martedì 9 novembre 2010

News Shake

Ritorna la rubrica News Shake. Notizie a caso ma non per caso...


L'asse del Nord
di Massimo Franco - Il Corriere della Sera - 9 Novembre 2010

Il tentativo di far finta di nulla è evidente. Si desume dal silenzio di Silvio Berlusconi e dalla volontà della Lega di andare avanti come se Gianfranco Fini domenica non avesse lanciato nessun ultimatum. Ma è la coda sempre più corta di una tattica che si sta esaurendo. Si tratta di prendere atto che una fase è archiviata; e che la crisi di governo si avvicina.

Ora si tratta di evitare che l'implosione del centrodestra danneggi l'Italia. Per questo il Quirinale ricorda che bilancio dello Stato e patto di stabilità sono «impegni inderogabili»: teme un impazzimento della situazione. Ma l'accelerazione è nelle cose. Ormai non si parla più del se né del quando il governo cadrà: si sta scommettendo sul come, senza che nessuno sia in grado di prevederlo.

A rendere drammatica la corsa contro il tempo è la sentenza della Corte costituzionale sul «legittimo impedimento» prevista per metà dicembre; e l'apertura di un fascicolo contro il premier da parte del Csm con l'accusa di avere «leso il prestigio dell'ordine giudiziario» e del pm del processo Mills, Fabio De Pasquale. Ma su quanto accadrà dopo è buio fitto.

L'incontro di ieri fra Berlusconi e Umberto Bossi con tutto il vertice leghista è un punto a favore del premier. Conferma una sintonia con il Carroccio che prelude a un «no» a qualunque soluzione subordinata all'attuale governo, quando cadrà; e a una posizione comune nella richiesta di elezioni anticipate, sebbene la Lega cerchi ancora una mediazione col Fli.

D'altronde, la via d'uscita suggerita da Fini è percorribile solo in teoria: una coalizione con dentro anche l'Udc di Pier Ferdinando Casini significherebbe l'ammissione del fallimento dell'«asse del Nord». E comunque, il modo ultimativo col quale è stata proposta la fa sembrare un vicolo cieco.

Fini ha detto di voler rafforzare il centrodestra; ma in parallelo ha annunciato il ritiro dei ministri del Fli entro 48 ore se Berlusconi non accetta le sue condizioni: termine che potrà dilatarsi al massimo di qualche giorno, perché l'opposizione gli vuole impedire di tergiversare.

Ancora, il presidente della Camera fa dichiarare ai fedelissimi di essere candidato alla guida del «nuovo centrodestra»; ma intanto accarezza l'idea di un'alleanza con l'Udc che combatte il bipolarismo e cerca un «terzo polo»: ipotesi realizzabile soltanto se sarà eliminato il premio di maggioranza.

Insomma, a breve termine Fli e Udc perseguono lo stesso obiettivo: scalzare Berlusconi e dar vita a un governo che cambi la legge elettorale. E i loro leader ripropongono un sodalizio rottosi fragorosamente nel 2008, quando Fini scelse il Pdl e lasciò Casini al proprio destino solitario.

Ma sul loro percorso pesano incognite legate in primo luogo a chi si assumerà la responsabilità della crisi. Se si andasse alle urne a primavera senza cambiare sistema elettorale, le ambizioni dell'Udc e quelle finiane potrebbero rivelarsi difficili non solo da affermare ma da conciliare. Nelle fasi di transizione sono tutti più soli.


La Grande Crisi sullo sfonfo della piccola crisi
di Fabrizio Tringali - Megachip - 8 Novembre 2010

Le parole pronunciate da Gianfranco Fini a Perugia impongono alcune riflessioni sulla crisi e sui possibili scenari del prossimo futuro. Se guardiamo alla situazione politica in modo non troppo superficiale, possiamo scorgere che la crisi di governo non ha nulla che fare con le liti tra Fini e Berlusconi.

Né tantomeno con presunte pretese di legalità di FLI, che sono solo strumentali all'attacco al premier. La crisi di governo è figlia della crisi economica.

Il governo non ha dato le risposte che i detentori del potere economico si attendevano. La Confindustria, le grandi banche, i cosiddetti "poteri forti" hanno deciso di disarcionare il Cavaliere.

Ma anche Berlusconi è un "potere forte". Molto forte. Qualsiasi altro leader mondiale, in qualsiasi altra parte del mondo, avrebbe perso il potere molto prima di lui.

Ma il sistema di media nelle mani di B. spunta tutti gli attacchi contro di lui, e pone tutti i possibili avversari sotto costante ricatto. Chiunque spari contro il Capo può essere sottoposto al "trattamento Boffo". E i possibili avversari di B. non sono certo anime candide...

Forte di tutto ciò, il Cavaliere disarcionato non ha nessuna intenzione di farsi da parte. D'altra parte tutto il resto dei “poteri forti” e “semiforti” è alla disperata ricerca di un cavallo su cui puntare: un premier che non pensi solo a salvare se stesso, ma tutti loro, provando a riportare il Paese in crescita.

Un premier che allontani Tremonti dal suo dicastero. Il che farebbe uscire la Lega Nord dal governo, ma aprirebbe le porte all'UDC, al MPA di Lombardo e anche a un buon numero di transfughi.

Un premier necessariamente membro del PDL, ma autonomo rispetto al capo. In grado di fare un patto con Berlusconi per garantirgli lo scudo giudiziario di cui ha bisogno (e che FLI e UDC hanno sempre detto di voler votare). Un premier di garanzia istituzionale, che sia ben visto anche dal PD.

Solo una persona corrisponde all'identikit: Beppe Pisanu.

Potrebbe essere lui a formare un nuovo governo, sostenuto da PDL, FLI, UDC, MPA, e un manipolo di altri parlamentari "responsabili", cioè sempre pronti a saltare sul carro del vincitore, come Rutelli.

Scenario possibile? Forse.

Dipende dalle decisioni di B, e dalla sua disponibilità a trovare un accordo che gli garantisca l'impunità, ma lo privi della guida del governo.

Se sceglierà lo scontro frontale porterà il Paese alle urne.

Tuttavia, qualunque sia lo scenario destinato a concretizzarsi, l'uscita dalla Crisi – quella maiuscola - è quanto di più lontano si possa immaginare.

Nessuno riporterà il Paese in crescita. Perché è impossibile. Per quanto riguarda noi, che non siamo "poteri forti", ma semplici cittadini, il ritorno alla crescita non è nemmeno auspicabile.

Esso presuppone il pieno asservimento di tutti noi alle logiche della massimizzazione della produzione e al saccheggio del territorio e dei diritti. Il piano Marchionne esteso a tutte le categorie di lavoratori.



FMI, le novità a caro prezzo
di Federico Zamboni - www.ilribelle.com - 8 Novembre 2010

Ufficialmente si magnifica l’apertura ai Paesi emergenti. Di fatto la contropartita è il raddoppio del capitale, che salirà a oltre 750 miliardi di dollari

Basterebbe il frasario utilizzato da Dominique Strauss-Kahn, per allarmarsi e domandarsi dove stia l’inghippo: «È una decisione storica, la più decisiva nei 65 anni di vita del Fondo e quella che rappresenta il maggiore spostamento di influenza in favore delle economie emergenti e quelle in via di sviluppo, riconoscendone un ruolo crescente nell’economia mondiale».

