domenica 21 novembre 2010

Default: dopo i PIGS anche il resto dell'Ue?

Torniamo ancora sulla crisi irlandese e sulle sue conseguenze nell'eurozona e nell'Ue più in generale.


L'orribile verità comincia a farsi strada tra i leader europei
di Ambrose Evans-Pritchard - http://blogs.telegraph.co.uk - 16 Novembre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Ettore Mario Berni

L'intero progetto europeo è ora a rischio di disgregazione, con conseguenze strategiche ed economiche che sono molto difficili da prevedere.

In un discorso tenuto questa mattina, il presidente dell'Unione europea Herman Van Rompuy (poeta e scrittore di versi giapponesi e latini) ha avvertito che se i leader europei trattano maldestramente la crisi attuale e consentono lo scioglimento dell’eurozona, essi distruggono la stessa Unione europea.

"Siamo in una crisi di sopravvivenza. Dobbiamo lavorare tutti insieme per sopravvivere con la zona euro, perché se non sopravviviamo con la zona euro non sopravviveremo con l'Unione europea ", ha detto.

Bene, bene. Questo tema è fin troppo familiare ai lettori del The Daily Telegraph, ma è come uno shock ascoltare una tale confessione dal presidente europeo dopo tutti questi anni.

Egli ammette che la scommessa di lanciare una moneta prematura e disfunzionale, senza una tesoreria centrale, o unione del debito, o governo economico per sostenerla - e prima che le economie, i sistemi giuridici, le pratiche di contrattazione salariale, la crescita della produttività, la sensibilità del tasso d’interesse del Nord e del Sud Europa arrivassero dovunque vicino ad una convergenza sostenibile - ora può ritorcersi contro orribilmente.

Fu detto a Jacques Delors e compagni, padri dell'UEM (Economic and Monetary Union), dagli economisti della Commissione nei primi anni ‘90 che questa avventura spericolata non avrebbe potuto funzionare così come costruita, e avrebbe portato ad una crisi traumatica. Essi fecero spallucce di fronte alle avvertenze.

Gli era anche stato detto che la moneta unica non elimina il rischio: essa sposta semplicemente il rischio di cambio verso ill rischio di default. Per questo motivo era tanto più importante disporre di un meccanismo efficace per i default sovrani e le ristrutturazioni del debito in atto sin dall'inizio, con regole chiare per stabilire i giusti prezzi di tale rischio.

Ma no, i maestri della UE non volevano sentire niente di tutto ciò. Non potevano esserci dei default e nessuna preparazione fu fatta o addirittura consentita per un simile risultato del tutto prevedibile. Fu sufficiente la sola fede politica.

Gli investitori che avrebbero dovuto essere informati meglio andarono dritti nella trappola, pagando il debito greco, portoghese e irlandese a 25-35 punti base al di sopra dei Bund. all’apice del boom i fondi d’investimento acquistavano obbligazioni spagnole con uno spread di 4 punti base. Ora stiamo vedendo quello che succede quando si consolida tale rischio morale nel sistema, e si spegne il segnale d’allarme.

Delors ha detto ai colleghi che ogni crisi sarebbe una "crisi salutare", consentendo all'UE di abbattere la resistenza al federalismo fiscale, e di accumulare energia fresca. Lo scopo della EMU è stato politico, non economico, per cui le obiezioni degli economisti potevano felicemente essere ignorate.

Una volta che la moneta era in vita, gli stati UE avrebbero rinunciato alla sovranità nazionale per farla funzionare nel tempo. Ciò porterebbe inevitabilmente al sogno di Monnet di uno stato dell'Unione europea a pieno titolo. E causare la crisi.

Dietro a questa scommessa, ovviamente, c’era il presupposto che ogni crisi potrebbe essere contenuta ad un costo tollerabile una volta che gli squilibri del sistema monetaria EMU “un’unica taglia che non va bene a nessuno” avessero già raggiunto livelli catastrofici, e una volta che le bolle del credito di Club Med e dell'Irlanda fossero esplose.

Si presumeva anche che la Germania, Paesi Bassi, Finlandia in ultima analisi - a seguito di molte proteste - si sarebbero impegnate a pagare il conto per una “Unione europea di sussidi di solidarietà”.

Si può presto scoprire se tale ipotesi è corretta. Lungi dall’amalgamare l'Europa, l'unione monetaria sta portando ad acrimonia e recriminazioni reciproche. Abbiamo avuto la prima eruzione all'inizio di quest'anno quando il vice premier della Grecia ha accusato i tedeschi di aver rubato l’oro greco dai forzieri della banca centrale e aver ucciso 300.000 persone durante l'occupazione nazista.

La Grecia è ora sotto un protettorato dell'Unione europea, o il "Memorandum", come lo chiamano. Ciò ha provocato attacchi terroristici di minor conto contro chiunque associato al governo UE.

