdi dall’Iraq nord-orientale. Anche in questo caso, come dimostrarono numerose indagini di media occidentali, non vi erano prove schiaccianti sulle responsabilità di Tareq Aziz.

Qualche giorno fa, infine, è stata la volta della condanna a morte per impiccagione, dopo che il supremo tribunale iracheno lo ha ritenuto colpevole delle persecuzioni ai danni di partiti sciiti nei primi anni Ottanta.

Nell’aprile del 1980, membri del partito Dawa, d’ispirazione sciita e supportato dall’Iran, attentarono alla vita di Saddam e dello stesso Aziz lanciando granate in una zona centrale di Baghdad che fecero varie vittime tra i civili.

Il regime, appoggiato da Washington in funzione anti-iraniana, ordinò allora la repressione che portò all’esecuzione di alcuni appartenenti al partito che oggi è guidato dall’attuale primo ministro Nouri al-Maliki.

Come se non bastasse, il giudice che ha emesso la sentenza di morte per Tareq Aziz, Mahmud Saleh al-Hasan, è un esponente di spicco della coalizione di governo dello stesso Maliki.

La condanna di Tareq Aziz, costretto per parecchio tempo a fare a meno di un avvocato per le minacce indirizzate a chiunque osasse difenderlo in tribunale, vorrebbe rendere giustizia dei crimini commessi da Saddam Hussein e dal suo entourage fino all’invasione del 2003.

Sono molti, tuttavia, a far notare come il funzionamento del regime baathista deposto tendesse ad escludere dagli apparati della sicurezza dello stato coloro che, sia pure in posizioni di spicco come l’ex primo ministro (1983-1991) e vice-primo ministro (1979-2003), non facevano parte del cosiddetto “clan di Tikrit”, dal nome della città di origine di Saddam.

È poi singolare che ad emettere la sentenza di morte per Aziz siano indirettamente formazioni politiche legate alle milizie responsabili dei massacri su base settaria scatenati dall’arrivo degli americani in Iraq ormai quasi otto anni fa.

Senza contare che, come hanno dimostrato i documenti appena pubblicati da Wikileaks sul conflitto iracheno, il governo di Baghdad si è reso protagonista di uccisioni e torture sistematiche di civili senza che da Washington si battesse ciglio o che l’impresa in Iraq degli Stati Uniti ha causato complessivamente un numero maggiore di vittime innocenti di quante possano essere attribuite al regime di Saddam Hussein.

Se l’Unione Europea e il Vaticano, che nella primavera del 2003 garantì un’udienza con Giovanni Paolo II al capo della diplomazia irachena poco prima dello scoppio del conflitto, hanno chiesto clemenza al governo di Baghdad, l’amministrazione Obama ha mantenuto al contrario un colpevole silenzio sulla sorte di Tareq Aziz. D’altra parte, sono evidenti i benefici che Washington trarrebbe dall’eliminazione di quest’ultimo.

Figura più importante ancora in vita del regime di Saddam, Aziz è stato protagonista di tutte le principali vicende che hanno visto gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali manovrare secondo i propri interessi in Iraq.

Nei mesi precedenti l’aggressione del 2003, inoltre, fu Tareq Aziz a cercare di confutare la falsa accusa americana del possesso di armi di distruzione di massa da parte irachena con numerosi missioni diplomatiche all’estero. Ancora più pericolosa sarebbe la sua testimonianza sul ruolo ambiguo degli USA nelle settimane che precedettero l’invasione irachena del Kuwait nell’estate del 1990.

Tareq Aziz era infatti al fianco di Saddam quando in un incontro a Baghdad l’allora ambasciatrice americana, April Gilaspie, assicurò a entrambi che il governo americano non aveva alcuna obiezione ad un intervento dell’Iraq in Kuwait, episodio che come è noto avrebbe innescato la prima Guerra del Golfo.

Decisamente interessante potrebbe essere anche il suo parere sull’influenza statunitense nello spingere l’Iraq in una sanguinosa guerra con l’Iran negli anni Ottanta.

Sempre Aziz ricevette tra il 19 e il 20 dicembre 1983 l’allora inviato speciale per il Medio Oriente dell’amministrazione Reagan, il futuro segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che avrebbe manifestato tutto il sostegno della Casa Bianca per il regime di Saddam nel contrastare il diffondersi della rivoluzione iraniana nel mondo arabo.

