martedì 19 ottobre 2010

Crisi economica: nuovo Pactum, nuova botta in arrivo e nuova reazione popolare

Una serie di articoli sul compromesso raggiunto ieri all'Ecofin sul nuovo Patto di stabilità economica dell'Ue.

Tremonti era raggiante ma in pratica si è deciso che le sanzioni per i Paesi "non virtuosi" non scatteranno immediatamente, quando cioè uno Stato va in deficit eccessivo, ma dopo sei mesi se nel frattempo non saranno state prese le "misure correttive" necessarie.

A quel punto le sanzioni saranno comminate dalla Commissione Ue e il Consiglio Ue le potrà respingere solo con una maggioranza qualificata degli Stati.

Quindi un mero "bonus" di 6 mesi per sapere di che morte bisogna morire...contento Tremonti....

Inoltre altri articoli sul futuro "roseo" della crisi economica e il testo integrale del discorso del segretario generale della Fiom Cgil, Maurizio Landini, a conclusione della manifestazione di sabato scorso.


Tremonti:"Habemus novum pactum". Accordo sulla stabilità dell'economia Ue
da www.repubblica.it - 18 Ottobre 2010

La notizia data dal ministro dell'Economia italiano al termine della riunione dei 27 a Lussemburgo. Compromesso sui punti più controversi, ossia l'automatismo delle sanzioni e la correzione obbligatoria in caso di deficit eccessivo. Il documento congiunto franco-tedesco

"Habemus novum pactum". Così il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, ha annunciato l'accordo sulle nuove regole del patto di stabilità al termine della riunione dei ministri finanziari europei svoltasi a Lussemburgo, una maratona durata tutta la giornata.

Un compromesso che - spiga il ministro - "contiene forme flessibili, ragionevoli e gestibili da parte del governo italiano. Ma per noi - si affretta a precisare - resta fondamentale correggere il deficit"

In sostanza quello di oggi è un accordo di massima nel quale le sanzioni per i paesi che non rispettano i termini del patto saranno proposte della commissione Ue, ma potranno essere bloccate da una maggioranza qualificata dei governi.

Sul fronte del debito "si valuterà una pluralità di fattori", come il tempo, la valuta, le politiche in corso e sarà considerato anche il peso del debito privato. Inoltre saranno aumentati i meccanismi di monitoraggio sulle politiche di bilancio degli Stati. Ed anche qui le sanzioni saranno possibili in caso di scarso attivismo.

E il senso del compromesso nasce dal documento congiunto sul quale hanno trovato l'accordo Francia e Germania. Si prospetta una modifica delle sanzioni ai Paesi dell'area euro con deficit eccessivo: saranno puniti se non prendono provvedimenti correttivi entro sei mesi.

Merkel e Sarkozy vogliono poi impegnare l'Europa ad adottare una riforma dei trattati entro il 2013 in modo da creare un meccanismo permanente per gestire le future crisi e assicurare la stabilità finanziaria.

I segnali di un accordo erano andati moltiplicandosi lungo la giornata. Prima delle parole di Tremonti, c'è stata l'evidente soddisfazione della francese Christine Lagarde che, abbandonando la riunione per tornare a Parigi, ha invitato i giornalisti a giudicare le cose ''in termini generali'' evitando di affossare l'analisi sui particolari, sanzioni comprese.

Stando ad altre fonti, la "troika" europea, e cioè il presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker, il presidente della Bce Jean-Claude Trichet e il commissario agli affari economici Olli Rehn, erano ''preoccupati'' per un certo ammorbidimento della posizione tedesca che terrebbe conto della necessità di riconoscere chiaramente il ruolo dell'Ecofin nelle decisioni finali sulle sanzioni contro i Paesi che non rispettano le raccomandazioni europee sui conti pubblici.

La discussione dei ministri si è concentrata sulla questione del debito e sul modo in cui districare la matassa del "punto 21" del documento di 21 pagine preparato dal presidente Ue Herman Van Rompuy, là dove si presentano le due opzioni per la decisione sulle sanzioni che, è scritto a chiare lettere, ''scatteranno se uno Stato anche con un deficit al di sotto del 3% del Pil devia significativamente dal percorso di aggiustamento previsto e non corregge tale deviazione''.

La task force non proporrà ai capi di stato e di governo una misura precisa di riduzione del debito/pil (come ha fatto invece la Commissione europea che propone il taglio annuo di un ventesimo della parte di debito/pil che eccede il 60% per i tre anni precedenti la valutazione), affermando che ''i criteri quantitativi precisi, la metodologia e l'entrata in vigore saranno definiti'' successivamente. Ma ''tenendo conto che la dinamica del debito pubblico non è guidata solo dal deficit, sarà necessaria una valutazione prima del lancio di una procedura sulla base del criterio del debito''.

Al fine di valutare se il rapporto debito/Pil scende ''a un ritmo soddisfacente'' tale valutazione dovrà comprendere, è scritto nel documento, ''quali i livelli del debito e la sua dinamica, la struttura delle scadenze, la denominazione in valuta, le riserve così come le passività implicite ed esplicite''.

Nel documento si aggiunge una postilla: ''L'Italia ha chiesto l'inclusione della frase: ''Devono essere considerati anche il livello e i cambiamenti nel debito privato''. Inoltre, c'é una riserva più generale della Slovenia.

E veniamo alla procedura sulle sanzioni per i paesi Eurozona sia per la parte preventiva della supervisione che per la parte correttiva. La prima opzione segue la proposta della Commissione europea: ''Nel caso in cui c'é una deviazione significativa dell'aggiustamento, la Commissione emetterà un "early warning" definendo una scadenza per correggerla''.

Se tale deviazione ''persiste o è particolarmente seria'' il Consiglio adotterà una raccomandazione. ''Nello stesso tempo sarebbe imposto un deposito fruttifero (anche qui niente cifre, ma sul tavolo c'é la proposta di un deposito pari allo 0,2% del Pil - ndr) attraverso un voto a maggioranza rovesciata''.

Significa che i ministri devono trovare una maggioranza (resta imprecisato se qualificata o semplice) per respingere la decisione della commissione. Questa impostazione è sostenuta da Germania e paesi del Nord (Olanda, Finlandia, Svezia, Austria).

L'opzione due invece sposta verso i ministri l'asse della decisione. Se i conti pubblici (il deficit o il debito) deviano dal percorso stabilito, l'Ecofin adotterà una raccomandazione sulla base di una raccomandazione della Commissione Ue che definisce la scadenza per correggerla. Ciò ''senza pregiudizio del diritto della Commissione di emettere direttamente un allarme preventivo'' al paese.

In mancanza di correzione, l'Ecofin adotta una raccomandazione sulla base di una raccomandazione della Commissione e ''nello stesso tempo si impone un deposito fruttifero'' sempre a voto di maggioranza rovesciato.


L'Europa riscrive il Patto di Stabilità. Per Tremonti è un testo molto buono
di Adriana Cerretelli - www.ilsole24ore.com - 19 Ottobre 2010

Accordo politico quadro sulla riforma del patto di stabilità, in dimensione per così dire ubiqua.

Da una parte a Lussemburgo i ministri finanziari dell'Eurogruppo ieri hanno negoziato per ben 13 ore ininterrotte mediando tra gli opposti estremismi del partito tedesco (sostenuto da nordici, Repubblica Ceca e Slovacchia) deciso a imporre una rigidissima camicia di forza ai renitenti a un eccesso di disciplina.

E del partito mediterraneo, guidato da Francia e Italia (appoggiato da Belgio, Spagna, Portogallo e Grecia) altrettanto deciso a respingere il modello del rigore inflessibile e tutto matematico.

Alla fine l'intesa, annunciata quasi in contemporanea all'altra, raggiunta al massimo livello politico dell'Unione, che in qualche modo completa e supera la prima.

Al termine del vertice della triplice di Deauville con il presidente russo Dmitrji Medvedev, una première in Europa, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel hanno pubblicato una dichiarazione congiunta, in vista del vertice europeo di Bruxelles del 28-29 ottobre. In essa indicano la doppia strada da seguire nella riforma del patto.

Prima tappa, che la renderà operativa a partire dal 2012 e realizzabile con la sola modifica della legislazione secondaria Ue, è quella su cui i ministri ieri hanno trovato una posizione comune.

La seconda tappa vuole andare molto più in là e per questo prevede la riforma dei Trattati Ue limitatamente a due punti. Primo, creazione di un «meccanismo robusto e permanente per affrontare in futuro le crisi in modo ordinato e anche con la partecipazione del settore privato» per garantire la stabilità della zona euro.

Le varie opzioni dovranno essere pronte per il vertice Ue del marzo 2011. Secondo, sospensione dei diritti di voto di uno Stato membro in caso di violazione grave delle regole del patto. I relativi emendamenti ai Trattati dovranno essere pronti e ratificati prima del 2013.

Soddisfatto il cancelliere tedesco nell'ansia di imporre, modificando i Trattati, un rigore efficace e credibile ai partner per evitare in futuro nuovi casi Grecia e rischi bancarotte sovrane, il presidente francese ha ottenuto una maggiore flessibilità politica nel varo delle sanzioni. «Allargate e più automatiche» ma comminate con decisione del Consiglio a maggioranza qualificata e non più con la Commissione nel ruolo preminente.

Fatto salvo che «la sanzioni automatiche scatteranno quando il Consiglio a maggioranza qualificata deciderà che un paese non ha preso i correttivi necessari entro sei mesi». I ministri ieri a Lussemburgo si erano accapigliati in proposito sulla concessione di un periodo da cinque a 18 mesi. Merkel e Sarkozy hanno tagliato la testa al toro. Nel segno della stretta.

«Le sanzioni saranno più automatiche e più rapide di oggi ma ancora non siamo in possesso di tutti gli elementi per dire dove il patto verrà migliorato», ha detto il presidente Jean-Claude Juncker al termine dell'Eurogruppo. «Il diavolo è nei dettagli e i dettagli devono ancora venire».

In breve i ministri ieri hanno fatto un indubbio passo avanti politico ma i problemi più spinosi, tecnici e non, restano vistosamente aperti. L'accordo era necessario per poter presentare a Bruxelles, al vertice dei capi di governo Ue, almeno una traccia di lavoro da seguire nei prossimi mesi, sia pure nel segno della solita ambiguità europea.

