giovedì 24 aprile 2008

L’acqua calda

Pochi giorni fa è stato pubblicato un articolo sul New York Times firmato da David Barstow in cui si racconta come il Pentagono abbia ingaggiato una schiera di “analisti militari”, tutti ex alti gradi dell’Esercito USA in pensione da tempo, perché partecipassero a talk show televisivi e telegiornali USA col fine di plasmare l’opinione pubblica raccontando menzogne sull’andamento della guerra in Iraq.
Naturalmente i media nostrani hanno trattato questo “scoop” come notiziola di quart’ordine, sbarazzandosene praticamente del tutto dal momento che il centro del mondo per loro sono la fermata di La Storta a Roma, il ginocchio di Totti o la salma di Padre Pio.

Comunque, a prima vista si potrebbe dire “Ma che bravi David Barstow e il New York Times”. Invece si tratta di una vicenda che, per chi cerca di informarsi seriamente su ciò che accade in Iraq e non vuole bersi le frottole dei mainstream media, non rappresenta alcunché di nuovo e sconvolgente. Infatti il commento più consono a tale “scoop” è il classico “meglio tardi che mai”.

Inoltre fa specie anche il timing scelto dal NYT, in piena campagna elettorale per le prossime elezioni presidenziali USA e che vedranno, anche con una vittoria di McCain, il drastico ridimensionamento della cricca neocon e delle annesse teorie disastrose se non proprio una sua totale estromissione dal potere per i prossimi 4 anni almeno.

Quindi ora è troppo comodo e ipocrita uscirsene con tale “scoop” e mettere Rumsfeld o Torie Clark sulla graticola quando ormai sono già da tempo fuori dal Pentagono.
Certo, “meglio tardi che mai”…intanto però la guerra USA in Iraq continua e il silenziatore dei media pure...


Qui di seguito una traduzione dei brani salienti dell’articolo di Barstow ad opera di Pino Cabras.

Dietro agli analisti TV, la longa manus del Pentagono
di David Barstow – New York Times, 20 Aprile 2008

Nell’estate del 2005 l’amministrazione Bush doveva far fronte a una nuova ondata di critiche su Guantanamo: Il centro di detenzione era stato appena definito da Amnesty International come "il gulag dei nostri tempi", c’erano nuove accuse da parte degli esperti di diritti umani dell’Onu su degli abusi, mentre si estendevano gli appelli per farlo chiudere.

Gli esperti di comunicazione dell’Amministrazione risposero prontamente: un venerdì mattina presto caricarono un gruppo di ufficiali militari in pensione su uno dei jet solitamente usati dal vicepresidente Dick Cheney e li spedirono a Cuba farsi un giro, meticolosamente programmato, del campo di Guantanamo.All’opinione pubblica questi personaggi risultano molto familiari perché comparsi decine di migliaia di volte in TV e alla radio in qualità di "analisti militari", il cui lungo periodo di servizio li ha investiti di capacità di giudizio autorevoli e attendibili sulle questioni del mondo post-11 settembre.

Tuttavia, come ha scoperto un attento esame di «The New Tork Times», ben celato dietro questa apparente imparzialità, esiste un apparato informativo del Pentagono che ha usato questi analisti per una campagna mirante a generare una copertura mediatica favorevole alle performance dell’Amministrazione in tempo di guerra.La manovra - iniziata nel periodo di preparazione alla guerra in Iraq e ancora oggi in corso - ha cercato di sfruttare intese ideologiche e militari, oltre a far conto su una potente carta finanziaria: la maggior parte di questi analisti ha legami con i contractor militari, con interessi precisi proprio in quelle strategie di guerra che erano chiamati a commentare via etere.

Questi rapporti d’affari non sono mai stati divulgati al pubblico e talvolta nemmeno agli stessi network, ma nell'insieme gli uomini a bordo di quell’aereo per Guantanamo rappresentano più di 150 contractor militari, sia come lobbisti, dirigenti di alto rango, membri dei consigli di amministrazione, sia come consulenti. Tra le società sono ricomprese le più importanti del settore della Difesa, ma anche società più piccole, tutte parti di quel vasto agglomerato di contractor che si azzuffano tra loro per rastrellare centinaia di miliardi di dollari in commesse generate dalla guerra al terrorismo condotta dall’Amministrazione. E’ una concorrenza accanita, nella quale le informazioni riservate e un facile accesso agli alti ufficiali sono cose assai apprezzate.

