giovedì 18 novembre 2010

Dopo quelli greci cominciano i saldi irlandesi...

Inizia oggi la missione a Dublino dei tecnici di Ue, Bce e Fmi per esaminare la situazione delle istituzioni finanziarie dell'Irlanda e avviare il negoziato su un eventuale piano di aiuti.

Secondo il governatore della banca centrale irlandese, Patrick Honohan, il prestito di Ue e Fmi potrebbe aggirarsi intorno ai 10 miliardi di euro, con un tasso d'interesse del 5% circa.

Ma il piano di salvataggio complessivo dovrebbe ammontare tra i 40 e i 90 miliardi di euro e farà schizzare il deficit di bilancio del Paese a un esplosivo 32,3% del Pil quest'anno, secondo l'Ocse. Il trattato di Maastricht fissa il rapporto deficit/Pil al 6%...

Intanto restano nell’occhio del ciclone anche Grecia e Portogallo. In particolare, i dubbi austriaci sull’opportunità di sbloccare la seconda tranche di prestiti ad Atene hanno fatto lievitare oggi il rischio di default di altri Paesi della zona euro ad alto rendimento.

Infatti i credit default swap (cds) della Grecia hanno fatto segnare ieri un rialzo di 88 punti base a quota 946, il massimo da giugno. In forte rialzo anche i cds di Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia. Insomma l'effetto domino è sempre possibile e l'Italia non ne è esente, checchè ne dica Tremonti.

Qui di seguito una serie di articoli che, partendo dalla crisi irlandese, spaziano poi sulla situazione più generale dell'Eurozona, a dir poco fragile. Come del resto ha confermato anche il presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy.

Voce dal sen fuggita?...


Nessuno è al sicuro
di Marcello Messori - Il Corriere della Sera - 17 Novembre 2010

L’affermazione del presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, secondo cui gli squilibri interni agli Stati- membri più fragili dell’Unione monetaria europea rischiano di compromettere la stabilità e la stessa esistenza dell’euro, può apparire eccessiva.

Essa ha però il merito di segnalare che la gravità delle tensioni, aperte dalla crisi greca della primavera scorsa e oggi riproposte dall’autunno della finanza irlandese e dalla vulnerabilità portoghese, non va misurata sui singoli e diversi casi nazionalima riguarda tutti i Paesi dell’area dell’euro.

È poco produttivo limitarsi a sottolineare che le gravi difficoltà della Grecia derivano dalle sconsiderate politiche di bilancio del recente passato o che l’Irlanda è sopraffatta dalla bancarotta di gruppi bancari troppo grandi per le dimensioni del Paese, illudendosi che la soluzione consista nella cura separata di ognuno di questi mali.

Ovviamente, una volta che l’incendio è scoppiato, l’intervento ad hoc dei vigili del fuoco diventa inevitabile. Si tratta però anche di riconoscere che l’area monetaria europea è ormai troppo integrata perché gli squilibri interni a uno Stato-membro non trovino una corrispondenza in un altro punto dell’Unione.

Così le banche tedesche e francesi sono vulnerabili al rischio di default greco e irlandese; e la competitività delle imprese tedesche o francesi sarebbe compromessa da un mercato interno europeo stagnante o — peggio — in disfacimento.

Il segnale, implicito nell’ammonimento di Van Rompuy, è pertanto che la vera soluzione alle tensioni europee consiste in un progressivo ma rapido rafforzamento delle politiche di bilancio pubblico.

Se si percorresse tale strada, peraltro già lambita con la riforma della vigilanza europea nei mercati finanziari e con il varo dei meccanismi di prevenzione delle crisi, alcuni degli incubi della signora Merkel e del signor Sarkozy si paleserebbero come falsi problemi.

In un’Unione monetaria con un grado crescente di integrazione fiscale, non avrebbe senso chiedersi se il salvataggio di uno Stato-membro in crisi debba comportare la «punizione» dei detentori privati dei relativi titoli pubblici o se il governo di uno Stato- membro in difficoltà possa rifiutare l’aiuto europeo fino a che non si trova sull’orlo del baratro.