Se la cornice del nuovo patto, più severa e sanzionatoria, più compulsiva, resta quella nota, i suoi contenuti sono tutti da definire su punti decisivi quali il «ritmo sufficiente» di riduzione del debito, il tipo di sanzioni da applicare, fermo restando che in futuro deficit e debito saranno trattati allo stesso modo. E che Giulio Tremonti ha ottenuto che il debito privato rientri tra i fattori da prendere in considerazione per valutare la sostenibilità del livello di indebitamento di un paese.

«Non è necessario entrare nei particolari. Per la nuova governance economica quel che conta è l'impianto generale del patto», ha insistito la francese Christine Lagarde suscitando le ire dei rigoristi. Dunque niente riduzione annua di un ventesimo del debito, anche se la proposta della Commissione resta sul tavolo.

Sarà su di essa e sulle indicazioni del vertice di Bruxelles che si apriranno i nuovi negoziati sul patto. Con quel diavolo nel dettaglio sempre in agguato. La partita insomma è ancora da giocare. Qualche mese e sapremo come veramente andrà a finire.


Ma chi sbaglia paga di più
di Marcello Messori - Il Corriere della sera - 19 Ottobre 2010

L'accordo quadro per il nuovo Patto di stabilità, emerso dalla riunione dell'Eurogruppo a Lussemburgo, riduce il rischio di un irrigidimento delle regole che avrebbe compromesso la fragile ripresa europea.

Per una volta, il compromesso raggiunto potrebbe sfociare in un buon equilibrio fra l'esigenza di porre sotto controllo i bilanci pubblici degli Stati-membri e l'obiettivo di non minare le già precarie prospettive di crescita dell'area dell'euro.

Anzi: se letto insieme al comunicato congiunto della cancelliera Merkel e del presidente Sarkozy, che ribadiscono la necessità di un meccanismo di prevenzione e soluzione delle crisi fiscali e adombrano la revisione del Trattato di Lisbona, l'accordo quadro apre nuovi spazi di policy a livello europeo.

I capisaldi del potenziale equilibrio sono riducibili a tre. Innanzitutto, vengono rafforzati quegli strumenti di monitoraggio e di controllo delle politiche nazionali di bilancio da parte delle istituzioni europee, varati prima dell'estate nell'ambito degli interventi di sostegno alla Grecia e agli altri Paesi a rischio.

Sommandosi con i meccanismi europei di prevenzione delle crisi, questi strumenti getterebbero le basi per politiche fiscali coordinate fra gli Stati-membri e costituirebbero così il primo mattone per un'Unione non solo monetaria.

In secondo luogo, vengono eliminate quelle regole meccaniche di rientro dal debito pubblico, eccedente il 60% rispetto al Prodotto interno lordo (Pil), che avrebbero dato un'intonazione restrittiva alle politiche economiche di tutti gli Stati-membri e condannato a una lunga recessione i Paesi meno competitivi.

L'accordo quadro ribadisce la crucialità della progressiva riduzione dei debiti pubblici troppo elevati. Al posto delle regole meccaniche, esso introduce però criteri di valutazione delle dinamiche dei debiti pubblici che sono più articolate e realistiche.

Il rapporto fra debito pubblico e Pil è infatti integrato dall'esame di altre variabili cruciali per la gestione e la qualità dei bilanci pubblici: la struttura delle scadenze del relativo debito, la determinazione delle passività - implicite o esplicite - non contabilizzate (per esempio, gli squilibri previdenziali), il grado di compensazione potenziale della ricchezza finanziaria netta dei privati.

In terzo luogo, viene ribadita la necessità di correggere nel breve termine ogni deviazione del rapporto tra disavanzo pubblico e Pil rispetto alla soglia massima del 3%.

Anche in questo caso però, la disciplina viene imposta mediante meccanismi concordati fra le varie istituzioni europee piuttosto che mediante l'automatica e poco credibile sanzione pecuniaria degli Stati-membri non in regola.

Nelle prossime settimane l'accordo quadro del nuovo Patto di stabilità andrà tradotto in regole operative di dettaglio. Tali regole saranno fondamentali per dare «carne e sangue» al potenziale equilibrio fra rigore e spazi di crescita.

Speriamo che la presenza al tavolo di Francia e Germania, che ieri hanno chiesto un inasprimento delle sanzioni, non faccia rientrare dalla finestra quei meccanismi punitivi relegati sullo sfondo dall'accordo quadro.


Aggiornamento 1
di Paolo Barnard - www.paolobarnard.info - 18 Ottobre 2010

La Commissione Europea ha appena passato una direttiva che multa gli Stati dell'Eurozona per lo 0,2% del PIL se non si adeguano ai parametri del Patto di Stabilità (deficit al 3% del PIL e debito al 60%), quei parametri che sono stati disegnati appositamente per paralizzare i governi nel loro compito di creare ricchezza per i cittadini, e per distruggere i mercati europei su cui le nostre famiglie dipendono per il lavoro e per vivere.

Il risultato di questo ennesimo crimine contro la nostra vita vera è riassunto dall'economista Joseph Halevi (Sydney Univ.) così: "Siccome è ora chiaro che la UE, e l'Eurozona in particolare, non potranno generare più alcuna spesa significativa, accade che la domanda ora sta appesa disperatamente alla spesa a deficit interna ed esterna degli USA. Come ha detto Krugman, è l'unica cosa che sopravvive al momento".

Tradotto: con la produzione pubblica di ricchezza e di posti di lavoro totalmente paralizzata in Europa da un disegno criminoso, dobbiamo tutti - persone, figli, aziende, lavoratori, anziani - sperare che gli USA continuino a spendere, perché sono l'unica fonte di domanda di beni e servizi che ancora funziona.

Se si spegne quella siamo fottuti. Cioè, calano gli stipendi, schizza alle stelle la già stellare cassa integrazione, i licenziamenti galoppano, milioni di italiani perdono i diritti, perché da disperati si è ricattati da chiunque.

L’economista Micheal Hudson (Univ. of Missouri, Kansas City) aggiunge: “In gioco ci sono proposte per cambiare radicalmente le leggi e la struttura della società europea. Se le forze anti-lavoro avranno successo, spezzeranno l’Europa, che diventerà una palude morta col mercato interno a pezzi. Siamo a questo punto di gravità, è un colpo di Stato finanziario in piena regola”.

La Caritas ha appena pubblicato il suo rapporto sulla Povertà ed Esclusione Sociale in Italia e vi si legge che oggi le persone che vivono sotto la soglia di “forte fragilità economica” nel nostro Paese sono 8.370.000.

Naturalmente dovremo aspettare che si arrivi ai bollini per un pasto caldo al giorno, come già accade negli USA a 40 milioni di cittadini, per accorgerci che sarà il caso di smettere di preoccuparci da veri fessi esagitati (caro popolo viola) per la messa in onda di Santoro o per le presunte malefatte di una marionetta senza potere reale.


Con le stesse alchimie ci "regalano" un'altra crisi
di Gianni Gambarotta - www.ilsussidiario.net - 18 Ottobre 2010

Le compravendite di immobili in Spagna in agosto hanno segnato un +30% rispetto allo stesso mese dell’anno prima. La notizia è stata data con grande enfasi da tutti i media e giustamente, perché si tratta di una notizia importante e, all’apparenza, anche buona: il fatto che uno dei paesi europei più duramente colpiti dalla crisi veda un segno positivo in un indicatore significativo come l’immobiliare, fa ben sperare di essere vicini alla fine del tunnel. Però forse le cose non stanno proprio così e questo dato va vagliato con attenzione.

L’eccezionale boom che per decenni ha caratterizzato l’economia spagnola è dovuto a tanti fattori, come un governo in grado di decidere, una classe dirigente di livello e un sistema creditizio sviluppato.

Ma soprattutto ha avuto un protagonista: il ladrillo, come in Spagna si chiama il mattone. Sono state le costruzioni, l’industria immobiliare, unite alla facilità di accesso al credito, a creare il miracolo economico iberico. E assieme a questo, hanno creato anche l’altra faccia della medaglia: la bolla immobiliare. Che quando è esplosa, parallelamente all’arrivo della Grande Crisi mondiale, ha messo a terra l’intero sistema spagnolo.

Ora proprio dal ladrillo arriva il primo segno di ripresa. E arriva non come lieve inversione di tendenza, ma come picco improvviso, come un Bengodi che finalmente ritorna e fa dimenticare il periodo nero che sta alle spalle, archiviandolo come uno spiacevole intermezzo da scordare in fretta.

Insomma c’è la sensazione che tutto riparta come prima, senza cambiamenti e dunque, con tutte le potenzialità negative che si sono conosciute con lo scoppio della bolla.

Un’aria da “come prima, più di prima” arriva anche dal mondo delle banche internazionali. Lo ha segnalato lo stesso ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, subito dopo il vertice del Fondo Monetario Internazionale a Washington.

Le banche hanno ripreso a organizzare feste e banchetti - ha detto in sostanza. Tutto è tornato come prima della crisi. I banchieri si sono riappropriati dei loro vecchi stipendi e bonus e, soprattutto, hanno ricominciato a fare quella finanza creativa che ha portato il mondo sull’orlo del precipizio.

Il giorno dopo il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, si è affrettato a gettare acqua sul fuoco, minimizzando quanto detto da Tremonti: “Si tratta di comportamenti isolati. Sono pochi quelli che hanno ripreso gli antichi difetti”.

Sarà, ma negli ambienti finanziari si è più propensi a pensare che abbia ragione il ministro con il suo pessimismo sui banchieri che perdono il pelo ma non il vizio e che il Governatore lo abbia rintuzzato anche (se non soprattutto) per un gusto di polemica.

Basta guardare ai prodotti che le banche di nuovo propongono alla clientela per rendersi conto che gli ingegneri finanziari non sono andati in pensione. Forse si erano presi qualche mese di vacanza e ora sono tornati ai loro posti di lavoro con tanta voglia di fare. Come un tempo quando con le loro brillanti trovate diedero un contributo non marginale all’esplodere della crisi.

Un segnale ancora più forte di nostalgia per il passato viene da Washington. L’amministrazione Obama non sa più a quali strumenti ricorrere per rilanciare un’economia che non vuol saperne di imboccare la strada della ripresa e, allo stesso tempo, vuole ridurre il valore relativo del dollaro per favorire le esportazioni americane. Quindi ha deciso che verranno lanciati dei Buoni del Tesoro e che a sottoscriverli sarà la stessa Federal Reserve.

