sabato 20 novembre 2010

Update italiota

Ritorna il consueto aggiornamento con le ultime "prelibatezze" italiote...












"Dell'Utri fu mediatore tra boss e Berlusconi"

da www.antimafiaduemila.com - 20 Novembre 2010

Palermo. Il senatore Marcello Dell'Utri avrebbe svolto negli anni '80 un ruolo di «mediazione» tra Cosa nostra e l'allora imprenditore Silvio Berlusconi.

È quanto scrivono i giudici della Corte d'Appello di Palermo che lo scorso 29 giugno hanno condannato a 7 anni di carcere il politico accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Come scrivono i giudici, presieduti da Claudio Dall'Acqua, Marcello Dell'Utri «ricorrendo all'amico Gaetano Cinà e alle sue 'autorevolì conoscenze e parentele, ha svolto un'attività di 'mediazione' quale canale di collegamento tra l'associazione mafiosa Cosa nostra, in persona del suo più influente esponente dell'epoca, Stefano Bontade e Silvio Berlusconi, così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo».

I giudici hanno insomma confermato quanto sostenuto sia in primo che in secondo grado dall'accusa. Secondo la Corte d'Appello la mediazione tra i boss mafiosi e il premier Silvio Berlusconi sarebbe durata per circa vent'anni, una mediazione che avrebbe consentito a Cosa nostra «con piena coscienza e volontà, di perpetrare un'intensa attività estorsiva ai danni del facoltoso imprenditore milanese (Berlusconi, ndr) imponendogli sistematicamente il pagamento di ingenti somme di denaro in cambio di 'protezionè personale e famigliare».

Però gli stessi giudici hanno sottolineato nella sentenza, lunga più di 600 pagine, che non è stato provato il patto politico-mafioso tra Dell'Utri e Cosa nostra. Secondo l'accusa, invece, il senatore nel 1994 avrebbe stipulato un «patto di scambio».

«Non risulta provato nè che l'imputato Marcello Dell'Utri abbia assunto impegni nei riguardi del sodalizio mafioso nè che tali pretesi impegni siano stati rispettati».

Infine i giudici hanno anche parlato dello 'stallierè di Arcore, Vittorio Mangano, che non sarebbe stato assunto per occuparsi dei cavalli bensì per impedire che all'allora imprenditore Silvio Berlusconi potesse accadere qualcosa.

Adnkronos

CLICCA
PER LEGGERE LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA


Depositate motivazioni condanna a 7 anni

19 novembre 2010

Palermo. Sono state depositate oggi presso la Cancelleria della seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo le motivazioni della sentenza di condanna del senatore Pdl Marcello Dell'Utri, che lo scorso 29 giugno è stato condannato a 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.

Il politico, che ha sempre respinto le accuse, è stato condannato per i fatti che gli vengono contestati fino al 1992 e assolto per quelli successivi. In primo grado, Dell'Utri, era stato condannato a 9 anni di reclusione. La Corte d'Appello era presieduta da Claudio Dall'Acqua, giudici a latere Sergio La Commare e Salvatore Barresi.

Nella sentenza i giudici hanno sottolineato il ruolo che avrebbe svolto Marcello Dell'Utri come «mediatore» tra la politica e Cosa nostra. Nelle motivazioni i giudici fanno anche riferimento allo «stalliere» di Arcore Vittorio Mangano che sarebbe stato assunto, come aveva affermato l'accusa, per garantire la «incolumità», del premier Silvio Berlusconi.

Adnkronos

Ingroia: ''Sentenza Dell'Utri conferma nostro impianto accusatorio''

19 novembre 2010

Palermo. «Dalla lettura dei primi stralci delle motivazioni della sentenza d'appello di condanna a 7 anni del senatore Marcello Dell'Utri, non posso che esprimere soddisfazione perchè è un'ulteriore conferma della bontà dell'impianto accusatorio del processo di primo grado».

Lo ha detto all'ADNKRONOS il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, commentando le motivazioni della sentenza di secondo grado del processo a carico del senatore Pdl Marcello Dell'Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

«Bisogna leggere con attenzione la parte della sentenza che riguarda il patto politico-mafioso», ha detto ancora Ingroia parlando del capitolo nel quale i giudici d'appello di Palermo sostengono che non c'è una prova certa «nè concretamente apprezzabile» che tra il senatore Dell'Utri e Cosa nostra sia stato stipulato un patto politico-mafioso.

Commentando poi della parte della sentenza in cui i giudici d'appello hanno assolto Dell'Utri per i fatti di mafia nel periodo successivo al 1992, il procuratore aggiunto spiega: «ma il grosso dell'impianto accusatorio, anche in primo grado, era quello che riguardava il periodo antecedente al 1992. Era quello il nucleo vero dell'accusa».

Poi Ingroia sottolinea: «è stata confermata, insomma, la nostra impostazione e anche quella dei giudici di primo grado che non avevano dato spessore al patto politico-mafioso». Poi, Ingroia ribadisce: «se ci saranno i margini per ricorrere in Cassazione la Procura generale, se lo riterrà opportuno, lo farà».