Irlanda e Portogallo sono più indietro su questa strada per la servitù della gleba, ma sono già alle prese con la politica imposta da Bruxelles per essere presto sotto protettorati formali in ogni caso.

La Spagna è più o meno stata costretta a tagliare i salari pubblici del 5% per soddisfare le richieste dell'UE in maggio. Tutti sono costretti a lavorare duro a causa dell'agenda di austerità dell'Europa, senza la contropartita del soccorso della svalutazione e di una più libera politica monetaria.

Dato che questo continuerà anche nel prossimo anno, con tasso di disoccupazione fermo a livelli da depressione o addirittura oltre in maniera strisciante, ci si comincia a interrogare sulla paternità di tali politiche.

C'è pieno consenso democratico, oppure questa sofferenza è imposta da capi supremi stranieri con un obiettivo ideologico? Non ci vuole molta immaginazione per vedere cosa tutto questo sta per fare per la concordia in Europa.

La mia opinione personale è che l'UE è divenuta illegittima quando si è rifiutata di accettare il rigetto della Costituzione europea da parte degli elettori francesi e olandesi nel 2005. Non ci poteva essere alcuna giustificazione per resuscitare il testo del trattato di Lisbona ed imporlo attraverso una procedura parlamentare senza referendum, in quanto costituiva un putsch autoritario.

(Sì, i parlamenti nazionali sono stati a loro volta eletti - quindi non scrivete commenti indignati di puntualizzazione -. Ma quale era il loro motivo per negare ai loro popoli un voto in questo caso specifico? I leader eletti possono anche violare la democrazia. C'era un caporale in Austria ... ma lasciamo perdere questo).

L'Irlanda era l'unico paese costretto a considerare una votazione della sua corte costituzionale. Quando anche questo elettorato solitario ha votato no, l'UE ha nuovamente ignorato il risultato e intimato all'Irlanda di votare una seconda volta per farlo "giusto".

Questo è il comportamento di una organizzazione proto-fascista, per cui se l'Irlanda ora - per ironia della storia, e senza compenso – fa scoppiare la reazione a catena che distrugge la zona euro e l'Unione europea, sarà difficile resistere alla tentazione di aprire una bottiglia di whisky Connemara e godersi il momento. Ma bisogna resistere. Il cataclisma non sarà gradevole.

Il mio pensiero per tutti quei vecchi amici che ancora lavorano per le istituzioni dell'UE è: cosa accadrà alle loro pensioni in euro se il signor Van Rompuy ha ragione?


L'Europa senza Unione
di Luca Troiano - www.clarissa.it - 20 Novembre 2010

La mancata intesa tra Commissione e Parlamento sull'approvazione della finanziaria 2011 è frutto di uno scontro aperto tra gli stati, prima ancora che tra istituzioni comunitarie. L'esercizio provvisorio del bilancio, nel caso non si trovasse un compromesso, comporterebbe gravi perdite per tutti, compresi i membri refrattari all'accordo.

L'Italia ormai asservita alla tutela di interessi di pochi ha un ruolo sempre più marginale in ambito comunitario. La questione del brevetto europeo come emblema della divisione all'interno della Ue. Bruxelles fa pressioni su Dublino affinché accetti l'aiuto comunitario, ma anche la pur fiera Londra non naviga in buone acque.

Quando il Trattato di Lisbona entrò in vigore, il 1° dicembre 2009, fu salutato come lo strumento che avrebbe dotato l'Europa di istituzioni evolute e metodi di lavoro adeguati alle sfide di un mondo in perenne cambiamento.

Da allora non è trascorso neppure un anno e quello stesso accordo che che doveva condurre l'Unione nella realtà del XXI secolo potrebbe trasformarsi nel suo requiem.

Nella notte tra martedì 16 e mercoledì 17 novembre, alla scadenza del termine istituzionale per trovare un accordo, le trattative tra il Parlamento e il Consiglio dei Ministri Ue sull'approvazione del bilancio 2011 sono saltate.

Era la prima volta, in base al suddetto Trattato, che l'Europarlamento esercitava poteri decisionali in materia e subito c'è stata una fumata nera. Se l'intesa non si troverà entro il prossimo mese, l'Europa dovrà prepararsi ad affrontare l'anno venturo con risorse bloccate mese per mese ai livelli del bilancio 2010.

Non accadeva dal 1988 ma ora la prospettiva per l'Unione è carica di incertezza, dovendo la Commissione Ue far fronte a spese nuove per finanziare quelle stesse istituzioni previste a Lisbona (come il Servizio diplomatico comunitario e l'organo di vigilanza sui mercati finanziari) e che adesso non avranno più i mezzi per partire o altri progetti già approvati in passato (come «Iter» per generare energia con la fusione nucleare).