Un inno alla modifica dell’assetto originario. Un inno, apparente, al ridimensionamento del potere detenuto dagli Stati che finora hanno dominato il Fondo Monetario Internazionale, a vantaggio di altri soggetti che in passato avevano avuto minor peso.

Innanzitutto sparisce uno dei privilegi istitutivi, l’appartenenza di diritto all’organo di gestione (Executive Board, composto da 24 membri e correntemente definito col solo termine “board”) di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna. Poi i Paesi Ue, peraltro avviati a una possibile rappresentanza unitaria, rinunciano a due degli otto posti di cui dispone attualmente.

Ma tutto questo, se non si conosce il meccanismo di voto all’interno dell’Fmi, può risultare fuorviante. A differenza delle normali assemblee di tipo politico in cui vige, almeno formalmente, il classico principio “una testa, un voto”, in questo caso si applica invece una logica da società per azioni, per cui l’incidenza dei singoli dipende dal valore delle rispettive quote.

Per restare nell’ambito dei primi venti, al di sotto dei quali la partecipazione è talmente polverizzata da diventare irrilevante, gli Usa svettano su tutti col 17,41 per cento, seguiti a congrua distanza da Giappone (6,46), Cina (6,39) e Germania (5,59), mentre in fondo alla scala c’è la Turchia che si ferma a quota 0,98.

Una distribuzione che risponde a una logica tanto precisa quanto inderogabile: lasciare le leve del comando nelle mani di Washington e dei suoi alleati europei. Stante che le decisioni di maggior rilievo devono essere prese con maggioranze qualificate molto superiori al 50 per cento, le nazioni occidentali hanno sempre avuto, nei fatti, un diritto di veto.

La domanda da porsi è proprio questa: trasferendo il 6% dei diritti di voto dalle economie industriali a quelle dinamiche, che cosa cambia sul piano sostanziale? E se non cambia un granché, perché si procede a queste modifiche e, soprattutto, le si presenta come una svolta epocale?

Le risposte si annidano nel secondo aspetto della riforma. Le quote dei membri, infatti, dovranno essere incrementate massicciamente, fino a raddoppiare la dotazione del Fondo e portarlo a 755,7 miliardi di dollari.

In altre parole, assistiamo a un cospicuo aumento di capitale in cambio di un blando riallineamento degli equilibri interni. A fronte delle “concessioni” politiche, che peraltro sono pressoché obbligatorie a fronte dei mutamenti sopravvenuti nel quadro internazionale e, in particolare, della poderosa ascesa dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), l’Fmi moltiplica le proprie risorse finanziarie.

E lo fa proprio in un momento in cui la contrazione del credito, determinata dalla crisi esplosa nel 2008 e tuttora in corso, riduce di molto il potere di intervento economico, e di condizionamento politico, del sistema bancario.

Così come nel caso del G20, e anzi in maniera ancora più stringente, l’aspetto cruciale non è il numero dei membri che si riuniscono per decidere il da farsi, ma l’effettiva possibilità di discostarsi dalle strategie in corso.

Altrimenti, ancora una volta, quella che viene spacciata per un’apertura a nuovi contributi si riduce a essere solo un’operazione di facciata. Il vecchio trucco di far sembrare un atto democratico e liberale quella che in realtà è solo una cooptazione.


Nato, l'evoluzione della strategia
di Nicola Sessa - Peacereporter -5 Novembre 2010

Il vertice di Lisbona del 19 e 20 novembre darà alla luce le nuove direttrici strategiche dell'Alleanza. Le titubanze di Germania e Turchia

L'estenuante tournée europea del Segretario generale Anders Fogh Rasmussen in vista del vertice Nato del 19 e 20 novembre è in piena fase. Dopo la visita a Mosca - per preparare la partecipazione della Russia come osservatore - e a Londra - per tastare il polso del premier britannico David Cameron - in queste ore gli esperti dell'Alleanza si sono rinchiusi in una conferenza informale a Praga per discutere sul diffuso trend decrescente della spesa militare nei paesi europei.

Il vertice di Lisbona assumerà una duplice rilevanza nella storia della Nato: la Russia avrà lo status di osservatore, ma anche quello di partner-contraente in vista di una possibile collaborazione nel sistema difensivo europeo; il 19 e 20 novembre sarà presentato - salvo sorprese - il nuovo Nato Strategic concept, le linee guide della nuova strategia a lungo termine del Patto del Nord Atlantico che aggiornerà e sostituirà il documento approvato nel 1999 (quando la Nato per la prima volta dopo lo sgretolamento del Patto di Varsavia, dava la spinta per una nuova vita del Trattato).

Il punto fondante del nuovo concept farà perno, secondo indiscrezioni, sulla difesa missilistica europea contro minacce provenienti dal grande Medioriente (dall'Iran in particolare).

Durante la sua ultima visita a Mosca, Rasmussen ha fatto presente ai vertici del Cremlino l'accresciuta disponibilità tecnologica e materiale di almeno trenta paesi che sarebbero in grado, già oggi, di far piombare missili balistici sul territorio europeo "e forse anche su quello russo".

Non è trapelato molto dell'incontro del 3 novembre tra Rasmussen e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov che alla fine del meeting ha espresso la disponibilità della Russia, sulla base di un'analisi e un sistema condiviso, a rispondere a minacce comuni.

Ma, prima dell'incontro, l'ambasciatore russo presso la Nato, Dimitry Rogozin aveva subito posto, in maniera chiara, dei paletti: "Se stiamo semplicemente parlando di un sistema a targa Usa costruito sul suolo europeo con soldi europei senza che venga data alcuna garanzia sul fatto che non verrà utilizzato contro di noi, allora la cosa è inaccettabile".

Un altro fronte difficile da trattare per il Segretario generale sarà quello turco. Ad Ankara non vogliono che in nessun documento ufficiale si menzioni direttamente la "minaccia Iran".

L'establishment turco non vuole rinunciare alla propria politica estera "zero problemi" - specialmente con Teheran con cui sta provando a migliorare i rapporti - e soprattutto non vuole diventare paese di frontiera Nato, così come accaduto durante gli anni della Guerra Fredda.

Problemi minori dovranno essere affrontati invece con la Germania: da tempo, il ministro degli Esteri Guido Westerwelle insegue la possibilità di rimuovere tutte le testate nucleari presenti sul suolo tedesco (almeno venti dei duecento missili Nato presenti in tutta Europa) considerandole un retaggio della Guerra Fredda senza più alcun senso politico e militare (diversamente la pensano a Bruxelles e a Washington dove le 5400 testate russe a corto raggio fanno una certa impressione).

In vista del nuovo Strategic concept, Westerwelle dovrebbe, in pratica, mettere da parte questo suo obiettivo politico sacrificandolo in nome del partenariato Nato.

I ventotto paesi membri saranno chiamati a Lisbona a dare il loro parere unanime sotto lo sguardo corrucciato di Washington che difficilmente digerirà obiezioni ed eccezioni, mentre Mosca - da vicino - metterà sulla bilancia offerte e richieste.



Napolitano legittima la guerra che stiamo perdendo in Afghanistan
di Federico Dal Cortivo - www.italiasociale.net - 8 Novembre 2010

Il punto della situazione da parte statunitense

Un 4 novembre quello del Quirinale contrassegnato dall’esaltazione della guerra d’aggressione all’Afghanistan. Invece di commemorare degnamente gli oltre 600 mila caduti italiani nel primo conflitto mondiale, perché per loro era la giornata del 4 novembre, Giorgio Napolitano si è lanciato in con una delle sue uscite retoriche e perciò poco credibili, ponendo l’accento sulla “giustezza della posizione italiana nell’ambito del conflitto nel Vicino Oriente”.

