martedì 2 novembre 2010

USA: elezioni di midterm con Obama ai minimi

Una serie di articoli sulle elezioni di midterm che si tengono oggi negli Usa.

Secondo i sondaggi il partito democratico di Obama è spacciato e destinato a perdere la maggioranza alla Camera e forse anche al Senato.

Lo stesso Obama è ai minimi storici in quanto a consenso personale e tra qualche mese si apre la campagna per le presidenziali del 2012. Non gli sarà affatto facile farsi rieleggere.


Midterm, oggi l’America al voto. Prova decisiva per il futuro di Obama
di Roberto Festa - www.ilfattoquotidiano.it - 2 Novembre 2010

Si chiude una campagna elettorale difficile per i democratici che secondo i sondaggi perderanno la maggioranza alla Camera. I repubblicani supportati dal populismo e dalle conseguenze della crisi cavalcano l'onda: "E' un referendum sul presidente"
E’ finita una tra le campagne elettorali più cattive degli ultimi decenni. Oggi 90 milioni di americani sono attesi alle urne. Si vota per eleggere 37 senatori, tutti i 435 deputati, 37 governatori.

Le ultime ore hanno visto un succedersi frenetico di rally e incontri. Soprattutto i democratici, sfavoriti nei sondaggi, hanno mobilitato la macchina del partito. Michelle Obama è volata in Nevada per difendere il seggio senatoriale di Harry Reid. Bill Clinton ha battuto senza sosta West Virginia e Stati del Sud.

Barack Obama
, dopo aver fatto campagna in 14 Stati, è rimasto alla Casa Bianca a dare interviste radiofoniche (tra i programmi prescelti, “On Air With Ryan Seacrest”, l’idolo delle ragazzine).

Nonostante la mobilitazione, le prospettive per il partito del Presidente sono pessime. Se la battaglia per il controllo del Senato resta aperta, alla Camera circa 100 seggi potrebbero passare ai repubblicani.

Quella di quest’anno è stata una campagna elettorale che si è ben presto trasformata in un referendum su Barack Obama. “Questo voto riguarda soltanto lui e la sua maggioranza al Congresso”, ha detto John Boehner, capogruppo repubblicano alla Camera.

Con un tasso di disoccupazione vicino al 10% e il cancro dei pignoramenti che si allarga (un proprietario su 86 a Chicago si è visto requisire la casa), i repubblicani hanno avuto buon gioco a mettere sotto processo la Casa Bianca. Obama e i democratici si sono mostrati timidi, sulla difensiva. Nell’ultimo appello elettorale, il presidente ha chiesto di “tornare allo spirito del 2008”.

Sarebbe stata più efficace qualche iniziativa concreta (per esempio, bloccare i pignoramenti dopo la scoperta di migliaia di irregolarità da parte delle banche). Ma Obama non ha avuto né la forza, né il coraggio per farlo (come invece fece uno dei suoi modelli, Franklyn D. Roosevelt, quando nel 1935 sponsorizzò il Frazier-Lemke Act che proibiva alle banche di impossessarsi delle fattorie).

Il risultato è che lo spirito, e la coalizione, del 2008, sono irrimediabilmente perduti. Donne, giovani, indipendenti, neri, ispanici, classi popolari, quest’anno non guardano ai democratici.

E’ stata anche una campagna che ha visto l’emergere di una classe politica repubblicana fondamentalista, millenarista, misto di anarchismo anti-Stato e conservatorismo sui valori, espressione del Tea Party o che ha trovato nel Tea Party un comodo alleato: gente come le teocratiche Sharron Angle e Christine O’Donnell, che si sentono chiamate da Dio a cancellare la riforma sanitaria di Obama; come Rand Paul, che vorrebbe permettere ai businessman di discriminare sulla base di razza, etnia o sesso; come Joe Miller, per il quale il salario minimo è una “misura socialista”.