E gli stati non riceveranno i rimborsi per i progetti già finanziati. Per l'Italia, ad esempio, si parla di un buco di due miliardi.

La gravità della situazione è testimoniata dalle stesse dichiarazioni dei vertici Ue, solitamente accorte e pacate. Il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso ha dichiarato senza mezzi termini: "chi crede di avere vinto contro Bruxelles si è sparato da solo sui piedi", rammaricandosi per il fallimento dei negoziati per i quali in molti hanno lavorato duro in queste settimane.

Barroso ha poi ha precisato che le nazioni che responsabili del negativo esito delle trattative "avrebbero dovuto sapere che questo non è un bilancio per Bruxelles", ma che a beneficiarne sono "tutti i programmi europei" che ora sono improvvisamente a rischio.

Dello stesso avviso è stato il Commissario al Bilancio Janusz Lewandowski: "la Commissione europea si rammarica che non sia arrivato un accordo sul bilancio 2011 nell'incontro di conciliazione".

Più diretto è stato il commento del Presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek: l'intransigenza di alcuni Stati membri in seno al Consiglio mina la fiducia dei cittadini".

Il mancato accordo si registra proprio nei giorni in cui Bruxelles sta cercando di convincere il governo di Dublino ad accettare gli aiuti comunitari per evitare un probabile default, e fa il paio con un'altra trattativa sfumata, quella per l'istituzione del brevetto unico europeo.
L'Europa è sempre più senza Unione.

Il bilancio annuale dell'Ue ammonta attualmente a circa 133,8 miliardi: l'1% del PIL di tutti i paesi dell'Unione, 235 euro pro capite per ogni cittadino comunitario. Tale somma finanzia la maggior parte delle politiche comuni, in particolare i Fondi Strutturali per lo Sviluppo, che ammontano al 45% degli stanziamenti totali e sono destinati a finanziare progetti di innovazione e crescita che i singoli stati non sarebbero altrimenti in grado di attuare da soli, per eliminare così le differenze esistenti tra le regioni più ricche e quelle meno avvantaggiate all'interno dell'Unione.

Il 30% va alla Pac (politica agricola comunitaria), l'11% allo sviluppo rurale e il restante 14% è impiegato in egual misura per le spese amministrative e le attività internazionali.

Tutto l'ammontare è finanziato attraverso la tariffa doganale comune (in vigore dal 1° luglio 1968), dalle quote sui prodotti agricoli e lo zucchero (12%), dall'IVA (11%), e dalla "risorsa PNL" (prodotto nazionale lordo), ossia un contributo pari all'1% del PIL annualmente versato da ciascuno stato (circa 75%).

Il Trattato di Lisbona prevede che ogni anno la Commissione formuli una proposta per ciascun settore d'intervento e ciascun programma; il Parlamento deve approvarla e poi la gira al Consiglio che prende la decisione finale. La Commissione può allora impiegare i fondi stanziati ed è tenuta a renderne conto al Parlamento.

Stavolta però, il sistema non ha funzionato. Dopo settimane di trattative più simili ad braccio di ferro che ad un tavolo di negoziati, il Parlamento ha accettato che l'incremento del budget rispetto al 2010 fosse del 2,91% (pari a 3,5 miliardi) rispetto al 5,9% inizialmente proposto dalla Commissione.

Per convincere l'Europarlamento ad accettare, la Commissione aveva offerto in cambio un ruolo più incisivo nella distribuzione delle risorse e soprattutto l'avvio di modifiche del sistema delle risorse proprie del bilancio Ue, prevedendo in particolare una certa "flessibilità" per i bilanci 2012-2013 nonché alcune proposte di tassazione Europea.

Il rifiuto di alcuni paesi (Regno Unito e Olanda su tutti, seguiti da Olanda, da Svezia, Danimarca, Repubblica Ceca, Finlandia e Lettonia) ha fatto saltare tutto.
Ora il Commissario al bilancio Lewandovski preparerà a tempo di record una proposta di compromesso per riaprire una nuova trattativa.

Non c'è una scadenza per questo, ma con i tempi così stretti è logico che la Commissione dovrà concludere la nuova bozza il prima possibile. Il Consiglio europeo ha incluso il bilancio dell'Ue all'ordine del giorno per l'ultimo vertice del 2010, che si terrà il 16 e il 17 dicembre.

Prima, per cautelare l'Unione dalla paralisi totale, dovrà preparare l'attivazione del meccanismo dei dodicesimi provvisori, per cui ogni mese la Commissione potrà spendere per le 200 poste previste non più di 1/12 del bilancio 2010.