Certamente tutto ciò non fa altro che confermare, se mai ce ne fosse stato bisogno, della totale sudditanza delle istituzioni nazionali al “ volere di Washington”, priva com’è l’Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale di una sua autonoma “politica estera”degna di questo nome.

Forse il non più giovane presidente - ex comunista, ora convertitosi come molti all’ ‘ideologia atlantica, non ha ben chiaro il quadro della situazione in cui sono costretti a operare con sempre maggior difficoltà i reparti italiani sotto comando Nato-Isaf e quello dell’intera coalizione Alleata a guida statunitense e britannica.

Nessuno sembra aver detto a Napolitano che il tanto osannato “surge” del generale Petraeus passato dal CentCom a capo dell’Isaf,dopo l’allontanamento del generale McChrystal, non ha realizzato quel cambio di marcia che tutti a Washington si aspettavano, Obama in primis.

Del resto basta leggere la dichiarazione fatta all’indomani della morte dei quattro Alpini da parte del Generale Massimo Fogari, capo ufficio stampa dello Stato Maggiore Difesa:”la situazione sta migliorando, anzi gli insorti sono in difficoltà e per questo stanno intensificando gli attacchi”, per rendersi conto della disinformazione che è trasmessa ai media dai vertici militari italiani che dovrebbero riferire al capo di Stato, ma stiamone certi che quest’ultimo sa e recita la parte assegnatagli .

A ottobre è stato approvato con il sì del Senato,il rifinanziamento delle nostre missioni militari all’estero con ben 1350 milioni di euro fino al 31 dicembre 2010. Per l’Afghanistan si passerà da 310 a 364 milioni di euro, spesa resa possibile anche dalla diminuzione dell’impiego di uomini e mezzi in altri teatri( Bosnia-Balcani-Libano).

Il decreto legge ha dato la facoltà di schierare oltre 3.790 uomini, l’Italia è al quinto posto come contingente schierato dopo Usa, Gb, Germania e Francia. Un impegno di tutto rispetto per quella che eufemisticamente Napolitano e Parlamento chiamano “ missione di pace”.

E mentre il folcloristico ministro della Difesa Ignazio La Russa, la cui esperienza e conoscenza di questioni militari sono tutte da dimostrare, invocava dopo gli ultimi soldati morti un escalation nell’uso della forza con la possibilità di dotare gli aerei dell’Aeronautica Militare di bombe, oltre atlantico ci si interroga sulle reali prospettive di questa campagna che sembra senza fine e ogni giorno di più assume le sembianze di una lenta ma progressiva ritirata, la guerra è iniziata il 7 ottobre 2001 e a oggi sono oltre 2100 i caduti Alleati.

Sulla stampa statunitense, Washington Post, ai primi di ottobre sono apparsi articoli degni di attenzione, nei quali era rivelato che “ contatti ad alto livello ci sarebbero stati tra il Governo collaborazionista di Karzai e i Talebani per trovare una via di uscita, sicuramente più per il primo e i suoi alleati Occidentali, che per i Talebani, i quali guadagnano ogni giorno posizioni e hanno oramai dalla loro parte la maggioranza del popolo afghano. Queste ultime notizie sono state confermate anche dal Generale Petraeus.

Ma negli Stati Uniti i “falchi” sono ancora preponderanti e per avere l’esatta percezione che si ha a livello ufficiale su questa guerra, possiamo rifarci all’ultima ricerca fatta da Michael O’Hanlon, direttore della 21st Century Defense Initiative, analista di bilancio per la Difesa e autore dell’Iraq Index per la Brooking Insitution, influente thing thank filo sionista con sede a Washington, in collaborazione con Hassina Sherjan, presidente di Aied Afghanistan for Education.

Nella premessa al loro studio dal titolo “ Afghanistan la guerra infinita”, i due autori dichiarano senza mezzi termini di sostenere lo sforzo militare degli Stati Uniti, O’Hanlon è per altro uno dei maggiori sostenitori delle offensive in Iraq e delle strategie di contro insurrezione.

“Si parte dalla “posta in gioco” che per i due analisti sarebbe semplicemente l’impedire un altro 11 settembre, la costituzione di un “territorio franco” per al Qaeda” ed impedire ai cosiddetti “estremisti pakistani”di usare quel territorio come quartier generale e campo addestramento”

Si dimentica volutamente di parlare del reale motivo di questa guerra, ovvero la costruzione dell’importante gasdotto trans afghano, che lungo oltre 1600 km, trasporterà il gas naturale dal Turkeministan, attraversando l’Afghanistan, fino in Pakistan e poi in India.

Ma è l’analisi del perché gli Usa possono non farcela che merita attenzione, essendo la fonte interna e quindi più credibile.”I Talebani sono bene organizzati e sicuri dei propri mezzi ( 1), l’uso di bombe improvvisate, le temibili IED mettono in grave pericolo le truppe dell’Isaf. La popolazione si sta spostando sempre più verso i Talebani i quali hanno costituito una sorta di “governo ombra”

“Il Governo Karzai è corrotto,dalle principali istituzioni fino alla polizia e questo è percepito dal popolo e vi sono poi i presunti pagamenti della Cia al fratello del presidente, Ahmed Wali Karzai che pare coinvolto nel traffico di stupefacenti nell’Afghanistan meridionale, egli avrebbe inoltre aiutato l’intelligence Usa in operazioni militari”. (2)

“Anche il Pakistan rappresenta una concreta minaccia per Washington, qui oltre alla presenza di circa venticinque milioni di Pashtun, l’ISI, Inter Services intelligence pachistano appoggerebbe le milizie talebane , ma oltre a questi fattori di rischio non trascurabili, vi è la concreta possibilità che venga sempre meno il sostegno dell’opinione pubblica alla guerra, sia in Usa sia in Europa”.

L’Olanda si è già disimpegnata e il Canada lo farà entro il 2011, seguito dai polacchi nel 2012 e dai britannici tra il 2014 e 2015. Erano 145 mila i soldati impegnati su questo fronte di cui 120 mila inquadrati nell’Isaf e altri statunitensi. Da rilevare che questa guerra è la più lunga combattuta dagli Stati Uniti, il che la fa sembrare sempre più a una riedizione del conflitto indocinese in Viet Nam.

Allora come raggiungere una sempre più improbabile vittoria? Partendo dal presupposto falso che l’obiettivo sia impedire il ripetersi di un altro 11 settembre?

“Innanzitutto bisognerebbe stabilizzare l’Afghanistan (3), questo ovviamente secondo i canoni della “democrazia occidentale” e non certo nel rispetto delle tradizioni , religione e cultura del Paese.

Per Sherjan e O’Hanlon la soluzione passerebbe nell’eliminazione del narcotraffico, della violenza( quale e proveniente da chi?) e povertà, quest’ultima guarda caso ingenerata proprio dall’invasione Usa.

Fatti salvi i motivi che hanno spinto l’Amministrazione Bush alla guerra, i due sostengono che le risorse non furono adeguate per conseguire gli obiettivi prefissati e che l’attuale presidente Barak Obama ha invece dato risposte migliori in termini di contro insurrezione (COIN) e stabilizzazione (4)”.