Con questi nuovi repubblicani, sarà difficile promuovere iniziative legislative bipartisan al Congresso. “Sino ad ora l’atmosfera è stata ostile. Tra un po’sarà ostile alla nitroglicerina”, ha spiegato Ron Bonjean, uno stratega repubblicano.

Ma è stata soprattutto la campagna che ha segnato la saldatura più perfetta tra grande capitale e vecchia nomenclatura repubblicana, tesi a sfruttare gli umori populisti e cattivi d’America. 75 milioni di dollari sono stati fatti affluire nelle casse dei repubblicani dalle grandi banche e multinazionali – Goldman Sachs, Dow Chemical, Chevron Texaco, Aegon, Prudential Financial, Chamber of Commerce.

I think-tank più conservatori, il Competitive Enterprise Institute, la Olin Foundation, la Smith Richardson Foundation, la We The People Foundation, hanno gestito la sostanza ideologica di questa virata a destra.

In più di un’occasione è parso di rivivere l’attacco al New Deal del mondo degli affari e della grande industria, negli anni Trenta. I finanziamenti a pioggia ai repubblicani, il blocco degli investimenti sono un chiaro segnale che il capitale americano manda ai due anni che restano della presidenza Obama.

Infine, è stata una campagna elettorale che ha di nuovo mostrato la divisione del Paese. Metà America non riconosce questo presidente, come metà America non riconosceva quello precedente.

Tra meno di due mesi, a gennaio, si apre una nuova campagna elettorale, quella per le presidenziali 2012. Ci sarà altro tempo per sbranarsi, nuove possibilità di versare centinaia di milioni nella politica, infinite occasioni per bloccare il sistema America in un gioco di veti e interessi particolari.

Ma prima viene il risultato di oggi, la prova di quanto a destra vanno gli Stati Uniti.


Obama si prepara allo tsunami dei conservatori
di Maurizio Molinari - La Stampa - 2 Novembre 2010

Sondaggi impietosi: democratici sotto di 15 punti. Il Presidente pensa alle strategie per il dopo voto

Gli elettori americani si recano oggi alle urne per rinnovare il Congresso di Washington ed eleggere 37 governatori in una consultazione che i repubblicani affrontano convinti di poter infliggere ai democratici una sconfitta talmente netta da trasformare Barack Obama in un presidente dimezzato.

Il sondaggio con cui Gallup-UsaToday tasta il polso all’elettorato prima del voto descrive un possibile tsunami repubblicano in arrivo perché la differenza di 15 punti nelle preferenze - 55 a 40 per i repubblicani - è senza precedenti dal 1946, quanto tali rilevazioni d’opinione ebbero inizio.

I repubblicani sono convinti che l’onda favorevole nasca dalla somma fra lo scontento per la crisi economica e il calo della popolarità di Obama - è scesa al 42 per cento - e per rafforzare tale tendenza nelle ore prima dell’apertura dei seggi i leader del partito martellano la Casa Bianca.

«Gli elettori devono pensare che sulle schede c’è scritto il nome di Obama e poi votare contro di lui» afferma Haley Barbour, presidente dell’Associazione dei governatori repubblicani, mentre John Boehner, capo dei deputati, sbarca a Cincinnati, Ohio, per accusare il presidente di «aver adoperato il termine "nemici" per descrivere gli avversari» dimostrando di «avere un’idea dell’America molto diversa da quella di Ronald Reagan, George Bush, Bill Clinton e George W. Bush».

Il riferimento a Clinton non è casuale: negli Stati dove i seggi del Senato sono ancora il bilico - Nevada, Washington, Pennsylvania, Illinois, West Virginia e Colorado - i repubblicani puntano a mietere consensi fra gli indipendenti e anche fra i centristi democratici che considerano troppo di sinistra le politiche economiche di Obama.

Anche Mitch McConnell, capo dei senatori, concentra gli attacchi sull’inquilino della Casa Bianca: «Sappiamo tutti che punta ad essere riconfermato nel 2012 ma con il voto di Midterm gli americani possono già fargli capire che non la pensano allo stesso modo».