Il pomo della discordia, che ha fatto naufragare le trattative, non era l'entità della spesa, quanto le fonti di finanziamento del bilancio comunitario. Quando all'interno di una comunità vi sono membri più facoltosi e altri meno avvantaggiati, è logico che all'atto della redistribuzione del totale i primi ricevano meno di quanto versano.

Nel 2010, ad esempio, si calcola che la Germania ha contribuito al bilancio europeo per il 19,6% del totale, seguita dalla Francia (18%), dall'Italia (13,9%), l'Inghilterra (10,4%) e la Spagna (9,6%).

Questi paesi sono contribuenti netti al bilancio, cioè versano nelle casse comunitarie più di quanto ottengono. E da tempo il Regno Unito rivendica le sue prerogative di contributore netto.

Purtroppo, nel caso in cui il meccanismo dei dodicesimi provvisori dovesse entrare in funzione le perdite per gli stati potrebbero essere considerevoli. Anche per Londra. Nel caso della Pac, i governi anticipano agli agricoltori i contributi per il settore per poi riceverne successivamente i rimborsi dalla Ue.

Ma per la politica agricola i rimborsi della Ue non sono però spalmati su 12 mesi, bensì concentrati al 70-80% nei primi due mesi dell'anno. Ciò implicherebbe perdite a carico di tutti gli stati membri per cifre proporzionali ai contributi Pac di cui godono.

Da un rapido calcolo, la più colpita sarebbe la Germania, seguita proprio dal Regno Unito, il cui ostracismo ha contribuito a questa situazione. Per l'Italia si parla già di una perdita di cassa di 2 miliardi di euro.

I fondi per il nostro paese ammontano a 4.227 miliardi, dei quali si stima che almeno la metà sia già stata versata a partire dal 16 ottobre scorso. Una cifra che, con i dodicesimi di bilancio, la Ue potrebbe non essere in grado di rimborsare.

Non è il primo smacco che Bruxelles rifila a Roma, ma c'è da dire che ultimamente Roma non ha fatto granché per farsi rispettare da Bruxelles.

In Europa la credibilità di un governo si esprime sulla base delle lotte che intraprende, e soprattutto negli ultimi mesi non si può dire che l'Italia abbia combattuto su nobili fronti.

Dapprima il governo del Bel Paese si è accapigliato con quello europeo per la questione del crocifisso nelle aule pubbliche, una battaglia condotta con la stessa intensità di quelle passate contro la pena di morte; poi ha cercato di evitare ad alcuni allevatori che avevano superato le quote latte di pagare le multe; infine ha cercato di impedire che Sky tv, diretta concorrente delle televisioni del premier, potesse partecipare ad una gara per l'assegnazione delle frequenze sul digitale terrestre.

Argomenti poco europei e molto "personali", espressione di un potere pubblico ormai completamente fagocitato dalla tutela di discutibili interessi privati.
Nel mezzo, si situano due questioni degne di importanza: il monolinguismo e il brevetto europeo, emblemi della disarmonia in seno alla comunità.

Da tempo il nostro paese si batte per evitare che inglese, francese e tedesco acquisiscano uno status di lingue privilegiate all'interno dell'Unione a scapito di altre, come l'italiano o lo spagnolo, altrettanto diffuse.

Passi per l'inglese, che è ormai la seconda lingua dell'ecumene, ma perché anche francese e tedesco? Per l'Italia si tratterebbe di una discriminazione, ma il ricorso in merito inoltrato al Tribunale di Nizza è stato respinto la scorsa estate.

Analogo discorso vale per il brevetto europeo, un dossier che si trascina da sette anni. Attualmente la registrazione di un brevetto che sia valido al di là dei confini nazionali si può fare presso l'ufficio di Monaco di Baviera per il brevetto europeo, ma al costo di 20.000 euro per una protezione estesa in meno della metà dei paesi, mentre negli Usa ne costa appena 1.850.

La presidenza belga aveva elaborato una soluzione di compromesso che rendeva possibile la registrazione in una delle tre lingue principali (inglese, francese o tedesco). L'Italia, per bocca del Ministro Ronchi, in ragione della sua battaglia contro il "trilinguismo" aveva posto il suo veto. "Vogliamo che la seconda lingua in cui viene tradotto il brevetto abbia sempre valore legale", aveva dichiarato il Ministro Ronchi.

Se l'obiettivo del brevetto europeo è di ridurre i costi di traduzione, sostiene il nostro paese, avrebbe più senso decidere di farlo in una sola lingua: l'inglese, appunto. La proposta della presidenza belga, appoggiata dalla Commissione, sarebbe incompatibile con le regole del mercato interno perché comporterebbe una discriminazione.

Il 15 novembre sembrava che un accordo fosse possibile. Invece è stata la Spagna a dire di no a tutti e a tutto. In Europa, insomma, il principio ognuno per sé e nessuno per tutti sembra l'unica regola condivisa. E le aziende europee continueranno ad andare a brevettare negli Stati Uniti.