Infatti, proprio con Obama, che stolidamente in Europa e in Italia era stato accolto come l’uomo del cambiamento, si è avuto un sostanziale aumento del contingente militare Usa.

L’azione COIN (Counterinsurgency) con l’impiego di reparti speciale alle dipendenze del USSOCOM( United States Special Operation Command) ed elementi locali si basa su una serie combinata di operazioni militari convenzionali, omicidi mirati, guerra psicologica e intelligence.

Quindi un approccio diverso da come gli Usa avevano gestito le prime fasi della guerra con il ministro Rumsfeld, con il solo intento di dare la caccia ai “terroristi”.

Sempre O’Hanlon e Sherjan ci dicono che: “Il rafforzamento delle istituzioni è una priorità oggi delle forze di occupazione, che passa attraverso l’addestramento delle forze di polizia ed esercito afghano, un miglioramento del sistema giudiziario e dell’economia.

La “exit strategy” della Nato si può quindi riassumere brevemente in: Protezione della popolazione-consolidare le istituzioni e trasferire le responsabilità di governo agli afghani (5), quindi i reparti Nato devono restare per almeno altri 5 anni sul territorio”.

Un progetto che però sta crollando giorno dopo giorno, come un castello di carta.

E le critiche non sono poche verso questa guerra, se come ci dicono le nostre fonti, si focalizzano su alcuni punti importanti:“Gli afghani hanno sempre odiato gli stranieri e pur riconoscendo un alto valore militare alle forze della guerriglia, la guerra attuale si propone di “aiutare il popolo afghano”è questo lo spartiacque tra la Nato e l’Urss, precedente invasore”.

“La situazione è molto più complessa che in Iraq- Si dovrebbe negoziare con i Talebani (ed è quello che segretamente sta avvenendo) - l’Afghanistan è meno importata dell’Iraq (oleodotto e gasdotti dimostrano il contrario) - ci si dovrebbe limitare a una politica di antiterrorismo e non di contro insurrezione (le prime non hanno dato alcun risultato perché non si tratta di terroristi, ma di forze ribelli all’occupazione) - gli alleati non partecipano realmente ai combattimenti, (nonostante la Nato abbia invocato impropriamente all’indomani dell’11 settembre la clausola V della mutua difesa) perché nel loro intervento vi sono delle limitazioni che gli Stati Uniti vorrebbero eliminate così da utilizzare le truppe”Alleate” in ogni operazione bellica”.

A queste obiezioni i due esperti non demordono confidando nella vittoria finale.”Si può certamente rispondere molto bene con i rimedi già citati e del resto, togliendo di mezzo i reali interessi geopolitici ed economici degli Stati Uniti, sembra soltanto una grande operazione di polizia internazionale”, come tante già viste dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dopo la caduta dell’Urss ed è così la cosa è presentata dai media embedded all’opinione pubblica.

Forse bisognerebbe studiare meglio la storia dell’Afghanistan, che non ha più di due secoli come stato, ma che ha sempre inflitto cocenti sconfitte agli invasori di turno, come possono ben testimoniare i britannici, sconfitti pesantemente a passo Kyber nella prima metà del 1800 e poi l’Armata Rossa ,che non ebbe ragione delle orgogliose tribù afghane ,che persero più di un milione di uomini, infliggendo però perdite tali ai russi da costringerli alla ritirata.

Oggi la storia si sta ripetendo, da una parte guerriglieri fortemente motivati e orgogliosi delle proprie tradizioni , con un’ incrollabile fede religiosa, dall’altra i soldati della “ finanza internazionale”, del FMI, della colonia Europa, che nulla hanno a che spartire con il carattere “sacro” che la guerra e i suoi combattenti avevano nell’antichità, qui manca addirittura, come lo definì Carl Schmitt un “ justus hostis”, dove il nemico non è considerato un criminale, ma un combattente con pari dignità, il contrario di quello che usa fare la Nato non applicando nessuna convenzione per i prigionieri , radendo al suolo i villaggi di civili e commettendo crimini di guerra anche con truppe mercenarie.

Note:

Op.Citata:Afghanistan. La guerra infinita. The Brooking Institution 1) Pag32 2) Pag 35 3) Pag 61 4) Pag 63 5) Pag 66



Noam Chomsky: "Nessuna prova che al-Qa'ida abbia eseguito gli attentati dell'11/9"
di Pino Cabras - Megachip - 9 Novembre 2010

da Press TV & Washington's Blo -

L’eminente intellettuale e attivista liberal Noam Chomsky, pur essendo da decenni un acuto demolitore delle classi dirigenti USA, ha contribuito sinora a sopire e troncare il dibattito sull’11/9.

Una sua recente dichiarazione all’emittente iraniana Press TV sembra invece far affacciare una svolta, con una sua posizione molto critica rispetto alla versione corrente del governo statunitense e dei grandi media.

La riproponiamo in video e con traduzione.


«Il movente esplicito e dichiarato della guerra [in Afghanistan], è stato quello di costringere i taliban a consegnare agli Stati Uniti le persone da questi accusate di essere implicate negli atti terroristici al World Trade Center e al Pentagono. ... I taliban hanno chiesto le prove ... e l'amministrazione Bush si è rifiutata di fornirne alcuna»: l’ottantunenne grande accademico ha fatto queste osservazioni al programma di Press TV “a Simple Question” (“una semplice domanda”, NdT).

«Abbiamo poi scoperto una delle ragioni per cui non hanno portato elementi di prova: non ne avevano nessuno».

L'analista politico ha inoltre detto che la non esistenza di tali prove è stata confermata dall’FBI otto mesi dopo.

«Il capo del FBI, dopo l'inchiesta internazionale più intensa della storia, ha informato la stampa che l'FBI riteneva che la trama potrebbe essere stata originata in Afghanistan, ma fu probabilmente attuata negli Emirati Arabi Uniti e in Germania».

Chomsky ha aggiunto che a tre settimane dall’inizio della guerra, «un ufficiale britannico annunciava che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero continuato i bombardamenti, fino a quando il popolo afghano non avesse rovesciato i taliban ... Questa è stata in seguito trasformata nella motivazione ufficiale per la guerra.»

«Tutto questo era totalmente illegale. Anzi, di più, criminale», ha dichiarato Chomsky.




Yemen: allarme terroristico e interrogativi irrisolti
di Barry Grey - www.globalresearch.ca - 2 Novembre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Stefania Micucci

Venerdì i media statunitensi hanno dato lo sconvolgente allarme di una nuova minaccia terroristica, cosa ormai considerata normale nella vita pubblica americana, in particolar modo alla vigilia delle elezioni.

Impossibile dire quanto c'è di vero e quanto di inventato nelle sempre più diffuse voci circa i due pacchi dallo Yemen indirizzati a due sinagoghe di Chicago e sospetti di contenere materiale esplosivo.

Ma il fatto che la decisione provenga dai 'piani alti', per incoraggiare l'interesse mediatico prima che venissero riportati dei dettagli concreti, e che si basi sulle insinuazioni non verificate di pubblici ufficiali anonimi, è sufficiente a suscitare un certo scetticismo.

Il tagline di una popolare serie televisiva americana su un gruppo antiterroristico “Not every conspiracy is a theory” (Non tutti gli atti di cospirazione sono solo teoria, ndt) è azzeccatissimo. Gli obiettivi segreti dell'attuale campagna del governo e dei media non sono ancora chiari, ma una cosa è certa: non c'è da da fidarsi delle informazioni che ci vengono date.