Lo ha confermato venerdì scorso a Boston lo stesso Presidente della Fed, Paul Bernanke: il suo istituto avvierà una nuova fase di “quantitative easing” acquistando, appunto, titoli del Tesoro a lungo termine.

In poche parole si stamperanno dollari, si creerà base monetaria, liquidità. Ma non si è detto fino a pochi giorni fa che proprio la pressoché illimitata base monetaria era stata una delle cause più profonde e velenose della crisi?

E questa politica non rischia di avere un potenziale inflazionistico da metter paura? E ancora: l’amministrazione americana è sicura che la tenacia con la quale cerca di deprezzare il dollaro nei confronti soprattutto del renmimbi cinese sia, nel lungo periodo, una politica vincente?

Pochi giorni fa Paul Kennedy, professore di storia alla Yale University, ha scritto: “È un fatto storicamente assodato: nessun Paese ha mai indebolito la sua moneta (e il suo potere d’acquisto) a vantaggio della moneta di un altro Paese senza perdere anche la sua influenza internazionale”. È davvero questa la strada che l’America di Barack Obama vuole imboccare?


Bernanke: il disastro finanziario globale è imminente

di Maurizio D'Orlando - www.ariannaeditrice.it - 18 Ottobre 2010

Dietro fumose espressioni per iniziati, il presidente della Fed afferma che la situazione è ormai insostenibile. Le conseguenze su debito pubblico, pensioni e sanità su Usa, Europa e Giappone. La via d’uscita è l’austerità, ma anche una riduzione della democrazia, a favore del sistema bancario.

Milano (AsiaNews) - Il disastro finanziario bancario americano e globale è ormai imminente. E non lo dice solo il commentatore di AsiaNews, che lo va ripetendo da quasi cinque anni [i].

Lo dice il presidente della Fed, la Banca Centrale statunitense, Ben Shlomo Bernanke[ii].

Ovviamente, lo dice nel linguaggio iniziatico degli economisti, ma una volta decifrato dal gergo, il significato della prima parte del discorso è molto chiaro. Il discorso è stato tenuto il 4 ottobre scorso nel corso di un convegno annuale a Rhode Island (Usa) ed è pubblicato sul sito stesso della Fed. Ciononostante pare che questo importante discorso pubblico di Bernanke sia “sfuggito” alla stampa “indipendente”, che non l’ha ripreso.

Qui di seguito ne offriamo ai nostri lettori una semplice “traduzione” in linguaggio corrente di alcuni brani (riportando in nota i riferimenti tradotti dall’inglese – in modo da fornire ai dubbiosi la possibilità di verificare).

Afferma Bernanke [iii] (d’ora in poi: B.) che la recessione è grave, che gli effetti non sono solo di breve termine ma soprattutto di lungo periodo e che a causa dell’invecchiamento della popolazione (cioè il prolungamento delle aspettative di vita) il mantenimento dell’attuale sistema pensionistico e di quello sanitario pubblico è insostenibile (il riferimento è agli Usa, ma si applica a tutti i Paesi avanzati e a molti anche del resto del mondo, con esclusione del Cile, per la nota riforma pensionistica attuata dal gen. Pinochet).

Anche lo stato finanziario delle amministrazioni locali è drammatico ma il grosso del problema è a livello federale[iv] e perciò di questo si deve discutere.

Il deficit statale è esploso in poco tempo [come aveva già fatto notare sin dall’inizio AsiaNews, mai nella storia recente si era verificato un simile improvviso aumento] ed è arrivato a toccare i livelli raggiunti alla fine della II Guerra mondiale [v] (un paragone adoperato in precedenza anche da questa piccola agenzia stampa missionaria cattolica). L’attuale ripresina non tragga in illusione, tra non molto (B. dice nel medio lungo termine), sarà chiaro che la situazione è insostenibile.

Non ci si illuda che questa momentanea pausa significhi che la tempesta è davvero passata [vi] perché mancano fondi per pensioni e sanità (B. attribuisce tutto al prolungamento delle aspettative di vita, ma non fa alcun accenno alle spese militari, che invece AsiaNews aveva aggiunto a quello che comunemente diremmo i “conti della serva”). Stiamo scontando oggi [vii], dice il governatore, una crisi che viene da molto lontano, una crisi di sistema.

Per andare sul concreto, B. prende il caso dello Stato, il Rhode Island, il più piccolo degli Stati Uniti, ma il problema è più generale ed affligge, anche Europa e Giappone ed in misura pure maggiore[viii].

A questo punto del suo discorso, B. afferma che la situazione è così disastrosa che se ne potrebbe perdere il controllo in qualsiasi momento [ix].

Per di più, mentre dal lato delle tasse, il sistema fiscale [x] è inefficiente, iniquo, complesso e deprime l’attività economica, dice il governatore, dall’altro lato la spesa pubblica non solo è inefficace nel conseguimento degli obiettivi prefissi, ma è anche molto cara. Il problema è perciò molto grave sia nel breve che nel medio termine, siamo nelle mani dei creditori esteri ed un aumento delle tasse metterebbe del tutto in ginocchio il Paese[xi].

Inoltre aumentare le imposte ora non è una buona idea anche perché ci priverebbe dell’ultima carta disponibile e che invece dobbiamo riservarci per potercela giocare in situazioni estreme come ad esempio in caso di sommosse interne causate dalla depressione economica, da guerre o catastrofi naturali [xii].

Non sappiamo bene quando potremmo dover affrontare una situazione d’insolvenza sul debito pubblico, ma potrebbe essere a breve e perciò i politici dovrebbero sbrigarsi a mettere in atto misure d’austerità perché non se ne vedrebbero gli effetti sperati che a distanza di anni [xiii].

Le conferme del governatore della Fed relative alle previsioni ed alle analisi formulate in questi anni da AsiaNews terminano qui. Il suo discorso però prosegue con delle considerazioni quanto mai interessanti. Bernanke, afferma, infatti, che è difficile attuare le necessarie misure d’austerità in uno Stato in cui le leggi sono stabilite da un sistema parlamentare (Camera e Senato), vale a dire in un sistema i cui componenti (i cosiddetti rappresentanti del popolo) sono soggetti ad un periodico e fastidioso scrutinio, le elezioni popolari [xiv].

Il senso del resto del discorso, troppo lungo per essere ulteriormente riportato, ma disponibile per gli studenti ed i dubbiosi sul sito stesso della Fed, è che occorre esautorare il sistema parlamentare al nobile fine di attuare l’austerità.

Per l’esercizio di traduzione del discorso di B. occorre un piccolo aiuto lessicale. La parola chiave per comprendere come il parlamento debba essere privato di autorità è che occorre “applicare regole fiscali”. In altre parole egli afferma che occorre sottrarre agli organi elettivi ogni potere autonomo in merito alla determinazione delle tasse.

A sostegno della sua tesi Bernanke cita molte vicende interne americane degli ultimi decenni. Di particolare interesse è però il riferimento all’Unione Europea (molto simile in questo a una Unione “Sovietica”).

Già in base ai trattati costitutivi dell’UE vengono introdotte queste “regole fiscali” ai parlamenti “nazionali”, ma ora, dice B. con ammirazione, i dirigenti europei stanno lavorando per rendere tali strumenti ancor più coercitivi [xv].

Il riferimento è al “Nuovo Patto di Stabilità” europeo deciso (di fatto) nel giugno 2010, pochi mesi fa cioè, in seguito alla crisi greca e degli altri Paesi europei cosiddetti PIGS. Il governatore della Fed è dunque ben informato, sa che ormai in Europa i bilanci degli Stati non sono più in mano né dei parlamenti né dei governi “nazionali”, ma di un “Soviet” – che in russo significa consiglio, organo di consiglio – centrale europeo, un organismo non eletto.

Questo organo di consiglio determina di fatto le decisioni di spesa pubblica riguardanti più di trecento milioni di europei.

Altrettanto dobbiamo fare in America, dice il successore di Greenspan.

Il governatore della Fed si mostra brillante, limpido e geniale. In confronto alle sue quasi impercettibili controfigure in altri Paesi del mondo ed ai suoi colleghi europei egli è anche schietto: le cose le dice, da buon americano, chiare e tonde.

La democrazia elettiva è un orpello del passato è un soprammobile da mettere sotto teca e tenere blindato affinché non dia disturbo a chi ha davvero il potere.

A costo di stritolare la gran parte della popolazione e soprattutto la classe media, con la cosiddetta (e purtroppo comunque necessaria) “austerità”, occorre salvare chi è troppo grande per fallire. Per quanto grandi e macroscopici siano stati i suoi errori e perfino i suoi crimini, il sistema bancario ed i suoi uomini non vanno chiamati a risponderne in proprio. A loro scudo e protezione c’è e perciò si può e si “deve” sempre paventare “l’instabilità” economica e finanziaria, un’arma di ricatto potente.

Una così forte bordata antidemocratica nel cuore del Paese che ha come vessillo la democrazia può sembrare incredibile e quasi paradossale.

In fondo però quello che Bernanke ha detto è logico. Chiariamolo: egli, in quanto governatore della Federal Reserve, non è preposto a servire il popolo e la sua Patria. Egli è solamente a capo della banca centrale, cioè l’organo consorziale del sistema bancario.


NOTE

[i] Vedi AsiaNews.it, 03/03/2010, Rischia di esplodere già quest’anno il debito pubblico degli Usa

[ii] Vedi, Federal Reserve, 04/10/2010, Discorso del gov. Bernanke a Rhode Island, 4 ott.

[iii] “La recente e profonda recessione e il successivo lento recupero hanno creato gravi pressioni sul bilancio, non solo per molte famiglie e per le imprese, ma anche per i governi. Invece, negli Stati Uniti, le amministrazioni a tutti i livelli sono alle prese non solo con gli effetti a breve termine di debolezza economica, ma anche con le pressioni di lungo periodo che saranno generate dalla necessità di fornire assistenza sanitaria e sicurezza della pensione a una popolazione “in via d’invecchiamento”. Non c’è niente da fare: rispondere a queste sfide richiederà ai politici e al pubblico di prendere alcune decisioni molto difficili e accettare alcuni sacrifici.

Ma la storia rende chiaro che i Paesi che spendono continuamente più delle loro possibilità subiscono un rallentamento della crescita dei redditi e del tenore di vita e sono inclini a una maggiore instabilità economica e finanziaria. Al contrario, una buona gestione fiscale è un elemento fondamentale di crescita e prosperità sostenibili”.