Registrazioni e interviste mostrano in che modo l’amministrazione Bush abbia fatto uso del suo potere di controllo sull’accesso a tali informazioni cercando di trasformare gli analisti in una sorta di cavalli di Troia mediatici: uno strumento inteso a modellare la copertura dall’interno delle notizie sul terrorismo dei principali network radiotelevisivi.I documenti dimostrano che gli analisti sono stati blanditi in centinaia di incontri riservati con i leader militari di più alto grado, compresi ufficiali con influenza decisiva in materia di contratti e bilanci. Sono stati portati in visita in Iraq e hanno avuto accesso a notizie d’intelligence classificate top-secret. Sono stati informati da funzionari di Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Dipartimento di Giustizia, inclusi Dick Cheney, Alberto R. Gonzales e Stephen J. Hadley.In cambio,i membri di questa compagine hanno fato da cassa di risonanza ai punti su cui si imperniava il messaggio dell’Amministrazione, talvolta anche quando sospettavano che le informazioni ricevute fossero false o gonfiate. Alcuni analisti hanno poi ammesso di aver messo a tacere i propri dubbi perché temevano di mettere in pericolo il loro accesso.

Taluni hanno anche espresso il rimorso per aver partecipato a quello che essi stessi ritengono uno sforzo volto a ingannare l’opinione pubblica americana con una propaganda travestita da "analisi militare indipendente". «È come se ci avessero detto: "Noi abbiamo bisogno che vi leghiamo le vostre mani dietro la schiena e muoveremo la vostra bocca per voi"» racconta Robert S. Bevelacqua, un "berretto verde" a riposo, ex analista di Fox News.Kenneth Allard, un ex analista militare della NBC che ha insegnato informazione di guerra alla National Defense University, ha dichiarato che la campagna corrispondeva esattamente a una sofisticata operazione di informazione: «questa era una precisa politica coerente e attiva».Al deteriorarsi delle condizioni dell’Iraq, ha ricordato Allard, vide una distanza abissale fra quanto veniva detto riservatamente agli analisti e quanto è stato rivelato da inchieste e libri successivi.«Notte e giorno», si è lamentato Allard, «ho avuto la sensazione che fossimo stati turlupinati». Il Pentagono, da parte sua, difende i suoi rapporti con gli analisti militari, e sostiene di aver passato loro soltanto dati oggettivi sulla guerra.Un portavoce del Pentagono, Bryan Whitman, ha detto che «lo scopo di tutto ciò non era altro che un onesto tentativo di informare il popolo americano». Whitman ha aggiunto che era “abbastanza incredibile” pensare che dei militari in pensione potessero essere allenati e trasformati in «burattini del Dipartimento della Difesa». [...]

Molti analisti hanno negato con forza di essere stati cooptati o di aver consentito che i loro interessi economici esterni condizionassero i loro commenti via etere, e alcuni hanno usato la loro tribuna per criticare lo svolgimento della guerra. Diversi, come Jeffrey D. McCausland, un analista militare della CBS nonché lobbista dell’industria della difesa, hanno detto di aver puntualmente informato i loro network circa il loro lavoro esterno e si sono astenuti da trasmissioni che andassero a interferire con i loro interessi d’affari. «Non sono qui per rappresentare l’Amministrazione», ha detto Mc Causland. Alcuni funzionari dei network, nel frattempo, hanno ammesso solo una limitata consapevolezza delle interazioni dei loro analisti con l’Amministrazione. Hanno dichiarato che sebbene fossero sensibili rispetto a potenziali conflitti d’interesse, non applicarono tuttavia ai loro analisti gli stessi parametri etici cui sottostanno i loro dipendenti in merito agli interessi finanziari esterni. Hanno sostenuto che l’onere di rivelare i conflitti spettasse ai loro analisti. E hanno inoltre fatto notare che, qualunque fosse il contributo degli esperti militari, i molti giornalisti dei network hanno dato copertura alle notizie di guerra per anni in tutta la loro complessità.A cinque anni di distanza dall’inizio della guerra in Iraq, la maggior parte dei dettagli di questa architettura e organizzazione della campagna del Pentagono non erano ancora stati rivelati, ma «The New York Times» è avuto successo nel far causa a carico del Dipartimento della Difesa per ottenere l’accesso a 8.000 pagine di messaggi e-mail, trascrizioni e documentazioni varie, che descrivono anni di riunioni riservate, viaggi in Iraq e a Guantanamo e una massiccia operazione del Pentagono sui temi chiave.

