giovedì 11 novembre 2010

Un altro G20 se ne va, la crisi invece resta

Mentre è in corso in queste ore il G20 a Seul, si fa sempre più concreta la possibilità di un prossimo default dell'Irlanda, sulla scia di quello greco.

Ma in fatto di debito è risaputo che anche gli Usa e la Gran Bretagna sono messi male. Molto male.

Insomma anche questo G20, che si preannuncia piuttosto teso, si concluderà con un nulla di fatto.

E la crisi economica globale avanza imperterrita.



L'impero di carta
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 12 Novembre 2010

Sono state diverse, ultimamente, le giornate difficili per i mercati. Piazza Affari di umore nero, perde nettamente più delle altre Borse continentali, complici alcuni spunti negativi e la debacle del comparto bancario, afflitto da alcune trimestrali non entusiasmanti e da rinnovati timori sul debito sovrano di alcuni paesi periferici.

L'indice Ftse Mib cede il 2,41%, l'All Share il 2,15%. Ad innescare nuovamente la speculazione è la sua eccezionale redditività: sparare a zero sugli Stati e scommettere sul disastro è troppo vantaggioso. Chi può specula e vince, mentre il resto del mondo assiste impotente a questo gioco al massacro.

La storia è sempre la stessa: i mercati sono stati scoraggiati dalla speculazione sui titoli di Stato di alcuni paesi il cui debito pubblico è considerato troppo alto, come Portogallo, Grecia e Irlanda. A contribuire al clima da fine impero sono le politiche monetarie statunitensi. Le parole, infatti, sono importanti, soprattutto quando a pronunciarle sono i banchieri centrali.

La Federal Reserve americana ha deciso mercoledì 3 novembre di dare il via alla seconda ondata di “ quantitative easing". Il termine - di origine ovviamente anglosassone - si traduce in italiano con alleggerimento quantitativo ed indica la creazione di moneta da parte della banca centrale e la sua iniezione, con operazioni di mercato aperto, cioè effettuate direttamente in borsa, nel sistema finanziario ed economico.

È essenzialmente il processo attraverso il quale un istituto monetario aumenta la base monetaria attraverso la stampa (termine non esatto, dato che oggi l'immissione avviene in forma elettronica) di nuova moneta. I tecnocrati la considerano una politica monetaria non convenzionale.

Nella realtà l’operazione rende esplicito il problema del cosiddetto reddito monetario, ossia il guadagno che un istituto autorizzato per legge ad emettere moneta può ottenere dalla mera stampa di banconote.

L'espressione, all'apparenza freddamente scientifica, nasconde l'ultima mossa disperata dell’establishment americano: la Fed comprerà i titoli del debito pubblico americano semplicemente stampando denaro, ossia attraverso lo sfruttamento grossolano del cosiddetto signoraggio bancario.

Gli Stati Uniti potranno così mantenere il rapporto deficit/Pil al 13% (superiore a quello della Grecia) confidando nel fatto di potersi comunque indebitare a bassi tassi attraverso l'emissione di obbligazioni.

Perché ci sarà sempre la Federal Reserve pronta a comprare. Non viene creata ricchezza con la produzione industriale, con l'edilizia o la fornitura di servizi. Si crea solo moneta per comprare debito.

Un debito che non avrebbe ragione d’esistere se l’istituto di emissione fosse controllato dallo stesso governo, ma di questo problema si è già discusso in abbondanza e non interessa qui riaprire la questione.

Ciò che invece è opportuno sottolineare è che la Federal Reserve aveva già acquistato 1700 miliardi di dollari in titoli immettendo nel sistema altrettanta liquidità e si appresta ora a comprarne altri per un valore pari a 600 miliardi di dollari. Se ne deduce che in meno di tre anni negli USA si è stampato denaro per un ammontare superiore al Pil dell'Italia nell’anno contabile 2010.

Una creazione di moneta che non ha precedenti nella storia, una misura "unconventional” come dice con un eufemismo il presidente della Fed Ben Bernake. La verità è che una simile misura non è mai stata testata e gli effetti che provocherà sono tutti da verificare. La cavia ovviamente siamo noi, le economie del resto del mondo.

Per ora la stampa eccessiva di biglietti verdi ha già portato il dollaro ai minimi rispetto alle altre valute, compreso l'euro. Sulla scacchiera i vari giocatori preparano le loro contromisure. La Corea del Sud si appresta a seguire Thailandia e Brasile nell'introduzione di misure che contengano il forte afflusso di moneta americana verso il proprio paese, cosa che provoca una valorizzazione eccessiva delle monete nazionali. I paesi emergenti sono in subbuglio.