[iv] “Sebbene i governi statali e locali affrontino significanti sfide fiscali, oggi il mio obiettivo primario sarà la situazione del bilancio federale e le sue implicazioni economiche. Mi limiterò a descrivere i fattori che sottolineano gli attuali deficit di bilancio previsti e spiegare perché è fondamentale che mettiamo la politica fiscale americana su un percorso sostenibile. Vorrei anche offrire alcune riflessioni sull’opportunità di nuove norme fiscali o istituzioni che potrebbero contribuire a promuovere una transizione di successo alla sostenibilità di bilancio negli Stati Uniti”.

[v] “La posizione di bilancio del governo federale è peggiorata sensibilmente negli ultimi due anni fiscali, con un deficit di bilancio medio del 9,5% del reddito nazionale in quel periodo. Per confronto, il deficit era in media del 2% del reddito nazionale negli anni fiscali dal 2005 al 2007, prima dell’inizio della recessione e della crisi finanziaria.

Il recente aggravamento è stato in larga parte il risultato di forte calo delle imposte fiscali provocato dalla recessione e dalla successiva lenta ripresa, così come da un aumento della spesa federale necessario per alleviare la crisi e stabilizzare il sistema finanziario. Come risultato di quei deficit, il debito federale accumulato misurato in relazione al reddito nazionale è aumentato a un livello mai visto dall’indomani della Seconda guerra mondiale”.

[vi] “Per il momento, il deficit di bilancio si è stabilizzato e, fintanto che l’economia e i mercati finanziari continuano a recuperare, dovrebbe ridursi in rapporto al reddito nazionale nel corso dei prossimi anni. Le condizioni economiche prevedono poco spazio per ridurre il disavanzo in maniera significativa nel prossimo anno o due; invece, la prematura stretta fiscale potrebbe mettere a rischio la ripresa.

Nel medio e nel lungo termine, tuttavia, la storia è ben diversa. Se le impostazioni dei criteri attuali sono mantenute, e postulando ipotesi ragionevoli di crescita economica, il bilancio federale sarà su un sentiero insostenibile nei prossimi anni, con la proporzione del debito federale detenuta dagli investitori (lett. il pubblico) che aumenterà ad un ritmo sempre più crescente rispetto al reddito nazionale.

Inoltre, al crescere del debito pubblico, di pari passo aumenteranno anche gli esborsi per gli interessi ad esso relativi, il che a sua volta comporterà un ulteriore incremento del deficit previsto. Le aspettative di grandi e crescenti deficit pubblici potrebbero in futuro soffocare la spesa corrente delle famiglie e delle imprese – per esempio, riducendo la fiducia nelle prospettive a lungo termine per l’economia o aumentando l’incertezza circa i futuri oneri fiscali e della spesa pubblica – e quindi contenere la ripresa dell’economia.

Le preoccupazioni circa le condizioni di equilibrio fiscale di lungo periodo dei conti pubblici, potrebbero anche vincolare la flessibilità delle politiche di bilancio opportune per reagire alle condizioni economiche del momento. Di conseguenza, le misure prese oggi per migliorare la posizione a lungo termine delle finanze pubbliche del Paese non contribuirebbe solo a garantire la stabilità economica e finanziaria a lungo termine, potrebbero anche migliorare le prospettive a breve termine dell’economia”.

[vii] “Le sfide fiscali che dovremo affrontare spaventano particolarmente perché sono per lo più il prodotto di potenti tendenze di fondo, non di circostanze e fattori temporanei o di breve termine. Due delle forze coercitive più importanti sono sia l’invecchiamento (medio) della popolazione degli Stati Uniti, il cui ritmo si intensificherà nei prossimi due decenni, cioè dal momento in cui la generazione del “baby-boom” (quella nata nei due decenni dopo la II guerra mondiale) andrà in pensione si è fermato, che il rapido aumento dei costi sanitari. Poiché le esigenze di assistenza sanitaria degli anziani sono in aumento, i programmi federali di assistenza sanitaria sono sulla buona strada per essere da soli di gran lunga la più grande fonte di squilibri fiscali a lungo termine.

Infatti, le proiezioni della Commissione Intercamerale di Bilancio, il Congressional Budget Office (CBO), mostrano un raddoppio nei prossimi 25 anni del rapporto della spesa federale per i programmi di assistenza sanitaria (soprattutto Medicare and Medicaid) rispetto al reddito nazionale , ed in seguito continueranno ad aumentare ulteriormente in modo significativo. La capacità di controllare i costi di assistenza sanitaria ora che la nostra popolazione invecchia, pur continuando ancora a fornire assistenza di alta qualità a chi ne ha bisogno, sarà determinante non solo per ragioni di bilancio ma anche per mantenere il dinamismo in senso più esteso dell’economia. L’invecchiamento della popolazione degli Stati Uniti graverà anche sulla previdenza sociale, poiché, all’interno del sistema, il numero dei lavoratori che pagano le imposte aumenta più lentamente rispetto al numero di persone che ricevono proventi d’indennità- quest’anno, ci sono circa cinque individui di età compresa tra i 20 e i 64 anni per ogni persona di 65 anni e più anziani (un rapporto di 5 a 1). Entro il 2030, quando la maggior parte dei “baby boomers” [i nati nei due decenni del dopoguerra] sarà in pensione, questo rapporto è previsto in calo ad un livello di circa il 3 a 1, e potrebbe successivamente diminuire ancora dato che le aspettative di vita continuano ad aumentare. Nel complesso, le pressioni fiscali previste connesse con la sicurezza sociale sono notevolmente inferiori alle pressioni associate ai programmi sanitari federali, ma presentano ancora una sfida significativa per i responsabili politici”. [viii] “Le stesse tendenze di fondo che interessano finanze federali metteranno inoltre pressioni sostanziali sui bilanci statali e locali, che le organizzazioni come la vostra hanno contribuito a evidenziare.

Nel Rhode Island, come in altri stati, il maturare dell’entrata in pensionamento dei dipendenti statali, insieme con l’aumento continuo dei costi di assistenza sanitaria, condurrà ad obblighi di spesa per le pensioni dei dipendenti pubblici e per l’assistenza sanitaria ai pensionati (ex dipendenti pubblici) che sono destinati a diventare sempre più difficili da soddisfare .

Le stime degli impegni futuri di spesa privi di accantonamenti di copertura del fondo pensione (degli ex dipendenti pubblici) per l’insieme degli stati (degli Stati Uniti) si estendono su uno spettro molto ampio di ipotesi, ma alcuni ricercatori sono pervenuti a determinare addirittura la cifra di 2’000 miliardi di dollari sulla base dei dati fino alla fine del 2009.

Le stime degli impegni di spesa degli Stati (degli Stati Uniti) per le prestazioni sanitarie che dovranno essere fornite ai pensionati (ex dipendenti pubblici) sono ancora più incerte a causa della difficoltà di fare una stima delle spese mediche negli anni futuri.

Tuttavia, una recente stima indica che le amministrazioni locali dei diversi Stati hanno un totale collettivo di obblighi di spesa pari a quasi $600 miliardi solo per prestazioni sanitarie ai pensionati (pubblici). Queste prestazioni sanitarie sono state in genere gestite sulla base di un sistema di contribuzione a consumo (pay-as-you-go), e pertanto potrebbero imporre un sostanziale onere fiscale nei prossimi anni dal momento in cui un gran numero di lavoratori statali andranno in pensione.

Può essere di scarso conforto, ma gli Stati Uniti non sono soli nell’affrontare le sfide fiscali. La recessione globale ha inferto un duro colpo alle condizioni fiscali della maggior parte delle altre economie avanzate, e, come negli Stati Uniti, le loro spese per la sanità pubblica e le pensioni dovrebbero aumentare sensibilmente nei prossimi decenni, dato il loro invecchiamento (medio) della popolazione. Infatti, la popolazione degli Stati Uniti è complessivamente più giovane di un gran numero di Paesi Europei, così come in Giappone”.

[ix] “Torniamo alla questione della sostenibilità fiscale a lungo termine. Come ho discusso, le proiezione del CBO e di altri mostrano futuri deficit di bilancio e debiti continuamente e per sempre in aumento, e a tassi crescenti. A dire il vero, le proiezioni sono in certa misura solo esercizi ipotetici.

Quasi per definizione, una traiettoria insostenibile dei disavanzi e dei debiti non avverrà mai, perché i creditori non sarebbero mai disposti a concedere prestiti a un Paese in cui il debito fiscale rispetto al reddito nazionale è in crescita senza limite. Herbert Stein, un saggio economista, una volta ha detto: “Se qualcosa non può andare avanti all’infinito, si fermerà”. In un modo o nell’altro, degli adeguamenti fiscali sufficienti a stabilizzare il bilancio federale a un certo punto di sicuro si verificheranno.

L’unica vera questione è se questi adeguamenti avranno luogo attraverso un procedimento cauto e ponderato che dia peso alle priorità e dia alle persone il tempo per adeguarsi ai cambiamenti nei programmi di governo o nelle politiche fiscali, o se gli adeguamenti fiscali necessari scaturiranno da una precipitosa e dolorosa reazione a fronte di una crisi fiscale incombente o già in essere. Poiché le scelte e i compromessi necessari per conseguire la sostenibilità fiscale sono davvero difficili, sicuramente è meglio fare queste scelte in maniera deliberata e riflessiva”.

[x] “Si può asserire che l’imperativo di raggiungere la sostenibilità fiscale a lungo termine è sia un’opportunità che una sfida. Le opportunità per entrambe le riforme, di tasse e di spesa pubblica, sono ampie.

Per esempio, molte persone concordano sul fatto che il codice fiscale degli Stati Uniti è meno efficiente e meno equo di quanto potrebbe essere; inoltre, il codice è eccessivamente complesso e impone pesanti costi amministrativi e di osservanza delle conformità. Riscuotere le entrate attraverso un più efficiente, meglio progettato regime fiscale potrebbe migliorare la crescita economica e rendere per lo meno in qualche modo più facile il raggiungimento di politiche fiscali sostenibili.

Allo stesso modo, molti programmi di spesa federali potrebbero senza dubbio essere modificati in modo da poter conseguirne gli obiettivi cui sono prefissi in modo più efficace e a costi inferiori. Certamente, dei continui sforzi per ridurre i costi delle cure sanitarie e la spesa pubblica per la salute, dovrebbe essere una priorità assoluta, pur continuando a garantire cure appropriate per chi ne ha bisogno”.