Adnkronos


Il premier sotto ricatto
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 20 Novembre 2010

Inaspettatamente in un solo giorno, anzi in poche ore, emergono dal passato e dal presente le relazioni pericolose di Silvio Berlusconi con le mafie. La liaison allontana da lui anche la fedele e fidata Mara Carfagna. Annuncia altri sismi per il suo governo. Apre nuove crepe nella già compromessa affidabilità del capo del governo. Le cose, a quanto pare, vanno così.

Infuriati per la nomina a commissario per i rifiuti di Stefano Caldoro, governatore della Campania, decisa dal Consiglio dei ministri, due politici indagati per mafia Nicola Cosentino e Mario Landolfi si presentano a Palazzo Grazioli.

Affrontano Silvio Berlusconi a brutto muso minacciandolo di non votare la fiducia se non avesse annullato il decreto legge che, assegnando alla Campania 150 milioni di euro, consente al governatore anche l'adozione di "misure che prevedono poteri sostitutivi" nei confronti degli enti inadempienti.

Il capo di governo che, entro il 14 dicembre, ha bisogno di voti in Parlamento come dell'aria che respira li rassicura. Promette una rapida retromarcia.

La notizia si diffonde e il ministro Mara Carfagna - molto si è data da fare per quel decreto legge che sottrae l'emergenza all'opacità dei potentati locali - annuncia che, dopo la fiducia, lascerà il governo e il partito del presidente.

Così dunque stanno le cose. La ricattabilità del premier è di assoluta evidenza. La sua debolezza politica - e ormai di leadership - lo espone a ogni pressione, alle più imbarazzanti coercizioni, a umilianti inchini dinanzi a personaggi non solo discussi, ma decisamente pericolosi.

È imbarazzante l'imposizione che il capo del governo subisce da Nicola Cosentino, 51 anni, da Casal di Principe, salvato dall'arresto per mafia solo dal voto della maggioranza. L'uomo ha il controllo pieno di quattro delle cinque Province campane (Napoli, Caserta, Salerno, Avellino).

Sono queste istituzioni che amministrano i flussi della spazzatura e governano le società di gestione che hanno sostituito i consorzi infiltrati da ogni genere di illegalità, malaffare, prepotenza criminale (il consorzio di Caserta è costato fino all'aprile scorso, 6,5 milioni di euro al mese). Tutta la parabola politica di Cosentino si può spiegare e raccontare dentro l'emergenza rifiuti.

Quelle crisi - indotte e cicliche - hanno convogliato in quella disgraziata regione un fiume di denaro (dal 2001 al 2009 tre miliardi e 546 milioni di euro) e proprio nei consorzi - e oggi nelle società di gestione - la politica ha incontrato il potere mafioso e ha messo a punto la distribuzione di benefici, rendite, utili, organizzando un "sistema della catastrofe" che, da quella rovina, ha spremuto influenza, consenso e ricchezza.

A farla da padrone la camorra, a cominciare dalla camorra dei Casalesi. Hanno guadagnato e guadagnano sull'affitto delle aree destinate a discarica e dei terreni dove vengono stoccate le ecoballe. Lucrano sul noleggio dei mezzi e soprattutto nei trasporti.

Nicola Cosentino rappresenta il punto di equilibrio - oscuro e ambiguissimo - di questo "sistema" che oggi appare sfidato, dentro il Popolo della Libertà, dall'asse Caldoro-Carfagna e, dentro la maggioranza, da Futuro e Libertà, in Campania diretto da Italo Bocchino.

Il decreto legge che assegna al governatore poteri commissariali può essere considerato il successo di questo schieramento. Il passo indietro di Berlusconi ripristina ora le gerarchie di un "sistema" che ha in Cosentino il leader e nel potere intimidatorio della camorra la sua forza.

Si sapeva che l'uomo di Casale di Principe ha sempre avuto un'arma da puntare alla tempia del governo. In qualsiasi momento poteva far saltare gli equilibri che hanno permesso a Berlusconi di rivendicare le capacità tecnocratiche di eliminare i rifiuti dalla Campania con un miracolo che ha liquidato quella disgrazia con una magia.

L'illusionismo manipolatorio aveva in Cosentino il suo garante. Un garante di cui oggi Berlusconi non può liberarsi. Per due motivi: Cosentino gli farebbe mancare i suoi voti il 14 dicembre e, peggio, nella prossima e vicina campagna elettorale seppellirebbe l'immagine del Cavaliere sotto l'immondizia e i miasmi.

Come non può fare oggi a meno di Cosentino, il Cavaliere non ha potuto liberarsi in passato di quel Marcello Dell'Utri che, si legge nelle motivazioni della Corte d'Appello che lo ha condannato a sette anni di reclusione, fu "mediatore" e "specifico canale di collegamento" tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi.

Dell'Utri, scrivono i giudici, è l'uomo che ha consentito ai mafiosi delle "famiglie" di Palermo di "agganciare" "una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico".

È questa allora la scena che abbiamo sotto gli occhi. Un capo del governo che, nella sua avventura imprenditoriale, è stato accompagnato - per lo meno fino al 1992 - dalla presenza degli uomini di Cosa Nostra e, oggi, per proteggere la maggioranza che sostiene il governo deve chinare il capo dinanzi alle pretese del politico considerato dalla magistratura il più compromesso con gli interessi dei Casalesi.