I pacchi sospetti, uno inviato tramite UPS e intercettato in un aeroporto britannico, l'altro spedito con FedEx e trovato in un aeroporto di Dubai, sono stati immediatamente etichettati come parte di un programma più ampio del braccio di Al Qaeda dello Yemen, nella penisola arabica.

Venerdì sera il presidente Obama ha dato la terribile notizia di una “minaccia credibile”. Con lui c'erano il suo portavoce Robert Gibbs e il primo consigliere sul terrorismo John Brennan, che ha elogiato la rapida reazione del governo e ha promesso dei provvedimenti non definiti in risposta alla presunta minaccia dello Yemen e di altri paesi.

All'incertezza sulla veridicità delle insinuazioni, si aggiungono contraddizioni e anomalie su cui c'è ancora da far chiarezza. Venerdì MSNBC ha deriso queste bombe, che si pensa fossero nascoste all'interno di cartucce per stampanti, e le ha definite rudimentali e da dilettanti.

La CNN ha affermato che nessun tipo di esplosivo è stato trovato nei pacchi. Da domenica il governo statunitense e i media parlano di ordigni altamente sofisticati, roba da veri professionisti.

Domenica un articolo profetico del New York Times diceva: “Sabato le autorità hanno comunicato che le potenti bombe nascoste nei pacchi e destinate agli Stati Uniti erano state realizzate con maestria ed erano inaspettatamente sofisticate, ulteriore prova che gli affiliati di Al Qaeda nello Yemen stanno perfezionando di giorno in giorno la loro abilità di colpire il suolo americano”.

Secondo le autorità, a realizzare le bombe è stato Ibrahim Hassan al-Asiri, primo obiettivo delle rappresaglie degli USA. Il Times, senza forse rendersi conto della contraddizione, sostiene che questo 'esperto' fabbricatore di bombe è lo stesso che ha realizzato gli aggeggi 'rudimentali' usati nell'attentato di Detroit, nel Natale scorso, e in quello in cui un kamikaze yemenita ha tentato, senza successo, di uccidere il capo dei servizi segreti sauditi, Mohammed bin Nayef, agli inizi del 2009.

Domenica, John Brennan si è dichiarato d'accordo col primo ministro britannico David Cameron, secondo il quale i pacchi bomba avrebbero dovuto esplodere in aria, e non nelle sinagoghe di Chicago indicate.

Nessuno, comunque, ha spiegato perché dei presunti esperti terroristi avrebbero dovuto far scoprire le loro bombe, progettate per far saltare in aria degli aerei, spedendole dallo Yemen a dei gruppi ebraici negli USA!

C'è poi un'impressionante coincidenza: l'allarme terrorismo è esploso solo due giorni dopo che il Financial Times ha pubblicato in prima pagina il seguente titolo “Il presidente della British Airways attacca gli USA sulla sicurezza negli aeroporti”.

L'articolo citava il presidente della British Airways, Martin Broughton, che criticava irritato l'inutile eccesso di controlli aeroportuali e chiedeva alle autorità britanniche di smetterla di prostrarsi agli americani.

Senza dubbio, considerando le parole di Broughton, le autorità statunitensi staranno già pensando che l'attuale minaccia verrà usata per portare avanti, se non espandere, le misure di sicurezza imposte dagli USA sui vettori stranieri.

Impossibile sapere con certezza se queste insinuazioni sono fondate e se c'è un pizzico di verità, considerando tutte le bugie e le esagerazioni che si nascondono dietro ai fatti reali. Ma come sempre, è giusto chiedersi: “Chi ne trae profitto?”

A parte i vettori aerei statunitensi, desiderosi di imporre obblighi ancora più onerosi sui concorrenti esteri, ci sono anche tanti altri soggetti che avrebbero molto da guadagnare dalla diffusione della paura e dell'astio contro lo Yemen.

Sono stati i sauditi, e precisamente il capo dei servizi segreti Nayef, che giovedì hanno fatto la soffiata a Washington circa i pacchi bomba provenienti dallo Yemen. Lo sceiccato saudita vede lo Yemen, che ha un governo debole e deve affrontare la ribellione degli sciiti nelle regioni a nord, al confine con l'Arabia Saudita, come una minaccia mortale alla stabilità del regime.

Come ha riportato il Times: “I sauditi vedono il gruppo di Al Qaeda nello Yemen come il peggior pericolo per la loro sicurezza, e l'intelligence saudita ha installato una rete di sorveglianza elettronica e delle spie per penetrare all'interno dell'organizzazione”.

Quindi, non è da escludere che le spie saudite possano aver orchestrato la minaccia terroristica per spingere ad aumentare le operazioni segrete nello Yemen, un paese di grande interesse strategico per gli USA, poiché si affaccia sul Mar Rosso e sul Mar Arabico e confina con le vitali vie di trasferimento del petrolio.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l'emergenza terrorismo è ormai diventata una strategia per disorientare la popolazione americana e mantenere il controllo sociale.

Annunciando questa minaccia alla vigilia delle elezioni, Obama sembra seguire le orme di Bush, il quale strumentalizzò la paura per manipolare l'opinione pubblica in vista delle elezioni del 2002, del 2004 e del 2006.

Quest'anno c'è ancora di più il bisogno di distrarre l'attenzione pubblica da una crisi economica sempre più aspra e dalla crescente frustrazione e rabbia verso l'intero impianto politico. Inoltre, ci sono degli obiettivi di politica interna e estera che hanno generato un'atmosfera di paura e incertezza.

All'estero, c'è il bisogno di intensificare le violenze in Iraq e in Afghanistan, malgrado gli americani siamo sempre più contrari alla guerra, e di espandere le aggressioni militari statunitensi negli altri paesi.

Sotto Obama, gli Stati Uniti hanno già aumentato le operazioni segrete nello Yemen, ma sono stati costretti a bloccare gli attacchi missilistici su insorgenti sospetti da maggio, quando uno dei missili ha ucciso il vice governatore provinciale, che voleva incoraggiare il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh a far fermare gli attacchi.

Gli USA hanno pressato il regime yemenita, costringendolo a riprendere gli attacchi. Come ha fatto notare il New York Times domenica, “Le autorità americane hanno pensato di inviare dei velivoli armati nello Yemen, in risposta al Pakistan, ma questa mossa richiederebbe almeno l'approvazione del volubile Saleh.”

In casa, la paura del terrorirsmo è utilizzata per giustificare l'aumento delle forze di polizia dello stato e i maggiori attacchi ai diritti democratici. Uno degli aspetti più sinistri dell'attuale campagna del governo e dei media è l'accusa, senza alcuna prova certa, contro un cittadino americano, Anwar al-Awlaki, sospettato di essere la mente del progetto.

In un articolo di domenica il Times ha riportato “Secondo le autorità americane, è evidente che dietro ai tentativi di attacco ci sono gli alti esponenti di Al Qaeda della penisola araba, incluso il clerico radicale, nato negli USA, Anwar al-Awlaki”.

Poi, il giornale ha cambiato versione, dicendo che per le autorità il complotto “potrebbe aver avuto l'approvazione degli alti vertici del braccio di Al Qaeda nello Yemen, incluso Awlaki”, e ha aggiunto: “I funzionari governativi di Washington non hanno le prove certe del coinvolgimento di Awlaki”, e “Quest'anno il cittadino americano Awlaki è stato designato dalla CIA come obiettivo di alta priorità”.