Nella prima intervista pubblica, la neo eletta presidentessa brasiliana, Dilma Rousseff, ha detto quanto da molti pensato: "Non possiamo pensare che gli Stati Uniti facciano pagare i loro problemi a tutto il mondo attraverso la svalutazione del dollaro".

Il prossimo G20 a Seul si annuncia dunque tempestoso, preludio di un ritorno a misure protezionistiche dagli esiti imprevedibili. L'Europa per il momento tace. Gli economisti tedeschi e inglesi sono molto più preoccupati dell'inflazione che questa massa di denaro può provocare piuttosto che dell'impatto immediato sui tassi di cambio.

Germania e Inghilterra hanno infatti inaugurato l'era dell'austerità estrema: hanno la fondata paura che questa massa incredibile di cartamoneta che si sta riversando nell'economia mondiale possa causare uno tsumami finanziario senza precedenti, che potrebbe scuotere dalle fondamenta la fiducia non solo nei governi ma nel sistema internazionale monetario.

E’ dunque proprio per questo motivo che i tedeschi vogliono far passare a Bruxelles il principio che se un paese chiede un aiuto finanziario, i detentori dei titoli obbligazionari di quel paese "devono sopportare un sacrificio". Il riferimento alla Grecia è fin troppo esplicito: tutti sanno che nei prossimi tre anni il governo di Atene sarà costretto a ristrutturare il proprio debito e la Germania non intende offrire una garanzia in bianco ai creditori.

Inutile dire che nel giro di poche ore i titoli di Stato greci hanno perso il 20% del loro valore, ricacciando Atene nella quasi certezza del declino finanziario finale. L’Irlanda non gode di una salute molto migliore e deve pagare ai propri creditori un tasso quattro volte maggiore di quello tedesco, seguita a ruota dal Portogallo.

Ma fino a quando questa situazione sarà sostenibile? I più pessimisti ritengono che fra poco più di un anno si vedranno gli effetti di queste politiche monetarie a dir poco spericolate e che ci troveremo di nuovo al centro della tempesta perfetta: crisi della fiducia negli stati, crisi della fiducia nella moneta ed inflazione alle stelle.

Insomma sembra già di sentire le sette trombe dell’apocalisse. Non sappiamo però se questo succederà davvero, ma il semplice rischio della catastrofe dovrebbe essere sufficiente per osservare più attentamente le politiche economiche di tedeschi e inglesi che, a differenza di altri, stanno prendendo la situazione molto sul serio.

E noi? L'Italia come sempre è ferma. In questo momento siamo bloccati sulla manovra finanziaria di luglio che appare sempre più insufficiente e inadeguata a fronteggiare i rischi che ci riserva il futuro.

Il ministro dell'economia Giulio Tremonti, per ora, sembra non poter fare altro che arginare le richieste di spesa che gli arrivano dai colleghi di governo. Purtroppo per noi sembra non riesca neanche a delineare un piano strutturale che metta definitivamente al sicuro i nostri conti pubblici e ci preservi dai "rischi fatali" - per citare un suo libro di qualche anno fa - della globalizzazione economica e finanziaria.

Appare semmai più preoccupato dell’ombra di Draghi, le cui proposte di regolarizzazione dei precari e di rilancio della domanda interna vengono insultate dal ministro con la proverbiale stizza da ragioniere isterico che lo contraddistingue.

L'inevitabilità della catastrofe la si può osservare cristallizzata nell'esito delle elezioni di medio termine recentemente perse dalla Presidente Obama. Con quel voto gli americani hanno lanciato al mondo il messaggio peggiore che potessero lanciare.

Quello che ci comunicano è che loro vogliono continuare a fare come hanno sempre fatto e che non sono disposti ad indietreggiare dalla loro posizione di dominazione e dunque accettare una loro diversa collocazione nel mondo.

Gli americani vogliono cioè continuare a scaricare i loro problemi sulle spalle del resto del pianeta, ma quello che l'America vuole non lo può più ottenere e questo, semplicemente, perché non sono più il centro del mondo.

La grande questione aperta rimane questa: chi riuscirà a far capire agli americani che non è più possibile continuare su questa strada? L’impero sta raschiando il fondo del barile.