È uno stato di dipendenza, di oscurità, di minorità politica che nessun arresto di latitante, confisca di bene miliardario, statistica e classifica di successi dello Stato potrà ribaltare.

Le vittorie dello Stato contro le mafie non riescono a diventare il riscatto personale di Berlusconi - e della sua storia - da quei poteri criminali con cui egli si è intrattenuto negli anni della sua impresa economica e ancora oggi si deve tener vicino per sopravvivere nel suo crepuscolo politico.


Politica, appalti pubblici, cemento. Benvenuti in Padania, nuova provincia di ‘ndrangheta
di Davide Milosa - www.ilfattoquotidiano.it - 19 Novembre 2010

Sospette collusioni tra i boss e politici della Lega. La polemica tra Saviano e il ministro dell'Interno. L'allarme della Dia sulle infiltrazioni al nord. Dopo il blitz di luglio, la presenza dei padrini calabresi in Lombardia si fa di nuovo cronaca

Pomeriggio di pioggia e cielo grigio a Milano. Al quarto piano del Tribunale c’è uno strano via vai. Da poco sono passate le cinque e il procuratore Ilda Boccassini attende già da venti minuti seduta dietro alla scrivania del suo ufficio.

Davanti tiene i fascicoli della maxi inchiesta di luglio che ha assestato un colpo durissimo alle cosche della ‘ndrangheta in Lombardia. Legge e rilegge passaggi precisi. Sottolinea, prende appunti. Attende l’arrivo del procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone.

Il loro è un vertice inatteso. Apparecchiato di fretta ieri sotto il cielo grigio di Milano. Probabilmente per mettere un freno a notizie come quella pubblicata oggi dall’Espresso e che racconta di strane telefonate tra uomini vicini alle cosche e politici della Lega nord. Telefonate per scegliere candidati calabresi da infilare nelle liste padane delle provinciali del 2009.

Ma si è anche parlato dei prossimi processi e delle future inchieste che legheranno assieme Lombardia e Calabria. Fissando, per l’ennesima volta, un punto decisivo. E cioé il costante e graduale commissariamento della politica lombarda ai voleri dei padrini di San Luca, Africo, Platì.

Politica padana, ad esempio. Quella della Lega. Tirata in ballo dallo scrittore campano Roberto Saviano durante la trasmissione Vieni via con me. Un accenno, il suo, a quel consigliere regionale pizzicato dai Ros di Milano a un incontro con Pino Neri, avvocato fiscalista, massone, ma soprattuto boss di Pavia. Un consigliere regionale mai nominato da Saviano e che più volte ne ha giustamente ribadito il non coinvolgimento giudiziario.

Un consigliere che, però, ha nome e cognome: Angelo Ciocca, recordmam di preferenze (oltre 18.000) alle ultime regionali in Lombardia. Giovanissimo, classe ’75, Ciocca è un fulmine in fatto di carriera politica. Da assessore del proprio comune, San Genesio degli Uniti, ad assessore provinciale, fino al Pirellone.

Nel luglio scorso, la sua vicenda mise in grave imbarazzo i vertici leghisti di via Bellerio. Imbarazzo che non è mai finito. Anche oggi che la sua vicenda dà fuoco alle polveri della polemica tra il ministro dell’Interno, Bobo Maroni e lo scrittore di Gomorra.

Maroni, però, dimentica che all’epoca dell’incontro, nel giugno 2009, Ciocca non è, come ha detto il capo del Viminale davanti alle telecamere di Matrix, “un signor nessuno”. Piuttosto l’enfant prodige padano è un politico già affermato e soprattutto appena eletto in Provincia.

Anche per questo l’affaire Ciocca, attuale tutor di Renzo Bossi in Regione, non ha mai smesso di preoccupare i vertici leghisti, non tutti d’accordo con l’uscita del proprio ministro contro Saviano.

Sul tema il Carroccio si sta dividendo. Da un lato Giancarlo Giorgetti, responsabile degli Enti locali e sostenitore nel blindare Ciocca, dall’altro i duri e puri come il ministro Roberto Calderoli che lo vorrebbero fuori dal partito. Una bufera inaspettata, dunque. E che sta spingendo lo stesso Maroni a fare un passo indietro sulla questione Saviano.

Al di là di tutto, però, la polemica politica rischia di inquinare la questione vera e cioé la presenza massicia della ‘ndrangheta in Lombardia che, come si legge nel rapporto della Dia presentato mercoledì in Parlamento, “è riuscita a interagire con settori dell’economia e della politica”. La politica, dunque. E qui Saviano probabilmente ha dimenticato un aspetto dello scenario: la straordinaria democrazia della ‘ndrangheta in fatto di tessere e voti.

Le ultime inchieste milanesi, infatti, ci consegnano un singolare cortocircuito con decine di amministratori citati nelle ordinanze d’arresto e nelle informative della polizia giudiziaria. Ma solo due coinvolti. Due politici con storie diverse ma entrambi legati al centrosinistra.

Da un lato Tiziano Butturini, ex sindaco Pd di Trezzano Sul Naviglio e Antonio Oliverio, oggi vicino al presidente della Provincia Guido Podestà, ma in passato assessore al Turismo nella giunta di Filippo Penati, il braccio destro di Bersani.