Le difficoltà nazionali andrebbero, infatti, trattate come squilibri «locali» dell’area; e la ricerca di una loro realistica soluzione andrebbe assunta a livello europeo.

In quest’ottica, come prova il limitato ma decisivo utilizzo dei programmi pubblici disegnati dall’amministrazione Obama nella primavera del 2009, il fondo per la stabilità finanziaria dell’Unione Europea (stanziato con il Fondo monetario internazionale) sarebbe sufficiente a fronteggiare i focolai di tensione; e la sanzione più severa per chi governa gli Stati-membri all’origine di tali focolai sarebbe data dalla perdita di una quota di sovranità nazionale a favore di chi è virtuoso e può così esercitare una forte influenza sulle soluzioni europee.


La Ue? Potrebbe anche sbaraccare
di Federico Zamboni - www.ilribelle.com - 17 Novembre 2010

Confessione, probabilmente involontaria, del presidente dell’Unione Herman Van Rompuy: il futuro dell’Europa unita non dipende dalla politica ma dall’economia. Anzi, dalla finanza

Dirlo più chiaramente era impossibile: «se l’Eurozona non sopravviverà anche l’Unione non sopravviverà». Tanta chiarezza, che è cosa diversa dall’opportunità, proviene nientemeno che dal presidente della stessa Ue, Herman Van Rompuy.

Buttata lì come pendant di un’esortazione a cooperare nel tentativo di uscire dalle turbolenze finanziarie in corso («Dobbiamo lavorare tutti insieme per permettere all'Eurozona di sopravvivere») la frase è un vero e proprio epitaffio sulla favoletta del carattere eminentemente politico della stessa Ue.

Perciò, al di là di ogni altra considerazione sulle circostanze in cui è arrivata, andrebbe non solo impressa nella memoria collettiva ma anche scolpita, letteralmente, sulle facciate dei palazzi del potere europeo.

Solo per limitarci ai più importanti, il Parlamento a Bruxelles/Strasburgo e la Bce a Francoforte sul Meno. Nonché, già che ci siamo, le sedi dei Consigli dei ministri di ogni Stato membro.

E infine, passando dagli edifici in muratura a quelli in senso figurato, sul frontespizio del Trattato di Lisbona, o di ogni altro abbozzo (aborto) di Costituzione su scala continentale.

La questione è decisiva. Non c’è nessun primato della politica sull’economia, ma l’esatto contrario. La Ue non esiste allo scopo di diventare via via un’unica nazione, sia pure di tipo federale, ma solo per svolgere un’attività analoga a quella di un consorzio, ovviamente a responsabilità limitata.

Nella sostanza, perciò, le istituzioni “politiche” sono una gigantesca messinscena, con la quale si nasconde la natura economica delle relazioni reciproche. O, per meglio dire, dei rapporti di forza.

Ognuno rappresenta innanzitutto se stesso e si preoccupa prioritariamente del proprio tornaconto, piuttosto che mettersi al servizio di una volontà collettiva e di un destino comune.

Basterebbe pensare alla mancata unificazione dei tassi di interesse sul debito pubblico, per averne la più schiacciante riprova. Se lo scopo dell’euro, in quanto moneta unica, era creare un’area di stabilità sufficientemente vasta da escludere attacchi speculativi, la cosa più logica sarebbe stata fare altrettanto coi titoli di Stato dei diversi Paesi.

Una sola struttura di emissione, che acquisisse i fondi necessari sul mercato al medesimo tasso e che poi, in seconda battuta, li erogasse ai singoli beneficiari. Fine degli spread e, tendenzialmente, bilanci risanati più in fretta, visto che gli oneri sui nuovi finanziamenti sarebbero stati più bassi.

Peccato che fosse impossibile. Per due motivi estremamente precisi e pressoché insormontabili. Primo, i diversi governi non si fidavano, e continuano a non fidarsi, l’uno dell’altro.

Secondo, la finanza internazionale non lo avrebbe permesso, avendo un perenne bisogno di situazioni di instabilità – o anche solo di condizioni diversificate, come avviene passando da una Borsa all’altra – sulle quali lucrare.

