lunedì 8 novembre 2010

Il troiaio italiota

Un altro episodio della telenovela "Il troiaio italiota"....


E' arrivato il 25 aprile
di Massimo Giannini - La Repubblica - 8 Novembre 2010

Sembra impossibile, eppure il 25 aprile è arrivato davvero. Gianfranco Fini chiude il sipario, su Berlusconi e sul berlusconismo.

Scaduto il tempo delle segrete trame di palazzo, gli oscuri riti bizantini, i vecchi tatticismi da Prima Repubblica. Esaurito lo spazio per i giochi del cerino, le partite a scacchi, lo sfoglio dei tarocchi.

Quello che va in scena non è più il solito "teatrino della politica" che il Cavaliere esecra abitualmente a parole, rappresentandolo quotidianamente nei fatti. È invece il dramma pubblico di una maggioranza che si dissolve.

L'ultimo atto, esibito sul palcoscenico delle tv, di un governo che muore. La cerimonia degli addii collettivi ad un partito mai nato. Non sappiamo esattamente come e quando cadrà il Berlusconi IV. Stavolta sappiamo però che la fine è imminente.

Questione di ore, tutt'al più di giorni. E il Paese si libererà anche di questa ennesima, fallita messinscena cesarista. Di questo ulteriore, disastroso esercizio di leaderismo populista.

Dovrà ricredersi, chi da Perugia si aspettava un Fini ambiguo e attendista sul destino del governo, o prudente e possibilista sul futuro della maggioranza. Il presidente della Camera è stato netto e inequivoco, sul primo e sul secondo.

Il famoso "Patto di legislatura" che Berlusconi gli ha riproposto mercoledì scorso durante la direzione del Pdl è una cambiale in bianco che nessuno potrebbe firmare, perché ormai palesemente scaduta.

Era stato lo stesso Fini a fare al premier un'analoga offerta, a Mirabello, in un estremo tentativo di ricucire uno strappo che già allora si intuiva non più ricomponibile. Anche questo risibile ping pong, adesso, è finito.

Il leader di Futuro e Libertà chiede al premier di prenderne atto. Di salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni, di riconoscere di fronte all'Italia che il governo non ce l'ha fatta e che ne serve un altro, con una nuova agenda, un nuovo programma e soprattutto con una maggioranza più ampia e allargata all'Udc. Pena il ritiro della delegazione del Fli dall'esecutivo.

Quello di Fini è stato, innanzi tutto, un atto di coraggio politico. Non era facile, per l'erede di Giorgio Almirante, consumare fino in fondo la rottura con l'alleato che, dal 1994, ha definitivamente sdoganato la destra post-missina nell'arco costituzionale, ha fatto entrare An nella stanza dei bottoni e il suo capo nell'ufficio di presidenza della Camera dei deputati.

Non era scontato, per il co-fondatore del Pdl, decretarne unilateralmente la definitiva bancarotta politica, addebitandone tutta intera la responsabilità al fondatore.

Era il 17 novembre di tre anni fa, a Piazza San Babila, quando il Cavaliere lanciava la Rivoluzione del Predellino. Non erano le "comiche finali", come le liquidò troppo frettolosamente lo stesso Fini. Era invece l'inizio di una "commedia politica" che lui stesso avrebbe contribuito a rappresentare nei molti mesi successivi, dentro il Partito del popolo delle Libertà.

Ma oggi è proprio questo progetto che è fallito, perché non è stato capace di dare anima e corpo alla "rivoluzione liberale" che aveva promesso, e perché ha esaurito la sua missione nel momento in cui ha costruito se stesso sull'illusione che l'intera destra italiana potesse riflettersi e riassumersi in Silvio Berlusconi, e che tutto il resto fosse un orpello ridondante, quando produceva condivisione, o un intralcio ingombrante, quando esprimeva dissenso. Fini lo ha capito e lo ha detto, facendo mea culpa. L'uomo è il messaggio: su questa scorciatoia falsamente carismatica e smaccatamente populista è fallito il Pdl.

E con il partito è fallito il governo. Non "governo del fare", piuttosto "governo del fare finta". Governo che "non ha più il polso del Paese", che galleggia sulle emergenze, che "vive alla giornata".

Senza vedere, ma anzi spesso contribuendo a creare l'indebolimento dell'identità nazionale, la caduta della coesione sociale, il crollo di competitività dell'economia, la diffusione della cultura dell'arbitrio e dell'illegalità, il decadimento morale e la perdita di decoro delle istituzioni infangate dal Ruby-gate.

Di nuovo: Fini lo ha capito e lo ha detto, denunciando lo scandalo pubblico che interroga e pregiudica la nostra democrazia. Raccontando agli italiani tutto quello che sta accadendo sotto i loro occhi, e che solo un sistema televisivo addomesticato dal regime finge di non vedere e si sforza di nascondere. E ha avuto la forza di dire basta.

Ma quello di Fini è stato anche un atto di posizionamento strategico. Il leader futurista sapeva di correre un rischio mortale. Che il suo obiettivo di "staccare la spina" al governo, cioè, potesse esser letto come una banale manovra di palazzo.