Seguiamo però il ragionamento degli investigatori della Dia. Si legge: “Tale tattiche di coinvolgimento (mafioso), da un lato trascinano con modalità diverse i sodalizi nelle attività produttive e dall’altro li collegano con ignari settori della pubblica amministrazione che possono favorirne i disegni economici”.

Ignari, dunque. Tradotto: non indagati. Come Armando Vagliati, consigliere comunale del Pdl a Milano, che ha intrattenuto rapporti con Giulio Giuseppe Lampada, ritenuto dai Ros di Reggio Calabria il riciclatore lombardo della cosca Condello.

O ancora Alessandro Colucci, assessore regionale Pdl, filmato, nel 2005, a cena con il boss della ‘ndrangheta Salvatore Morabito. O ancora Stefano Maullu, anche lui nella giunta di Formigoni, in rapporti con Alfredo Iorio, professione immobiliarista per conto della ‘ndrangheta. Maullu è “ignaro”. E tale resta anche quando si accomoda in un ristorante di Rozzano assieme a gente in odore di mafia.

Ex titolare di una poltrona nel governo lombardo è, invece, Massimo Ponzoni, grande elettore brianzolo e persona che, annota il giudice milanese Giuseppe Gennari, “viene indicato come il personaggio giusto al quale rivolgersi per sostenere la candidatura di un soggetto gradito ai calabresi”. Passaggio che Gennari definisce “inquietante”.

Sono queste le relazioni pericolose che hanno permesso ai padrini calabresi “l’ingresso negli appalti pubblici, nel combinato sistema del movimento terra e in taluni segmenti dell’edilizia privata”. Parole gravi che diventano imbarazzanti contrappuntandole con la cronaca mafiosa che oggi a Milano è diventata pressoché quotidiana.

E così scopriamo che un clan di terzo piano come quello dei Cosco, originari di Petilia Policastro, è riuscito a ottenere subappalti per la costruzione della linea cinque della Metropolitana milanese. Gli Ietto-Strangio di Natile di Careri, attraverso la Perego strade, hanno addirittura iniziato i lavori per la costruzione del nuovo palazzo di Giustizia.

E poi ci sono le opere della Tav, infiltrate dai Paparo. Cosca autoctona nata e cresciuta nei quartieri bene di Cologno Monzese a due passi dagli studi di Mediaset. E ancora: il raddoppio della Milano-Mortara, altro appalto delle Ferrovie dello Stato dentro al quale si sono infilate le famiglie di Paltì egemoni a sud di Milano.

Le stesse che hanno lavorato al nuovo centro direzionale della Provincia di Milano, un appalto da 40 milioni di euro. Il rapporto della Dia completa il quadro. “In questo scenario si è visto il coinvolgimento di pubblici amministratori e tecnici del settore che, mantenendo fede agli impegni assunti con alcune componenti organiche alle cosche hanno agevolato l’assegnazione degli appalti”.

E appalti oggi in Lombardia significa Expo 2015. La grande torta. L’affare per eccellenza che ingolosisce i padrini e fa paura agli investigatori che lanciano l’allarme e chiedono alla politica “un razionale programma di prevenzione”.

E a leggere certe intercettazioni non hanno tutti i torti. Dice un imprenditore in odore di mafia che al nord lavora nel movimento terra: “Adesso cominciano i lavori di Expo, sai quanta merda porterà là sopra… Si torna come l’alta velocità… Se la mangiano subito… chi tiene cinque camion, chi resiste, chi arriva all’Expo”.

Questo probabilmente bisogna leggere nelle parole di Saviano. Non solo un attacco frontale alla Lega nord. Ma la consapevolezza che in Lombardia la mafia non è solo quella dei colletti bianchi. Perché oltre la politica e l’impresa, ci sono le vittime di una infinita macelleria mafiosa che piega le spalle agli onesti e mette il silenziatore a chi vuole denunciare.

Pizzo e racket sono lo strumento. Come in Calabria. O come a Pavia, dove l’asl è stata commissariata per mafia e il sindaco del vicino comune di Borgarello arrestato per aver favorito i clan. Ma capita anche a Varese, novella terra di mafia che ha dato i natali proprio al ministro dell’Interno Bobo Maroni.




Il nord inquinato
di Giorgio Bocca - La Repubblica - 20 Novembre 2010

Ha fatto scandalo l'intervento di Saviano sulla Padania mafiosa e sulla Lega come terreno di caccia delle mafie calabresi e siciliane. Ma che la politica basata sulle tessere e sulle clientele, come viene praticata in Italia, sia un terreno adatto alle infiltrazioni mafiose non è una novità.

Già nell'Italia rossa e in Toscana le clientele dei mezzadri erano un'istituzione rispettata e ritenuta il nuovo ordine: "Il capitalismo democratico è quello diretto dei comunisti".

E similmente per i cattolici integralisti di Comunione e Liberazione "il capitalismo buono è quello diretto dai seguaci di Don Giussani". La Lega continua la democrazia delle clientele. Se andate a vedere chi sono i leghisti nel Comasco o nel Varesotto trovate delle clientele che si spartiscono il mercato del lavoro, l'accesso alle tenute di caccia, ai sussidi, ai crediti agevolati.