La sua versione sul contenuto di quei colloqui a Baghdad risulterebbe fondamentale, così come la verità sulle armi chimiche impiegate da Saddam contro gli iraniani e verosimilmente fornite dagli alleati occidentali.

Alcuni dei segreti sugli sporchi giochi degli USA in Medio Oriente finiranno così nella tomba con Tareq Aziz, una volta che sarà portato a termine l’ennesimo crimine di guerra dell’avventura americana in Iraq.


Tareq Aziz espia lo scontro di civiltà
di Roberto Zavaglia - www.lineaquotidiano.net - 27 Ottobre 2010

La condanna a morte di Tareq Aziz significa, prima di ogni altra cosa, che l’Iraq, a oltre sette anni dall’invasione statunitense, è ancora immerso in un clima di odio e di vendetta. Il parziale ritiro delle truppe di occupazione non è affatto la dimostrazione che la guerra, soprattutto la guerra civile, sia finita.

I piccoli segnali di normalità che gli Usa, i responsabili della tragedia irachena, si sforzano di enfatizzare non possono nascondere come, allo stato attuale, la pacificazione e la ricostruzione siano mete ancora lontane.

Sono passati quasi otto mesi dalle elezioni, ma a Baghdad ancora non c’è un governo. Sembra però si vada verso la formazione di un “monocolore sciita”, con l’alleanza tra il primo ministro uscente al-Maliki e il radicale al Sadr, contrariamente alle indicazioni delle urne che avevano assegnato la maggioranza relativa alla lista “trasversale” di Allawi.

Se così fosse, per la minoranza sunnita e anche per quel che rimane dei cristiani le cose potrebbero perfino peggiorare. La forca a Baghdad lavora a pieno regime e non c’è da stupirsi che presto ne possa fare le spese anche colui che fu uno dei principali collaboratori di Saddam. Dipinto dalla stampa internazionale come il “volto umano” del regime, Aziz fu, innanzitutto, un abile diplomatico che, fino all’ultimo, tentò di scongiurare l’attacco statunitense.

In Occidente suscitava sorpresa che il ministro degli Esteri di un regime giudicato una “dittatura sunnita” fosse un cristiano, cattolico caldeo per la precisione. Uno stupore immotivato perché il Baath era un partito laico che della polemica contro i regimi arabi fondati sul “conservatorismo religioso”, additato come lo strumento per perpetuare il potere delle vecchie classi dominanti, faceva il suo cavallo di battaglia. Del resto, il Baath siriano che, inizialmente, ispirò il “partito fratello” iracheno, venne fondato dal cristiano Michel Afleq.

E’ comprensibile che, in un Paese a grande maggioranza islamica, il giovane Aziz, come molti altri suoi correligionari, aderisse e poi percorresse il cursus honorum in un partito che predicava il socialismo nazionale e il panarabismo al di là di tutte le differenze confessionali.

Sebbene i sunniti, di fatto, fossero in maggioranza nella classe dirigente, sotto Saddam i cristiani, al contrario di oggi, non se la passavano male, godendo di piena libertà di culto, senza che nessuno si permettesse di minacciarli a causa della loro fede.

Aziz è stato condannato alla pena capitale per avere genericamente partecipato alla “persecuzione dei partiti religiosi”. Probabilmente, si tratta dei fatti che seguirono al fallito attentato del 1980 contro lo stesso ministro degli Esteri, ad opera, sembra, di un agente iraniano.

Il regime reagì condannando a morte molti militanti del partito sciita Dawa, al quale apparteneva anche al –Maliki, e facendo impiccare l’ayatollah Mohammed Baqer Sadr, zio di al-Sadr. Oggi sembra arrivato il momento della vendetta, sotto il velo trasparente di un formale processo.

E’ difficile indicare l’entità delle persecuzioni politiche ordinate da Saddam, essendo materia di contesa fra la propaganda dei nostalgici del regime e quella dei suoi nemici. Ancora più arduo è stabilire le concrete responsabilità di Aziz che, secondo alcuni esponenti della diplomazia internazionale, sarebbero pressoché nulle.