Una disinvolta forma di "intelligenza col nemico", per far fuori il "Tiranno" e sostituire il suo governo con una nuova e un po' spuria "macchina da guerra" guidata da molte, troppe mani: Fli e Pd, Udc e Idv, Mpa e Sinistra e Libertà. Una specie di "Cln", che desse effettivamente corso a un atteso 25 aprile, ma che avesse un respiro troppo corto e un orizzonte troppo confuso.

Anche su questo, Fini ha mostrato coraggio, raccogliendo una sfida allo stesso tempo più circoscritta, ma più alta. La sfida è più circoscritta, perché il presidente della Camera ha tracciato con nettezza assoluta i confini di una forza politica, la sua, che nasce, cresce e si consolida rigorosamente nella metà campo del centrodestra.

Certo, un centrodestra che si rifà al popolarismo europeo, e dunque costituzionale, repubblicano, laico. Ma pur sempre un centrodestra. Cioè una forza politica che rivendica i suoi valori fondativi, e che per questo non vuole essere né la zattera di tutti i naufraghi dell'indistinto anti-berlusconiano.

Ma la sfida è anche più alta. Quando ripete che Futuro e Libertà è una formazione che punta a raccogliere il consenso dei moderati italiani, confermando che la sua costituency politica è e resta la destra italiana e che a quel mondo vuole parlare e in quel mondo vuole prendere voti, Fini osa l'inosabile. Si candida ad esserne il leader.

Dunque il prudente Gianfranco, sempre incline all'attacco e poi al ripiegamento, stavolta rompe gli ormeggi. E si lancia subito, qui ed ora, "oltre Berlusconi". È un passaggio cruciale. Che lo vedrà in mare aperto, forse a navigare insieme ai Bersani e ai Di Pietro contro il "vascello fantasma" del Cavaliere.

Ma è e resta pur sempre un passaggio provvisorio. Affondata la nave berlusconiana, Fini riprenderà la sua rotta, che è quella di dare forma e sostanza a "un'altra destra" italiana, finalmente risolta e compiutamente europea. Apertamente anti-leghista e naturalmente post-berlusconiana. È importante che il leader futurista l'abbia chiarito.

Per sgombrare il campo dagli equivoci, sul durante e sul dopo crisi di governo. Ci potrà essere un nuovo esecutivo, tecnico, istituzionale, di salute pubblica, sostenuto da una maggioranza eterogenea che vari una nuova legge elettorale e tenga salda la barra del timone dell'economia.

Ma sarà molto più difficile che, in caso di voto anticipato e sotto le stesse insegne multi-partitiche, nasca un "cartello elettorale" che veda insieme Fini da una parte, e i Vendola, i Ferrero e i Bonelli dall'altra.

Vedremo ora come, quando e dove precipiterà la rottura. Il premier non può accettare l'ultimatum finiano, che lo inchioda ben al di là del "compitino dei cinque punti" richiesto in Parlamento agli "scolaretti" del centrodestra.

Per questo ha già risposto picche. Sia pure chiedendo, com'è logico e giusto, che l'eutanasia del governo si realizzi comunque in Parlamento. Andreottianamente parlando: Berlusconi non può più tirare a campare, può solo tirare le cuoia.

Capiremo presto se dopo la crisi arriveranno altri governi o elezioni anticipate. Nel frattempo ci sarebbe da brindare a champagne, a questo 25 aprile imminente. Ma c'è poco da festeggiare: il "conto" di questi rovinosi due anni e mezzo, purtroppo, li ha pagati e li pagherà l'Italia.


La strada difficile del "governo d'emergenza"
di Francesco Verderami - Il Corriere della Sera - 8 Novembre 2010

Chi ha l'asso in mano? Perché il gioco al rilancio sta per finire, e si vedrà se Berlusconi - grazie al sostegno della Lega e di Tremonti - eviterà l'Opa di Fini e di Casini, o se la legislatura sopravviverà a se stessa con un governo tecnico, fantasma che in queste ore viene evocato o temuto da quanti vedono avvicinarsi comunque lo spettro delle elezioni anticipate.

Si può vivere da separati in casa, così hanno fatto per mesi il premier e il presidente della Camera, ma è impossibile restare sotto lo stesso tetto da divorziati. E ieri l'ex leader di An ha sancito lo strappo, sebbene abbia tentato di non assumersi la paternità della crisi, lasciando a Berlusconi la scelta di dimettersi prima di ritirare la delegazione di Fli dal governo.

Era chiaro che il Cavaliere avrebbe respinto la proposta avanzatagli da Fini e da Casini: «Quei due pretendono le chiavi di casa, ma io non sono disposto a dargliele». È chiaro che toccherà ai futuristi l'ultima mossa.

Il tema è cosa accadrà dopo. Sarà allora che si vedrà chi ha l'asso in mano. Il premier si mostra sicuro dopo essersi garantito la fedeltà di Bossi e di Tremonti, l'anello debole della sua linea di difesa fino a un mese fa, perché il ministro dell'Economia era considerato il potenziale successore del Cavaliere a palazzo Chigi.

Ma Tremonti ha voluto per tempo allontanare da sé ogni sospetto: «È vero che io sarei l'unico a poter guidare un governo tecnico. Ma non intendo vivere il resto dei miei giorni passando per un traditore».