Il paradosso dell’attuale corsa al riequilibrio dei conti pubblici, quindi, è inscritto in questa contraddizione di fondo. Il sistema non mira affatto a un vero, profondo e definitivo risanamento, ma solo a uno “squilibrio sostenibile”.

Il caso dell’Irlanda, che fa il paio con quello della Grecia, è esemplare: siccome è molto indebitata, la spingono a indebitarsi un altro po’.

L’importante non è eliminare le cause del dissesto, il che esigerebbe un ripensamento dell’intero assetto economico e sociale, ma scovare degli escamotage per dilazionare la resa dei conti.

Chi garantisce per l’Irlanda? L’Unione europea. E per il Portogallo? E per la Spagna? Ancora l’Unione europea, forse.

Sempre che trovi i soldi, magari chiedendoli al Fondo monetario internazionale. E sempre che continui a esistere.

Come ammonisce Van Rompuy, e come è prassi corrente in tema di consorzi tra imprese, le unioni si fanno e si disfano, a seconda di come vanno gli affari.


Dopo l'Irlanda, solo 2 euro possono salvare l'Ue
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 18 Novembre 2010

Eurolandia e tutta l’Unione europea stanno lottando per la loro stessa sopravvivenza. Scongelato in occasione del nuovo default in zona euro, il presidente permanente dell’Ue, lo sconosciuto Herman Van Rompuy, ha ammesso ciò che per almeno un anno tutte le istituzioni comunitarie hanno negato: ovvero che né l’unione monetaria, né l’Ue a 27 riusciranno a sopravvivere se non verranno risolti i problemi di bilancio di alcuni Paesi.

«Siamo di fronte a una crisi per la nostra sopravvivenza. Dobbiamo lavorare tutti insieme per permettere alla zona euro di sopravvivere. Infatti, se l’euro non sopravvive, neanche l’Unione europea sopravvive», ha concluso Van Rompuy prima di spargere un po’ di ottimismo da cerimonia: «Ho fiducia che supereremo questo momento».

Balle. L’Europa sarà costretta a corsi valutari differenziati per sopravvivere, un’area euro forte a guida tedesca e un’area euro2 - e forse euro3 - con i peccatori del debito legati a un peg fisso con la moneta di riferimento che di fatto replicherà il vecchio marco: Deutsche Bank lo scrisse in un report agli investitori già nel 2006.

Già, la Germania. Berlino, infatti, è ben felice di questo epilogo e lo si capisce dal suo comportamento: prima scatena un putiferio sui mercati parlando di taglio dei rendimenti obbligazionari per far pagare anche agli investitori privati i costi di futuri salvataggi e poi utilizza il suo ministro degli Esteri - si noti, non quello delle Finanze, che era di ritorno dal G20 di Seul - per smentire e tranquillizzare la comunità finanziaria.

Non poteva fare altro, d’altronde, visto che dopo la felice frase della Merkel, i mercati hanno chiesto l’8,92% d’interesse per detenere il bond decennale irlandese, lo stesso che ad agosto si negoziava al 4,89%: in soldoni, prima ha condannato l’Irlanda alla bancarotta e innescato il contagio a Portogallo e Spagna e poi si è travestita da pompiere con scarsi risultati, visto che dopo le frasi rassicuranti di Westerwelle il decennale irlandese è sceso dall’8,92% all’8,78%.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Semplice, invece di prendere atto che quella scatenatasi nel 2008 era una crisi di insolvenza degli speculatori e delle grandi banche d’affari, si è deciso di diagnosticare il male come crisi di liquidità. Detto fatto, gli Stati hanno trasfuso liquidità in gran fretta e con enormi volumi alle banche, a tasso praticamente zero.

Il perché di questa scelta era semplice: quei soldi creati a spese dei contribuenti futuri, le banche li avrebbero distribuiti alle imprese e alle famiglie sotto forma di nuovi crediti, mutui, fidi. Guadagnandoci su e rimettendo in moto l’economia a credito.

Peccato che non sia andata così: a causa della recessione, le banche e la finanza hanno capito che famiglie e le imprese non erano in grado di rimborsare e tantomeno chiedevano di fare altri debiti. Perciò hanno parcheggiato quei fiumi di denaro presso le Banche Centrali o acquistato titoli di Stato.