Quantitative easing for dummies &...
di Pietro Cambi - http://crisis.blogosfere.it - 11 Novembre 2010

Se c'era bisogno di una qualche conferma che la ripresa non c'e', che nonostante le migliaia di miliardi di dollari ed euro pompate nel sistema finanziario non vi siano particolari segni di una inversione di tendenza REALE, cioè non basata su artifici finanziari e su imbellettamenti contabili, questa è arrivata dalla decisione di dare seguito al più massiccio quantitative easing della storia degli Stati Uniti D'America e dell'umanità.

Se ne parlava da mesi, la borsa era tutta proiettata sulla spasmodica attesa di questa mano santa ( o mammasantissima, fa lo stesso). I massimi dirigenti dei grandi istituti finanziari, prima ancora di poterci mettere le mani, già se ne spartivano le spoglie, destinandosi super incentivi e mega bonus, da mesi.

Alla fine è arrivato il momento tanto atteso, senza particolare clamore, dato che tutto era già stato previsto e calcolato o, come si dice in gergo borsistico, "scontato".

Ma cosa è, esattamente, 'sto maledetto e dannatissimo "quantitative easing"?

Se dovessimo usare la definizione standard si tratta di " creazione di moneta da parte della banca centrale a cui segue la sua iniezione, con operazioni di mercato aperto, nel sistema finanziario ed economico."

Sufficientemente, chiaro, no?

Siccome quest post è dedicato ai dummies, come il sottoscritto, sarà bene semplificare ancora e, già che ci siamo, dirla tutta tutta.

Siccome il sistema boccheggia e le industrie non investono e l'occupazione, di conseguenza non aumenta, Bernanke,ha seguito la falsariga dell'impagabile Greenspan.

Anzichè chiedersi come dare stimoli reali, ad esempio rendendo remunerative ed interessanti nuove attività, nel settore delle rinnovabili, della sostenibilità, dell'efficienza energetica, dei trasporti collettivi, in un'ottica vetero/cieco liberale si preferisce rendere il denaro poco, pochissimo, costoso, regalandolo, in pratica (il tasso di interesse zero è già stato raggiunto), alle banche, dopo averlo stampato per l'occasione. A molti commentatori la cosa non pare sensata, ma tant'é.

La speranza, vana, come sappiamo e sapevamo, è che le banche anzichè dilapidare detto denaro in megabonus, lo eroghino a tassi altrettanto bassi alle imprese che cosi investirebbero, facendo ripartire, d'embleu, l'economia tutta.

E' un pensiero di tipo mistico, irrazionale, un cargo cult (grazie Debora) che si scontra brutalmente con la realtà di strutture industriali ed economiche pesantemente sovradimensionate rispetto alle capacità del mercato.

Ancora più semplicemente: le imprese ci pensano tre volte prima di fare nuovi investimenti e le banche ci pensano sei volte prima di concederli, comunque a tassi scoraggianti.

Il tutto è ovvio, detto, ridetto, ma non ferma la macchina. Sapendo fare solo quello, non cercano di chiedersi se sia il caso di imparare a fare qualcos'altro e ciecamente insistono.

In questo sono stimolati dall'idea che l'inflazione generata dalla stampa di bigliettoni possa pareggiare i conti con la tendenza deflazionistica del mercato, questa da solo essendo un sintomo evidente che non vi è alcuna ripresa reale dell'economia materiale.

Ovviamente la cosa non può funzionare in questo modo "Poggi e buhe e' fanno pari" si dice dalle mie parti. Ma non in questo caso.

Quando si stampano bigliettoni per iniettare liquidità nel sistema si da un segnale chiaro che i bigliettoni in arrivo dall'estero non bastano più, vuoi perchè il puzzo di bruciato ha attraversato gli oceani vuoi perchè, con i tassi di interesse in crollo verticale, non è per niente interessante investire in dollari e/o in bonds.

QUINDI, orfano, in misura crescente, di investitori cinesi, indiani, sudcoreani, giappponesi ed europei, anche lo Stato USA è in clamorosa crisi di liquidità e non sa più come finanziare un buco che sta superando il 30% del bilancio federale.

QUINDI un bel poco/la maggior parte del quantitative easing va a tappare i buchi del bilancio governativo, prevalentemente generato dai piani di salvataggio degli istituti finanziari e non delle imprese e dei cittadini ( sanità...), notare bene, con la Fed che compra bond ( ovvero pagherò) dal Governo centrale, in cambio di pezzi di carta (virtuali) stampati per l'occasione.