Che le mafie, salite dal meridione, ambiscano ad entrare in queste clientele è normale, che la Lega e la sua organizzazione siano l'oggetto dei desideri dei mafiosi è un rischio concreto. Su questo Roberto Saviano ha detto cose vere, credibili: il leghismo è infiltrato dalle mafie del Sud.

Mi convince un po' meno la tesi che tutto il federalismo possa essere un'occasione per un'epidemia mafiosa.

Certo, il federalismo all'italiana favorisce le clientele, basti pensare alle centinaia di finti ciechi mantenuti dalle amministrazioni della Campania, alle migliaia di assunti dalla burocrazia siciliana e della Lucania, più numerosi percentualmente di quelli di Roma.

Gli sdegni e le proteste dei leghisti contro le accuse di Roberto Saviano sono poco convincenti, piuttosto si rafforza l'idea che nella società di tipo mafioso, dove la libertà di concorrenza è sostituita dai monopoli clientelari, dove la libertà di opposizione e di critica tace di fronte alla rete dei privilegi, la consorteria sia un portato storico, la difesa dalla legge del più forte, anche nel peggio, una forma di protezione per i non protetti e per i non riconosciuti.

Qualcosa di simile ai Nap, Nuclei armati proletari, che negli anni di piombo assunsero la protezione dei derelitti e dei delinquenti.

Come ha osato dire Saviano che il virtuoso Nord celtico è mafioso? Eppure per esser d'accordo con lui basta girare per Milano e nell'hinterland. I mafiosi non solo sono visibili, ma padroni. Andate dal famoso ristorante di pesce di Città Studi, a capo del salone principale c'è una tavolata di mafiosi, non solo riconoscibili ma dichiarati, ostentati: una tavola lunga cinquanta metri. Alla destra le donne, fimmine cun fimmine, alla sinistra gli uomini, masculi cun masculi.

Al centro il capo, un vecchio con occhi fissi in un al di là mafioso, pallido, gracile, ma circondato da picciotti pronti a morire per lui. A un suo cenno i camerieri rinnovano le gioie della cornucopia, portano pesci preziosi, verdure raffinate.

Noi stiamo a tavoli trascurati dai camerieri, tutti attenti a servire i mafiosi, arrivati in questa terra di marcite e di risaie dalle montagne calabresi o siciliane per rinviare, forse di secoli, la mitica unità d'Italia, per riaffermare la sua disunità reale.

È curioso come nell'era del mercato globale, senza confini, delle industrie senza patria, delle nazioni senza eserciti siano la mafia e la malavita a ricreare dei corpi sociali distinti, delle discipline e delle regole.

A Milano, città del capitalismo cosmopolita, dove una banca può comprare o vendere beni in ogni parte del mondo, dove i grandi ricchi sono al di sopra delle leggi, paradossalmente le mafie rappresentano ancora la diversità, la differenza fra il legale e l'illegale.

Quella sera al ristorante di pesce vicino a Città Studi di Milano io e la mia famiglia di borghesi, cresciuti al suono degli inni nazionali, abbiamo potuto guardare i nuovi concittadini, se non i nuovi padroni: i mafiosi della 'ndrangheta o della mafia saliti al Nord e diventati in pochi anni non solo i padroni del denaro e dell'abbondanza, ma della tavola d'onore.

Al loro servizio i camerieri zelanti, noi nei tavoli periferici, in attesa di essere serviti. Cose che accadono al centro di Milano, cose più che normali nelle periferie.

Ci sono alberghi e ristoranti sulle strade per Lodi o per Vigevano dove alle due di notte, in notti di piogge e di neve, trovi tavoli imbanditi per i mafiosi, che discutono sui loro affari. A Corsico, a Mortara, a Mede, nei ristoranti trovi, se ti va bene, un tavolo d'angolo, lontano da quelli degli uomini d'onore.

E i giornali della borghesia, diventata socia d'affari della mafia, si lamentano e accusano Saviano di essere un comunista che offende l'onore del Nord operoso. A Milano i giovani continuano a fare la movida notturna, a girare per la città come in casa loro. Noi anziani ci muoviamo con cautela, in terra che ci sembra nemica. Forse abbiamo ragione entrambi. La vita continua.


La sentenza di Brescia e la verità sulla storia dell'Italia
di G.S. - www.clarissa.it - 18 Novembre 2010

Con la sentenza della Corte di Assise di Brescia crediamo di poter dire che si chiude definitivamente la stagione giudiziaria della strategia della tensione.

Questa sentenza può essere oggi valutata in due maniere: la prima, quella probabilmente più corrente, considera la sola verità giudiziaria, ragione per cui questa assoluzione non è altro che l'ennesima conferma della impossibilità di arrivare alla verità su quanto accaduto nel nostro Paese, visto che le inchieste sui principali atti terroristici della strategia della tensione non hanno ottenuto elementi sufficienti per la condanna di ideatori, mandanti e strateghi.

È evidente che questa posizione è quella che maggiormente favorisce l'azione di tutte quelle forze che, nel corso del quasi mezzo secolo di storia, hanno fatto di tutto proprio per impedire che si arrivasse all'individuazione dei responsabili di una strategia politico-militare che ha fatto vittime innocenti per obiettivi strategici che dovevano e devono tuttora restare celati al controllo del sistema democratico.