Conti alla mano i repubblicani sono sicuri di poter conquistare i 39 seggi necessari a controllare la Camera - alcuni sondaggi gliene assegnano oltre 60 - mentre la partita del Senato, dove avrebbero bisogno di 10 seggi in più, resta aperta.

Nel tentativo di difendere il Senato si muove la First Lady Michelle facendo tappa in Nevada e Pennsylvania per tentare di sostenere i traballanti candidati Harry Reid e Joe Sestak.

Obama invece durante l’intera giornata della vigilia non si è fatto vedere in pubblico, dedicandosi a registrate interviste che saranno trasmesse oggi e a partecipare a riunioni fiume con i collaboratori per pianificare il dopo-voto.

I repubblicani da parte loro hanno un’agenda d’attacco già pronta. Barbour promette: «Renderemo irriconoscibile la riforma finanziaria» bloccandone tutti i maggiori programmi. Eric Cantor, destinato a guidare la nuova maggioranza alla Camera, assicura che «taglieremo le tasse per aiutare cittadini e imprese».

Il primo braccio di ferro sarà sul rinnovo dei tagli fiscali varati da George W. Bush nel 2001 e 2003 ma, più in generale, avere una Camera contro significherà per Obama dover contrattare ogni singolo capitolo del bilancio federale.

Come se non bastasse il vento conservatore che spazza l’America porta con sé il ritorno sotto i riflettori di Karl Rove, l’ex guru di George W. Bush nei confronti del quale Obama ha usato il termine «nemico».

Negli ultimi due anni è stato Rove il commentatore tv più aspro con la Casa Bianca ed è sempre stato lui - con Ed Gillespie, ex capo di gabinetto di Bush - a coordinare la raccolta fondi attraverso gruppi indipendenti che ha portato valanghe di dollari ai candidati. Se i repubblicani vinceranno ci sarà, una volta ancora, il suo zampino.


La notte in cui Obama fa i conti con l'America
di Vittorio Zucconi - La Repubblica - 2 Novembre 2010

In un clima da grande depressione per il partito di Obama e di grande euforia per i suoi avversari repubblicani, i risultati elettorali che questa notte conteremo saranno letti come una sentenza di morte civile per il Presidente.

Dopo appena venti mesi di governo il solo dubbio che accompagna le elezioni politiche per la Camera e il Senato americani riguarda le dimensioni della debacle Democratica, letta come un "referendum" su Obama: sarà una sconfitta o una catastrofe epocale che farà di lui un ostaggio nella Casa Bianca e lo condannerà a non essere rieletto fra due anni?

Ogni elezione di metà mandato presidenziale è sempre vissuta e letta come un giudizio di Dio sul governo, che negli Stati Uniti non dipende, come in Italia, dalla fiducia del Parlamento, ma che ha bisogno del voto del Congresso per realizzare il proprio programma, approvare trattati internazionali e, soprattutto, scegliere i giudici federali e i membri della Corte Suprema.

Un Presidente che debba governare contro il Parlamento è, se non un'anatra arrostita, un'anatra molto azzoppata. E tanto più ampia e militante sarà l'opposizione emersa dal voto, tanto più difficile sarà il volo per il tempo che gli rimane.

Eppure questa di doversi misurare con un'opposizione divenuta maggioranza a metà del volo è la condizione frequente, se non normale, che quasi tutti i Presidenti americani dell'età moderna hanno dovuto affrontare.

Il "ribaltone all'americana" sembra altrimenti inspiegabile, o difficilmente credibile, se viene letto con i dati delle presidenziali del 2008 e con l'andamento dell'economia che, lontana da una ripresa robusta, è comunque ben al di sopra dell'abisso nel quale Obama la trovò dopo otto anni di Bush.

Al momento della sua vittoria, a fine novembre 2008, il principale indice di Borsa, il Dow Jones, galleggiava a stento sotto la quota 8.000. Ieri, vigilia delle elezioni, ha chiuso sopra quota 11 mila, il 37% in più, e la domanda retorica posta dal presidente non suona soltanto propagandistica: "Siete sicuri di voler ridare le chiavi della macchina a coloro che l'hanno portata nel burrone?".