Per dirla con un linguaggio terra-terra, ma passabilmente aderente alla realtà, gli stessi (o altri) pezzi di carta (virtuali) vengono poi girati, a "costo zero" alle banche.

Non so se cogliete anche voialtri dummies come il sottoscritto la follia di una ipoteca/scommessa insostenibile del genere. Al livello attuale di crescita del giochino, per ogni anno giocato al 30% di deficit ci vogliono dieci anni di crescita al 3%, tanto per dire, per ripagarlo o almeno far finta di farlo con qualche chance di essere creduti.

Ancora una volta assistiamo alla distruzione incontrollata/incontrollabile ma non inconsapevole, del futuro dei cittadini di una nazione, la più grande del mondo in questo caso, sacrificato con una efficienza inferiore al 10%, per garantire ancora qualche mese o anno di business as usual o della sua rappresentazione mediatica.

Non vorre essere ripetitivo ma, indovina indovinello, vi è una sola via d'uscita da questa situazione senza vie d'uscita.

Si chiama..uh beh, portate pazienza, è la fissa del momento...backlash economy.



Sulla testa del Regno Unito un debito da 16 trilioni di dollari
di Matteo Cavallito - www.ilfattoquotidiano.it - 10 Novembre 2010

Secondo l’advisor PwC il debito anglosassone è una bomba a orologeria e potrebbe smorzare la crisi del Paese per decenni

John Hawksworth, capo economista della PricewaterhouseCoopers (PwC), la più importante società di consulenza del mondo, ha parlato senza eufemismi di “bomba ad orologeria” e, dati alla mano, non avrebbe potuto scegliere un’immagine migliore.

Perché quello su cui poggia il sistema economico britannico è un ordigno di enorme potenza destinato ad esplodere quando le condizioni di credito (leggasi tassi di interesse) finiranno inevitabilmente per peggiorare.

Entro il 2015, ha rivelato in questi giorni la stessa PwC, il debito complessivo dell’economia del Regno Unito sfonderà la terrificante quota di 10 trilioni (diecimila miliardi) di sterline. Al cambio attuale fa 16 mila miliardi di dollari, quattro volte il Pil del Giappone. Un valore superiore a quello dell’intera economia dell’Ue o degli Stati Uniti.

Il rapporto PwC, i cui contenuti sono stati ripresi dalla stampa britannica, punta il dito sull’indebitamento complessivo del Paese prendendo in considerazione tutte le esposizioni del sistema: dal debito sovrano (ad oggi di gran lunga la voce meno preoccupante) a quello delle famiglie passando per quelli, estremamente onerosi, delle imprese e delle società finanziarie.

Un aggregato di proporzioni gigantesche cresciuto a dismisura nel corso degli ultimi due decenni quando la corsa al credito ha conosciuto un’accelerazione senza eguali. Nel 1987, ha rivelato PwC, questo debito complessivo valeva circa il 200% del Pil.

Oggi, con un valore totale di 7,5 trilioni di sterline, il rapporto è salito al 540% e la forbice è destinata ad allargarsi. Quando nel 2015 l’ammontare complessivo toccherà la temuta quota 10, precisa PwC, il Pil con ogni probabilità sarà ancora inferiore ai 2 trilioni.

Dietro al boom c’è ovviamente l’ipertrofica espansione del mondo finanziario britannico (i cui debiti valgono oggi il 245% del Pil contro il “misero” 46% registrato nel 1987) ma non solo. A contribuire all’ascesa sono stati anche i privati, ovvero imprese e famiglie.

Per le prime il rapporto debiti/prodotto nazionale lordo è quasi triplicato nel corso degli ultimi 23 anni. Il quoziente patito dai cittadini, nello stesso periodo di tempo, è passato dal 63% al 110%. La tendenza, insomma, sarebbe già di per sé preoccupante. Ma il peggio deve ancora arrivare.

A favorire l’indebitamento e, soprattutto, a mitigarne gli effetti, ricorda PwC, sono stati (e lo sono tuttora) i bassi tassi di interesse. Il costo del credito è stato piuttosto contenuto nel corso degli anni ’90 e si è abbassato nuovamente con la recessione post-crisi. Peccato però che si tratti di una situazione temporanea. “I tassi odierni, eccezionalmente bassi, – ha dichiarato al Guardian Hawksworth – non potranno mantenersi tali per sempre”.

Come dire che la futura crescita degli interessi non potrà far altro che peggiorare la situazione imponendo, magari, anche drastiche misure di riduzione delle esposizioni con inevitabile contrazione del credito e riattivazione della spirale recessiva. Secondo Hawksworth, il peso dell’indebitamento potrebbe smorzare la crescita economica del Paese per decenni.