Perciò Berlusconi sostiene di non temere un cambio in corsa, «e se in questa fase la mia irrisolutezza è percepita come debolezza, poco importa. Sto solo recitando una parte». Sarà, ma nel giro stretto dei suoi fedelissimi c'è chi teme che la «permeabilità» dei gruppi parlamentari possa portare a un drammatico smottamento, nel caso in cui si andasse alla prova di forza del voto anticipato per chiudere la partita con Fini. Anche perché il suo rilancio viene interpretato da una parte del Pdl come il gioco di chi può contare sul sostegno di Napolitano.

Ecco quale sarebbe l'asso del leader di Fli, che ieri non solo ha rivelato di avere in mano già una coppia, cioè l'intesa con Casini, ma ha fatto pure intuire il possibile arco di forze politiche e sociali che starebbero nel mazzo per un possibile nuovo governo: oltre a un patto con Udc e Pd per modificare la «vergognosa» legge elettorale, non è un caso se Fini si è attardato a illustrare una sorta di piattaforma programmatica mutuata dall'accordo Confindustria-sindacati «per un nuovo patto sociale».

Ma è un asso ancora ballerino, quello di Fini, se è vero che ancora giorni fa D'Alema spiegava a un compagno di partito che «non c'è nessun governo tecnico all'orizzonte, perché non è pronto nulla».

E come D'Alema è scettico anche Casini. Non solo il leader centrista scommette da mesi con i dirigenti del suo partito che «se cade Berlusconi si voterà in primavera», ma si sta attrezzando alla bisogna, e ha già trovato persino il nome per il famoso terzo polo da tenere a battesimo con Fini e Rutelli: «Lo chiameremo Patto per la nazione».

Chissà se ha cambiato idea da giovedì, da quando - appena rientrato dagli Stati Uniti - ha avuto un colloquio riservato con il capo dello Stato...

Ma nel Pdl c'è chi ritiene che Fini bluffi, che l'asso non sia nelle sue mani, che il Colle voglia star fuori dal gioco del governo tecnico, a cui in queste ore vengono affibbiati tanti nomi pur di vestirlo di dignità politica: esecutivo di «emergenza nazionale», gabinetto «del presidente», governo di «responsabilità istituzionale», di «maggioranza per le riforme».

A parte il fatto che non basta un nome a tramutare una carta in asso. Il gioco prevede che qualcuno chiami il banco.

Potrà apparire surreale, ma da ieri le parti si sono rovesciate: per un presidente della Camera che in modo irrituale apre la strada a una crisi extraparlamentare, c'è un presidente del Consiglio che invoca il rispetto delle regole. Non gli bastano le eventuali dimissioni dal governo dei futuristi, vuole il voto di deputati e senatori: «E non avranno il coraggio di sfiduciarmi».

Il vice capogruppo del Pdl a Palazzo Madama, Quagliariello, anticipa come si andrà a vedere il gioco di Fli: «Se Fini chiedesse ai suoi di lasciare l'esecutivo, Berlusconi li rimpiazzerebbe e verrebbe subito in Parlamento a chiedere la fiducia. Al Senato il voto è scontato. Se la Camera gli votasse contro, non credo che Napolitano si prenderebbe la responsabilità di far nascere un governo tecnico senza il Pdl e la Lega». È un bluff o un rischio calcolato?

E se Berlusconi passasse indenne il voto di fiducia, con l'appoggio esterno di Fli, su quale provvedimento potrebbe cadere? Sgombrato il campo dalla giustizia, di qui a dicembre restano la Finanziaria e il decreto sullo sviluppo.

Tremonti ha già dato la propria disponibilità al confronto con Fli sulla legge di Stabilità, pronto però a piazzare la fiducia se iniziasse l'assalto alla diligenza del partito della spesa: «Non permetterò che passi un solo euro senza copertura».

Giocare l'asso mettendo a repentaglio i conti pubblici è cosa assai rischiosa, a meno di non porre proprio sull'economia le basi di un nuovo governo. Resta da capire chi ha quella carta in mano.

Di sicuro nessuno la mostrerà prima di dicembre, quando la Consulta farà il suo gioco sul legittimo impedimento e la Lega si farà i conti sul federalismo.


Strappo finale, ma poi?
di Pierluigi Battista - Il Corriere della Sera - 8 Novembre 2010

«Futuro e libertà» nasce con un traguardo così ambizioso da sembrare velleitario e irrealistico: costruire un centrodestra che non abbia più Berlusconi come suo indiscusso e carismatico leader.

È questa rilevante ambizione che rende differente la creatura di Gianfranco Fini dalla miriade di partitini che nascono e prosperano esclusivamente nei corridoi affollati delle manovre di palazzo.

Si dà il caso però che Berlusconi non sia (ancora) il passato perché è e continua a essere il leader del centrodestra, il capo del governo, il leader del partito maggiore della coalizione. Perciò lo scontro tra le ambizioni di Fini e la realtà della leadership berlusconiana non può che essere la fonte di un conflitto durissimo, violento, irriducibile, ultimativo.

Una stagione politica lunga ormai più di quindici anni si sta chiudendo drammaticamente. È, deve essere, compito e responsabilità dei leader in conflitto evitare che il loro dramma non si trasformi nel dramma dell'Italia, di un Paese in crisi che rischia seriamente di sprofondare nel caos.

Ponendo una condizione pressoché irricevibile da Berlusconi, Fini ha messo la parola fine al governo nato dal risultato elettorale del 2008. Ha chiesto ai ministri suoi seguaci di rimettere il mandato. Ha rovesciato l'agenda politica suggerita da Berlusconi come base per un eventuale «patto di legislatura».