Nella disfatta del suo partito c'è dunque molto più della frenetica rivolta del cosiddetto "Partito del Tè" anti-statalista, anti-tasse, anti-obamiano, "anti-tutto", o della delusione degli "obamaniac", dei suoi fan in una sinistra, sempre e ovunque autocondannata alle delusioni dalla enormità delle proprie illusioni.

C'è l'azione feroce di quel meccanismo riequilibratore del potere che la Costituzione, e la forma elettorale bipartitica e federale, ha costruito e che puntualmente scatta quando gli istinti profondi della nazione avvertono, o temono, che la grande nave America sbandi troppo.

La disfatta dei democratici è il rovescio della loro troppo grande vittoria e maggioranza parlamentare di due anni or sono. È la figlia del timore, forse del terrore, che un Presidente così diverso, con forti programmi innovativi, primo fra tutti il piano per una riforma sanitaria nazionale, appoggiato da un Parlamento con maggioranza schiacciante, potesse rivoluzionare la natura stessa dell'America.

Per rimettersi in linea di galleggiamento, la grande nave America rischia di sbandare sul bordo opposto, mettendo in difficoltà il comandante, anche a costo di ignorare completamente, come ora, il resto del mondo e le questioni internazionali, guerre e terrorismo inclusi, assenti dalla campagna elettorale.

Persino Franklyn Delano Roosevelt, in piena Guerra Mondiale, vide, nel 1942, la disfatta dei suoi democratici al Congresso, che lasciarono agli avversari 54 seggi, quanti ne dovrebbero perdere, sui 435 in palio, quest'oggi. L'amatissimo Ronald Reagan, idolo del repubblicani, perse due elezioni di mezzo mandato, nell'82 e nell'86, costretto a governare sempre contro il Parlamento.

E altrettanto dovette fare Bill Clinton, che nel 1994 subì una tremenda mazzata, lasciando anche lui 54 deputati e ben 8 senatori agli avversari. Bush scampò alla legge del riequilibrio soltanto grazie alla spinta emotiva iniziale della sfida terroristica e della guerra.

La lezione popolare al capo di governo in carica, la puntura al pallone del proprio mandato provvidenziale, che questa sera l'"Orfeo Nero" del 2008 subirà, è dunque segno di salute, non di malattia del sistema, fisiologia non patologia.

La candidature e le campagne elettorali possono rasentare il teatro dell'assurdo e del costoso (mai furono tanto dispendiose). Ma, dietro le grida esultanti dei vincitori domattina e le meste promesse di "fare meglio" degli sconfitti, la prodonda, cinica razionalità del sistema America si sarà riconfermata.

Nessuno deve mai avere troppo potere, deve sentirsi investito dalla Provvidenza. Un po' di "gridlock", di ingorgo stradale fra esecutivo e legislativo, fra Casa Bianca e Congresso, non dispiace affatto, né alla gente né al mondo del business, perché limita i danni di legislazioni troppo zelanti o ideologiche.

I voti delle elezioni mid-term sono il "memento mori", e il "sic transit gloria mundi" sussurrati all'orecchio del pontefice laico della religione America, da quella minoranza di cittadini (mai più del 37% degli elettori) che si prendono la briga di dirglielo.

Tra due anni, si vedrà. Truman, Reagan, Clinton, mazziati a metà del loro mandato furono poi rieletti. Il volo di Barack Obama non finirà necessariamente questa sera.


Come va l'America ? Malissimo per questo Obama perderà
di Federico Rampini - La repubblica - 1 Novembre 2010

Dall'ultima edizione del grande sondaggio sullo stato degli Usa redatto dal Brookings Institution emerge un clima di forte pessimismo sul futuro della nazione, e dati concreti di forte crisi economica e sociale. "Questo paese che sembrava convinto di riuscire in ogni sfida oggi sembra convinto che non ce la farà"

Lasciate stare i sondaggi dell'ultima ora, le proiezioni seggio per seggio, Camera e Senato, sulle perdite previste dei democratici. Per capire il terremoto politico preannunciato per domani in America è fuori dalla politica che bisogna andare.