Peccato che gli Stati si siano indebitati fino ai capelli per dare liquidità alle banche - divenendo garanti della loro solvibilità - mentre le entrate tributarie degli Stati calavano a causa della recessione, i tassi richiesti dai mercati sui debiti pubblici continuavano a salire, mentre il valore dei prestiti delle banche agli Stati calava. È stato così per il Club Med, ma anche per i paesi Baltici e, buon’ultima, l’Irlanda.

Il portafoglio delle banche perdeva, costringendole a ricapitalizzarsi o a farsi salvare come nel caso di Anglo Irish Bank. Un circolo vizioso: le banche s’indebolivano perché avevano le casse piene di titoli di debiti di Stato che perdevano valore, questo perché gli Stati si erano indeboliti per salvare le banche.

Ecco quindi il salvataggio della Grecia e la corsa degli investitori alle obbligazioni dei cosiddetti periferici, capaci di pagare rendimenti faraonici e con la garanzia di non default implicitamente fornita dall’Ue. Insomma, l’Ue ha azzerato il rischio di mercato per i bond sovrani: alla faccia della lotta alla speculazione!

Con l’approssimarsi della crisi irlandese, giunge l’uscita di Angela Merkel: «Alla prossima crisi di tipo greco, i detentori dei Buoni del Tesoro devono essere parte della soluzione anziché del problema».

E i tedeschi, affiancati da Nicolas Sarkozy, cominciano a parlare, in caso di crisi in Portogallo, Irlanda o Spagna, di procedure di fallimento ordinato, di riscaglionamento del debito, di ristrutturazione, di scrematura dei detentori privati dei titoli di quel debito. Ovvero, scordatevi che l’Europa vi ripaghi a scadenza il 100%, dopo 10 anni in cui lucrate sugli interessi.

In caso di default sovrano, ci sarà una procedura fallimentare e sarete chiamati a pagare la vostra parte come creditori di un fallito: del bond portoghese a valore facciale 100, vi sarà restituito 70. Oppure 50. O 30. Oppure il decennale diventerà trentennale oppure ancora il pagamento del capitale sarà sospeso e riceverete solo gli interessi.

Idea non sbagliata, ancorché ontologicamente antimercatista, peccato il timing sospetto o idiota (propendo per la prima ipotesi). L’anno prossimo, infatti, gli stati dell’eurozona dovranno emettere 915 miliardi di nuovi debiti o rinnovarli: e si sa a quale prezzo, già oggi, i mercati siano disposti a detenere quei debiti giganteschi.

Quindi, se non si vogliono aste deserte - e quindi altri default a catena per mancanza di rifinanziamento sovrano - toccherà pagare rendimenti ancora più stellari, altrimenti arrivederci e grazie, la speculazione si butterà altrove: molto probabilmente sulle commodities, prezzate in dollari, visti i rischi colletarali connessi alla politica della Fed (non a caso tra le voci più preoccupate per la nuova crisi nell’eurozona - e il conseguente calo dell’euro sul dollaro - si è immediatamente registrata quella di Tim Geithner, segretario al Tesoro Usa). Tutto qui, l’immenso vespaio in cui ci stiamo muovendo si spiega con queste poche righe.

Quale futuro, quindi? La domanda da porsi, d’ora in poi, è una sola: who’s next? Ovvero, chi sarà il prossimo a crollare sotto deficit e debito? Prima è stata la Grecia, ora l’Irlanda, domani toccherà al Portogallo e poi alla Spagna: state certi che ora ricominceranno i peana anti-speculazione, facile scappatoia per le cancellerie europee per evitare di finire sul banco degli imputati.

È l’euro, la moneta unica, a essersi trasformato in una macchina per bancarotte, per questo quando i mercati avranno finito con Dublino, toccherà a Lisbona, poi a Madrid e dopo a Roma e Parigi. C’è un effetto domino in atto e, a ogni salvataggio, le linee di fallimento all’interno dell’euro si allargheranno sempre di più: questa crisi sarà “spacca-euro”.