Ha sottolineato una diversità radicale e inconciliabile con la Lega, principale alleato del premier (pur aprendo al Senato federale). Bisogna dire con chiarezza che non è affatto normale che un presidente della Camera dia il benservito ufficiale al presidente del Consiglio.

Ma perché a questo punto non si aggiunga anomalia ad anomalia, Fini deve prendere un impegno: da presidente della Camera, faccia in modo che non ci sia una crisi extraparlamentare, ciò che stonerebbe in modo troppo stridente con il ruolo istituzionale che ricopre.

Fini ha tutto il diritto di indicare a «Futuro e libertà» la via della sfiducia al governo, ma non al di fuori del Parlamento, fuori e contro le procedure che ogni crisi di governo esige.

Ma se ha a cuore l'interesse della Nazione, se davvero, come ha ripetutamente detto a Perugia, vuole restituire alla politica quella dignità, quella decenza, quel «rispetto delle istituzioni» che si sono smarriti in questi anni, allora non metta a repentaglio il rango internazionale dell'Italia ed eviti almeno che la sfiducia venga esercitata sulla Legge di stabilità.

Sarebbe un gioco troppo pericoloso, troppo irrispettoso per gli interessi italiani. Esporrebbe l'Italia a una pessima figura internazionale.

Se sfiducia ha da essere, che sia su altri provvedimenti, non su leggi su cui l'Italia intera può giocarsi ciò che resta della sua credibilità.

Ma oramai lo strappo si è consumato, la rottura appare irreversibile. A Perugia si è misurato il drammatico errore di Berlusconi, alimentato da consiglieri rancorosi e miopi, di voler liquidare le posizioni di Gianfranco Fini come una molesta questione personale da eliminare con un provvedimento disciplinare (il deferimento ai probiviri, nientemeno).

Il partito che Fini ha fatto nascere a Perugia appare invece come una forza politica vera, proiezione di un'anima autentica del centrodestra italiano. È stato lo stesso Fini a sottolinearlo più volte.

Non vuole che Futuro e libertà esca culturalmente e politicamente dal «perimetro del centrodestra». Non vuole che la rottura con Berlusconi possa preludere a una «subalternità» nei confronti della sinistra. Vuole andare «oltre» Berlusconi e non «contro» il Pdl.

Ora, a rottura consumata, Fini dovrà dimostrare di essere conseguente con queste premesse. Non prestarsi a maggioranze abborracciate e precarie che, fatte salve le prerogative del Quirinale, suonino come un oltraggio alla volontà popolare espressa nel 2008.

Non cedere alla tentazione di governi dai nomi più fantasiosi («tecnici», «istituzionali», «di larghe intese») che assomiglierebbero a un ribaltone e che tra l'altro regalerebbero a Berlusconi la fantastica chance di presentarsi come vittima di una manovra oligarchica e ostile al popolo che ha vinto le elezioni.

Se la rottura è una cosa seria, allora Fini deve accettare di misurarsi con nuove elezioni, anche in presenza di una legge elettorale orribile. Dovrà contribuire a tracciare un percorso di uscita da una stagione politica oramai tramontata avendo come stella polare gli interessi dell'Italia, la sua credibilità internazionale, la sua stabilità finanziaria.

È una porta strettissima. Ma non ce ne sono altre. È la scelta più seria, ma anche la prova della serietà con cui nasce un nuovo partito. Il resto è scorciatoia, giochino politicista, furbizia effimera. Tocca a Fini, non solo a lui, ma soprattutto a lui, imboccare la strada giusta.


Berlusconi punta al rimpasto
di Ugo Magri - La Stampa - 8 Novembre 2010

Ma nel partito si fa strada la corrente che pensa a un nuovo governo con il cambio del premier

La certezza cui Berlusconi s’aggrappa, con la forza disperata di chi penzola sul burrone, sta ormai solo ed esclusivamente nella paura altrui, dei deputati e dei senatori che rischiano di tornare a lavorare, come tutti, se le Camere verranno sciolte. Per cui il premier continua a ripetere: «A dimettermi non ci penso nemmeno, se Fini ha il coraggio mi voti contro.

A quel punto li voglio proprio vedere, io, certi suoi deputati che lo seguono sapendo che andranno a casa senza più essere rieletti». Ovviamente non dice solo questo, il Cavaliere. Per quanto Letta e Bonaiuti si sforzino di farlo tacere, è tutta una processione di «pie donne», ministre, sottosegretarie che lo chiamano per consolarlo, e con loro Silvio non resiste al bisogno umanissimo di sfogarsi: «Ho sentito da Perugia un discorso vergognoso, dalla sinistra Fini ha raccolto il peggio del peggio del peggio...».

A fedelissimi come Osvaldo Napoli fornisce spunti per denunciare la «spregiudicatezza» di Gianfranco, «non si può essere al tempo stesso presidenti della Camera e picconatori dell’equilibrio politico».

Ma poi il sangue gli si raffredda, e Berlusconi ostenta la sicurezza del condottiero prima della battaglia: «State tranquilli, noi andiamo avanti». Ha un piano in mente, che funzioni o meno lo vedremo presto, nei prossimi giorni.