Quindi, uno degli obiettivi dell'attuale allarme terroristico è giustificare l'uccisione di un cittadino americano da parte del suo stesso governo. L'amministrazione Obama sta cercando di annullare un fatto riportato dall' American Civil Liberties Union, che ha affermato che il presidente ha la facoltà di ordinare l'esecuzione di chiunque, persino di un cittadino americano considerato un terrorista.

Da parte sua, il Times, principale esponente del pensiero liberale statunitense, ha pubblicato un editoriale in difesa della Casa Bianca. (vedi:“The New York Times defends assassinations”).


L'Impero colpisce ancora
di Luca Mazzuccato - Altrenotizie - 9 Novembre 2010

Flash back di cinque mesi. Gli Stati Uniti guardano impotenti la marea nera di petrolio, che come un cancro impesta le coste del Golfo del Messico. Obama ha appena ottenuto da BP venti miliardi di dollari per ripulire il Golfo e risarcire i pescatori.

L'amministratore delegato di BP viene grigliato vivo come un novello San Lorenzo di fronte al Congresso. Un'unica voce solitaria si leva in difesa della compagnia petrolifera: “Chiedo scusa a BP a nome del popolo americano, per l'estorsione a cui l'Amministrazione l'ha sottoposta.” Parole del deputato repubblicano Joe Barton, in diretta tv di fronte a milioni di americani.

Prima di essere eletto al Congresso, Barton lavorava per una grossa azienda. Sì, avete indovinato: si trattava proprio di BP (all'epoca nota come ARCO). Il deputato texano ha il record assoluto di contributi elettorali da parte della lobby del petrolio: un milione e quattrocentomila dollari, per la maggior parte di BP.

Barton è stato l'artefice dell'Energy Policy Act del 2005, strumento con cui Darth Vader, altrimenti noto come Dick Cheney, ha ridisegnato la mappa energetica degli Stati Uniti, a base di sgravi fiscali per i giganti petroliferi. Che funzionano alla grande: nonostante i 40 miliardi spesi per la marea nera, BP ha comunque annunciato due miliardi di profitti nell'ultimo trimestre.

Ebbene, il futuro energetico degli Stati Uniti verrà deciso proprio dal nostro eroe: Joe Barton. Grazie alla schiacciante vittoria dei Repubblicani al Congresso, il petroliere texano si accinge a tornare a presiedere il Comitato per l'Energia e il Commercio e decidere il futuro energetico del Paese (e del resto del mondo). Chissà di quali idee innovative si farà portavoce...

Queste elezioni hanno premiato un nuovo modo di fare politica negli Stati Uniti. Finalmente le grandi corporations sono riuscite a scassinare la cassaforte della democrazia, grazie alle loro illimitate risorse finanziarie.

Pochi mesi fa la Corte Suprema ha infatti stabilito che le aziende hanno gli stessi diritti delle persone, in particolare il diritto di parola. La Corte ha stabilito che la lingua delle aziende è il denaro, con il quale possono esprimere il proprio favore per un candidato piuttosto che un altro.

Proprio così, illimitati finanziamenti elettorali da parte delle grandi aziende. I risultati sono stati straordinari: per i Repubblicani!

Cerchiamo di sviscerare il meccanismo in atto. Le corporation creano un network di attivisti ben pagati che, su internet, inventano e propagano messaggi bislacchi. Per esempio che Barack Obama è musulmano.

Oppure che con la riforma sanitaria Obama vuole uccidere gli anziani che votano repubblicano. Oppure che in Oklahoma si accingono a introdurre la sharia e gli imam stanno costruendo una moschea sul sito di Ground Zero; ci credo, d'altra parte il Presidente è musulmano!

Citando internet come fonte, la notizia viene ripresa dai media conservatori, prima fra tutte Fox News, che annovera fra i propri dipendenti molti politici repubblicani, vedi Sarah Palin e Mike Huckabee.

A questo punto la notizia bislacca diventa “vera,” e viene rimbalzata dai senatori e deputati repubblicani per fare campagna elettorale, sempre usando le illimitate risorse finanziarie fornite dalle corporations.

Le notizie bislacche aizzano la paura nella base conservatrice e acquistano un vasto consenso popolare: ecco come è nato il famoso Tea Party, animatore dell'ultima vittoria elettorale repubblicana. Interpellati dai sondaggi, si è scoperto infatti che buona parte dei simpatizzanti di questo movimento credono fermamente in tutte le fandonie di cui sopra, e molte altre.

Una volta eletti, i politici repubblicani, forti del consenso popolare basato su queste notizie false, si apprestano a eseguire gli ordini delle corporations che li hanno piazzati al Congresso. Come nel caso di Joe Barton e di BP. Niente di nuovo, si dirà: non è altro che la solita strategia populista in azione. Ma questa volta si è entrati in una nuova fase.

Rachel Maddow, giornalista di MSNBC, ha notato che la cosiddetta macchina del fango è oramai fuori controllo. Ovvero, i repubblicani non possono più far marcia indietro una volta eletti e sono costretti a continuare a recitare lo stesso copione.

Se tutt'a un tratto ammettessero che Obama non è musulmano, i loro elettori penserebbero che son diventati pazzi, avendoli eletto proprio per quel motivo!

Si è venuta a creare dunque una realtà parallela all'interno del Paese, in cui le baggianate usate per vincere le elezioni si sono trasformate in realtà inconfutabili. Mentre una volta i media smantellavano queste idiozie in pochi giorni, il tumore si è ora incistato nella macchina e non è più estirpabile.

Fatto trenta, i politici repubblicani hanno pensato bene di fare trentuno e ripagare subito i loro datori di lavoro. La nuova parola d'ordine repubblicana è diventata: ridurre il deficit a tutti i costi!

Come fare? Semplice, estendendo gli sgravi fiscali di Bush per chi guadagna più di duecentocinquantamila dollari, ad un costo totale di 700 miliardi di dollari. Essendo priva di copertura, la manovra andrebbe a pesare direttamente sul deficit. Ma nella matematica parallela del Tea Party, due più due evidentemente fa zero.

Quando un giornalista di NBC ha incalzato il nuovo speaker del Congresso John Boehner, chiedendogli come pensa di coprire gli sgravi fiscali, il leader repubblicano per ben tre volte ha accusato l'altro di parlare il politichese di Washington e che gli americani sono stufi del vecchio modo di fare politica.

Ma la leggerezza di Boehner, prestarsi ad un contraddittorio televisivo, è presto rimediata: d'ora in poi i politici repubblicani rifiuteranno di apparire su network televisivi che non siano Fox News e affini, parte di quella realtà parallela dove due più due fa zero.

Riassumiamo la situazione. Il Congresso e il Senato americano sono stati rimpinguati di una quarantina di neo-eletti membri del Tea Party, che rappresentano ora l'avanguardia più agguerrita del Partito Repubblicano. Secondo il sindaco di New York, Michael Bloomberg, molti dei neo-eletti addirittura “non sanno leggere.”

Credono che il Presidente degli Stati Uniti, segretamente musulmano e nato in Kenia, stia complottando per introdurre la legge islamica e cerchi di uccidere gli anziani elettori repubblicani usando la riforma sanitaria, ispirata alla Germania nazista e allo stalinismo sovietico. Tutte notizie "vere" e quotidianamente ripetute dal megafono di Fox News.