Anche perché la crisi irlandese sarà molto più seria di quella greca per la moneta unica: serviranno infatti decine di miliardi di euro per far riconquistare all’Irlanda la fiducia dei mercati e nessuno può dirsi certo del fatto che gli altri membri siano disposti a pagare il prezzo politico interno di questa opzione.

Inoltre, la Grecia è stata fatta entrare nell’euro quando non si doveva e, una volta fatto l’errore, bisognava imporle riforme oppure andava espulsa e legata a un peg fisso. Per l’Irlanda la questione è differente, visto che Dublino ha rappresentato una delle economie più performanti e di successo al mondo negli ultimi quindici anni e quando la crisi ha colpito il governo è intervenuto - non ha nascosto lo sporco sotto il tappeto come i greci - ponendo in essere misure di austerity senza chiedere un euro all’esterno.

In parole povere, quindi, il problema non è l’Irlanda, ma l’euro così come è stato concepito e introdotto ed è per questo che la crisi non si fermerà qui: è la moneta unica, questa moneta unica, la radice della crisi.

Quindi, prepariamoci a vedere Lisbona (deficit al 9,3% del Pil nel 2009) seguire le orme di Dublino e poi Madrid (deficit di budget al 9,3% quest’anno, il secondo più alto dell’eurozona) subire il contagio lusitano. Ma, a questo punto e seguendo questa logica, perché non mettere nel mirino anche l’Italia?

Dal radar dei mercati, in effetti, non siamo mai usciti, anche perché nonostante il sistema bancario stia meglio che altrove, la spesa pubblica allegra del passato ci ha lasciato con uno stock di debito allucinante e da un decennio a questa parte conosciamo una crescita economica risibile, 149ma al mondo prima soltanto di Haiti.

La Francia, poi, è sì economicamente più forte dei periferici e con un solido sistema industriale, ma con il suo stato sociale di welfare elefantiaco, non potrà restare fuori dal mirino per sempre in caso di default a catena nell’eurozona: persino i greci hanno mostrato maggior propensione alle riforme dei francesi, capaci di paralizzare un paese intero per una riforma delle pensioni decisamente blanda.

Per Morgan Stanley, in una nota agli investitori, «il Portogallo si trova ad affrontare carenze strutturali mentre in Grecia l’argomento chiave è l’indisciplina fiscale. La Spagna, poi, paga lo scoppio della bolla immobiliare dovuto all’accesso di credito, un po’ come l’Irlanda ma accoppiata a un settore bancario gigantesco».

In ogni singolo paese sarà una causa scatenante diversa a innescare un collasso nella fiducia finanziaria, mentre la causa seminale resta la stessa: l’euro.

Quando fu introdotta, la moneta unica fu una grande scommessa poiché fece condividere la medesima valuta a un gruppo di economie molto differenti tra loro e anche perché consentì alla Bce di operare una singola politica monetaria per tutti.

Fu una sfida affascinante ma è fallita. O, almeno, si sta rivelando sbagliata, visto che le economie europee sono troppo differenti per essere gestite da un’unica banca centrale e la ratio dei tassi d’interesse lo dimostra.

La stessa politica, infatti, si è sostanziata in una crisi fiscale in Grecia, un collasso bancario in Irlanda, una bolla immobiliare in Spagna e in un enorme surplus commerciale in Germania: un capolavoro assoluto!

La crisi, quindi, rischia di continuare a trasferirsi da un paese all’altro, l’unico modo per fissare permanentemente la situazione è la divisione dell’euro in aree valutarie differenti, omogenee e più facilmente gestibili.

Fino a quando l’Ue e i vari leader europei non capiranno questa semplice ancorché scomoda verità: ogni salvataggio che approveranno non sortirà altro effetto che spostare gli attacchi altrove.

Un domino, potenzialmente mortale. Non è un caso che, nonostante l’Ecofin abbia sostanzialmente detto che l’Irlanda non sarà lasciata fallire, ieri i cds di Dublino abbiano registrato un +7% a quota 526 punti base, quelli greci +9,28% a quota 937, quelli spagnoli un +6,28% a quota 264 punti base, quelli portoghesi +6,23% a quota 433 e quelli italiani un +1,44% a quota 191 punti base. Per ora reggiamo, ma per quanto ancora? Who’s next?