Non appena Fini impartirà ai suoi ministri (che poi è uno, Ronchi, più il viceministro Urso, più i sottosegretari Menia e Bonfiglio) l’ordine di dimettersi, a quel punto il Cavaliere salirà sul Colle. Non per gettare la spugna, come gli chiede il rivale; ma per indicare altri quattro nomi a Napolitano.

Un rimpasto, insomma, in perfetto stile Prima Repubblica (come del resto la crisi al buio che gli sollecita Fini). Berlusconi scommette che il Capo dello Stato dirà: «D’accordo il rimpasto, ma presentati in Parlamento per verificare se ti reggi ancora sulle tue gambe...». A quel punto lui si recherà davanti alle Camere.

E il piano escogitato con i capigruppo Cicchitto, Gasparri e il vicario Quagliariello prevede che il «redde rationem» prenda il via non già da Montecitorio, dove il governo senza Fli sarebbe virtualmente in minoranza, bensì con un dibattito a Palazzo Madama.

Già, perché l’ultima volta che si votò la fiducia in Senato (era il 30 settembre) il margine del vantaggio berlusconiano fu lì di 45 voti. Senza i finiani sarebbero stati 25, comunque abbastanza per tirare a campare.

Il Cavaliere spera di fare il bis. E quando il dibattito si trasferirà alla Camera con il punto fermo messo al Senato, ecco scattare la paura folle dei «peones», specie quelli senza patria e senza bandiera; ecco traballare (perlomeno nella sua mente) le certezze finiane: «Chi mi voterebbe contro saprebbe perfettamente di condannare a morte la legislatura, dunque ci penserà due volte e non commetterà l’errore».

La sua scommessa è di riportare a casa 12-15 voti, quanto basta per ottenere l’«autosufficienza» a Montecitorio, insomma di sfangarla pure stavolta. Però si tratta di un piano molto molto fragile, proprio come il ramo cui Silvio si aggrappa. Basta un nonnulla per farlo saltare.

Napolitano potrebbe (in teoria) negare il rimpasto e chiedere una crisi vera; sulla sede del dibattito potrebbe aprirsi uno scontro istituzionale tra Schifani e Fini; infine non è detto che a Palazzo Madama Berlusconi porti a casa la maggioranza, certezze non ve ne sono. Ecco perché in queste ore, nello stesso partito del premier, comincia a circolare l’ipotesi di un «piano B», casomai qualcosa andasse storto e la maionese impazzisse.

Piuttosto che correre il rischio di un «governo tecnico» senza Pdl e Lega, da cui verrebbe massacrato sul piano politico e giudiziario, qualcuno azzarda: Silvio stesso potrebbe scegliere il male minore. Cedendo ad altri il volante della coalizione che, se lui ne lasciasse la guida, si ricomporrebbe in un battibaleno, allargandosi magari addirittura a Casini... Il nome del nuovo pilota in quel caso potrebbe essere uno e uno solo, Tremonti.

La Lega? «Noi ci potremmo stare», sussurra un esponente di punta del Carroccio, «basta che non significhi tradire Silvio».

Comunque vada, per il quarto governo Berlusconi già scorrono i titoli di coda.


La sfida di Fini: perchè il gioco del cerino non è ancora finito
di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - 7 Novembre 2010

La metafora del cerino è abusata, ma rende bene l'idea di quello che sta accadendo nell'area dissestata del centrodestra. Il rischio è che, a forza di passarselo di mano in mano, tutti alla fine si brucino le dita con questo fiammifero.

A Perugia abbiamo assistito al penultimo atto di uno psicodramma sempre più incomprensibile per il normale cittadino, ma ben in grado di descrivere il disfacimento della maggioranza e quindi del governo.

Le elezioni anticipate sono via via più vicine, ma nessuno, neanche Fini, ha la volontà o il coraggio di pronunciare a viso aperto l'ultima parola. È un susseguirsi di penultime parole.

Di solito un partito che vuole provocare la crisi ritira senz'altro i suoi ministri dal governo. Invece nel nostro caso siamo ancora un passo indietro rispetto a questa soluzione lineare. Fini ha intimato a Berlusconi di rassegnare le dimissioni e di dar vita al negoziato per un altro governo, aperto all'Udc.

Un governo che dovrebbe mettere in un angolo la Lega, a vantaggio dell'asse "Futuro e Libertà" più Casini. Scenario suggestivo, ma politicamente poco verosimile.

Logica vorrebbe che dopo la risposta negativa di Berlusconi (il quale, non dimentichiamolo, ha ricevuto la fiducia in Parlamento appena poche settimane fa) Fini facesse dimettere i suoi ministri già oggi, aprendo in via ufficiale la porta alla crisi dell'esecutivo.

Tuttavia occorre attendere, perché il gioco del cerino continua. Come la fiducia di fine settembre aveva poco significato, così oggi lo scambio di ultimatum sembra poco convincente.

L'unica verità è il logoramento inarrestabile di un centrodestra che due anni fa ha vinto le elezioni e che ha deluso molto in fretta tutte le attese. E' chiaro che così non si potrà andare avanti ancora a lungo.

Ma lo spettacolo a cui abbiamo assistito oggi non è ancora l'epilogo. Ci saranno colpi (alcuni bassi) e contraccolpi. E la fine di questa legislatura, coincidente con l'ultimo atto della lunga stagione berlusconiana, non sarà indolore. Forse sarà drammatica.