Ma vi è un secondo e diverso modo di considerare questa sentenza: quello cioè di chi ritiene che, al di là della verità giudiziaria, esiste ormai ben chiara e ampiamente documentata una verità storica, costruita attraverso documenti, anche giudiziari, che sono stati ormai prodotti in grande mole e che permettono di giungere a conclusioni assai rigorose, vorremmo dire ogni giorno più rigorose.

Nell'immensa quantità di testimonianze e di studi sulla strategia della tensione in Italia, ci limitiamo a ricordare due soli titoli, diversissimi per motivazione, biografia degli autori, collocazione politica e cronologica: la fondamentale testimonianza di Vincenzo Vinciguerra, col suo volume autobiografico Ergastolo per la libertà, pubblicato nell'ormai lontano 1989, e l'impeccabile indagine giornalistica, probabilmente la più seria condotta in argomento, di Paolo Cucchiarelli, Il Segreto di Piazza Fontana.

Sono due testi che distano venti anni l'uno dall'altro, ma la cui lettura parallela è sufficiente a far comprendere che le certezze fattuali su quanto è avvenuto nel nostro Paese sono ormai molte e molto più chiare e stringenti rispetto ai dubbi che l'impossibile esercizio di una giustizia condizionata dai poteri forti ha ingenerato nel Paese.

Le certezze sono che l'Italia, dalla fine della Seconda Guerra mondiale, non ha più avuto una vera sovranità nazionale; che le forze politiche al potere nel nostro Paese hanno dovuto costantemente fornire una garanzia al maggiore alleato atlantico, gli Stati Uniti, sulla propria totale accettazione delle sue esigenze di controllo dell'area mediterranea; che gli apparati preposti alla difesa ed alla sicurezza del nostro Paese hanno di conseguenza operato con una "doppia fedeltà" in base alla quale, pur rispondendo formalmente alle leggi dello Stato italiano, in realtà obbedivano ad una ragion di stato che trova nei centri di potere atlantici la propria fonte di autorità; che tutti i tentativi di opposizione di sistema sono stati incanalati, controllati e utilizzati nella logica del "destabilizzare per stabilizzare", secondo l'originaria intuizione di Vinciguerra, dimostratasi corretta in ogni implicazione, resistendo al vaglio di più di venti anni di indagine storiografica e riuscendo a spiegare assai bene persino molte delle attuali anomalie del sistema italiano.

Non basta: questa verità storica ha trovato molte conferme in situazioni diverse anche fuori dall'Italia, dalla Turchia all'Argentina, dal Giappone alla Germania, permettendo di vedere, in prospettiva storica, proprio nella strategia della tensione una delle principali metodologie con cui si è attuata di fatto l'egemonia anglo-americana nel mondo, una metodologia che affonda le proprie radici nelle tecniche di disinformazione, deception e intelligence che sono state determinanti per costruire la vittoria alleata nel Secondo conflitto mondiale, con un livello di rilevanza pari a quello del complesso militare-industriale che di tale vittoria ha rappresentato il complemento di pura forza materiale.

I protagonisti di quella vittoria segreta sono stati infatti, nomi e fatti alla mano, gli stessi strateghi delle strategie della tensione costruite durante la Guerra Fredda ed oltre, con una continuità ininterrotta, limiti fisiologici a parte, fino ai giorni nostri.

Siamo anche fortemente convinti del fatto che questa impostazione operativa di fondo rappresenti tuttora una caratteristica essenziale e caratterizzante del modus operandi delle potenze anglo-sassoni, in quanto la loro storia le ha condotte ad una superiore capacità di combinare reti economico-finanziarie con reti spionistiche, capacità tecnologica e industriale con raffinate tecniche di manipolazione delle coscienze, costruzione aristocratica delle élite politiche ed intellettuali con la capacità di amalgamare componenti sociali, politiche e culturali verso scopi chiaramente e univocamente definiti, grazie ad una profonda conoscenza delle forze portanti della modernità.

In questa luce, lo straziante sacrificio delle vittime innocenti di Piazza della Loggia così come di quelle di Ustica, di quelle dell'Italicus come del treno 904, della stazione di Bologna come di Piazza Fontana, assume un valore morale che non sarà più possibile disconoscere, indipendentemente dal fatto che un tribunale possa o meno render loro giustizia: rivelando al nostro popolo una via per la comprensione della nostra storia contemporanea, con il loro sangue innocente forniscono un insegnamento che sarà determinante per trovare una via di effettiva liberazione dell'Italia dai condizionamenti imposti da forze estranee alla nostra identità comune.

Centocinquanta anni dopo la nostra unità nazionale, l'Italia può fare a meno di verità giudiziarie ma non di una comprensione effettiva della sua storia. Un popolo, per considerarsi tale, ha infatti bisogno di verità sulla propria storia e quelle vittime innocenti ci hanno preparati ad accoglierla.


Indro ci manchi
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 19 Novembre 2010

L’altra sera mi viene incontro una signora e mi dice: “Mi capita di pensare sempre più spesso a Indro Montanelli. A lei no?”. Anche a me, cara signora.