La mancata approvazione del bilancio Ue ha fatto passare in secondo piano la crisi dell'Irlanda. Bruxelles vuole convincere Dublino ad accettare l'aiuto dell'Unione per evitare che continui l'effetto contagio sui mercati obbligazionari, che potrebbe travolgere anche altri paesi a rischio aumentando il costo già esorbitante per sostenere i debiti sovrani.

La crisi dell'isola smeraldo ha un'origine molto semplice: l'Irlanda è un piccolo paese con grandi banche. Troppo grandi. Mesi fa si stimava che il salvataggio della sola Anglo-Irish Bank, ad esempio, sarebbe costata al governo irlandese una cifra superiore a tutto il gettito fiscale delle persone fisiche. Cifra che col tempo è andata aumentando.

Per quanto le disponibilità del Fondo anticrisi di Eurolandia e del Fmi siano rassicuranti (440 miliardi di garanzie dai governi dell'area euro, 60 miliardi con prestiti garantiti dalla Commissione europea, 250 miliardi del Fondo monetario) non è detto che possa bastare se invece di un solo paese da salvare dovessero essercene di più.

Solo i prestiti previsti per la Grecia arrivano a 110 miliardi, l'Irlanda potrebbe riceverne 50 a breve e forse anche il Portogallo si metterà in coda. Sullo sfondo ci sono la Spagna, la cui solidità finanziaria, esaurito il boom immobiliare, non è mai stata definita con certezza.

Di positivo c'è che il meccanismo di stabilizzazione finanziaria non dipende dal bilancio annuale della Ue e dunque non sarebbe bloccato dall'eventualità dell'esercizio provvisorio per il 2011. Ma al momento nessuno può dire alla fine quanti soldi saranno effettivamente necessari per il rifinanziamento dei debiti sovrani.

Lo stesso Regno Unito potrebbe trovarsi in seria difficoltà. Secondo John Hawksworth, capo economista della PricewaterhouseCoopers (PwC), la più importante società di consulenza del mondo, entro il 2015 il debito complessivo (cioè dello stato e dei privati) di Londra sfonderà la quota di 10 trilioni di sterline (16 mila miliardi di dollari).

La crescita incontrollata del suo sistema finanziario, i bassi tassi d'interesse degli ultimi anni (ridotti proprio per fronteggiare la crisi e ridare ossigeno ad un'economia stagnante), nonché l'ingresso dello stato nel capitale di Royal Bank of Scotland (84% delle azioni) e di Lloyds (41%) per procedere al loro salvataggio hanno portato a queste conseguenze.

Nel corso di una conferenza allo European Policy Center, il Presidente della Ue, Herman Van Rompuy ha ammesso: "stiamo fronteggiando una crisi per la nostra sopravvivenza". Una dichiarazione così netta da parte di un uomo così misurato come il belga basta a spiegare la drammaticità del momento che l'Europa sta attraversando.


Savona: ecco perchè all'Italia conviene uscire dall'euro
di Lorenzo Torrisi - www.ilsussidiario.net - 19 Novembre 2010

Mentre risuona ancora l’allarme lanciato da Herman Van Rompuy sul pericolo di sopravvivenza che stanno correndo l’euro e l’intera Unione Europa, proseguono i colloqui tra il governo irlandese e l’Unione europea per mettere a punto un piano di prestiti per le disastrate casse di Dublino.

Una strategia che Paolo Savona ritiene inefficace. E per evitare il peggio, secondo l’economista e Presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, l’Italia dovrebbe prendere in seria considerazione l’ipotesi di uscire dall’euro.

Professore, si è discusso molto delle parole di Herman Van Rompuy. Lei condivide il suo allarme?

Pur non avendo l’autorevolezza del Presidente Van Rompuy, anch’io ho lanciato un allarme preciso: se si continua a trascinare la situazione, tamponando la crisi con decisioni che hanno come contropartita la riduzione della sovranità fiscale dei paesi, non risolviamo il problema di fondo che è quello dell’Unione politica, della comune responsabilità dei debiti pubblici che il Trattato di Maastricht erroneamente rifiutò.

A quei tempi probabilmente non era possibile ottenere di più, ma oggi il tema si ripropone prepotentemente sul tappeto. Se si vuole, attraverso avanzi di bilancio pubblico, raggiungere il parametro del debito pubblico al 60% del Pil, tenendo conto che c’è chi parte dall’80%, chi dal 100%, chi dal 120% come l’Italia, allora stiamo condannando l’Europa a una crescente deflazione e disoccupazione che prima o poi porteranno alla rottura dell’Europa.

Dunque non sarebbe efficace il fondo europeo di salvataggio?