Pd, Civati chiude convention dei Rottamatori. “Bersani? Non ha capito cosa vogliamo fare”
da www.ilfattoquotidiano.it - 7 Novembre 2010

Trasparenza, legalità, fiducia, libertà, speranza di questo i giovani del Pd hanno parlato a Firenze. Renzi attacca Fini e Berlusconi: "Giocheranno fino all’ultimo a capire chi dei due rimane con il cerino in mano. Vedremo se è una cosa seria o se faranno ammuina"

”Non chiediamo posti, ce li prenderemo”. Sono le parole del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a dare il quadro finale della tre giorni di ‘Prossima Fermata Italia’, la convention dei cosiddetti “rottamatori” del Pd. Chiamati all’appello del primo cittadino fiorentino, i giovani del Pd hanno parlato di trasparenza, legalità, fiducia, libertà, speranza.

Mentre Giuseppe Civati, l’altro promotore della manifestazione, raggiunto dal FattoQuotidiano.it dice: “Bersani? Molto semplicemente non ha capito cosa vogliamo fare”.

Ma alla Stazione Leopolda l’attenzione è anche su quanto (quasi in contemporanea) sta accadendo a Perugia. A pochi minuti dal termine dell’intervento di Fini, Renzi attacca il leader Fli, il rottamatore dell’altra sponda: “Il fatto che Fini oggi dica a Berlusconi dimettiti, mi fa pensare che voglia ripercorrere un rito della prima Repubblica. Giocheranno fino all’ultimo a capire chi dei due rimane con il cerino in mano. Vedremo se è una cosa seria o se faranno ammuina”.

La platea è numerosa e ricca di volti conosciuti nelle file del Pd, tra gli altri Giovanna Melandri, Ermete Realacci, Michele Emiliano, oltre all’ex direttore dell’Economist, Bill Emmott. ”Non chiediamo posti, ce li prenderemo da soli – avvisa Renzi – ci mettiamo in gioco perché abbiamo sogni concreti da condividere”. Poi, tra i giovani, salgono sul palco Deborah Serracchiani e Ivan Scalfarotto.

Quest’ultimo fa sapere di avere inviato un sms “accorato” a Bersani, chiedendogli di venire, ma senza ricevere alcuna risposta. Un particolare che la dice lunga sullo stato dei rapporti interni al partito e che trova riscontro nelle parole di Michele Emiliano, sindaco di Bari: “Ho fatto ogni sforzo perché Bersani venisse qui, gliel’ho detto in tutte le lingue”.

L’altro promotore della convention, Pippo Civati, spiega al Fatto on line: “Nessuno, in questi tre giorni, ha parlato del nostro partito. Non ci interessa. Abbiamo trattato, invece, temi e idee che vorremmo portare all’attenzione del Pd: futuro del centro sinistra, ambiente, diritti di cittadinanza. Cose di cui non parla nessuno. Abbiamo chiaramente cercato di tenere fuori dal nostro incontro pensieri su nuove correnti. Ma Bersani non l’ha capito. E ci attacca”.

A margine della manifestazione, i giovani democratici tirano le somme. Renzi fa sapere che in caso di elezioni anticipate non si candiderà alle primarie. “La vera sfida da domattina è fare il proprio lavoro, non ho intenzione di candidarmi, io faccio il sindaco di Firenze, l’ho detto più volte e lo ribadisco”. Sulla stessa linea Civati: “Io candidato alle primarie? Lo escludo assolutamente”. In ogni caso, conlude Renzi: “Alle elezioni, ahimè non ci si andrà”.


O il partito alternativo al partito unico delle due coalizioni o un golpe o la dissoluzione della Repubblica Italiana
di Stefano D'Andrea - www.appelloalpopolo.it - 7 Novembre 2010

La follia dell'antiberlusconismo

E’ ancora frequente ascoltare persone, anche intelligenti, che attribuiscono le colpe del decadimento civile e sociale della nazione “in primo luogo” o “principalmente” o “soprattutto” a Berlusconi. Nelle persone intelligenti, soltanto l’odio per il presidente del consiglio può giustificare asserzioni che sono palesemente prive di fondamento.

Le persone non intelligenti, invece, per principio non ragionano; o meglio non ragionano bene; i loro discorsi sono lo specchio fedele dei “ragionamenti” che i tifosi delle squadre di calcio svolgono al bar dello sport: discorsi da tifosi, sragionamenti, sfoghi, sopravvalutazioni e sottovalutazioni alle quali si finisce per credere.

Orbene, siccome è nostra convinzione che le (ultime) speranze per l’Italia risiedano nella nascita di un partito politico alternativo al partito unico delle due coalizioni – un partito inizialmente minoritario ma capace di attrarre progressivamente consensi – ancora una volta vogliamo argomentare che i due schieramenti sono parimenti responsabili e che, quindi, non esiste ragione alcuna per voler preservare una parte, anche minima, dell’attuale ceto politico e per desiderare che essa entri, quando verrà il momento, nelle fila del nuovo partito.

Se pertanto ribadiamo osservazioni e argomenti già espressi è per invitare a boicottare ogni iniziativa politica del centrosinistra e di eventuali traditori del centrodestra, volta a costruire “grandi alleanze democratiche” o “alleanze per la Costituzione” e simili, sul presupposto (falso) che la cosa più importante per il popolo italiano sia far fuori Berlusconi.