In ogni caso, il nuovo regime iracheno, continuando a epurare sanguinosamente i vinti, dimostra di non credere alle parole di riconciliazione nazionale che pronuncia nei discorsi ufficiali. Anche perché i tribunali non concedono alcuna garanzia agli imputati. “E’ stato un processo fasullo, con un giudice fasullo”, ha dichiarato Giovanni di Stefano, uno degli avvocati di Aziz: “Il tribunale non mi ha permesso di fare neppure una domanda ai testimoni”.

I vescovi cristiani in Iraq hanno protestato per la condanna a morte nella quale, probabilmente, vedono l’indizio di un ulteriore accanimento contro la propria comunità.

Che la situazione dei cristiani sia sempre più difficile l’ha scritto, qualche giorno fa su “The Indipendent”, anche Robert Fisk, un giornalista di grande valore, con un’enorme esperienza delle vicende mediorientali: uno che bisogna ascoltare sempre attentamente, anche quando occasionalmente non si è d’accordo, per la sua qualità morale di testimone super partes e per il suo coraggio, dimostrati in decenni di attività.

Scrive Fisk che “quasi la metà dei cristiani iracheni sono fuggiti dal loro Paese, dopo la Prima guerra del Golfo del 1991 e, soprattutto, dopo l’invasione del 2004 ( strano omaggio alle sedicente fede cristiana dei due presidenti Bush che scatenarono le guerre contro l’Iraq)”.

La progressiva scomparsa delle comunità cristiane riguarda comunque tutto il Medio Oriente: “Più della metà dei cristiani libanesi vive fuori dal loro Paese: un tempo maggioranza, il milione e mezzo di cristiani, in gran parte maroniti, costituisce oggi forse il 35% dei libanesi”. La drastica riduzione del numero dei cristiani, aggiunge il giornalista inglese, riguarda anche altri Paesi, come l’Egitto, dove forte era il loro radicamento.

Questa è la situazione alla fine (?) dell’epoca delle guerre umanitarie che, nel delirante progetto dei neocon Usa, avrebbero dovuto “rifare il Medio Oriente”, portando democrazia e diritti umani per tutte le minoranze.

E’ ovvio che i problemi per i cristiani della regione non dipendono solo dalle spedizioni militari di Washington, ma certamente ne sono stati acuiti.

In un oceano musulmano, essi vengono sempre più identificati come i rappresentanti di un Occidente aggressivo e anti-islamico, anche in quei Paesi dove non solo erano tollerati ma, da secoli, godevano di piena cittadinanza.

Il recente sinodo del Medio Oriente ha messo in luce questo pericolo, oltre a sottolineare come l’eterna questione palestinese contribuisca a peggiorare i rapporti fra le varie comunità religiose.

Il governo israeliano ha reagito con rabbia alle prese di posizione espresse, in quella sede, dai vescovi che vivono nella regione, arrivando a minacciare ripercussioni nei rapporti tra lo Stato ebraico e il Vaticano.

Il vice ministro degli Esteri, Danny Ayalon, ha dichiarato che “i governi israeliani non si sono mai serviti della Bibbia”, in risposta alle affermazioni del Sinodo in cui si sosteneva che non è lecito giustificare le ingiustizie e l’occupazione di terre altrui sulla base di posizioni teologiche e di letture bibliche.

Forse nei documenti ufficiali gli israeliani sono più prudenti, ma i politici al governo che difendono i coloni in Cisgiordania non hanno timore di riferirsi alla Terra Promessa. In quanto poi alla pretesa che Israele non faccia discendere la sua legittimità dai testi sacri, per demolirla basta pensare alla nuova legge sulla cittadinanza.

Quella per la quale i cittadini dovranno giurare lealtà allo Stato di Israele “in quanto Stato ebraico e democratico”. Una norma davvero laica e, soprattutto, democratica…



Tariq Aziz condannato a morte - la vendetta degli sciiti
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 27 Ottobre 2010

Aveva avvertito l’amministrazione Obama: se ve ne andate, abbandonerete l’Iraq ai lupi – e ora i lupi vogliono mangiarselo. Tariq Aziz, che fu il numero due del regime ba’athista iracheno, il vice di Saddam Hussein, è stato condannato a morte ieri per aver partecipato alla “liquidazione dei partiti religiosi”.