P.S. Il fatto che i principali hedge funds stiano scommettendo short sull’euro, preventivando un calo fino a quota 1,30-1,29 sul dollaro entro fine novembre, parla molto chiaro.


L'allarme di Van Rompuy rovina i piani di Irlanda e Germania

di Marco Fortis - www.ilsussidiario.net - 17 Novembre 2010

“La zona euro e l’Unione Europea non sopravviveranno se i problemi di debito di alcuni Paesi non saranno risolti”. Queste le parole forti pronunciate ieri dal presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy mentre la situazione finanziaria di Irlanda e Portogallo rischia di scatenare una crisi simile a quella vissuta la scorsa primavera, quando, per colpa della Grecia, l’euro era finito nel mirino della grande speculazione. Una situazione assolutamente da evitare, come ci spiega l’economista Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison.

Professore, come vanno valutate le parole di Van Rompuy?

È indubbio che alcuni paesi, in particolare Grecia, Irlanda e Portogallo, debbano sistemare la propria situazione finanziaria. Fortunatamente si tratta di tre paesi che rappresentano, in termini di popolazione e di ricchezza, una piccola parte dell’Europa.

Tuttavia, se questi paesi “periferici” vengono lasciati al loro destino, l’intera Europa può risentirne. Il forte messaggio (come è giusto che sia in questi momenti) di Van Rompuy si inserisce in questo contesto.

Secondo lei a chi era rivolto questo messaggio?

Da una parte ai paesi direttamente coinvolti. In particolare all’Irlanda, i cui vertici politici hanno dichiarato di voler risolvere la situazione da soli. Il problema è che se il paese ha una “malattia” grave deve decidersi a entrare in sala operatoria a farsi operare e non sperare di curarsi con la medicina omeopatica.

Dall’altra parte, il messaggio è rivolto ai “big” dell’Europa: è stato varato, anche se deve essere perfezionato, un fondo europeo per il sostegno ai paesi in difficoltà. Questo fondo deve essere attivato il prima possibile, altrimenti avremo un danno all’euro e alla stessa integrità dell’Unione Europea.

Quanto è grave la situazione dell’Irlanda rispetto a quella della Grecia?

La Grecia ha rappresentato un caso eclatante di crescita del debito pubblico non monitorata e comunicata in maniera non trasparente (proprio lunedì abbiamo scoperto che il debito era al 126,8% del Pil nel 2009 e non al 116% come si diceva).

L’Irlanda, invece, con il debito pubblico sta pagando una discesa del Pil causata dalla fine della bolla immobiliare e il fallimento del proprio sistema bancario, che ha accumulato perdite per oltre 85 miliardi di euro, una cifra superiore alla metà del proprio Pil. Se non si interviene presto è facile che rivedremo presto i fuochi speculativi già visti in primavera.

Non c’è il rischio che le dichiarazioni di Van Rompuy possano attirare gli speculatori?

Gli speculatori internazionali non si lasciano influenzare dalle dichiarazioni dei politici, conoscono bene i conti e si muovono in base a essi. Di fatto è in atto un braccio di ferro tra l’Europa, che deve dare un segnale forte di coesione e compattezza, e gli speculatori, che mirano a inserirsi negli elementi di disgregazione dell’Europa per realizzare profitti. Bisogna evitare quindi che l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna, dopo la Grecia, vengano presi di mira se non vogliamo pregiudicare il progetto europeo.

Cosa bisognerebbe fare allora?

L’Europa deve dare un segnale molto chiaro alla speculazione internazionale facendo partire il piano di sostegno ai paesi in difficoltà. Se non viene comunicata una strategia chiara, univoca, la speculazione attaccherà prima un paese e poi un altro e indebolirà l’euro. Se questo può farci gioco sul piano delle esportazioni, una crisi strutturale dell’euro sarebbe invece molto grave.

Prima ha parlato di Grecia e Irlanda, qual è, invece, la situazione di Portogallo e Spagna?