[xi] “Se si mancherà di affrontare la nostra insostenibile situazione fiscale, si espone il nostro Paese a gravi costi e rischi economici. Nel breve periodo, come ho già detto, le preoccupazioni e l’incertezza riguardo l’esplosione del deficit futuro potrebbe rendere le famiglie, le imprese e gli investitori più cauti circa la spesa, l’investimento di capitale, e le assunzioni. Nel lungo termine, un livello crescente del debito pubblico in rapporto al reddito nazionale è suscettibile di esercitare una pressione al rialzo sui tassi d’interesse, e quindi inibire la formazione di capitale, la produttività e la crescita economica.

Deficit pubblici sempre maggiori aumentano, ceteris paribus, la nostra dipendenza da finanziatori esteri il che implica che la quota di reddito nazionale degli Stati Uniti deputata a pagare gli interessi agli investitori stranieri aumenterà nel tempo.

Il reddito pagato agli investitori stranieri non è disponibile per il consumo o l’investimento interno. E un costo sempre più elevato del servizio del crescente debito nazionale significa che gli adeguamenti, quando arriveranno, potrebbero essere forti e dirompenti.

Per esempio, i forti aumenti delle tasse, che potrebbero essere necessari per coprire l’interesse crescente sul debito, andrebbero a rallentare la crescita potenziale, riducendo gli incentivi per il lavoro, il risparmio, le nuove assunzioni e l’investimento.

[xii] “Infine, un grande debito federale riduce la flessibilità dei politici per aumentare temporaneamente la spesa necessaria per affrontare le emergenze future, come la recessione, le guerre, o i disastri naturali”.

[xiii] “Sarebbe difficile individuare una soglia specifica in cui il debito federale inizia a causare più numerose spese consistenti e rischi per l’economia nazionale. Un chiaro limite forse non esiste; i costi e i rischi potrebbero crescere più o meno proporzionalmente rispetto all’aumento del debito federale.

Quello che oggi davvero sappiamo, però, è che la minaccia per la nostra economia è reale e crescente, il che dovrebbe essere motivo sufficiente per i responsabili delle politiche fiscali per mettere a punto un piano credibile per riportare i deficit a livelli sostenibili nel medio termine.

Quanto prima viene stabilito un piano, tanto più tempo le persone su cui ricadono le conseguenze interessate avranno per prepararsi per i cambiamenti necessari. Infatti, in passato, dei lunghi tempi preparatori hanno contribuito a rendere gli adeguamenti necessari meno dolorosi, e quindi politicamente realizzabili.

Per esempio, il progressivo innalzamento dell’età pensionabile minima per ottenere il pieno trattamento pensionistico è stato approvato nel 1983, ma non ha iniziato ad avere effetti fino al 2003 e la riforma non sarà completata fino al 2027, dando così ai futuri pensionati tempo sufficiente per adeguare i loro piani di lavoro, risparmio e pensione”.

[xiv] “Tra tutta l’incertezza che circonda le prospettive economiche a lungo termine e di bilancio, una certezza è che sia entrambi i rami del Parlamento (Camera dei Rappresentanti e Senato) attuali e futuri che l’attuale ed i futuri presidenti dovranno prendere alcune decisioni molto difficili per mettere il bilancio di nuovo su di una traiettoria sostenibile.

Possono queste decisioni essere rese più semplici per i nostri leader eletti? In diversi momenti, alcuni Parlamenti degli Stati Uniti ed alcuni governi stranieri hanno adottato regolamenti in materia di legislazione fiscale tali da contribuire a ristrutturare il processo di approvazione del bilancio [N.d.R.: ad esempio in Italia la finanziaria triennale “blindata” voluta nel luglio 2008 dal ministro Tremonti che negli anni successivi non consente al Parlamento di stabilire che minime variazioni].

Le norme di bilancio sono accordi legislativi destinati a promuovere la responsabilità fiscale vincolando le decisioni sulla spesa e sulle tasse. Per esempio, le norme fiscali possono imporre vincoli sui risultati-chiave di bilancio, come la spesa pubblica complessiva, il deficit o il debito. Nel resto del mio intervento discuterò dell’utilizzo delle norme fiscali per affrontare i problemi di bilancio a lungo termine, a cominciare da un’analisi degli Stati Uniti e dell’esperienza estera”.

[xv] “Molti altri Paesi hanno fatto esperienza o sperimentato regolamenti in materia di legislazione fiscale. L’Unione Europea, mediante trattati, ha adottato regole di vincoli alla legislazione fiscale già nei primi anni del 1990, con l’obiettivo di garantire che tutti i membri mantenessero politiche fiscali sostenibili.

Le regole specificavano che i Paesi avrebbero dovuto mantenere i loro deficit pubblici pari o inferiori al 3% del loro prodotto interno lordo (Pil), e che il debito pubblico non deve superare il 60% del Pil. [N. d. R il riferimento è al Patto di Stabilità europeo, PdS, stipulato nel 1997 ed entrato in vigore nel gennaio 1999 che pone agli stati membri dei vincoli di bilancio, i cosiddetti “parametri di Maastricht”.

Il PdS mette sotto tutela della Commissione Europea i deficit ed i debiti pubblici degli Stati membri mediante un particolare tipo di procedura di infrazione, la Procedura per Deficit Eccessivo, PDE, adottata dal Consiglio dei Ministri della UE, un organo politico, su proposta della Commissione Europea, un organo burocratico non eletto] Già prima della recente crisi finanziaria e della recessione, tuttavia, i meccanismi di applicazione di queste regole non hanno impedito che tali obiettivi venissero violati, e i problemi fiscali in molti Paesi della zona euro sono stati recentemente una fonte di stress economico e finanziario.

I leader europei stanno lavorando per rafforzare i propri strumenti per far rispettare la disciplina fiscale” [N. d. r. il riferimento è al Nuovo Patto di Stabilità europeo, proposto dalla Commissione Europea a metà maggio del 2010 in seguito alla crisi del debito greco e di altri paesi minori, che prevede maggiori sanzioni a carico degli Stati membri inadempienti. La maggiore differenza è però che la decisione finale non sarà presa dal Consiglio dei Ministri della UE, ma sarà imposta automaticamente dalla Commissione Europea ai governi ed ai parlamenti eletti degli Stati membri sulla base di procedure burocratiche pre-definite].


Un'altra moneta è possible
di Massimo Amato* - www.ilfattoquotidiano.it - 18 Ottobre 2010

Che questa crisi potesse «servire da lezione» alle élites economiche, molti lo hanno pensato fin dall’inizio. Salvo esserne presto delusi. Nessuno sembra aver cambiato di una virgola le sue posizioni.

Non gli economisti che fino al 2007 avevano generosamente partecipato all’elaborazione di un’ideologia dei mercati finanziari come strumento di democratizzazione dell’economia. Non i banchieri e gli operatori finanziari che si erano incaricati di rendere l’ideologia una «prassi» «concreta».

Non le autorità di controllo che, dopo aver abdicato per anni al loro ruolo, si sono accontentate finora di ribadire la centralità di una «regolazione» di cui sembrano ignorare i reali presupposti politici.

Con l’effetto che, sul piano pratico, la risposta alla crisi di liquidità scoppiata nel luglio 2007 si è risolta finora in un processo di tamponamento dei suoi effetti operato grazie a massicce iniezioni di liquidità. Si cura la malattia aumentando la dose dell’agente patogeno. Come mi è capitato di ripetere più volte, questo è semplicemente un modo per «uscire» dalla crisi presente, posto che ci si riesca, al prezzo della preparazione della prossima crisi.

Del resto, qualche segnale lo possiamo già constatare. Il tentativo di tamponare i buchi degli operatori bancari si è risolto nell’assunzione di debiti privati divenuti inesigibili da parte delle autorità pubbliche.

Il debito privato è stato trasformato in una dose crescente di debito pubblico. E in alcuni casi, superata la soglia di rischio, sono stati gli stessi mercati finanziari salvati dagli Stati a metterli in ginocchio. Quella greca è la prima crisi del debito pubblico, ma non è affatto detto che sia l’ultima.

Eppure, un’altra strada è aperta, sia per l’interpretazione della crisi sia per la messa in campo di azioni volte a sormontarla. Questa «crisi di liquidità» è anche e soprattutto una crisi della liquidità: cioè l’entrata in crisi del modello della finanza come mercato della liquidità.

Più i mercati sono liquidi, più il credito affluisce, in massa e a buon mercato, dai creditori ai debitori, assicurando i primi da ogni rischio e accontentando i secondi quasi indipendentemente dalla loro solvibilità, abolendo cioè ogni differenza fra «prime» e «subprime borrowers», fra debitori solvibili e insolvibili.

Rischio liquidità

Il rischio che i mercati finanziari avrebbero voluto ridurre, a beneficio della stabilità della crescita economica, è, infatti, non il rischio di credito ma il rischio di liquidità. Non, cioè, il rischio inerente a ogni atto di credito quando quest’ultimo sia volto a rendere possibile un investimento reale. Il rischio di credito dipende in ultima istanza dal rischio reale connesso alla imprevedibilità degli esiti di ogni investimento.

No: il rischio che si voleva ridurre era un altro, ossia il rischio per il detentore di un titolo di credito di non riuscire a liquidarlo con profitto su un mercato secondario dei titoli. In gioco sui mercati finanziari non è la pagabilità dei debiti ma la vendibilità dei titoli.

In gioco non è dunque il rapporto fra un finanziatore-creditore e un investitore-debitore, ma la sicurezza del creditore di poter monetizzare in qualsiasi momento i suoi «investimenti» finanziari: una sicurezza che, qualora fosse ben assicurata dalle aspettative di mercato, lo potrebbe indurre anche a non monetizzare, lasciando che il suo denaro affluisca nelle tasche di «debitori» con i quali non ha più alcun rapporto diretto.

Ma che appunto, e per lo stesso motivo, può in ogni momento trasformarsi in insicurezza e indurre, sulla base non di un sapere concreto ma di pure e semplici aspettative a liquidare tutto e a scatenare la crisi.

Ecco il paradosso dei mercati finanziari. La base su cui essi concedono o negano il credito per gli investimenti non ha nulla a che fare con la natura concreta di questi ultimi. In periodi di euforia, come per esempio dal 2002 al 2007, non c’era «debitore» potenziale che non potesse trovare «credito».