Ossia per la repressione dei partiti sciiti - a cominciare da quello del premier (uscente) Nuri al Maliki, al Da’awa, che venne praticamente decimato negli anni in cui era al potere Saddam.

E di Saddam Aziz fu indubbiamente strettissimo collaboratore, se non proprio il braccio destro (il raìs di Baghdad sostanzialmente non ne aveva) – prima come ministro degli Esteri, poi come vice premier. Carica che mantenne fino alla caduta del regime, avvenuta a seguito all’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti del marzo 2003.

Ieri la condanna a morte da parte della Corte Suprema irachena, che arriva dopo altre due condanne a pene carcerarie per un totale di 22 anni.

Il cristiano caldeo (il suo vero nome è Mikhail Yuhanna) che fu il volto presentabile del regime ba’athista a livello internazionale (ricevuto più volte e apprezzato anche in Vaticano) ora rischia l’impiccagione, assieme ai suoi quattro coimputati: Sa’adun Shaker, ex ministro degli Interni e capo dei servizi segreti, Abed Hamoud, che fu tra i segretari privati di Saddam, Sabawi Ibrahim al-Hasan, uno dei fratellastri di Saddam, e Abdul Ghani Abdul Ghafour, ex pezzo grosso del partito Ba’ath.

Il legale: “sentenza ingiusta e politicamente motivata”

Di “sentenza ingiusta e politicamente motivata” parla uno dei suoi legali, Badie Izzat Aref, da Amman, il Giordania: una mossa del governo Maliki (che prima o poi dovrebbe fare i bagagli, anche se il premier uscente sta facendo di tutto per avere un secondo mandato) per distogliere l’attenzione dalle recenti rivelazioni sugli abusi diffusi nelle carceri irachene che emergono dai documenti Usa resi pubblici da WikiLeaks.

Le televisioni irachene hanno trasmesso la lettura della sentenza – durante la quale Aziz, 74 anni, da tempo malato, con indosso una camicia blu, appariva debole, mentre faceva dei leggeri cenni con la testa ascoltando il giudice.

Giudice forse non propriamente al di sopra delle parti.

Mahmoud Saleh al-Hassan, infatti, si era presentato alle elezioni legislative del 7 marzo scorso nelle liste dell’Alleanza per lo Stato di Diritto – la coalizione di Maliki – senza però riuscire a essere eletto.

Nei manifesti della sua campagna elettorale si leggeva: “Coloro che vogliono vedere i tiranni umiliati devono votare per il giudice Mahmoud Saleh al-Hassan".

E che Maliki – e il suo partito – non siano estranei alla sentenza che condanna Aziz (e i suoi coimputati) alla forca sono in parecchi a pensarlo.

A cominciare, ovviamente, dai suoi rivali. Secondo i quali il momento scelto per emetterla fa pensare che il premier uscente stia cercando di utilizzare i tribunali per promuovere i suoi obiettivi politici.

Sapore di vendetta

Il tutto ha comunque un sapore di vendetta.

Aziz, che nell’aprile 2003 decise di consegnarsi spontaneamente agli americani (fu uno dei primi a farlo – dei pezzi da novanta), è stato condannato per aver partecipato alla repressione – effettivamente sanguinosa – lanciata contro i partiti religiosi sciiti a partire dal 1980.

Un durissimo giro di vite (secondo alcune fonti i morti furono decine di migliaia), che costrinse molti esponenti di tali partiti a fuggire dall’Iraq – rifugiandosi in Iran e in Siria. Uno di loro era proprio Maliki.

L’ex vice premier iracheno adesso ha 30 giorni di tempo per presentare appello. Se la sentenza che lo condanna a morte dovesse venire confermata, potrebbe venire giustiziato entro un mese.

Dal carcere non aveva comunque speranza di uscire. Consegnato dalla forze Usa agli iracheni a metà luglio, aveva detto più volte che si aspettava di morire in prigione.

Prigione in cui era stato intervistato dal Guardian poco dopo la sua consegna.
Nell’occasione aveva detto al quotidiano britannico che gli Stati Uniti, ritirando le loro truppe, “abbandonavano l’Iraq ai lupi”.

Si muove il Vaticano – e anche l’Italia

Molte le reazioni internazionali. A cominciare da quella del Vaticano, che ha diffuso un comunicato esortando le autorità irachene a non eseguire la sentenza.