Si tratta del concetto di "truthiness", termine coniato dal comico Stephen Colbert (potremmo tradurlo come veridicità) per descrivere le dichiarazioni dell'ex-presidente George W. Bush completamente false, ma che acquistano una graduale verità a forza di essere ripetute: vedi ad esempio la leggenda armi di distruzione di massa in Iraq, oppure il mito delle toghe rosse in Italia.

In un sistema politico equilibrato, queste posizioni assurde scomparirebbero spontaneamente di fronte alla schiacciante evidenza della loro falsità.

Ma negli Stati Uniti del 2010, le corporations sono riuscite a creare un network autosufficiente di media conservatori in cui la veridicità prolifera fuori controllo. Obiettivo: scongiurare a tutti i costi che nei prossimi due anni Obama metta in atto il suo pur timido programma riformista (Wall Street non gli perdonerà mai la riforma della finanza).

Il giorno dopo le elezioni, il Presidente si è accollato la responsabilità della sconfitta e ha proposto ai repubblicani di sedersi intorno a un tavolo per affrontare insieme i problemi della crisi economica. I leader repubblicani al Senato e alla Camera gli hanno risposto che può prendere il suo rametto di Ulivo e ficcarselo in quel posto.

Tutti gli sforzi del GOP “saranno rivolti a scongiurare la rielezione di Obama nel 2012,” dice il senatore Mitch McConnell: puntando tutto sull'aggravarsi della crisi economica, sabotando ogni iniziativa democratica e soprattutto cercando (invano) di cancellare la riforma sanitaria. Tattica che pare vincente, i primi frutti sono stati raccolti martedì scorso. Come faranno i democratici a denunciare il bluff repubblicano?



La contabilità creativa della Cina

di Ellen Hodgson Brown* - http://webofdebt.wordpress.com - 30 Ottobre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Danilo Bernabei

La Cina potrebbe essere pesantemente indebitata quanto noi. Ha solo un diverso modo di gestire i propri registri – il che rende una pubblicità politica di primo piano patrocinata dal Citizens Against Government Waste, un gruppo di esperti fiscalmente conservativo, particolarmente ironica.

Ambientata nel 2030 in una sala conferenze in Cina, la controversa pubblicità mostra un professore cinese che tiene una lezione sulla caduta degli imperi: Grecia, Roma, Gran Bretagna, Stati Uniti… “Tutti hanno commesso lo stesso errore”, dice. “Hanno voltato le spalle a quegli stessi principi che li hanno resi grandi. L’America ha cercato di spendere e tassare se stessa fuori da una grande recessione. Gli enormi cosiddetti incentivi alla spesa, i notevoli cambiamenti all’assistenza sanitaria, la rilevazione delle industrie private da parte del governo, ed il debito insostenibile.”

Sicuramente, egli afferma, poiché i cinesi hanno padroneggiato il proprio debito, ora sono i principali degli americani. Gli studenti ridono. L’annuncio conclude, “Puoi cambiare il futuro. Devi farlo”.



James Fallows, scrivendo su Atlantic, rimarca:

“La pubblicità sostiene l’affermazione ufficiale cinese che l’America è collassata perché, durante la recessione, ha contato su (a) stimoli governativi alla spesa, (b) grandi cambiamenti nel suo sistema assistenziale pubblico, e (c) intervento pubblico sulle maggiori industrie – ognuno dei quali ha certamente rappresentato una parte cruciale della politica cinese (vincente) anti-recessione.”

E ciò è un’anomalia. Un’altra anomalia è il fatto che la Cina sia riuscita a mantenere il suo debito notevolmente basso nonostante decenni di spesa amministrativa esorbitante. Secondo l’FMI (“Fondo Monetario Internazionale” ndt), il debito cumulativo lordo cinese ammonta soltanto al 22% del PIL 2010, in confronto al debito lordo statunitense che è del 94% del PIL.
Qual è il segreto della Cina?

Secondo il cronista finanziario, Jim Jubak, esso può essere soltanto una “contabilità creativa” – il tipo di contabilità per cui è famosa Wall Street, dove i debiti vengono cancellati dai registri e trasformati in “attivo”.

La Cina è riuscita a far ciò perché non è paese debitore di creditori stranieri. Le banche che effettuano i finanziamenti appartengono allo stato, e lo stato può cancellare i propri debiti.

Jubak osserva:

“La Cina ha tutta una tradizione nel cancellare i debiti dai propri registri ed insabbiarli, il che dovrebbe spingerci a colpire e pungolare le sue cifre. Se torniamo indietro all’ultima volta che la Cina ha falsificato ai massimi livelli i suoi registri contabili nazionali, durante la crisi della moneta asiatica del 1997, possiamo avere un’idea di dove possa essere nascosto adesso il suo debito”.

La maggior parte dei prestiti bancari, afferma Jubak, è andata a compagnie di proprietà statale – circa il 70% del totale.
Il crollo del commercio estero della Cina successivo alla crisi comportò che le sue banche improvvisamente insabbiarono debiti per miliardi, che chiaramente non sarebbero mai stati pagati.

Ma ciò accadeva quando le maggiori banche cinesi stavano cercando di aumentare il capitale vendendo azioni a Hong Kong e New York, e nessuna banca poteva diventare pubblica con un credito inesigibile così grande sui propri registri. La soluzione creativa?

Il governo di Pechino ha fondato compagnie dedicate alla gestione delle risorse per le quattro maggiori banche statali, l’equivalente delle “società veicolo” (“Special Purpose Vehicles”) progettate da Wall Street per incanalare i prestiti di beni immobili fuori dai registri contabili degli Stati Uniti. Le entità cinesi hanno infine acquistato 287 miliardi di dollari di mutui insolvibili dalle banche statali.

Per pagare questi debiti, hanno emesso delle obbligazioni alle banche, sulle quali quest’ultime pagano gli interessi. In questo modo le banche statali hanno spazzato via dai propri registri contabili 287 miliardi di dollari di debito insolvibile ed hanno trasformato i mutui inesigibili in un flusso di entrate derivanti dalle obbligazioni.

Suona familiare? Wall Street fece lo stesso nel piano di salvataggio del 2008, con il governo americano che ne ha sottoscritto l’accordo. La differenza risiede nel fatto che le maggiori banche cinesi appartengono al governo, così che il governo, e non gruppi bancari privati, possono trarre beneficio dall’intesa. Conformemente a quanto l’economista britannico Samah El-Shahat scrive su Al Jazeera nell’agosto del 2009:

“La Cina non ha permesso al suo settore bancario di diventare così potente, così influente e così grande da prendere decisioni o da assumere il controllo del piano di salvataggio. In poche parole, il governo ha preferito rispondere al suo popolo e porre gli interessi di quest’ultimo prima di qualsiasi gruppo o interesse acquisito. Ed è per questo che le banche cinesi stanno concedendo prestiti con cifre da record alla popolazione ed ai suoi affari.”

Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, al contrario:

“Le banche hanno acquisito tutto il denaro dai contribuenti ed il denaro mutuabile a basso interesse dal “quantitative easing” (“alleggerimento quantitativo, ovvero la creazione di una moneta da parte delle banche centrali e la sua iniezione nel mercato “ndt) delle banche centrali. Lo stanno usando per mantenersi e per riordinare i loro bilanci anziché concedere prestiti alla popolazione. Le banche si sono appropriate del denaro, ed il nostro governo non sta facendo nulla per impedirlo. In realtà, essi stessi sono complici nel permettere che tutto ciò stia accadendo.”