Erano la banche a inseguire i loro potenziali clienti, offrendo a chiunque la possibilità di indebitarsi ben aldilà della sue capacità di restituzione grazie a un’offerta di rifinanziamenti apparentemente senza limite, e soprattutto senza fondo…

Ora, invece, ciò che siamo costretti a osservare, come il protagonista di Arancia meccanica, con gli occhi forzatamente spalancati, è invece il puro e semplice opposto di questa atteggiamento assurdo.

Il credito è rifiutato per principio. Le banche «hanno chiuso i rubinetti del credito»: e non perché non abbiano soldi, ma perché nessun credito privato è sufficientemente sicuro da consentire alle banche di rinunciare ai loro attivi in moneta. Ciò che si finanzia ancora volentieri, ma operando già distinguo fra paesi «virtuosi» e «pigs», è il debito pubblico.

Ma allora che pensare di tutto ciò? Ciò che potrebbe saltare agli occhi, se solo ci togliessimo i paraocchi ideologici con cui siamo stati allenati a «guardare» alla «realtà» economica, è che questa crisi è la crisi di un modo di erogare il credito, che a sua volta riposa su un modo di concepire la moneta, che a sua volta genera un modo di concepire il rapporto fra credito e moneta.

Si tratterebbe, insomma, di capire che la rinuncia a proseguire lungo la strada della liquidità non implica affatto la rinuncia al credito e ai suoi vantaggi per l’economia, ma la possibilità di ricorrere di preferenza a forme di erogazione di credito non fondate sulla liquidità.

E, se la liquidità si fonda sulla rescissione del rapporto fra creditore e debitore in vista dell’investimento reale, ciò che dobbiamo ammettere almeno in via ipotetica è che l’alternativa debba fondarsi sulla ricostituzione di tale rapporto.

È importante sottolineare che tale alternativa è già in procinto di realizzarsi. In attesa che i guru si pronuncino, le imprese hanno cominciato a ovviare alla stretta creditizia facendosi credito fra loro. Lo strumento è antico e ben rodato: si chiama compensazione multilaterale dei crediti e dei debiti, in inglese clearing.

Se A deve qualcosa e B che deve qualcosa a C, e così via, la scelta più ragionevole non è quella di costringere tutti a pagare, chiedendo i soldi che non hanno a banche che non li vogliono dare, ma di compensare il più possibile i debiti e i crediti fra di loro, riducendo il bisogno complessivo di liquidità.

Se ho un’idea produttiva e non ho i soldi per realizzarla in un contesto produttivo dato, la cosa più ragionevole non è quella di rivolgermi al «mercato globale dei capitali», sempre altrettanto pronti ad affluire come a defluire, indipendentemente dalla solidità del mio investimento; devo semplicemente trovarmi un socio di capitale, disposto non solo a partecipare i profitti, quando questi si generino, ma anche a sopportare i rischi e le perdite che possono sempre ingenerarsi in un’attività realmente economica. Anche in questo caso non c’è nulla da inventare: lo strumento è quello del venture capital.

Ciò che caratterizza queste due forme di credito è che esse non si caratterizzano come una compravendita di denaro, e che quindi non sono legate alla fissazione preventiva di un rendimento per il denaro prestato.

Ma ciò significa che, ancora più in profondità, queste forme non presuppongono affatto che la moneta sia una merce. Il credito per compensazione abbisogna di una moneta che svolga solo la funzione di unità di conto, dunque una moneta che non abbisogna affatto di essere una riserva di valore.

Il denaro conferito in una società non ha più la liquidità propria dei movimenti di capitale di portafoglio ma deve essere valutato in relazione alle potenzialità produttive effettive dell’impresa. In breve: questo credito si può fondare su un’altra nozione di moneta, e che a sua volta può fondare un altro rapporto fra moneta e credito.

Ma soprattutto questo credito, questa moneta, e questo rapporto fra i due non necessitano affatto di essere pensati in termini globali. Nessuna centralizzazione in un mercato finanziario della liquidità è davvero necessaria quando le relazioni di credito siano pensate a partire dalla loro localizzazione in un contesto produttivo reale.

Al decentramento delle relazioni di credito può dunque corrispondere una moneta costruita per essere locale. «Locale» non significa «autarchica»: una moneta locale non veicola necessariamente contenuti politici di chiusura.

Implica semplicemente la necessità di poter distinguere fra una dimensione locale dell’economia, legata a relazioni di prossimità fra «operatori economici», e una dimensione internazionale.

E implica soprattutto una specializzazione delle monete. La nozione di moneta invalsa, che ci appare evidente solo a causa dei nostri paraocchi, si fonda invece sulla indifferenziazione funzionale della moneta. La stessa moneta che uso in un contesto locale deve poter vigere come moneta internazionale.

La moneta internazionale di Keynes

John Maynard Keynes non la pensava così. Nel 1944 a Bretton Woods egli propose l’adozione di una moneta internazionale nel senso più semplice e immediato della parola: ossia una moneta che non fosse la moneta nazionale di nessuno degli Stati chiamati a commerciare fra loro.

Si scelse invece di adottare come moneta internazionale una moneta nazionale, il dollaro. E la crisi a cui stiamo assistendo è, fra l’altro, anche l’epilogo di questa decisione, mal fondata in logica e mal praticata in politica.

Dalla crisi non si esce affiancando al dollaro altre monete nazionali, ma provando a ripensare distinzioni che abbiamo perso l’abitudine di fare.

Se davvero si iniziasse a ripensare tali distinzioni, allora tutto ciò che già ora, in forma talvolta ingenua ed «empirica» è in procinto di attuarsi, potrebbe essere attuato nell’alveo di una consapevolezza politica capace di guidare la fondazione di un’economia non semplicemente anticapitalistica, ma realmente alternativa, cioè costitutivamente altra dal capitalismo. E senza che questa decisione implichi una rinuncia ideologica all’economia di mercato.

Malatesta e il denaro

A proposito della «questione del denaro, questione grave quanto altre mai» Errico Malatesta sosteneva, con grande acume e senso pratico, il che non significa affatto senza solidità teorica, (cito da La rivoluzione in pratica, in Umanità Nova, 7 ottobre 1922): «D’abitudine nel campo nostro si risolve semplicisticamente la questione dicendo che il denaro si deve abolire. E sta bene, se si tratta di una società anarchica o di un’ipotetica rivoluzione da fare da qui a cento anni, sempre nell’ipotesi che le masse possano diventare anarchiche e comuniste prima che una rivoluzione abbia cambiate radicalmente le condizioni in cui vivono. Ma oggi la questione è ben altrimenti complicata».

La questione è oggi ben altrimenti complicata perché, oggi ancora meno che al tempo in cui Malatesta scriveva, il rapporto fra rivoluzione e cambiamento del modo di pensare non può affatto essere pensato meccanicamente, in nessuno dei due sensi del rapporto d’influenza. Questa impasse del pensiero rivoluzionario ha alimentato negli ultimi decenni l’idea che «il capitalismo» non avesse più alternative, e che dunque la sua moneta fosse l’unica concepibile.

Prendere o lasciare: o questo denaro o l’abolizione del denaro e il «ritorno al baratto». E tuttavia Malatesta sa che c’è qualcosa di ben più eversivo della «rivoluzione» come rovesciamento violento dei rapporti di forza: è il «passo di lato» che si smarca dall’apparenza di unicità con cui si contrabbandano concetti pensati a metà.

La moneta del capitalismo non è affatto l’unica pensabile. Si tratta dunque di pensare la moneta e infatti Malatesta aggiunge: «Per ora, forse più che preoccuparsi dell’abolizione del denaro, bisognerebbe cercare un modo perché il denaro rappresenti davvero lo sforzo utile fatto da chi lo possiede» .

Un denaro che rappresenti davvero il lavoro, anche il lavoro di chi si assume il rischio dell’investimento reale e non finanziario, non ha bisogno di essere pensato come una merce, non ha bisogno di un mercato monetario, non deve necessariamente generare una rendita: può invece rendere possibili relazioni di scambio e di credito che non si fondino sul presupposto che l’atto economico più «intelligente» sia quello di liberarsi da ogni rischio addossandolo ad altri.

L’assunzione del rischio che è in gioco con una moneta alternativa a quella del capitalismo non è un dato morale, frutto di «buona volontà» che francamente non è il caso di dare per scontata in nessuno di noi né peraltro negare per principio a nessuno degli altri: è semplicemente il fondamento di ogni sana economia di mercato. La «rivoluzione della mentalità» dovrebbe passare innanzitutto da qui.

*Massimo Amato, insegna storia economica all’università Bocconi di Milano ed è autore con Luca Fantacci di Fine della finanza (2009) e di Il bivio della moneta (1999), Le radici di una fede (2008)

Articolo tratto dal numero 3-4/2010 del trimestrale Libertaria, il piacere dell’utopia che sarà presto in vendita nelle librerie in Italia (da Acri a Volterra, passando per Torino, Milano, Firenze, Roma…) e all’estero (Barcellona, Gerusalemme, Lione, Lugano, Montpellier, Parigi, Saint Imier, San Francisco, Sidney)


Landini: é giusto ribellarsi contro questa società
da www.ilmanifesto.it - 18 Ottobre 2010

Vedere questa bellissima piazza dà davvero tanta felicità, ma allo stesso tempo indica una speranza. È anche una piazza che indica una forza; soprattutto è una piazza che unisce questo paese e che parla al paese.

Dice cioè che per uscire dalla gravissima crisi che stiamo vivendo c'è bisogno di rimettere al centro il lavoro, i diritti. E che per questa ragione è necessario contrastare la politica che il governo sta facendo ed è necessario contrastare la politica che Confindustria, in questo paese, insieme a Federmeccanica, sta facendo.

Perché il punto di fondo da cui ripartire sono le ragioni per cui si è determinata questa crisi. Noi siamo in presenza del fatto che per 20 anni ci hanno raccontato che era sufficiente «lasciare fare al mercato e tutto sarebbe andato a posto».

E dopo 20 anni noi siamo di fronte al fatto che la finanza non ha alcuna regola, anzi la politica e gli stati sono al servizio della finanza. Siamo in presenza di un'evasione fiscale che non ha precedenti, tutta a danno dei lavoratori dipendenti. Siamo in presenza di una precarietà nel lavoro che non ha mai avuto una dimensione come quella che stiamo vivendo. Siamo di fronte al fatto che c'è stata una redistribuzione della ricchezza a danno di chi lavora che non ha precedenti.