Credo di no: si tratterebbe di solidarismo “peloso”, come la carità “pelosa”. I fondi, infatti, vengono dati in cambio di politiche deflazionistiche. L’esitazione dell’Irlanda sul fatto di richiedere gli aiuti è legata proprio a questo fatto: per cercare di aggiustare i propri conti rischia di legarsi le mani.

Come si dovrebbe affrontare allora il problema dei debiti pubblici?

Non creando un fondo, ma “parcheggiando” presso un fondo i debiti pubblici in eccesso rispetto al 60% del Pil previsto dall’addendum del Trattato di Maastricht e quindi ristrutturare questo debito a lunga scadenza e a tassi appropriati in proporzione al debito pubblico che viene collocato. Dopo di che, una volta che tutti i paesi hanno una diretta responsabilità sul debito pubblico nella misura del 60% del Pil, si può ripartire con criteri di rigore accettabili.

Si parla anche della nascita di due monete europee, una più forte e un’altra più debole per i paesi periferici. È uno scenario secondo lei percorribile?

Rispetto a quel che ho detto, non credo ci sia molto scelta per dire se percorrerlo o meno. È meglio, a questo punto, che ogni paese abbia un suo schema su come uscire dalla situazione. Ognuno deve sapere cosa succede e cosa fare qualora si rompa l’Eurozona o addirittura l’Unione Europea.

Quindi dovrebbe aver pronte altre alleanze, uno schema di intervento, garanzie da prestare ai mercati finanziari internazionali che altrimenti muoverebbero un attacco al debito pubblico facendolo crollare. Non si tratta quindi di un problema di scelta; il problema è che se non facciamo niente per colmare l’unione politica o dividerci completamente, le soluzioni tampone che si stanno individuando non possono funzionare.

Su Il Foglio lei ha scritto che l’Italia dovrebbe seriamente valutare l’ipotesi di seguire l’esempio del Regno Unito, che è dentro l’Unione Europea, ma fuori dall’euro.

È stata considerata una provocazione, ma non lo è. È una diagnosi che porta ad agire. Non possiamo aspettare che gli eventi si realizzino per reagire: io propongo di agire. Siccome abbiamo capito la situazione, abbiamo ormai esperienze di diverso tipo in questa materia, perché non capitalizziamo queste esperienze?

Certo verremmo attaccati politicamente, come sta accadendo adesso all’Irlanda. La mia tesi è quindi: agiamo oggi finché c’è tempo. Non infiliamoci sempre più in una crisi di proporzioni notevoli e di prevedibili sbocchi.

Ci sarebbero quindi dei danni e degli svantaggi nell’immediato, ma questi sarebbero minori di quelli che si avrebbero nel continuare ad andare avanti con la stessa situazione?

Sì, ma ho molta fiducia negli italiani, perché sanno reagire di fronte a crisi gravi. Oggi gli viene ripetuto che la crisi non riguarda l’Italia, che siamo al sicuro, ma non è vero. Il problema, infatti, riguarda non un paese (l’Irlanda), ma il rischio di contagio, perché quando la speculazione riesce ad avere successo in un paese, inevitabilmente si sposta sugli altri più deboli. Quindi prima o poi arriverebbe all’Italia.

Credo invece che una crisi grave spingerebbe gli italiani a comportamenti corretti. Ciò che si voleva ottenere con il vincolo esterno, quello di Guido Carli e di Maastricht, e che non abbiamo ottenuto (dato che abbiamo continuato a progredire con il debito pubblico e con l’economia che non cresce), tanto vale averlo con un vincolo interno, scegliendo esattamente quali politiche mettere in campo.

Se si sbaglia, poi si pagherà, ma per lo meno la responsabilità sarà nostra, non degli altri. Oggi siamo in una situazione di “occupazione straniera”, sono gli altri che ci devono dire come ci dobbiamo comportare. Questo non è accettabile, non è dignitoso (non a caso nell’articolo su Il Foglio ho usato le parole “poco dignitoso vincolo esterno”).

L’euro, però, è forse il maggior fattore di coesione tra i paesi europei.

Il consenso intorno all’Unione Europea è diminuito drasticamente, tanto che ci sono stati addirittura dei referendum che hanno respinto il Trattato costituzionale. E io credo che proprio l’euro sia all’origine di questa perdita di consenso. Si tratta infatti di uno scudo protettivo che funziona se si è pronti ad accettare gli effetti deflazionistici e di disoccupazione che comporta.

Ma per qualcuno ha funzionato.

Se il paese cui fa riferimento è la Germania, questo dimostra che il meccanismo alla base dell’euro non è equo, perché Berlino beneficia di un cambio sottovalutato come la Cina, che gli garantisce un surplus di bilancia commerciale pari, in valore assoluto, a quello di Pechino.