Per il popolo italiano, infatti, e principalmente per quella parte che si schiera con (e vota) il centrosinistra, la cosa più importante è comprendere che centrosinistra e centrodestra sono corresponsabili, con pari colpe (pari, uguali, identiche, non distinguibili colpe), di aver condotto la nazione in una situazione di sfacelo.

Infatti, in primo luogo, non è sostenibile che la colpa del centrosinistra sia consistita nel non aver arrestato – non essere riuscito ad arrestare – il decadimento provocato e quasi perseguito dal centrodestra.

Non sarebbe onesto, salvo accogliere una nozione di decadimento tutte centrata sulla illegalità costituzionale, che effettivamente è stata appannaggio (quasi) del solo centrodestra (ma esclusivamente con riguardo alla illegalità relativa alla organizzazione dello Stato; i principi costituzionali relativi ai rapporti economici, per esempio, sono stati collocati tra parentesi da entrambi gli schieramenti) e sulle leggi ad personam.

Se, invece, più onestamente, si muove da una concezione ampia del decadimento, che tenga conto dei diversi campi e profili, allora è impossibile negare che esso sia, in misura sostanzialmente eguale, imputabile ai due schieramenti, ossia alle due correnti del partito unico delle due coalizioni.

Si considera decadimento la diversa distribuzione dei poteri tra stato e regioni che, a tacer d’altro, è palesemente disfunzionale? E chi è che ha voluto e approvato la (penosa) riforma costituzionale per soli tre voti? Il centrosinistra.

Si considera decadimento la svendita delle aziende pubbliche? E chi è che ha realizzato il maggior numero di privatizzazioni, almeno tra quelle più rilevanti? Il centrosinistra.

Si considera decadimento l’abbassamento del livello medio dei docenti e degli studenti universitari, la proliferazione delle sedi universitarie periferiche e la perdita di organicità e rigore dei corsi di studio? E chi ha voluto e attuato la riforma che ha introdotto il cosiddetto 3+2?

Chi ha voluto e emanato la normativa concorsuale provvisoria (tre idoneità per ogni concorso locale!), che è stata efficace un paio di anni, la quale ha consentito alle consorterie accademiche di bandire innumerevoli concorsi, in modo da quasi raddoppiare in breve tempo il numero dei professori ordinari e associati per i singoli settori scientifico-disciplinari e da creare grandi difficoltà ai ricercatori delle nuove generazioni?

Chi ha concesso alle università l’autonomia che consentiva ai consigli di facoltà e ai rettori di realizzare lo scempio che si è verificato? Chi ha introdotto il criterio volto a distribuire i soldi provenienti dalla fiscalità generale in base al numero degli studenti laureati in corso o in base ad altre condizioni simili, le quali hanno indotto a rendere più facili e quindi allo stesso tempo peggiori e classisti gli studi universitari? Il centrosinistra.

Si considera decadimento la perdita della stabilità del posto di lavoro? E chi ha modificato inizialmente la legislazione sul lavoro, colpendo in modo significativo la stabilità del rapporto? Il centrosinistra.

Forse con riguardo al proliferare del gioco e delle scommesse (lotterie, gratta e vinci, slot machines, scommesse sportive, triplicazione delle giocate settimanali del lotto) il centrosinistra ha responsabilità inferiori al centrodestra? No.

Ed è dato cogliere anche una sola posizione critica verso il TUF (testo unico della finanza) che consenta di differenziare la politica del centrosinistra da quella del centrodestra in materia di intermediari finanziari? No.

Avete mai sentito un solo politico del centrosinistra criticare la proliferazione degli intermediari finanziari, il credito al consumo, finalizzato e non, le rottamazioni delle auto o l’introduzione delle carte di credito revolving? Non credo; e, comunque, al più si è trattato di posizioni minoritarie assunte da deputati di poco rilievo.

E si può asserire che il centrosinistra si è opposto alla validità e alla diffusione degli swap e dei contratti derivati in generale, che hanno mediamente aumentato il debito delle nostre imprese e degli enti pubblici? No, non si può assolutamente asserire.

Soprattutto, chi ha abrogato definitivamente l’equo canone? Il governo D’Alema, rammentiamolo. Il centrosinistra si è forse opposto ai crediti immobiliari pari al 100% del valore degli immobili e anzi al 120%, perché le perizie delle banche erano notoriamente truccate, finanziamenti che hanno creato la bolla immobiliare?

Avete mai ascoltato un esponente del centrosinistra criticare le leggi e le prassi che hanno provocato la bolla immobiliare perché quest’ultima danneggia chi deve acquistare casa con i proventi del proprio lavoro?

Il centrosinistra si è mai mobilitato per la elaborazione e il finanziamento di un piano per l’edilizia cooperativa e popolare? No, no e no.

Università, politica della casa e bolla immobiliare, derivati, carte revolving, indebitamento privato e intermediari finanziari in generale, diffusione delle società di scommesse autorizzate, perdita della stabilità del posto di lavoro, privatizzazioni, proliferazione dei centri commerciali e uccisione del commercio, conferimento di maggiori poteri normativi e amministrativi alle regioni che sono il luogo principale della corruzione; in tutti questi importanti settori (e in molti altri) non si può onestamente asserire che le colpe del centrosinistra siano state minori di quelle del centrodestra.