Vedete, quando si lavora e si è poveri, siamo di fronte non solo a un'ingiustizia, ma al fatto evidente che una società così non è accettabile e che noi dobbiamo ribellarci per cambiarla. E dobbiamo dire con forza che, proprio per queste ragioni, uscire da questa crisi richiede dei cambiamenti.

In tanti ci descrivono semplicemente come quelli che sono capaci di dire solo «no». E' vero. Noi alla Fiat abbiamo detto «no», alla Federmeccanica abbiamo detto «no». Perché quando si vuole cancellare i diritti, quando si vuole cancellare il contratto, quando si vuole cancellare la dignità delle perone che lavorano, noi diremo sempre di «no». Non accetteremo mai che questa sia la strada per cambiare la situazione.

Ma vorrei ricordare a queste persone che noi, invece, avanziamo delle proposte per cambiare questa situazione. Noi vogliamo un altro modello di sviluppo. Vogliamo cioè ridiscutere cosa si produce; che ciò che si produce sia ambientalmente sostenibile; vogliamo che i beni comuni di questo paese siano difesi, che non siano privatizzati; vogliamo cancellare la precarietà, redistribuire la ricchezza e aumentare i salari; vogliamo estendere i diritti a chi non ce li ha.

Ossia, ai giovani che oggi hanno di fronte nessun futuro; solo la prospettiva di essere precari per tutta la vita.

Noi non accettiamo questa cosa, la vogliamo cambiare. E vogliamo anche che la scuola sia un diritto pubblico, che sia possibile unire il lavoro, i diritti, il sapere, e vogliamo anche che sia estesa la democrazia.

Vedete, in questi giorni tanti hanno parlato. I ministri addirittura hanno fatto a gara a raccontare chissà cosa sarebbe successo oggi. Io credo si debbano vergognare per quel che hanno detto. Perché quando si arriva addirittura ad invocare il morto, come un ministro ha fatto, siamo di fronte a una irresponsabilità totale.

Ma questa piazza ... questa piazza ha la forza di dire che non solo questa è una manifestazione democratica e pacifica, ma vorremmo ricordare che se c'è la democrazia in questo paese è perché chi lavora l'ha conquistata e l'ha estesa. E se questi ministri possono dire anche le castronerie che ogni tanto dicono è perché siamo noi che garantiamo il diritto democratico a tutti di poter parlare e di poter dire il loro pensiero.

Se ci pensate un attimo... i processi di globalizzazione che in questi anni ci sono stati hanno proprio nella democrazia il loro limite, hanno paura della democrazia, hanno paura della trasparenza, hanno paura ­ cioè ­ che le persone possano sapere quello che avviene e possono decidere.

Noi siamo di fronte ad una crisi gravissima come non abbiamo mai vissuto; sta mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro. Nonostante ci raccontino che dovremmo stare tranquilli e che va tutto bene, noi sappiamo perfettamente che così non è. Anzi, se nei prossimi mesi non c'è un cambiamento radicale delle politiche industriali, rischiamo di essere di fronte a ulteriori chiusure, alla fine della casa integrazione, a migliaia di posti che vanno persi; alla disoccupazione.

Ma è questo il punto di novità. Si sta cominciando a capire che è proprio questo turbocapitalismo che divora tutto, senza curarsi del domani, che rischia di consumare il presente senza un'idea del futuro; e quindi abbiamo davvero la necessità di produrre un cambiamento.

Il governo e Confindustria stanno usando questa crisi perché vorrebbero cambiare gli assetti sociali e di potere. Del resto è un po' che lo stanno facendo. Già nel 2001, con il Libro Bianco dell'allora ministro Maroni, il centrodestra e la Confindustria avevano disegnato quello che volevano fare; e oggi stanno cercando di fare esattamente quello che avevano detto allora.

L'attacco alla scuola pubblica, il blocco dei contratti, la cancellazione della contrattazione, la cancellazione della democrazia nei luoghi di lavoro, il superamento del diritto a contrattare, l'assenza totale di una politica industriale che fa arretrare questo paese, sono parte di uno stesso disegno.

Ma noi l'abbiamo capito; e proprio per questo vogliamo cambiare la situazione. Vogliamo mettere in campo un'azione che non si esaurisce oggi, ma che sia in grado di cambiare nelle fabbriche, nel territorio, questa situazione.

Ne hanno dette di tutti i colori: sui lavoratori, sulla Fiom, sulla Cgil. Addirittura Brunetta è arrivato ad accusarci di essere un sindacato che difende i fannulloni e i lavativi. Credo sia un falso in atto pubblico, perchè noi, Brunetta, non l'abbiamo mai difeso. Quindi è evidente a tutti che siamo di fronte a delle bugie...

Il caso Fiat... Noi siamo di fronte a una teoria che si vorrebbe far passare in questo paese: per poter investire in Italia bisognerebbe cancellare i diritti e gli orari, per far funzionare le fabbriche in Italia ci vorrebbe il diritto di poter licenziare quando si vuole

E invece noi dovremmo porci un altro problema: perché la Fiat è messa peggio di altre aziende che costruiscono auto? Perché tutti parlano del modello tedesco e in Germania gli stipendi sono il doppio di quegli italiani, lavorano meno e vendono più macchine?
È esemplificativo quello che è successo negli ultimi due incontri che abbiamo avuto con la Fiat.

Uno è avvenuto a Torino. C'erano tutti: il governo, le forze istituzionali, tutte le forze sindacali. Marchionne, cui va riconosciuto il parlare con chiarezza, non ha detto solo alla Fiom e alla Cgil «ditemi sì o no». Ha usato quella platea per dire che il suo piano industriale lo ha deciso lui, che non lo discute con nessuno, che non vuole proprio concordarlo con nessuno e che, semplicemente, chiede a tutti ­ anche al governo e alle forze istituzionali ­ semplicemente di dire sì o no.

Naturalmente, in quella sede solo la Fiom e la Cgil gli hanno detto che non va bene e che così non può funzionare.

Io, sinceramente, sono allibito quando la più grande azienda italiana ­ che, come è noto, in questi anni ha avuto tanti finanziamenti pubblici che le hanno permesso di essere quella che è ­ si trova di fronte a un governo e istituzioni incapaci di dire altro che semplicemente «sì».

Vorrei ricordare qui che il primo a dire «no» alla Fiat non è stata la Fiom. Quando la Fiat è andata in Germania per comprare l'Opel e ha presentato i piani industriali... l'IG-Metall gli ha detto di «no», il governo tedesco gli ha detto di «no».

Perché, se si assume il modello tedesco, allora bisogna fare una distinzione anche sulla politica industriale. Non è vero che le imprese non abbiano una responsabilità sociale; non è vero che è solo il suo interesse. Lo ribadiamo qui, da questa piazza.

Noi, la Fiom, la Cgil, le lavoratrici e i lavoratori italiani, più ancora della Fiat di Marchionne, vogliamo che in Italia si continuino a produrre auto, camion e trattori. Perché mentre lui ha la possibilità di decidere di andare a produrre in giro per il mondo, noi questa alternativa non ce l'abbiamo.
E proprio per questa ragione vogliamo che si affrontino i problemi.

Se c'è un ritardo e si vende meno, è perché in questi anni si è investito poco nell'innovazione dei prodotti e dei progetti; è perché la competizione non la si fa tagliando i salari e i diritti. Ed è sbagliato, per il paese oltre che per i lavoratori, pensare che tu la competizione la vinci solo sui bassi salari.

Se c'è un problema di qualità, non si può raccontare che in Italia «non si chiede l'intervento pubblico» e poi si va in Serbia perché ti fanno i ponti d'oro. Non si può raccontare che «in Italia non serve l'intervento pubblico» e poi si va negli Stati uniti perché Obama e i lavoratori mettono a disposizione i loro soldi.

Io lo voglio dire ancora con più chiarezza: se non c'è un intervento pubblico nel nostro paese per orientare gli investimenti, la ricerca, una nuova qualità dello sviluppo, da questa crisi non si esce. Perché quelli che l'hanno determinata non possono venirci a raccontare che sanno loro come se ne esce.

E noi lo diciamo con grande responsabilità, perché è ora di smetterla. Noi non abbiamo semplicemente detto «no» a Pomigliano. Noi abbiamo avanzato delle controproposte. Abbiamo detto che eravamo pronti ad aumentare l'utilizzo degli impianti, perché il contratto che c'è permette di fare più turni.

Abbiamo detto che eravamo pronti a discutere di come migliorare la produttività, di come articolare in modo diverso le pause, abbiamo addirittura fatto una proposta che darebbe alla Fiat un utilizzo degli impianti e una capacità produttiva superiore a quella che loro hanno pensato.

Stiamo ancora aspettando la risposta. La verità è che non gli interessa quante macchine si fanno; vogliono affermare l'idea che non c'è più, per le persone che lavorano in fabbrica, il diritto di poter contrattare la propria condizione di lavoro.

Lo dico con franchezza: dire qui che c'è in ballo la Fiom e la Cgil, o che voglion far fuori la Fiom e la Cgil, è solo una parte di verità.

Io penso che siamo di fronte ad un passaggio ancora più in là... E cioè il tentativo della Confindustria, della Fiat e di Federmeccanica, di cancellare il contratto con la derogabilità dei contratti nazionali.

L'obiettivo vero non è semplicemente fare fuori la Fiom e la Cgil, ma di più. E' cancellare il diritto delle persone che lavorano in fabbrica, se vogliono, di poter contrattare, di esser persone libere con la possibilità di far funzionare meglio la fabbrica. Vuol dire farci tornare indietro di cento anni.

E io credo che questo imbarbarimento non è solo inaccettabile, perché peggiora la condizione di chi lavora; ma è inaccettabile perché fa arretrare tutto il paese, fa arretrare il sistema industriale del nostro paese.

Addirittura, nell'ultimo incontro che abbiamo avuto alla Fiat a giugno, in tanti ci spiegavano che sì, Pomigliano era un brutto accordo, però si poteva firmare perché «lì c'è la camorra, perché c'è una situazione difficile».

Vi ricordate, allora, in quanti ci hanno spiegato che sarebbe rimasta una cosa isolata, che non si sarebbe estesa? Non solo adesso siamo alla derogabilità del contratto, ma nell'ultimo incontro, il 5 ottobre la Fiat, ci hanno ricordato che se vogliamo sapere quale è il piano industriale (una delle stranezze di questa situazione è che non si sa quali, dove e quando saranno fatti i nuovo prodotti) prima dobbiamo firmare un accordo che permette loro di estendere Pomigliano in tutti gli altri stabilmenti. Anzi. Ci è stato detto che in alcuni casi, forse, potrebbe esserci la necessità di andare anche «oltre Pomigliano».