Secondo il quotidiano The Independent, una crescita dei tassi di due punti percentuali nei prossimi anni genererebbe perdite annuali pari a 1.800 sterline per ogni famiglia. Un problema in più per i contribuenti d’oltremanica, già chiamati dopo la crisi a uno sforzo non da poco nel finanziare le acquisizioni di emergenza delle banche private semi-nazionalizzate dal governo.

L’ingresso dello Stato nel capitale di Royal Bank of Scotland (84% delle azioni) e di Lloyds (41%) è costato da solo 76 miliardi.

Alla fine del 2009 il National Audit Office (la corte dei conti britannica) rivelò che il conto complessivo del salvataggio pubblico della finanza nazionale, che comprendeva i capitali messi a garanzia dei prestiti e degli assets bancari, si aggirava sugli 850 miliardi di pound.

Il valore della parte effettivamente scaricata sui contribuenti, si spiegò allora, sarebbe stata impossibile da stimare ancora per diversi anni.


Irlanda spacciata, ora tocca a Spagna e Portogallo?
di Mauro Bottarelli - 12 Novembre 2010

L'Irlanda è fallita. State tranquilli, non leggerete questa notizia su nessun giornale, né la sentirete all'interno di nessun telegiornale: per ora, siamo ancora nella fase del tentativo disperato di rianimazione, seguirà l'accanimento terapeutico.

Poi, finalmente, si guarderà in faccia la realtà: e, state certi, l'elaborazione del lutto questa volta sarà ben più pesante di quella seguita al "decesso" economico della Grecia.

I costi di Dublino per finanziarsi sul mercato hanno toccato ieri un nuovo massimo storico e, indicatore ben peggiore, il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha reso noto che il blocco dell'eurozona sarebbe pronto ad agire se l'ex tigre celtica dovesse necessitare di un salvataggio.

I funzionari europei hanno dichiarato chiaramente che stavano monitorando la situazione irlandese molto attentamente da giorni e il quotidiano tedesco Handelsblatt ha riportato una dichiarazione anonima filtrata dal governo tedesco in base al quale il piano di salvataggio potrebbe essere attivato “molto velocemente” se necessario.

Ieri lo spread tra bond decennale irlandese e il bund ha toccato quota 680 punti base, nono record negativo di fila. Ad oggi il governo irlandese si affida all'orgoglio e combatte con le unghie e con i denti per smentire la necessità di un piano in stile greco ma i mercati sono decisamente scettici sulla sua capacità di far approvare dal Parlamento la finanziaria il mese prossimo.

Insomma, allarme rosso aggrava il piano di salvataggio permanente imposto da Angela Merkel, in base al quale i detentori di debito privato dovranno pagare la loro parte all'interno delle procedure di emergenza, leggi haircut sui rendimenti obbligazionari.

Anche se Berlino ha sottolineato più volte che questo meccanismo non sarà applicato al debito già esistente, il mercato teme un effetto domino all'interno dei periferici, poche settimane dopo quello che sembrava il turning point, ovvero la svolta dopo la crisi nera.

Parlando a Seul al summit del G20, José Manuel Barroso è stato chiaro: “Ciò che è maggiormente importante è che siamo in possesso di tutti gli strumenti essenziali come Unione europea ed eurozona se necessario ma non intendo dare adito ad alcuna speculazione”.

Le azioni delle banche irlandesi mercoledì hanno conosciuto un vero bagno di sangue, con Allied Irish Bank giù del 5,6 per cento e Bank of Ireland giù dell'8,9 per cento. “E' lo stesso trend che abbiamo già visto, il mercato è molto, molto nervoso”, ha dichiarato ieri Gavan Nolan di Markit.

Ad oggi sia gli irlandesi che l'Ue che l'Fmi hanno negato che Dublino abbia fatto richiesta di accedere al nuovo piano di salvataggio (EFSF) posto in essere in maggio per evitare il contagio greco: in effetti, rispetto ad Atene, Dublino ha fondi fino ad aprile-maggio del prossimo anno, quindi una crisi di liquidità non appare imminente ma non sono i numeri a dettare le regole in questi giorni, bensì le percezioni.