Penso a lui ogni volta che apro il Pompiere della Sera e al posto dei suoi editoriali trovo quelli di Panebianco, Ostellino, Galli della Loggia, Battista e, al posto della sua “Stanza”, trovo la rubrichina paracula di Sergio Romano (ieri questo ambasciatore da Ferrero Rocher assolveva Craxi e Andreotti dalle loro responsabilità sul debito pubblico, attribuendolo al destino cinico e baro).

Penso a lui quando sento i campioni della “nuova destra” finiana scoprire con modico ritardo chi è l’uomo, anzi l’ometto che hanno servilmente servito per quasi vent’anni.

Penso a lui quando leggo il Giornale da lui fondato e faccio il confronto con quel che è diventato (da ieri Feltri raccoglie firme non contro i camorristi, ma contro Saviano). Penso a lui quando vedo il Tg1 e sento dire che Minzolini è un giornalista.

Penso a lui, soprattutto, quando vedo all’opera questo centrosinistra che il grande Indro fu costretto a votare e sostenere, causa B., negli ultimi 7 anni della sua vita.

Non mi riferisco agli elettori, che anche ai tempi del Montanelli anticomunista lo leggevano, magari di nascosto, apprezzando e invidiando la sua libertà totale e la sua scrittura meravigliosa.

Mi riferisco ai partitocrati, intellettuali e artisti “organici” al seguito, i polli di batteria che han sempre cantato nel coro, i giullari di corte che negli anni ‘70 bazzicavano le Botteghe Oscure perché l’aria tirava da quella parte, poi quando il vento cambiò diventarono craxiani e poi berlusconiani o dalemiani (fa lo stesso, basta conservare i lauti contratti con Mediaset, Mondadori, Einaudi, Medusa, Endemol), e ora tifano per il governo tecnico di unità nazionale per uscire dal berlusconismo senza vincitori né vinti, magari regalando un bel salvacondotto a B., ma sì, chissenefrega se corrompeva giudici o prendeva i soldi dalla mafia, pari e patta e un bacio sopra.

Questi signorini col culetto sempre al caldo non hanno mai capito chi fosse Montanelli. Abituati a voltar gabbana un giorno sì e l’altro pure, pensarono che l’avesse voltata anche lui nel ‘94, quando ruppe con B. per una questione di principio (il conflitto d’interessi): infatti gli diedero subito il benvenuto nel club, accreditando la leggenda della sua conversione alla sinistra in articulo mortis. Non lo sfiorava neppure l’idea che fosse rimasto l’anarchico conservatore individualista di sempre, refrattario a ogni conformismo, corte e coro.

Lo stesso che, fascista, lasciò il fascismo nel 1937, all’apogeo del regime, mentre tutti correvano a mettersi a vento, e pagò la rottura con due anni di galera e una condanna a morte per mano nazifascista.

Lo stesso che nel dopoguerra denunciò il conformismo dell’antifascismo, quello che fece dire a Flaiano: “In Italia esistono due fascismi: quello propriamente detto e l’antifascismo”. Lo stesso che, prima firma del Corriere, abbandonò il suo giornale che virava a sinistra per fondare un Giornale controcorrente.

Lo stesso che, quando B. divenne suo editore e si legò a Craxi, prese a bombardare Craxi. Lo stesso che, quando il suo editore entrò in politica, rifiutò di trasformare il Giornale in quel che poi è diventato e, a 85 anni, fondò la Voce. Lo stesso che riconobbe sempre “un solo padrone: il lettore”.

L’altra sera gli autori di Vieni via con me han fatto leggere al povero Silvio Orlando una listarella di cose incredibili fra cui questa: “Che quelli di sinistra fossero entusiasti prima di Montanelli e poi di Fini”.

In realtà non c’è nulla di incredibile. Se a sinistra molti simpatizzano per Fini è perché Fini (come prima Bossi) sta buttando giù B., mentre la sinistra l’ha sempre tenuto su.

E se a sinistra molti simpatizzarono per Montanelli è perché ha detto, su B., cose che nessuno a sinistra ha mai osato dire. Non perché fosse diventato di sinistra. Ma perché era rimasto un uomo libero. Una cosa che questa sinistra non riesce neppure a immaginare.


Ex destra, ex sinistra
di Massimo Gramellini - La Stampa - 17 Novembre 2010

Gli elenchi declinati da Fini e Bersani in tv non erano elenchi ma frasi fatte. Invitati a usare il linguaggio evocativo delle «classifiche», i due hanno tracimato nel comizietto, confermandosi politici di un altro secolo. Destra e sinistra sono termini ormai pigri per definire quel che ci succede.

Le ideologie da cui prendono le mosse si suicidarono entrambe nel Novecento. Quando, dopo aver conquistato il potere con l’obiettivo di cambiare l’essere umano, lo condussero nei lager e nei gulag.

Da allora destra e sinistra hanno rinunciato a qualsiasi velleità di palingenesi. Non puntano più a migliorare l’individuo, stimolandolo a essere più responsabile (la destra) e più spirituale (la sinistra). E di fronte allo sconquasso del mondo - con la ricchezza che abbandona l’Europa e gli Usa per spostarsi altrove - si limitano a narrazioni consolatorie dell’esistente.