La più completa rassegna dello stato reale della nazione è contenuta in un indice. "How We Are Doing Index": è il misuratore del "come stiamo andando". Lo ha messo a punto la Brookings Institution, autorevole think tank vicino al governo, ed è giunto alla sesta edizione. Ieri è uscito l'ultimo verdetto.

Un ritratto angosciante: se l'America ha cessato di essere la terra dell'ottimismo ha le sue buone ragioni, radicate nello stato reale delle cose. Sono 14 statistiche ben selezionate, che misurano il polso della situazione economica e sociale. Debolissima la crescita del Pil, appena il 2%, un'anomalia storica rispetto agli altri periodi post-recessione.

Ancora più significativo è lo stato del mercato del lavoro: il vero tasso di disoccupazione raggiunge il 16,8%, se si sommano i disoccupati ufficiali e quelli che hanno smesso di cercar lavoro per la disperazione, o sono rassegnati a part-time e lavoretti precari mentre vorrebbero un'attività vera.

Ben 23 Stati Usa, quasi la metà del totale, continuano ad avere un aumento della disoccupazione. Le case, principale deposito del risparmio familiare, hanno perduto il 33% del loro valore.

Lo stato d'animo dei consumatori, misurato da Reuters e University of Michigan, è ridisceso al livello dell'autunno 2009, cioè quando ci si sentiva ancora in piena crisi. Idem per il barometro di ottimismo-pessimismo dei piccoli imprenditori, di nuovo in discesa rispetto a quest'estate.

I dati conclusivi riguardano la percezione generale degli americani, e la loro visione del futuro. È qui che si misura un cambiamento eccezionale: la nazione che per generazioni stupì il mondo intero per la sua capacità di "pensare positivo", di nutrire un'illimitata fiducia nelle proprie capacità, è irriconoscibile.

Solo il 20% dei cittadini è soddisfatto di quel che l'America è oggi. E appena il 39% "sente che le cose si stanno evolvendo nella direzione giusta".

I tre ricercatori che hanno diretto l'indagine della Brookings Institution, Karen Dynan, Ted Gayer e Darrell West, sintetizzano così i sentimenti degli elettori che domani vanno alle urne: "Domina l'incertezza sull'economia, la fiducia dei consumatori frana, le prospettive di una ripresa sono grigie. Non c'è chiarezza sul futuro delle tasse.

Non c'è un piano per ridurre deficit e debito pubblico nel lungo termine. Nessuno sa se e come affronteremo problemi strutturali come la dipendenza energetica, l'ambiente, l'immigrazione". Inevitabile che una simile sindrome si traduca nella voglia di castigare chi governa. Il livello di consensi verso Barack Obama è sceso dal 54% di un anno fa al 45% oggi.

Non gli viene riconosciuto neppure il merito di avere arrestato la recessione, al contrario. "Meno di un terzo degli elettori - spiegano i ricercatori della Brookings - pensa che sia servita a qualcosa la sua manovra di spesa pubblica anti-crisi. Il 68% è convinto che quei soldi sono stati buttati via".

Il Washington Post, un giornale tutt'altro che ostile all'Amministrazione Obama, riassume così l'atmosfera dominante in questa vigilia di legislative: "Anzitutto siamo in guerra, e sconfiggere i nostri nemici richiederà un impegno di lungo termine in Afghanistan, Pakistan, Iraq, al quale il presidente non ha preparato abbastanza gli americani. Poi ci stiamo avvitando pericolosamente nel debito pubblico, che deprimerà il nostro tenore di vita e indebolirà la leadership degli Stati Uniti nel mondo. Infine ci sono problemi come la povertà cronica tra i neri sotto-istruiti, un'alta disoccupazione che forse non è solo ciclica, la decadenza delle nostre infrastrutture, gli insufficienti investimenti nella scuola, il cambiamento climatico".