E poi l’Unione Europea (ufficio della responsabile per la politica estera Catherine Ashton), e Amnesty International.

Anche in Italia c’è parecchio movimento: oltre a Marco Pannella, che ha iniziato uno sciopero totale della fame e della sete per protesta contro la condanna (come già aveva fatto per Saddam), si segnalano numerose prese di posizione, fra cui quella della Comunità di S.Egidio – che parla di “punizione postuma”, con la quale l'Iraq “dimostra di essere un Paese che non trova pace e rischia di allontanarsi dal sentire della gran parte degli Stati del mondo”.

Si muove anche il Senato. Un gruppo di senatori (prima firmataria Emma Bonino) ha presentato una mozione, sottoscritta fra gli altri dal presidente della Commissione Straordinaria per i Diritti Umani, Pietro Marcenaro, che impegna il governo a “intervenire con urgenza nei confronti delle autorità irachene perché sia evitata l’esecuzione di Tarek Aziz e dei suoi coimputati, coerentemente con la straordinaria iniziativa nonviolenta, parlamentare, istituzionale e di opinione pubblica che il 18 dicembre 2007 ha portato allo storico risultato dell’approvazione della “Moratoria Universale della pena di morte” da parte dell'Assemblea Generale dell’Onu”.

I firmatari del documento chiedono inoltre al governo italiano di promuovere presso i partner europei “una formale richiesta” alle autorità irachene perché venga reintrodotta la moratoria sulla pena di morte stabilita in Iraq dopo la caduta del regime di Saddam, “al fine di rafforzare il completamento della transizione democratica dell’Iraq secondo i principi di uno Stato di diritto che rispetta i più alti standard delle giustizia internazionale”.

Questo, anche se a Baghdad sembra che tiri tutt’altra aria.



Norimberga e dintorni
di Giacomo Gabellini - www.conflittiestrategie.splinder.com - 30 Ottobre 2010

Come è noto, Tareq Aziz, l'ex numero due del vecchio rais Saddam Hussein, è stato recentemente condannato all'impiccagione da un tribunale di Bagdad. I grandi sforzi profusi dalle ridicole e servili autorità irachene non hanno di certo impedito a chi ha ancora occhi per vedere di squarciare il velo di Maya dell'ipocrisia e di intravedere le reali motivazioni, eminentemente politiche, della sentenza.

Ma al di là di tali superflue ovvietà, occorre focalizzare l’attenzione su quello che è senza ombra di dubbio l'aspetto decisamente indegno dell'intera faccenda; il fatto, cioè, che una volta di più i vincitori si sono arrogati il diritto di giudicare i vinti.

Questa tendenza non è di per sé nuova, ma affonda le radici a poco più di sessant'anni fa, e più precisamente negli scranni di Norimberga, ove i giudici rappresentanti delle potenze uscite vincitrici della Seconda Guerra Mondiale misero le proprie “competenze” al servizio dei loro superiori per "vagliare" le responsabilità dei vinti e deciderne arbitrariamente i destini.

Come accade in ogni processo a sentenza già scritta che si rispetti, per onorare quello di Norimberga i facinorosi giuristi che stavano "dalla parte giusta" ebbero l'ardire di suggerire "a chi di dovere" di decretare l'introduzione di reati ad hoc, perseguibili con effetto retroattivo, e di sottrarre i propri imputati al giudizio del medesimo tribunale, da essi stessi voluto e finanziato, minandone così ogni pur minima credibilità e legittimità.

A riempire (seppur parzialmente) la voragine creata dal vergognoso e assordante silenzio riservato alla faccenda dagli "intellettuali" dell'epoca, si levò la puntuale e autorevole voce di Benedetto Croce, che in un celebre discorso pronunciato al parlamento italiano nel luglio del 1947 affermò: "Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra".

Parallelamente alle acute e pertinenti critiche mosse a suo tempo da Croce, andava ovunque insinuandosi il sospetto che i vincitori non disponessero affatto dei titoli per giudicare i vinti.

Si voleva (e si vuole ancora oggi) veramente credere che Stati Uniti, URSS e Gran Bretagna non si fossero macchiati di gran parte degli stessi crimini per cui furono condannati i gerarchi nazisti?