La banca irlandese che tiene in scacco l'Europa

di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 19 Novembre 2010

Sulla crisi irlandese - e, più in generale, su quella del debito sovrano nell’eurozona - sapete tutto quello che c’è da sapere. O quasi tutto. C’è infatti una seconda ragione inconfessata che giustificherebbe l’attendismo un po’ masochista del governo di Dublino nel richiedere l’accesso al fondo di salvataggio europeo.

La prima, nota a tutti, è il fatto che in questo modo l’Irlanda perderebbe la sovranità fiscale e dovrebbe sacrificare sull’altare del salvataggio la corporate tax al 12,5%, ovvero la dinamo che ha attratto investimenti esteri diretti da record e tramutato l’isola di smeraldo nella (fu) tigre celtica.

Ma ciò che Brian Cowen e soci vogliono occultare è lo stato di salute pressoché disperato di Allied Irish Banks, la seconda banca del paese: ora capirete perché, pur negando la necessità del piano di bail-out, Dublino ha parlato per giorni di “contatti” a livello internazionale per quanto riguardo il comparto bancario.

E cosa sta succedendo alla già poco liquida Allied Irish? Nulla di speciale, soltanto deve ripagare entro la fine di quest’anno qualcosa come 1,8 miliardi di dollari di bond. Denaro fresco frutto di capitalizzazione sui mercati, visto che la banca non vuole subire il destino di Anglo Irish Bank ed essere nazionalizzata: non può farcela ma, guarda caso, ora il governo si è accorto che non è in grado di salvarla neppure lui perché il primo bail-out - qualcosa come circa 60 miliardi di euro - ha già fatto schizzare il deficit al 32% del Pil nazionale. Detto fatto, si stabiliscono “contatti” internazionali.

Insomma, Allied Irish può essere il detonatore del default, visto che vanta una capitalizzazione di mercato di 418 milioni di euro e che quest’anno ha consentito ai compratori il diritto di rivendere i bond detenuti al valore facciale in date prefissate precedenti alla scadenza della maturazione finale.

Cosa significa? Semplice, che un detentore ha richiesto il pagamento dei suoi bond floating-rate da 120 milioni di euro con scadenza febbraio 2011 per il 30 di novembre prossimo: dieci giorni e un quarto della capitalizzazione potrebbe andare in polvere.

Lo conferma Simon Adamson, analista bancario alla CreditSights Inc. di Londra: «Il pagamento è un obbligo contrattuale quando il bond viene rimandato all’emissore: il mancato pagamento potrebbe creare un situazione di default».

Già, le banche irlandesi stanno per pagare a caro prezzo la loro volontà di piazzare il debito: non bastava la garanzia governativa sulle notes a dodici mesi o meno, pur di raggranellare denaro gli istituti hanno offerto ai compratori anche l’opzione put come garanzia ulteriore. Detto fatto, il primo grosso detentore ha fatto valere quell’opzione put.

Terminata la speranza di poter raggranellare i soldi sul mercato vendendo assets, i vertici dell’istituto hanno prima cercato di intorbidire le acque annunciando stress-test indipendenti sui propri bilanci per smentire le voci di difficoltà immediate, poi hanno suonato alla porta del governo dicendo la verità. Ecco spiegati, i famosi “contatti” internazionali.

Un banchiere popolare descrive così a ilsussidiario.net la situazione: «Schematicamente: o rimborsano ma non hanno la liquidità, o non rimborsano e quindi dichiarano di fatto default. A questo punto se arriva l’aiuto comunitario, sottoforma di liquidità fresca, il problema viene superato.

Se poi l’aiuto rafforza il capitale, i mercati possono anche valutare di sottoscrivere nuovi bond, certamente a tassi più alti. Insomma: bisogna sempre ricordarsi che il primo problema da governare per una banca è la liquidità, perché le banche saltano quando vanno in crisi di liquidità (anche per Lehman Brothers fu così).

Il problema è l’atteggiamento dei politici irlandesi: sembra che non sappiano che il debito del paese è la somma di debito pubblico, privato e bancario e quindi quando leggiamo che Brian Cowen, il premier irlandese, dichiara che fino a giugno non deve emettere titoli di stato, non so se ridere o piangere! Ragionano come se avessero il solo problema del rientro del deficit...

D’altro canto, se l’avessero saputo, avrebbero visto per tempo che le banche irlandesi erano arrivate a livelli di indebitamento e di levereging quasi islandese: ma questo per anni non l’ha visto nessuno, neanche le varie authorities, perché ci si è trastullati con l’idea che la liquidità fosse divenuta una commodities». Un libro stampato.