L'Fmi, tentando di gettare acqua sul fuoco, ha dichiarato che i mercato stanno sovrastimando i rischi di default in un numero di paesi, portando con dati a conforto il fatto che negli ultimi vent'anni si sono registrati 36 casi di spread schizzati sopra i 1000 punti base e sono in sette casi si è registrato un default.

Negli altri 29 casi, gli spread sono poi rientrati a livelli alti ma gestibili senza il fallimento: peccato che siano il 90 per cento degli analisti interpellati da Cnbc ha dichiarare che se i costi irlandesi per finanziarsi sui mercati non si stabilizzeranno in fretta, Dublino sarà obbligata a chiedere l'intervento del piano di salvataggio.

Con la liquidità nel mercato obbligazionario ormai prosciugata, molti economisti cominciano a dire apertamente che il paese potrebbe necessitare anche una ristrutturazione del debito, in particolar modo se le banche soffriranno nuove, ulteriori perdite.

Inoltre, gli analisti continuano a porre l'accento sulla debolezza politica del governo irlandese e sulla sua incapacità di far votare la finanziaria entro il 7 dicembre, visto anche il fatto che la prossima elezioni suppletiva rischia di ridurre la maggioranza parlamentare a soli due seggi.

Insomma, senza un'elezione anticipata che offra un governo forte del mandato popolare per portare avanti le pesanti misure di austerity richieste (taglio ulteriore della spesa e aumento delle tasse), i mercati non si calmeranno.

Se l'Irlanda cadrà, Portogallo e Spagna finiranno nel mirino con un'impennata dei rendimenti e dello spread sul bund, concentrando tensione sull'eurozona e rischiando un effetto domino con implicazioni a livello globale.

Ormai siamo agli sgoccioli, l'allucinante politiva di tassi reali negativi posta in essere dalla Bce per far contenta la Germania nello scorso decennio ha reclamato la prima vittima. Che sia l'ultima, è tutto da vedere.

Quando Barroso si spinge a dire "siamo pronti", vuol dire che formalmente la richiesta di salvataggio è già sul suo tavolo e su quello del Fmi a Washington. In compenso, a Seul si parlerà di sesso degli angeli e scorrettezza della Fed...

P.S. Se non vi fidate di spread e cds, troppo ballerini e facili prede di speculazione e tensione, date un'occhiata all'oro, capace di rompere un livello record al giorno. L'indice di riferimento al
mercato di Londra (Gold afternoon fix) è creciuto del 25% nel giro di un anno, il rischio di bolla sta divenendo reale in ossequio alla volontà degli investitori di tesaurizzare le aspettative di nuove crisi.

Gli investimenti globali in oro nel secondo trimestre del 2010 sono aumentati del 118 per cento arrivando a quota 40 miliardi di dollari, di cui a metà circa è rappresentata da Etf (fondi di investimento legati all'andamento della quotazione). Ma non è soltanto la domanda di "oro di carta" a crescere: negli ultimi mesi, a testimonianza dell'incertezza che ancora prevale sui mercati, si registra una crescita della domanda di oro fisico da investimento.

Lingotti di varia pezzatura e monete auree da tenere in cassetta di sicurezza rappresentano il massimo dell'investimento rifugio perché tutela dal cosiddetto "rischio controparte", (come l'eventuale fallimento della società che vende Etf): questo sta succedendo anche in Italia dove diversi grossisti stanno iniziando a vendere anche a privati lingotti a 24 carati (il cosiddetto oro fisico da investimento che, in base a una legge del 2000, è esente da Iva).

È il caso della milanese Compagnia italiana metalli preziosi: «Il rally dell'oro ha inevitabilmente fatto calare la domanda tradizionale – spiegava ieri l'amministratore Salvatore Giuffrida al Sole24Ore - specialmente da parte degli orafi.

Negli ultimi tempi sta crescendo una clientela di privati che acquistano a scopi di investimento. Per ora è una nicchia di mercato che fa ordini contenuti ma non mancano le eccezioni: l'anno scorso un privato ha comprato 20 chili: allora il prezzo si aggirava intorno ai 20 euro al grammo, oggi è sopra i 30».

Il conto è presto fatto: a fronte di un investimento di 400mila euro, la plusvalenza è del 50 per cento, ovvero 200mila euro. Ma non serve il sottoscritto per capirlo: quanti nuovi negozi "Compro e vendo oro" avete visto spuntare negli ultimi mesi nelle vostre città? Quelle aperture, quelle insegne, sono il miglior termometro della crisi che ancora incombe e sta per peggiorare ulteriormente.


