Voto non voto
di Luca Ricolfi
La gente è perplessa. C’è chi dice, più o meno convintamente, «io questa volta non vado a votare». C’è chi ci va, ma solo per votare scheda bianca o nulla. C’è chi ci va perché considera il voto un dovere civico. E c’è chi ci va perché crede che se vincono «gli altri» saranno guai.
Negli ultimi tempi, alle perplessità dell’elettore si sono aggiunte ogni sorta di esternazioni. Grillo dice che per la prima volta non si vergogna di non andare a votare. Veltroni dice che chi non va a votare poi non deve lamentarsi se le cose vanno male. Qualche commentatore si spinge a dire che chi non vota accetta lo stato di cose attuale, e che chi vuole davvero il cambiamento deve andare a votare.
Io invece mi rammarico di non essere né fascista né comunista. Se fossi fascista voterei il partito della Santanchè, se fossi comunista voterei il partito di Bertinotti. E vivrei sereno, perché saprei che cosa gli eletti farebbero del mio voto. E invece no, non essendo né fascista né comunista mi sento preso in trappola. Tutti gli altri partiti, infatti, mi costringono a fare delle congetture ardite su quel che effettivamente faranno del mio voto. Come faccio a prevedere come lo useranno? Devo guardare all’esperienza passata o ai programmi?
Prendiamo Berlusconi e il Popolo della libertà. Che cosa possiamo ragionevolmente aspettarci? Politiche liberiste o politiche stataliste? Tagli della spesa pubblica nelle regioni più sprecone, o fiumi di denaro pubblico in opere come il ponte sullo Stretto di Messina? Linea dura sull’immigrazione o continuità con la Bossi-Fini (che, contrariamente a quel che si crede, ha consentito un notevole aumento dei delitti)?
Sfido chiunque a formulare una previsione attendibile su quel che succederà in caso di vittoria del Pdl.
Ma le cose stanno meglio nel campo opposto, quello del neonato Partito democratico? Direi proprio di no. Chi desidera la cancellazione delle cosiddette leggi vergogna non sa se può contarci oppure no. Chi vorrebbe sapere che fine farà l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non sa se prevarranno le idee di Pietro Ichino o quelle della Cgil. Chi vorrebbe meno tasse in busta paga non sa se Veltroni e Franceschini bluffano, o invece sanno dove trovare i soldi. Chi si chiede che fine farà lo Stato sociale vorrebbe sapere se Veltroni pensa veramente di poter tagliare 16 miliardi di spesa pubblica all’anno o se lo dice così, tanto per dire.
Non basta. Chi vota Udc non sa con chi Casini finirebbe per allearsi, nel caso diventasse l’ago della bilancia. Per non parlare del governissimo, ossia di un eventuale governo Pd-Pdl, sul modello della Merkel in Germania. Quasi tutti i leader lo escludono in pubblico, quasi nessuno lo esclude in privato. Se l’elettore spera nel governissimo, che cosa deve fare? Gli conviene votare per Pd o Pdl, o viceversa deve votare per Bertinotti-Casini-Santanchè per indebolire Pd e Pdl, e indurli così a sorreggersi a vicenda? E se non vuole il governissimo, gli conviene cercare di far stravincere uno dei due partiti principali, o deve votare le liste minori che si oppongono al governissimo?
Comunque la rigiriamo, noi elettori siamo in trappola. Se non siamo sorretti da un’ideologia che ci forza a votare il «nostro» partito, ci è impossibile scegliere su basi razionali. Certo, possiamo pensare che il voto sia un atto essenzialmente espressivo, di pura identificazione in un simbolo, in un personaggio, in un’idea astratta, e possiamo quindi limitarci a votare il leader che più ci scalda il cuore (o meno ci deprime). Ma se per caso siamo invece affezionati all’idea che il voto sia una scelta razionale, basata sul calcolo delle conseguenze, dobbiamo rassegnarci: queste elezioni non fanno per noi, perché nessuno è in grado di prevedere come il ceto politico userà il nostro voto.
Da questo punto di vista la «scelta di non scegliere», in qualsiasi modo si manifesti (astensione, scheda bianca, scheda nulla), andrebbe forse guardata con maggiore rispetto. Ci saranno senz’altro i soliti qualunquisti, ci saranno senz’altro coloro cui l’Italia va bene così com’è. Ma ci sono anche tanti cittadini normali, onesti e umili, che si rassegnano alla «non scelta» proprio perché vorrebbero un cambiamento radicale, ma non sanno come ottenerlo. Sperano che il loro voto venga usato nel modo migliore, ma hanno imparato dall’esperienza che sarà usato in quello peggiore. Sperano che la propria parte politica faccia quello che dice, ma temono che li tradirà. Vorrebbero credere alle promesse, ma sono stati ingannati troppe volte. Soprattutto, notano che il passato non passa mai, dal momento che né Berlusconi né Veltroni hanno il coraggio di riconoscere i drammatici errori di cui è costellato il passato recente dei loro partiti. Come credere nel cambiamento, se chi lo propone si ostina a difendere l’azione di governi che hanno fallito?
In queste condizioni l’elettore può compiere un atto di fede, e scommettere su uno dei cinque-sei cavalli in lizza. Ma può anche sentirsi incapace di fare una scelta razionale e decidere di non andare all’ippodromo.