Anzi, in molti dei settori indicati le responsabilità del centrosinistra sono state palesemente maggiori.

Insomma, soltanto la disonestà intellettuale o l’ottundimento cerebrale, di origine mediatica (per esempio, il quotidiano La Repubblica) o partigiana (l’odio per Berlusconi) possono condurre a negare che il centrosinistra è responsabile dello sfacelo quanto il centrodestra (per certi versi di più e per altri di meno).

Ma allora, chi muova dal presupposto che non esiste alcuna ragione per reputare che, dopo le prossime elezioni, il centrosinistra legifererà e governerà meglio del centrodestra, deve evitare di cadere nell’errore di essere disposto per l’ennesima volta, pur di non far vincere il centrodestra o comunque quella parte del centrodestra che alle prossime elezioni si schiererà con Berlusconi, a votare per uno dei partiti del centrosinistra, fosse anche Sinistra Ecologia e Libertà.

Il problema principale non è “far fuori” Berlusconi. Il problema principale è “far fuori” il partito unico delle due coalizioni, che del berlusconismo e dell’antiberlusconismo si nutre da sedici anni, traendone sempre nuova linfa e forza.

Chiunque si aggreghi all’una o all’altra delle due coalizioni del partito unico è pienamente responsabile del decadimento civile, politico e morale della nazione.

Chiunque voti uno dei partiti delle due coalizioni, pur essendo consapevole del disastro realizzato nell’ultimo quindicennio da centrodestra e centrosinistra, dovrà essere considerato colpevole.

Non c’è Vendola o Vendolismo che tenga. Chiunque voterà Sinistra Ecologia e Libertà e quindi il centrosinistra, nella consapevolezza che quest’ultimo è responsabile come e più del centrodestra del decadimento civile, politico e morale del paese (vi siete mai chiesti quale sarebbe stata l’entità del disastro se il centrosinistra avesse governato per sedici anni, anziché per sette?) sarà responsabile della fine della Repubblica a titolo di dolo e non di colpa: in un momento drammatico della storia della Repubblica, nel quale era necessario agire e votare per disintegrare il partito unico delle due coalizioni, avrà deliberatamente agito e votato per tenere in vita gruppi politici talmente debosciati che hanno spalancato all’Italia le porte dell’esito Jugoslavo della crisi della Repubblica.

Che fare? Alternativa, il Movimento per la decrescita felice, Per il bene comune, e altre associazioni hanno promosso la costituzione di un nuovo soggetto politico, alternativo al centrodestra e al centrosinistra.

Se il processo andrà avanti, come mi auguro, credo che si dovrà votare per questo nuovo partito, senza curarsi delle contraddizioni, della vaghezza di uno o altro profilo del programma, e di prese di posizione sulle quali non si consente.

Il tempo farà maturare una forza giovane, che, inizialmente, dovrà essere giudicata esclusivamente per le principali idee forza e per la sua alternatività al partito unico delle due coalizioni.

Naturalmente, più Giulietto Chiesa, Maurizio Pallante e Fernando Rossi sapranno sacrificare, in vista del partito unitario, ciò che fino ad ora essi hanno costruito (o concorso a costruire), migliori saranno i risultati. Più considereranno le loro organizzazioni rivoli destinati a confluire in un fiume che tra qualche anno dovrà essere in piena e più agiranno in coerenza con l’ambizione del progetto.

Noi cittadini, che per una o altra ragione continuiamo ad interessarci di politica, abbiamo il dovere, non soltanto di votare il nuovo partito, se sorgerà, bensì di interessarci, di partecipare alle assemblee cittadine che saranno organizzate, di entrare nel partito quando è ancora allo stato nascente e di svolgere dentro di esso la battaglia delle idee.

E’ l’ultima speranza. O meglio è la penultima. Se fallisse il tentativo di costituire il partito alternativo al partito unico delle due coalizioni, resta sempre la possibilità di un colpo di stato.

Se il popolo è incapace di reagire e continua a seguire e a votare gruppi politici che stanno minando le basi della Repubblica; se in un determinato periodo storico il popolo diventa o si rivela fanghiglia; se non mostra di avere le risorse per estrarre dal suo seno idee nuove e politici nuovi, i quali, sebbene minoritari, sappiano assumere una dimensione e un rilievo nazionali e quindi abbiano la possibilità di giocarsi le loro carte; quando tutto ciò si verifica, allora la Repubblica può (eventualmente) essere salvata soltanto da uomini armati.

Talvolta è accaduto nella storia; e in casi estremi il colpo di stato diventa addirittura una speranza.

Chi si augura che la Repubblica sia salvata dal Popolo e non da élite armate, deve impegnarsi nella costituzione del partito alternativo al partito unico delle due coalizioni.

Non c’è tempo da perdere. Coloro che per “far fuori” Berlusconi voteranno ancora una volta per una delle coalizioni del partito unico che governa l’Italia da sedici anni sappiano che stanno preparando all’Italia la tragica alternativa: colpo di stato o dissoluzione.

E scrivo dissoluzione, non guerra civile. Perché credo che, nella ipotesi delineata, che ci auguriamo non si verifichi, il popolo, proprio perché divenuto o rivelatosi fanghiglia, accetterebbe le secessioni come fatti e non avrebbe nemmeno la forza e il senso del dovere di combattere una guerra civile.