Oggi, continua Jubak, il problema del debito cinese è rappresentato dalle migliaia di compagnie investitrici fondate dai governi locali per chiedere in prestito il denaro dalle banche e concederlo alle compagnie locali, una politica che ha creato migliaia di posti di lavoro ma che ha lasciato un “debt overhang” (“indebitamento mal assortito ed in quantità crescente” ndt) fuori bilancio.

Jubak cita l’economista Victor Shih, il quale afferma che le società d’investimento pubbliche possedevano un totale di 1,7 trilioni di dollari di debito insoluto alla fine del 2009, ovvero circa il 35% del PIL della Cina.

Le banche, oltretutto, hanno dilazionato 1,9 trilioni di dollari in fidi alle società di investimento locali. Congiuntamente, il debito ed il fido ammontano a 3,8 trilioni di dollari. Cioè il 75% del PIL della Cina, che è proporzionatamente un po’ meno del PIL statunitense.

Nulla di tutto ciò viene riportato dal calcolo dell’FMI nel 22% del debito lordo come percentuale del PIL, afferma Shih. Se così fosse, la cifra dovrebbe aggirarsi intorno al 100% del PIL.

In proporzione, quindi, la Cina potrebbe essere fortemente indebitata, addirittura più di quanto lo siamo noi. Tutt’ora sta cercando di investire pesantemente sulle infrastrutture, sull’economia e sul lavoro locale.

Il suo piano finanziario creativo sembra possa funzionare per i cinesi. Può trattarsi di un trucco, ma è stata una manovra necessaria per armonizzare la sua realtà economica agli standard delle attività bancarie occidentali.

Perché la Cina potesse entrare a far parte dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 2001, avrebbe dovuto rivedere i suoi metodi finanziari per conformarli ai requisiti occidentali; ma, prima del suo ingresso, non considerò le sovvenzioni alle sue imprese statali come “non-performing loans”(“crediti in sofferenza” ndt).

Ciò che l’FMI chiama “garanzie contingenti”. Se queste vengono ripagate, bene; in caso contrario, vengono cancellate. Non c’erano creditori che richiedessero i pagamenti dalle banche statali. Il creditore era lo stato; e lo stato, almeno in teoria, era il popolo.

In ogni caso, lo stato possedeva le banche. Stava concedendo prestiti a se stesso, e poteva annullare i debiti a suo piacimento. Era meglio tramutare gli “NPL” in “SPV” (“società veicolo” ndt) che risparmiare sui servizi ed imporre tasse più alte alla popolazione. Il governo cinese risparmiò sui servizi ed aumentò le tasse, a scapito delle masse in difficoltà, ma non nella misura che, quantomeno, era necessaria per bilanciare i registri finanziari agli standard occidentali.

Mentre il resto del mondo soffre a causa di un’irrefrenabile stretta sul credito, oggi le banche cinesi si trovano in un’impetuosità di prestiti. L’impeto di concedere nuovi mutui è una risposta diretta alla politica economica di stimolo del governo, che sostiene le infrastrutture e lo sviluppo interno.

Il governo cinese ha potuto concedere alle proprie banche di aprire le porte ai prestiti proprio quando le banche statunitensi si comportavano da spilorce con i propri fondi perché il governo ha la proprietà sulle banche.

Il sistema bancario cinese è stato parzialmente privatizzato, ma il governo è ancora l’azionista di maggioranza delle banche commerciali Big Four, che si sono separate dalla Banca Popolare Cinese negli anni ‘80.

Potremmo imparare una lezione dai cinesi e spingere le nostre banche a lavorare per il popolo, invece di far lavorare il popolo per le banche. Dobbiamo tirar fuori i nostri soldi da Wall Street e riportarli in Main Street, e possiamo farlo solo smantellando il monopolio di Wall Street sul sistema bancario privato fuori controllo e riconsegnando il controllo sul denaro e sul credito al popolo stesso.

Potremmo imparare un’ulteriore lezione dai cinesi e smaltire il nostro debito con un po’ di contabilità creativa: quando scadono le obbligazioni, potremmo pagarle con dollari emessi dalla Tesoreria, nello stesso modo in cui la Federal Reserve ha emesso le Federal Reserve Notes per salvare Wall Street con il suo programma “Quantitative Easing”.

Il meccanismo di questo procedimento è stato rivelato dalla National Public Radio in un importante frammento del 26 agosto 2010, in cui si descrive come un gruppo di impiegati della Fed abbia acquistato 1,25 trilioni di dollari di titoli ipotecari dalla fine del 2008. Secondo la NPR:

“La Fed è riuscita a spendere così tanto denaro in così poco tempo perché ha un potere eccezionale: può creare denaro dal nulla, ogni volta che lo desidera. Quindi… il gruppo dei titoli ipotecari decide di acquistare un’obbligazione, premono un bottone sul computer – “e voilà, il denaro è creato.”.

Se la Fed può fare tutto ciò per salvare le banche, il Ministero del Tesoro può fare altrettanto per salvare i contribuenti. In un testo presentato all’American Monetary Institute nel settembre 2010, il Prof. Karou Yamaguchi ha dimostrato con sofisticati modelli matematici che, se fatto nella maniera giusta, saldare il debito federale con banconote ministeriali senza debito avrebbe un effetto benefico stimolante sull’economia, evitando l’inflazione dei prezzi.

La pubblicità della CAGW è giusta. Abbiamo voltato le spalle ai principi che ci hanno fatto diventare grandi. Ma quegli stessi principi non sono radicati nell’“austerità fiscale”.

L’abbondanza che ha reso grandi le colonie americane derivava prevalentemente da un sistema monetario in cui il governo ha il potere di stampare il proprio denaro – diversamente da oggi, quando l’unico denaro che il governo emette sono le monete.

I bigliettoni vengono emessi dalla Federal Reserve, una banca centrale privata; ed il governo deve chiederli in prestito come chiunque altro. Ma come notoriamente affermò Thomas Edison:

“Se la Nazione può stampare un’obbligazione, essa può stampare anche una banconota. La cosa che rende l’obbligazione valida, rende valida anche la banconota. La differenza tra l’obbligazione e la banconota risiede nel fatto che l’obbligazione permette all’agente di cambio di riscuotere il doppio del suo valore più un 20%... E’ una situazione terribile nella quale il Governo, per assicurare l’Assistenza Sanitaria Nazionale, deve indebitarsi e sottostare ad interessi esorbitanti nelle mani di uomini che controllano il valore fittizio del denaro.”

Il governo cinese può ordinare alle banche di aumentare il credito della valuta nazionale secondo le necessità, perché possiede le banche. Ironicamente, è evidente che i cinesi abbiano preso l’idea da noi.

Sun Yat-sen è stato un grande ammiratore di Abraham Lincoln, che durante la Guerra Civile evitò un rovinoso indebitamento nazionale emettendo banconote ministeriali senza debito; e Lincoln stava perseguendo la strada dei coloni americani, i nostri antenati.

Dobbiamo reclamare il nostro diritto sovrano di finanziare la sanità pubblica senza rimanere invischiati nel debito di creditori stranieri, tramite l’uso di denaro stampato dal nostro stesso governo e di banche pubbliche.

*Ellen Brown è procuratore a Los Angeles ed è autrice di 11 libri. In Web of Debt: The Shocking Truth About Our Money System and How We Can Break Free, mostra come un gruppo di banche private ha usurpato il potere per creare denaro da soli dal popolo, e come noi popolo possiamo recuperarlo.