Ecco, io credo che quando si teorizza che, «se si vogliono i diritti, non si vogliono le fabbriche», bisognerebbe ricordare a queste persone che in realtà noi siamo già in presenza di «fabbriche che non hanno più diritti».

E bisognerebbe ricordar loro che il rischio concreto, se passa questo disegno, è che l'art. 1 della nostra Costituzione («l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro») è che noi siamo già di fronte al fatto che la nostra sia una repubblica fondata sullo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche e nel paese.

E allora noi diciamo: siamo un sindacato che vuol fare degli accordi, del resto è quello che facciamo sempre, è quello che facciamo ogni giorno in migliaia di fabbriche. Ma, se si vuole davvero far funzionare meglio le fabbriche, allora si riaprano le trattative e si mettano le lavoratrici e i lavoratori in condizione di poter votare, di poter decidere e di poter contrattare le proprie condizioni.

Voglio rilanciare con forza quelle che sono le ragioni della nostra piattaforma, della nostra manifestazione, che è stata capace di mettere assieme tante persone diverse. Vedete, quando chi studia, chi è precario, chi lavora nel pubblico impiego, chi è metalmeccanico, chi è pensionato... trova di nuovo la possibilità di avere un terreno comune di azione che rimette al centro lavoro, diritti, un'idea di società finalmente diversa, più giusta, dove la giustizia sociale, l'eguaglianza, la solidarietà tornano ad essere elementi che unificano... io credo che questo patrimonio, è responsabilità di ognuno di noi di non farlo disperdere. Perché questa è la condizione per poter cambiare questo paese.

Per rilanciare con forza l'idea che non dobbiamo aver paura delle parole: il nostro obiettivo, sì, è trasformare questa società ingiusta, che cancella la dignità di chi lavora. La vogliamo proprio cambiare, sì, e lo vogliamo fare a partire dalle fabbriche, dal lavoro, ridando una prospettiva ai giovani e dicendo soprattutto che «è possibile».
Vogliamo una società senza corruzione, senza ladrocinii, come quella che abbiamo invece di fronte.

E allora... Se parliamo di diritti lo diciamo con chiarezza: vogliamo estendere i diritti a tutti, vogliamo l'estensione degli ammortizzatori sociali a tutti.
Diciamolo: in tanti anni ci hanno raccontato che per dare i diritti ai giovani bisognava toglierli a quelli che già ce li hanno.

Facciamogli una bella risata in faccia, a chi dice queste cose; diciamogli con molta chiarezza che per noi il problema dell'estensione dei diritti, dello statuto dei lavoratori, degli ammortizzatori sociali fino anche ad arrivare a cose nuove ­ a pensare anche a forme di «reddito di cittadinanza», che affrontano in modo diverso il problema di una prospettiva per i giovani ­ è il terreno su cui noi vogliamo lavorare.

Vedete, tanti parlano, ma se le persone a volte si allontanano un po' dalla politica è perché sono stanchi di parole e bisogna essere coerenti, fare quello che si dice, provare a fare quello che si dice.

E allora io trovo giusto battersi per un fisco più giusto, trovo necessario che i lavoratori dipendenti e i pensionati paghino meno tasse perché sono gli unici che le pagano anche per quelli che evadono. Però ci vuole un po' di coerenza. Non si può venirci a dire che quando il governo ha fatto lo scudo fiscale non se ne è accorto e poi fa finta di manifestare per chedere la «riforma fiscale».

Ci vuole una coerenza. E mi permetto di dire che che questa teoria secondo cui «tutti devono pagare meno tasse», a me non convince tanto. Perchè non è mica vero.
Io penso che bisogna dire con chiarezza che i lavoratori dipendenti e i pensionati devono pagare meno tasse; gli altri ne debbono pagare di più perché hanno evaso il fisco in questi anni. Sono quelli che hanno i servizi pubblici che noi.

E vogliamo estendere i diritti anche ai tanti lavoratori immigrati. Vorrei ricordare che, al di là delle dispute nel centrodestra, noi stiamo ancora pagando la legge Bossi-Fini. Perché fanno finta di discutere tra loro. Ma poi, quando c'è da far pagare, quelli son sempre d'accordo a far pagare noi. Anche questo è un punto: l'estensione dei diritti di cittadinanza.

Diciamo anche: il contratto nazionale. Vedete, si sono incontrati e in dieci righe hanno scritto che non c'è più il contratto nazionale di lavoro. Perché si può derogare. Sapete, quando si dice che si può derogare a un contratto, sia se c'è la crisi sia per fare investimenti, vuol dire che il contratto nazionale non c'è più. E questo determina una competizione selvaggia tra le imprese e tra i lavoratori.

Dobbiamo dire con chiarezza che per noi l'unico contratto davvero è in vigore è quello del 2008, che è stato votato da tutti i lavoratori e che è stato firmato da tutti. Quello è l'unico contratto legittimo e noi lo difenderemo, fabbrica per fabbrica e nel paese, anche arrivando in tribunale, se necessario, per difendere i diritti e il contratto.

Ma penso anche che noi dobbiamo dire di più. Vi facco un esempio personale. Quando ho cominciato a lavorare, quando entravo in fabbrica, dal centralinista al progettista, sotto lo stesso tetto, tutti avevano lo stesso contratto e gli stessi diritti. Oggi se tu vai in un luogo di lavoro scopri che non è più così.

Mentre chi comanda è sempre quello, noi siamo frantumati e divisi, Ci sono diversi contratti: le cooperative, l'appalto, il subappalto, il lavoratore precario. Noi abbiamo bisogno, alla luce anche di questa grande manifestazione, di dire con chiarezza che l'obiettivo di un sindacato degno di questo nome è riunificare i diritti in questo paese.

E per fare questo, se c'è bisogno di pensare a qualcosa di nuovo, io credo ci sia bisogno non di meno contratti, non di questa storiella secondo cui ognuno si può contrattare nella sua fabbrica o nel suo territorio (se non c'è un contratto nazionale che fissa i diritti per tutti, la contrattazione è una contrattazione a perdere, fabbrica per fabbrica).

C'è una novità da dire: bisognerebbe pensare a un contratto dell'industria, a uno dei servizi, un altro del pubblico impiego. Dobbiamo cioè pensare a come si riunificano i lavoratori.

Tanti ci hanno chiesto: «perché nelle parole d'ordine avete parlato di legalità?» Ne abbiamo parlato perché basta vedere quello che è successo all'Aquila; perché, mentre questi raccontano che vogliono fare il ponte sullo stretto di Messina, nel frattempo fanno chiudere tutte le fabbriche che ci sono in Sicilia. Cosa dovrebbe trasportare quel ponte se le fabbriche non ci sono più?

Perché, anziché sviluppare le energie alternative, si inventano di fare il nucleare. Perché in questo paese l'unico elemento che ormai c'è dappertutto, l’elemento di unità, è l'estensione dell'illegalità, ormai diventata un sistema.

Noi lo vogliamo combattere con un nuovo modello e dobbiamo anche dire che in nome della legalità, per avere dei soldi da reinvestire, bisogna anche ritirare le truppe dall'Afhganistan. E un fatto di democrazia, è un fatto centrale.

Ci sono altri due elementi.
Noi vogliamo che il lavoro torni ad essere davvero interesse generale di questo paese e vogliamo che le persone possano realizzarsi nel lavoro che fanno.
Ma per fare questo abbiamo bisogno di diritti e anche che sia possibile contrattare in fabbrica la loro condizione.

E infine, vedo due elementi di fondo. La democrazia è attaccata ad ogni livello: quella dell'informazione, dei giornali, della magistratura. Ma anche nelle fabbriche. Vedete... Perché esistono gli «accordi separati»? Semplicemente per un fatto.

Perché alle lavoratrici e ai lavoratori è impedito di poter votare e decidere sugli accordi che li riguardano. Per questa ragione, noi diciamo che serve una legge sulla democrazia, che dia questo diritto e sancisca che ogni accordo aziendale, nazionale, interconfederale, per essere valido, deve essere approvato dalla maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori.

Non può più essere che, se i sindacati son d'accordo tra loro, allora non c’è problema. Questo deve essere un diritto delle lavoratrici e dei lavoratori, perché questa è la condizione per poter ripristinare l'unità.

Vedete, l'unità sindacale è innanzitutto un diritto delle lavoratrici e dei lavoratori; la democrazia è la condizione per poterla rilanciare. E noi, da qui, lo proponiamo con forza: questa è la prima cosa da fare, questo è il primo terreno, se si vuole recuperare un elemento unitario.
E infine ­ voglio davvero concludere su questo. Ci pensavo mentre ascoltavo anche i compagni di Pomigliano e di Melfi.

Se oggi possiamo dire che è successa una cosa straordinaria, che c'è una novità in questo paese, che il lavoro è tornato al centro della discussione sociale e politica - lo dico sommessamente - non è semplicemente perché la Fiom ha detto «no» o la Cgil ha detto «no».

No. E' successo qualcosa di più. Perché se non c'erano i lavoratori di Pomigliano che votavano «no» a quell'accordo, se non dicevano che i diritti non si scambiano con l'occupazione, se non c'erano i tre delegati di Melfi che, di fronte alla Fiat che gli dice «vi faccio lavorare, però non ti metto in fabbrica» (e loro gli hanno risposto che non si fanno pagare dalla Fiat, vogliono lavorare)... Se non c'era questo scatto di dignità non c'era questa manifestazione.

Questo è l'elemento di novità che ci dà una speranza, che ci dà la forza, che ci dice che è possibile cambiare. Ma è proprio per questa ragione - e lo dico sommessamente - perché c'è questa piazza, perché c'è questa dignità, che noi abbiamo il dovere di continuare questa battaglia.

E penso che sia assolutamente necessario che nel continuarla si arrivi alla proclamazione dello sciopero generale di tutti i lavoratori nel nostro paese. Perché la democrazia e un nuovo modello di sviluppo non si costruiscono se non c’è la capacità di cambiare. Questo elemento ci dà la forza. Grazie davvero a tutti. Viva la Fiom, viva la Cgil, viva i lavoratori!!

Grazie a tutti.