L’ex destra, che da noi è berluscoleghista (Fini rischia la fine del vecchio Pri, che piaceva a tutti ma votavano in pochi), invita gli elettori ad andare orgogliosi di ciò che la destra detestava: l’aggiramento delle regole e il disprezzo della cultura, sinonimo di snobismo improduttivo.

L’ex sinistra continua a raccontarsi la favola che l’italiano medio sia vittima di Berlusconi, mentre l’italiano medio è Berlusconi, solo più povero.

Così si ritorna al punto di partenza: la società non cambia se vince un leader o un altro. Cambia se cambiano gli individui. Ma è un lavoro duro: più comodo continuare a scornarsi fra destra e sinistra, illudendosi che esistano ancora.


Fini e Bersani, la lista dei bolliti
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 17 Novembre 2010

Pubblichiamo la versione integrale delle liste dei valori di sinistra e di destra, peraltro intercambiabili, lette l’altra sera da Bersani e Fini a "Vieni via con me" e tagliate all’ultimo momento per motivi di tempo.

PIER LUIGI BERSANI

La sinistra è l’idea che, se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli, puoi fare davvero un mondo migliore per tutti (non vediamo l’ora di imbarcare Luca Cordero di Montezemolo e il banchiere Alessandro Profumo).

Abbiamo la più bella Costituzione del mondo (infatti, con la Bicamerale del compagno Massimo, facemmo di tutto per riscriverne più di metà con Berlusconi).

Ci sono beni che non si possono affidare al mercato: salute, istruzione e sicurezza (l’acqua invece no: quella si può tranquillamente privatizzare, e magari anche l’aria). Chiamare flessibilità una vita precaria è un insulto (non per nulla la legge Treu l’abbiamo fatta noi).

Chi non paga le tasse mette le mani nella tasche di chi è più povero di lui (non a caso abbiamo approvato la riforma del diritto penale tributario, detta anche “carezze agli evasori”, che depenalizza l’evasione tramite la dichiarazione infedele fino a 100 mila euro e tramite la frode fiscale fino a 75 mila euro l’anno).

Se 100 euro di un operaio, di un pensionato, di un artigiano pagano di più dei 100 euro di uno speculatore vuol dire che il mondo è capovolto (mica per niente abbiamo sponsorizzato speculatori come Chicco Gnutti e Giovanni Consorte).

Indebolire la scuola pubblica vuol dire rubare il futuro ai più deboli (il primo ministro dell’Istruzione che ha regalato soldi pubblici alle scuole private è il nostro Luigi Berlinguer). Dobbiamo lasciare il pianeta meglio di come l’abbiamo trovato (tant’è che vogliamo riempire l’Italia di inceneritori e centrali a carbone).

Se devo morire attaccato per mesi a mille tubi, non può deciderlo il Parlamento (del resto la legge sul testamento biologico mica l’abbiamo approvata). Per governare, che è un fatto pubblico, bisogna essere persone perbene, che è un fatto privato (ricordate il nostro ministro della Giustizia? Mastella).

Chi si ritiene di sinistra e progressista deve tenere vivo il sogno di un mondo in pace e deve combattere contro la tortura (infatti abbiamo fatto guerra alla Serbia chiamandola missione di pace, poi abbiamo lasciato dov’erano le truppe di occupazione dell’Iraq e abbiamo pure messo il segreto di Stato per coprire le spie del Sismi imputate per aver sequestrato lo sceicco Abu Omar e averlo deportato in Egitto per farlo torturare per sette mesi).

GIANFRANCO FINI

Essere di destra vuol dire innanzitutto amare l’Italia (è per amore che le abbiamo regalato per 16 anni uno come Berlusconi). Apprezziamo imprese e famiglie che danno lavoro agl’immigrati onesti, i cui figli domani saranno italiani (vedi legge Bossi-Fini).

Destra vuol dire senso dello Stato, etica pubblica, cultura dei doveri (non faccio per vantarmi, ma le leggi sul falso in bilancio, Cirami, Cirielli, Schifani, Alfano ecc. le abbiamo votate tutte).

Lo Stato deve spendere bene il denaro pubblico, senza alimentare clientele (salvo quando c’è da salvare il Secolo d’Italia).

Lo Stato deve garantire che la legge è davvero uguale per tutti (esclusi, si capisce, i ministri e i parlamentari, che abbiamo sempre salvato dalla galera e dalle intercettazioni).

Chi sbaglia paga e chi fa il proprio dovere viene premiato (non a caso abbiamo approvato tre scudi fiscali e una quindicina di condoni tributari, edilizi e ambientali).

Senza una democrazia trasparente ed equilibrata nei suoi poteri non c’è libertà, ma anarchia (pure la Gasparri che consacra il monopolio Mediaset e la Frattini che santifica il conflitto d’interessi sono farina del nostro sacco). L’uguaglianza dei cittadini va garantita nel punto di partenza (soprattutto alle suocere per gli appalti Rai e ai cognati per le case a Montecarlo).

Dalla vera uguaglianza delle opportunità, la destra vuole costruire una società in cui merito e capacità siano i soli criteri per selezionare una classe dirigente (avete presenti i ministri Ronchi e Urso? No? Ecco, appunto).