La Cina "acquista" il Portogallo

di Andrea Perrone - www.rinascita.eu - 10 Novembre 2010

La Cina promette “misure concrete” per “aiutare” il Portogallo, prospettando l’acquisto del debito pubblico lusitano. È quanto dichiarato, al termine di una visita di Stato di due giorni, dal presidente Hu Jintao. “Siamo pronti a prendere misure concrete per aiutare il Portogallo superare la crisi finanziaria globale”, ha detto Hu. Il presidente ha aggiunto che Pechino è pronta a sostenere “gli sforzi del Portogallo per ridurre l’impatto della crisi internazionale”.

Analoghe dichiarazioni sono state rilasciate dal vice ministro degli Esteri cinese, Fu Ying, che ha ricordato come Pechino sia impegnata a investire in obbligazioni europee ed è pronta ad aiutare Lisbona. “Siamo sicuramente interessati, se i nostri amici sono in difficoltà”, ha dichiarato ai giornalisti.

Gli oneri finanziari portoghesi sono in aumento, per questo gli investitori temono che vi sia il rischio concreto che il Paese segua la strada della Grecia nel cercare il sostegno finanziario dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale per far fronte alla crisi del debito.

Intanto, giovedì scorso, il rendimento dei titoli di Stato lusitani decennali ha stabilito un nuovo record pari al 6,8 per cento. Il ministro dell’Economia portoghese, José Vieira da Silva, ha accolto con favore l’interesse della Cina per l’acquisto di debito sovrano, dicendo che Pechino potrebbe contribuire a diversificare l’attuale base di investitori, per lo più concentrati in Europa e negli Usa.

Una posizione suicida quella avanzata dal governo di Lisbona che però è stata ribadita anche dal presidente dell’Agenzia portoghese per gli investimenti (AICEP), Basílio Horta, il quale ha sottolineato che l’appetito della Cina per i titoli di Stato del suo Paese sarebbe un segnale positivo per altri potenziali investitori.

Dal canto suo un alto funzionario portoghese, rimasto volutamente anonimo, ha rivelato che gli investitori asiatici hanno già acquistato il 5 per cento del debito lusitano a febbraio e un altro 19,5 a marzo.

Insomma la corsa cinese alla conquista dei mercati europei e internazionali prosegue: Pechino ha già comprato titoli di Stato spagnoli e avanzato un’offerta simile al governo greco, affermando di essere pronta ad acquistare il debito pubblico ellenico.

In questo modo la Cina, che già detiene 900 miliardi di dollari del debito statunitense, si insedia progressivamente anche in Europa. E mentre le economie dei cosiddetti PIGS finiscono sotto il controllo cinese, il gigante asiatico si prepara a sostenere la tenuta dell’euro, facendo affluire indirettamente i suoi capitali e favorendo le sue esportazioni verso Occidente.


Speculatori e boiardi legalizzati
di Valerio Lo Monaco - www.ilribelle.com - 11 Novembre 2010

Come volevasi dimostrare. Purtroppo. Non appena la Cina si è affacciata dalle parti del Portogallo per fare la spesa, e non appena il rendimento dei titoli Irlandesi (così come di quelli portoghesi) è salito oltre l'8% (rammentiamo: significa quanto l'Irlanda è costretta a pagare se vuole piazzare da qualche parte i suoi titoli di stato) gli speculatori famelici si sono buttati a capofitto sul mercato dei Credit Default Swap scommettendo sul crollo di questi Stati.

Facile - e terribile - immaginarli. I nostri signori vestiti da becchini sono lì, nelle stanze dei bottoni, con i loro supercomputer accesi davanti giorno e notte e appena fiutano la carogna vi si avventano per finirla.

Gestiscono miliardi di dollari e basta qualche pressione di un bottone per dissanguare milioni e milioni di persone che si arrabattano per arrivare alla fine del mese. È il mercato, bellezza.

Nulla è cambiato. Banche e società d'affari in crisi sono state salvate con il denaro pubblico dei vari Paesi, ovvero dei cittadini, e queste stesse, imperterrite, non appena rianimate dallo shock che le medesime avevano procurato pochi anni addietro, si sono rimesse a fare né più né meno che quello che avevamo sempre fatto.

Solo che questa volta stanno stringendo il cappio attorno al collo di chi - complici di primo grado i governi - le hanno aiutate a non fallire.

È una beffa: abbiamo aiutato, e continueremo ad aiutare, i nostri aguzzini.