Forti dubbi sullo sviluppo della situazione attuali li ha mostrati anche Simon Ward, capo economista alla Henderson Global Investors di Londra, anch’esso contatto dal nostro quotidiano: «Un salvataggio irlandese non risolverà il problema fondamentale, ovvero il fatto che la crescita economica nei periferici è stata annullata da una combinazione di contrazione monetaria e rafforzamento dell’euro. Senza crescita, i piani di consolidamento fiscale non funzioneranno, spingendo altri paesi sulla linea del fuoco».

Per primi, Spagna e Portogallo. Per Citigroup, infatti, il salvataggio irlandese rischia soltanto di far spostare le attenzioni dei mercati verso altre nazioni in una sorta di domino. Ian Stannard di Bnp Paribas va oltre, dicendo chiaramente che il fondo di salvataggio europeo da 440 miliardi di euro non è stato creato per essere utilizzato veramente: «L’esistenza stessa del fondo, nell’intenzione dei regolatori, doveva essere sufficiente a livello di deterrenza verso i mercati, ma questo non è accaduto. È soltanto una questione di tempo prima che l’economia spagnola ricaschi in recessione e quello sarà il momento in cui i mercato la metteranno nel mirino».

Martedì scorso l’asta di bond a dodici mesi ha registrato tassi del 2,36% contro l’1,84% pagato in ottobre, questo nonostante i mercati diano già per cosa fatta il salvataggio irlandese: per gli analisti, Spagna e Portogallo devono essere molto cauti riguardo quanto si augurano.

E in effetti, anche i costi per prendere denaro per Lisbona hanno visto un incremento ulteriore all’ultima asta di bond a dodici mesi per 750 milioni di euro. Le obbligazioni, con scadenza 18 novembre 2011, sono state emesse con un rendimento medio del 4,813% a fronte del 3,26% pagato in un’altra asta tenutasi il 3 novembre scorso. Le richieste sono state 1,8 volte superiori all’offerta, comparata con una bid-to-ratio di 2,2 volte il 3 novembre scorso.

«Questo incremento dei rendimenti è stato accentuato e sorprendente poiché i mercati puntavano a valori attorno al 4,3-4,4%», ha dichiarato a Bloomberg, Felipe Silva, gestore portafoglio obbligazionario, tra cui bond portoghesi, al Banco Carregosa di Oporto.

Nonostante questo, per il ministro delle Finanze, Fernando Texeira dos Santos, «il Portogallo è in grado di finanziarsi sul mercato»: a che prezzo, però, lo avete visto. Lo spread tra il decennale portoghese e il bund ha toccato quota 410 punti base, dopo aver toccato il record di 484 punti base l’11 novembre scorso.

Ma a dare un quadro più generale della situazione che stiamo vivendo, ci ha pensato Simon Derrick della Bank of New York Mellon nel suo report di ieri mattina: «I manager di hedge funds stanno già spostando la loro attenzione verso l’argomento del come - e del se - una crisi periferica possa passare dall’Irlanda a Spagna e Portogallo portando a una crisi di sistema dell’eurozona intera. Per capire meglio, dobbiamo dare un’occhiata ai dati di flusso di fixed income e monetari europei, specialmente gli investitori esteri.

Il primo dato interessante è fornito dal fatto che una significativa uscita degli investitori dall’obbligazionario irlandese è cominciata realmente soltanto da una settimana e mezza: ci dimostra come il mercato sia limitato e quanto velocemente è evoluta la crisi irlandese.

Un secondo dato da notare (e questo è in marcato contrasto con il grafico pubblicato e che mostra le azioni di tutti gli investitori nei confronti del debito italiano) è quello che vede gli investitori internazionali intenti a ridurre la loro esposizione al debito italiano a metà ottobre pur mantenendo posizioni long.

Terzo, il cambio di comportamento degli investitori esteri verso le obbligazioni italiane è riflesso dalla loro attività contemporanea sul mercato spagnolo.

Cosa ci dice tutto questo? Con i grafici che dimostrano come le vendite nette su Grecia e Portogallo abbiano ormai compiuto la loro corsa nella metà di quest’anno, è palese che ora il focus si sposta sull’Irlanda e la Spagna.

Più in generale questi dati dimostrano come gli investitori internazionali abbiano largamente ignorato la situazione all’interno di questi mercati, almeno fino alle ultime settimane quando hanno sì scaricato posizioni di esposizione, ma mantenendo quelle a lungo termine.

Con il rischio contagio alle porte, difficilmente resteranno esposti a lungo come nelle condizioni attuali: dobbiamo quindi vedere ogni potenziale segnale di ripresa legato all’annuncio di un accordo per il salvataggio dell’Irlanda come un’opportunità utile per ridurre posizioni di rischio. In altre parole, se anche l’accordo Ue-Irlanda porterà a una ripresa delle fortune europee, sospettiamo che questa avrà vita breve».

I mercati hanno già deciso che l’Europa, così com’è, non può più esistere.