La Storia ha fatto ampia luce (bombardamenti sui civili di Dresda e Amburgo, "distruzione indiscriminata" ecc.) in merito a questa faccenda. Ma congedandoci da Norimberga e venendo a questioni attuali, è bene interrogarsi sulla reale stoffa di cui sono fatti i vincitori di oggi, visto e considerato che la smania di processare i vinti non accenna battute d’arresto.

Dopo la caduta dell'URSS e l'instaurazione dell'unipolarismo, il diritto internazionale ha subito una ancor più marcata distorsione ed è stato ridotto a nulla più che vero e proprio braccio armato degli Stati Uniti, che se ne servono solo ed esclusivamente nei momenti in cui le sue iniziative coincidono con i loro obiettivi politici, ma a cui non riconoscono alcuna legittimità allorquando si tratta di sottoporre a giudizio militari o politici americani.

Così, Milosevic, Karadzic e Hussein sono stati o saranno processati mentre nessun americano o inglese o italiano, quali che siano le nefandezze compiute (e ne hanno compiute molte) è comparso nelle aule di "giustizia" dell'Aja, senza che nessuna Carla Del Ponte insceni alcun isterico stracciamento di vesti.

Alla fin fine, l’unica certezza che emerge da questa torbida vicenda è che nei tanti tribunali di “giustizia” istituiti in giro per il mondo (L’Aja, Bagdad ecc.) hanno “scambiato” la “dea bendata” per l’infinitamente meno rispettabile Zio Sam, e che Tareq Aziz, dopo Saddam Hussein (la cui impiccagione è stata definita da Bush “Pietra miliare sul cammino della democrazia”), non è che l'ultimo dei capri espiatori, l'ultimo pezzo di carne da immolare all'altare dell'imperialismo, brutale e assassino come sempre ma fregiato, questa volta, con gli educati e accattivanti crismi dell'umanitarismo, l'oppio dei popoli su cui si forgia lo sciagurato zeitgeist contemporaneo.



Lettera a Sua Santità Benedetto XVI
di Felicity Arbuthnot e Tony Benn* - www.globalresearch.ca - 26 Ottobre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micaela Marri

Lettera aperta :

A sua Santità Papa Benedetto XVI,

A Sua Grazia l’Arcivescovo di Canterbury,
A Sua Grazia l’Arcivescovo di Westminster,

Al Primo Ministro On. David Cameron,
Al Vice Primo Ministro On. Nick Clegg,
Al Ministro degli Esteri, On. William Hague.

Sua Santità, Vostre Grazie, Primo Ministro, Vice Primo Ministro, Ministro degli Esteri,

Mi scuso per questa missiva a destinatari multipli , ma è questione assoluta di tempo. È stato versato così tanto sangue nell’invasione illegale dell’Iraq, che è difficile da comprendere, con una cifra superiore dei caduti dal 2003 stimata a 1,4 milioni di persone.

Quasi cinque milioni (4,7) di persone sono profughi, internamente ed esternamente, secondo l’UNHCR, sono stati creati un milione di vedove e cinque milioni di orfani, secondo le agenzie delle Nazioni Unite.

Adesso, dopo il disgustoso linciaggio del legittimo presidente del paese, e dei suoi stretti colleghi, un paese la cui: “sovranità ed integrità territoriale”, era garantita dall’ONU, è stato oggi annunciato che il suo sostituto, Tareq Aziz, un cristiano caldeo, sta per essere giustiziato. Questo in aggiunta al sangue versato per l’invasione, su scala biblica – e alla luce delle terribili rivelazioni delle realtà della “liberazione”, nei giorni scorsi, su Wikileaks.

Certo Wikileaks ha anche rivelato che il terrorismo si riversava sul popolo dell’Iraq per mano delle forze governative imposte di “Vichy”, “ guidate” dalle truppe USA e Britanniche.

L’accusa contro l’ex Vice Primo Ministro nonché Ministro degli Affari Esteri dell’Iraq, è una discriminazione religiosa. Ironicamente, mezzo milione di Cristiani iracheni, sono fuggiti, a causa della persecuzione, dal momento dell’invasione.

Innumerevoli sono stati assassinati. Avevano vissuto fianco a fianco della maggioranza musulmana a quanto pare dall’anno 33 D.C., quando si crede che San Tommaso abbia fondato la Cristianità in Mesopotamia.