In Portogallo c’è una scarsa ricchezza privata, accompagnata da un aumento del debito pubblico combinato con una bassa crescita del Pil. La Spagna non vive un periodo particolarmente felice, ma c’è da augurarsi che la sua situazione, come nei fatti è, continui a essere meno complessa e grave di quella di Grecia, Irlanda e Portogallo.

E l’Italia?

La situazione italiana è molto diversa. Il nostro paese potrebbe avere difficoltà nel caso in cui la percezione psicologica di sicurezza sulla tenuta dell’Europa si aggravasse: solo a quel punto la speculazione potrebbe interessare anche i nostri titoli di stato.

La stabilità finanziaria di un paese, infatti, non si può analizzare solo attraverso il debito pubblico, il Pil e il rapporto tra queste due entità. Basti pensare che fino a tre anni fa l’Irlanda aveva un debito pubblico al 25% del Pil, con quest’ultimo in crescita del 4% l’anno.

Se si fosse guardato all’indebitamento delle famiglie e agli attivi patrimoniali delle banche, si sarebbe vista già una situazione diversa. Sono questi parametri, infatti, a determinare la solvibilità complessiva di un paese, e in questo senso noi stiamo meglio della Germania, dato che il suo debito pubblico rispetto alla ricchezza delle famiglie è più alto del nostro.

A proposito di Germania, la leadership europea è nelle sue mani, ma già con la Grecia si è mostrata restia a concedere aiuti. Questo può essere un problema anche nel contesto attuale.

Credo sia ingannevole pensare che la Germania possa essere la locomotiva dell’economia europea od occidentale e forse i tedeschi stessi si stanno illudendo di essere più forti di quel che sono. La forza della Germania deriva dal suo essere in Europa. A Berlino dovrebbero essere un po’ più umili e capire che le differenze con Francia e Italia non sono così abissali come si pensa.

Soltanto ripartendo da una posizione coesa tra i tre più grandi paesi che l’hanno fondata (Germania, Francia e Italia appunto) e con una politica in cui si cerca di evitare che i paesi periferici falliscano e in cui si difende l’euro, che è un patrimonio comune, l’Europa può sperare di rimanere una potenza mondiale. Altrimenti, a comandare saranno la Cina e i paesi emergenti; nemmeno più gli Usa che stanno andando alla deriva.

Che ruolo può avere, invece, la Bce?

Già negli ultimi mesi, seppur in maniera non ufficiale, la Bce ha messo in atto interventi di acquisto di titoli di stato dei paesi periferici. Penso continuerà a farlo per tamponare le falle. La Bce può quindi certamente giocare un ruolo, ma è più importante che ci sia un chiaro messaggio politico dei grandi protagonisti europei. Solo cooperazioni rafforzate tra i paesi chiave possono dare la risposta che occorre.


La crisi del debito irlandese colpisce le banche italiane

di Vittorio Malagutti - www.ilfattoquotidiano.it - 17 Novembre 2010

Male in Borsa gli istituti che hanno investito nei titoli di Stato per gonfiare gli utili in tempo di crisi

L’Irlanda sull’orlo del crack. La Grecia, scampata di poco alla bancarotta, che non risce a rimettere ordine nei suoi conti. Mentre il Portogallo è costretto a lanciare l’allarme sul suo bilancio pubblico. Insomma, è notte fonda sull’Euro e sull’Europa. E certo non aiutano a smorzare la tensione le parole pronunciate ieri dal presidente Ue, Herman Van Rompuy.

“I problemi di bilancio di alcuni Paesi potrebbero mettere a rischio la stessa sopravvivenza dell’euro”, ha dichiarato van Rompuy alla vigilia dell’importantissimo vertice Ecofin, la riunione dei ministri delle Finanze dei 27 Paesi membri, in programma oggi. Il problema è quello bilancio pubblico irlandese, a rischio default soprattutto a causa dei conti dissestati delle sue principali banche.

A questo punto l’ipotesi in discussione è quella di un’iniezione di liquidità a favore del governo di Dublino gestita dalla Ue. Obiettivo finale: far fronte a una ricapitalizzazione degli istituti di credito in difficoltà. I tedeschi però frenano, mentre i politici irlandesi tentano di sottrarsi alle misure di austerità che sarebbero imposte da Bruxelles in cambio degli aiuti.