Un elenco drammatico, più che sufficiente per giustificare lo stato depressivo - in senso clinico - dell'umore nazionale.

Il magazine Time sceglie di dedicare la copertina all'ottimismo della ragione. Il titolo è "Come ricostruire il Sogno Americano". Ma la speranza si esaurisce nel titolo. Già l'immagine che gli fa da sfondo lancia il messaggio contrario: è la foto di una casa circondata da erbacce e una cinta di paletti in disfacimento, il simbolo dei milioni di abitazioni abbandonate, per la crisi dei mutui e i pignoramenti giudiziari dei debitori insolventi.

L'apertura del reportage su Time è affidata all'editorialista più prestigioso, Fareed Zakaria, una grande firma del giornalismo americano ma di origine indiana. Ed ecco cosa scrive Zakaria: "Quando viaggio dall'America all'India in questi giorni mi sembra che il mondo si sia capovolto. Sono gli indiani a brillare di speranza e fiducia nel loro futuro. Il 63% degli americani invece è convinto che non riuscirà a mantenere il proprio tenore di vita attuale. Ma quel che è ancora più inquietante, è che gli americani sono diventati terribilmente fatalisti sulle loro prospettive future. Questa nazione che sembrava convinta di poter sempre riuscire in ogni sfida, ora è convinta che non ce la farà". Fatalismo? Non era un termine che associavamo al Dna degli Stati Uniti d'America.

È il rovesciamento brutale del più celebre slogan lanciato da Obama nella sua trionfale campagna del 2008: "Yes We Can". Quella descritta dalla Brookings Institution, dal Washington Post e da Time è l'America del "No, We Can't", una nazione stravolta in un solo biennio. Di fronte a un cambiamento di atmosfera così profondo e radicale, il processo a Obama è inevitabile e infatti è già iniziato.

Le accuse sono diametralmente opposte, inconciliabili. Da sinistra gli rimproverano i troppi compromessi, che avrebbero tradito gli ideali di cambiamento: riforma sanitaria, nuove regole per Wall Street, Afghanistan, altrettante delusioni.

La destra lo descrive come un ideologo radicale dell'intervento pubblico, che ha dissipato risorse, ingigantito la burocrazia federale, ipotecando il futuro del paese sotto una montagna di debiti. Sentiremo ripetere questi argomenti nei prossimi giorni, fino alla nausea. Ma il processo agli ultimi due anni non è necessariamente il modo migliore per capire i prossimi due.

Mercoledì mattina, appena chiariti i risultati delle elezioni di mid-term, sarà di fatto il primo giorno della campagna elettorale per le presidenziali del 2012. Una battaglia dove ancora una volta tutto si giocherà sull'economia.

Il premio Pulitzer David Broder la riassume così: "Se Obama non riesce a rilanciare la crescita prima del 2012, non sarà rieletto. La stessa recessione che ebbe un ruolo determinante per portarlo alla Casa Bianca nel 2008, ha lasciato un'eredità che può costargli la riconferma tra due anni. Il guaio è che nessun governo ha il potere di controllare il ciclo economico. L'economia non si lascia comandare dalla politica. Su questo terreno, anche se Obama sembra molto superiore ai suoi potenziali avversari di ambedue i partiti, non ha dei vantaggi: può analizzare correttamente le forze d'inerzia dell'economia, non può dominarle".

Ma gli stessi repubblicani devono guardarsi dal sopravvalutare la vittoria di domani. L'indagine della Brookings è chiara: gli americani "sfiduciano" l'intero Congresso (destra e sinistra) ancor più del presidente: solo il 19% dà un giudizio positivo dei parlamentari nel loro insieme.

E dopodomani? "Gridlock" ovvero "paralisi di governo" è lo scenario prevalente per il prossimo biennio: una partita di veti incrociati tra democratici e repubblicani sempre più polarizzati verso le ali estreme. Non una ricetta ideale per il paese che ha perso la fede nel suo futuro.