L’accusa si riferisce ad un tentato assassinio contro Aziz e Saddam Hussein a Dujail, in Iraq, nel 1982 da parte di affiliati del partito Dawa appoggiato dall’Iran. Lo stesso partito Dawa a cui aderisce Nuri al Maliki. (Non ho detto il “Primo Ministro”, poiché non lo è più, in un Iraq senza direzione).

La vendetta a Dujail è stata certamente deplorevole, ma è stata una decisione presa dal Presidente. E comunque vista nel contesto, pare lieve in confronto al massacro riservato alla popolazione di Fallujah nel 2004 dalle forze americane, per vendicarsi dell’uccisione di quattro mercenari, e della reazione contro gli USA, le truppe che avevano ucciso inspiegabilmente uomini, donne e bambini dal momento dell’invasione.

Il massacro in Iraq è stato per mano di tutti i cittadini degli Stati Uniti e del Regno Unito.

Ci dobbiamo convivere ovunque viaggiamo, con la vergogna e il vituperio delle azioni dei loro governi. Inoltre, non c’ è stata l’immunità presidenziale per il governo illegalmente rovesciato dell’Iraq, una consueta norma legale, e tuttavia le forze dell’occupazione avrebbero potuto interrompere i loro massacri. Come forza occupante dominante e rimanente, l’America adesso è responsabile di ogni violazione dei diritti umani.

Aziz è stato parte di un governo che lungi dal discriminare religiosamente, sosteneva annualmente, proporzionatamente, equamente tutte le religioni per la manutenzione dei loro luoghi culto e dei loro uffici affiliati. Le punizioni sono state date non sulla base della religione, ma per i crimini commessi.

Senza discussione sono state dure, ma ci fa vergognare riflettere come siano lievi, al confronto con quello che è accaduto, e continua ad accadere, sotto i poteri occupanti, dal giorno dell’invasione.

Tariq Aziz si è consegnato alle autorità degli Stati Uniti, in buona fede.

Tale buona fede non era fondata ed è stata sfruttata. È un uomo anziano ed era in cattive condizioni di salute molto prima dell’invasione.

I suoi giorni comunque, sono sicuramente contati. Vi scongiuro di prendere almeno questa chance di salvare anche solo una vita. Aziz è un nazionalista, come tutto il suo governo, avrebbero potuto fuggire. Hanno scelto di rimanere in Iraq perché si sentono profondamente iracheni - contrariamente all’attuale governo, con le sue fedeltà e i suoi passaporti stranieri, in gran parte.

Tareq Aziz si è recato in Vaticano, prima dell’invasione, per incontrare il Capo della Chiesa in cui aveva riposto tutta la sua fede, tutta la sua vita, per implorare che venisse bloccata la distruzione del suo popolo e della terra dell’ Ur della Caldea, menzionata certo tre volte nel libro della Genesi: 11:28, 11:31, 15:7. La sua preghiera non è stata ascoltata.

Vostra Santità, Vostre Grazie, Primo Ministro, Ministro degli Esteri, vi prego non deludetelo ancora una volta. La Gran Bretagna e l’America non potranno mai, comunque, lavare il sangue dalle loro mani. “Salvare una vita, è come salvare l’intera umanità” è un convincimento comune a tutte le fedi.

Vi prego di agire subito.

Sta per finire il tempo. Se così dovesse essere e non aveste fatto nulla, nonostante la vostra influenza e i vostri contatti collettivi, il suo corpo giacerà ai vostri piedi, per tutta la vostra vita. Per lo più il non agire, che porta ad un altro linciaggio, imporrà quell’orrore a ogni cittadino con una coscienza, dato che siamo, così ci viene detto, una democrazia. Vi imploriamo di agire.

Oggi siamo stati avvisati circa un reale pericolo di un attentato terroristico; abbiamo già commesso innumerevoli atti di terrorismo – per favore non fatecene essere parte di un altro, che volendolo, è del tutto prevenibile.

Distinti saluti.

*FELICITY ARBUTHNOT (giornalista, corrispondente per i diritti umani, Global Research) E TONY BENN ( veterano di guerra, ex parlamentare britannico, autore, fondatore del CND)