Si vedrà, forse già oggi. In Borsa però sanno bene che anche il Portogallo se la passa male e la Grecia è tutt’altro che fuori pericolo. Ma l’effetto domino finisce per colpire anche Spagna e Italia, percepiti come paesi a rischio.

Ed ecco che il rinnovato allarme sul debito sovrano innesca un’ondata di ribassi che si concentra in particolare sui titoli finanziari. Innanzitutto le banche, quindi, che perdono terreno a Madrid, come a Parigi e Francoforte. E ovviamente anche a Milano.

Dopo i pesanti ribassi di ieri, i titoli degli istituti più importanti oggi in Borsa hanno aperto la seduta con rialzi marginali, quasi sempre inferiori all’1 per cento. Come dire che gli investitori, già pessimisti in partenza sul nostro sistema bancario, adesso che trema l’euro si fidano ancora meno.

L’esposizione di queste banche verso i Paesi nella bufera, (Irlanda, Portogallo e Grecia) non sembra al momento allarmante. Intesa a giugno (ultimo dato disponibile) aveva in portafoglio titoli greci per 650 milioni, su attività complessive per decine di miliardi.

Il rischio Irlanda del Monte Paschi supera di poco i 180 milioni, mentre il Banco Popolare nei conti semestrali ha dichiarato bond greci per 83 milioni.

Non sono questi però i numeri che mettono in allarme analisti e investitori. Il fatto è che le banche nostrane da un anno e più stanno acquistando titoli di stato italiani in misura molto superiore al passato.

Semplificando al massimo si può dire che i banchieri risparmiano sui crediti alla clientela per accumulare attività finanziarie, in gran parte obbligazioni pubbliche relativamente sicure e a rendimento elevato. Quello che ci vuole per dare una spinta ai profitti in una fase di magra, a dir poco, dell’attività tradizionale.

Qualche esempio. A fine settembre Intesa dichiarava attività finanziarie per 188 miliardi, quasi il 20 per cento in più di fine 2009. Le attività negoziabili del Monte dei Paschi, per la maggior pate costituite da titoli pubblici, sono aumentate da 38 a 54 miliardi nei primi nove mesi di quest’anno.

Tutto bene, se non fosse che le turbolenze sui mercati finanziari hanno cambiato le carte in tavola. Se c’è bufera sull’euro, se Irlanda e Grecia temono il crac, anche il rischio Italia aumenta, come dimostra l’aumento a livelli record del differenziale di rendimento tra i Btp italiani e i bund tedeschi. Risultato finale: calano le quotazioni dei titoli di stato italiani, proprio quelli di cui hanno fatto incetta gli istituti di credito.

In teoria, quindi, c’è la possibilità concreta che le banche siano costrette a svalutare i loro attivi per allinearli alle nuove quotazioni. Va detto che i manager bancari dispongono di margini di manovra piuttosto ampi nella classificazione contabile dei titoli proprio per evitare pesanti perdite provocate dall’adeguamento ai prezzi di mercato.

A ben guardare però dai bilanci emerge già qualche dato negativo. Nella semestrale aggiornata a giugno, il Monte dei Paschi segnalava che il patrimonio netto del gruppo si era ridotto di 881 milioni per effetto della svalutazione di titoli di stato italiani.

E l’effetto negativo è proseguito anche nei mesi estivi se è vero, come risulta dalla relazione trimestrale di settembre, che l’apposita riserva da valutazione si è ridotta di altri 70 milioni circa.

Anche nei conti di Intesa questa stessa riserva ha perso circa 180 milioni in nove mesi a causa della svalutazione di titoli in portafoglio. Sono perdite consistenti, ma non drammatiche. Almeno per adesso.

Nel frattempo però la Banca d’Italia ha lanciato un salvagente agli istituti. Un provvedimento ad hoc varato a maggio stabilisce che le minusvalenze sui titoli di Stato dell’area Ue non vanno detratte dal patrimonio di vigilanza, il parametro utilizzato per misurare la solidità dei bilanci. Un aiutino che al momento vale decine di milioni per le banche principali.