Da più parti si iniziano a sentire delle voci che parlano di un default definitivo della Grecia nel 2011. Il che era ovvio: gli aiuti ricevuti da Bce e Fmi non potevano servire che ad alimentare la speculazione e a dare un po' di ossigeno (comunque insufficiente) a un malato terminale. Stessa sorte, vedrete, per Irlanda e Portogallo.

Dal club dei Piigs, ovvero degli stati con fortissimi problemi di debito pubblico, mancano all'appello, per ora, solo Spagna e Italia. E le notizie che arrivano da questi due, in merito al debito pubblico, non sono affatto confortanti, converrete. Anzi.

Beninteso, il maiale per antonomasia, in merito a debito pubblico e nessuna possibilità di ripresa, è rappresentato dagli Usa, ma da quelle parti la Fed stampa moneta a più non posso, Obama va in giro per il mondo, e la cosa è rimandata. Attenzione: rimandata. Almeno a dopo che saranno crollati prima tutti gli altri.

Crisi finita vero? Bisognerebbe prendere a calci nel sedere tutti quelli, e sono tanti, che dai giornali, dalle radio, dalle televisioni e dalle varie sedi istituzionali nel mondo ci hanno continuato a ripetere la storiella di una crisi che ha ormai superato la fase acuta. Insieme, ovviamente, alla necessità di dover subire sacrifici.

Sacrifici? Per salvare Banche e speculatori in modo che ci possano strozzare meglio?

Tutto questo mentre dalle nostre parti si continua a discutere del nulla, e in televisione continuano imperterrite e passare pubblicità di automobili, elettrodomestici e mignotte che reclamizzano contratti telefonici. Possibile immaginare in Paese più decadente?


G20: ma dov'è finito il tetto del 4%?
di Federico Rampini - http://rampini.blogautore.repubblica.it - 11 Novembre 2010

Si accettano scommesse: nel comunicato finale del G20 domani qui a Seul sarà scomparsa ogni traccia della “proposta Geithner”. Il segretario al Tesoro americano (nella foto) in una precedente riunione del G20 a livello di ministri economici, aveva proposto di fissare un tetto pari al 4% del Pil per gli attivi commerciali e i disavanzi commerciali delle nazioni.

Quel tetto doveva funzionare un po’ come i parametri di Maastricht, ma in questo caso per ridurre gli squilibri nel commercio estero anziché quelli nella finanza pubblica. Era un po’ vago: non si capiva se ci sarebbero state sanzioni per chi sforava, né chi avrebbe avuto l’autorità per farlo rispettare. Però poteva servire come arma psicologica e diplomatica, avrebbe consentito di puntare il dito pubblicamente contro i paesi inadempienti.

Geithner aveva avanzato quell’idea anche per uscire dallo stallo Cina-Usa sulla questione delle monete: da anni gli americani premono perché la Cina rivaluti il renminbi e quella lo fa col contagocce (+3% dal 19 giugno, un’inezia).

Alla fin fine la parità del cambio è solo uno strumento. Quel che interessa a Washington è esportare di più in Cina. Un renminbi più caro aiuterebbe, ma anche altre misure in favore dei consumi interni (aumenti salariali, uno Stato sociale che dia sicurezza sul futuro, meno protezionismo). Dunque Geithner aveva provato a spostare il dibattito sul risultato finale, cioè i saldi delle bilance dei pagamenti.

Gli è andata male, quella proposta del 4% invece di rendere più malleabili i cinesi ha aizzato contro gli Usa anche la Germania, altro paese che accumula forti disavanzi con l’estero.

La ritirata americana è già avvenuta da tempo, nei fatti. Da una settimana, da quando Obama è partito per l’Asia, in nessuna circostanza ha mai evocato il 4%. Lo stesso Geithner aveva smesso di parlarne, molto prima che iniziasse la maratona tra sherpa per il documento finale.

L’insuccesso degli americani lascia irrisolto però il problema che continuano a porre al resto del mondo. Che si può riassumere in questo paradosso: non possiamo pensare di uscire dalla crisi aumentando tutti le esportazioni. Salvo scoprire che c’è un mercato sul pianeta Marte, finché stiamo sul nostro le importazioni e le esportazioni degli uni e degli altri devono pareggiarsi.

E’ noto inoltre il legame automatico fra avanzo commerciale e risparmio: un paese che esporta più di quel che importa, accumula risparmio perché produce più di quanto consuma. Se siamo tutti d’accordo che l’America deve diventare più frugale, qualcun altro lo deve diventare un po’ meno.