Questi documenti svelano un rapporto simbiotico nel quale le normali linee di demarcazione tra governo e giornalismo sono state travolte. I documenti interni del Pentagono si riferiscono spesso agli analisti militari definendoli come "moltiplicatori della forza del messaggio", "surrogati" sui quali è possibile contare per dispensare gli "argomenti e i messaggi" dell’Amministrazione a milioni di americani "sotto forma di opinioni strettamente personali". Dai documenti si ricava che nonostante molti analisti siano consulenti pagati dai network, con gettoni da 500 a 1000 dollari per ogni comparsata, durante gli incontri del Pentagono parlavano alle volte come se stessero operando dietro le linee nemiche. Alcuni suggerirono al Pentagono dei trucchi per aver la meglio sui network [...].

Alcuni avvisarono di storie in programmazione o spedirono al Pentagono copie della loro corrispondenza con i direttori dei notiziari. Molti – anche se certamente non tutti – ripeterono in buona fede i temi chiave tesi a contrastare le critiche. «Ottimo lavoro»: queste le parole di Thomas G. McInerey, un generale in pensione dell’Air Force, consulente e analista di Fox News, scritte al Pentagono dopo aver ricevuto fresche istruzioni sugli argomenti chiave alla fine del 2006: «Ne faremo uso.» In svariate occasioni risulta dai documenti che l’Amministrazione ha reclutato gli analisti quasi fossero una forza di intervento rapido volta a smentire colpo su colpo quel che veniva considerato come una copertura mediatica negativa dei fatti, tra cui certi servizi degli stessi corrispondenti dei network dal Pentagono. Ad esempio, quando alcuni articoli rivelarono che i soldati in Iraq stavano morendo a causa dell’inadeguatezza delle loro protezioni personali, un alto funzionario del Pentagono scrisse ai colleghi: «Credo che i nostri analisti, opportunamente preparati, possano controbattere in questa arena».

I documenti rilasciati dal Pentagono non mostrano alcun do ut des in tema di commenti e contratti. Ma alcuni analisti hanno detto che hanno usato l’accesso speciale come un’opportunità di marketing e di relazioni o per affacciarsi a future possibilità d’affari.John C. Garrett è un colonnello dei Marine in pensione e analista non retribuito per i canali TV e radio di Fox News. È anche un lobbista alla Patton Boggs, un’impresa che aiuta le aziende a vincere contratti con il Pentagono, anche in Iraq. Nei suoi materiali promozionali, dichiara di essere «aggiornato a cadenza settimanale con accessi e incontri con il segretario della difesa, il presidente dei Joints Chiefs of Staff (gli stati maggiori riuniti delle varie armi, NdT) nonché di altre importanti figure decisionali ad alto livello dell’Amministrazione.» Un cliente riferì agli investitori che gli accessi speciali e i decenni di esperienza di Garrett lo hanno aiutato «a sapere in anticipo – e in dettaglio – il modo migliore di soddisfare i bisogni» del Dipartimento della Difesa e di altre agenzie. Nelle interviste Garrett ha detto che c’era un inevitabile sovrapposizione nel suo duplice ruolo. Ha ammesso di aver ottenuto «informazioni che altrimenti non otterresti» grazie agli incontri e ai tre viaggi in Iraq sponsorizzati dal Pentagono. Ha altresì riconosciuto di aver usato il suo accesso e le sue informazioni per identificare opportunità per i clienti [...].

Allo stesso tempo, in una e-mail al Pentagono, Garrett esibì un grande zelo nel voler essere d’aiuto con i suoi commenti per TV e radio. «Per favore fatemi sapere se avete qualsiasi punto specifico che intendete affrontare o che preferite minimizzare», scrisse nel gennaio 2007, prima che il presidente Bush andasse in TV a descrivere la strategia di ripresa (surge) in Iraq. Per contro, molti analisti hanno detto che l’Amministrazione ha dimostrato che c’è un prezzo da pagare nel sostenere le critiche. «Perderete ogni accesso» ha detto uno di loro, McCausland. [...]Già all’inizio del 2002 era in corso una pianificazione dettagliata per una possibile invasione dell’Iraq, ma si evidenziava ancora un ostacolo. Molti americani, come risultava dai sondaggi, erano poco inclini a invadere un Paese senza alcuna chiara connessione con gli attentati dell’11 settembre. I funzionari del Pentagono e della Casa Bianca ritennero che gli analisti militari avrebbero potuto avere un ruolo cruciale per aiutare a prendere il sopravvento su tale resistenza.Torie Clarke, l’ex sottosegretaria alla Difesa per gli affari pubblici che sovrintendeva alle pubbliche relazioni e ai rapporti del Pentagono con gli analisti, giunse al suo incarico con idee precise sul modo in cui si doveva ottenere quel che lei chiamava “dominanza informativa”. In una cultura mediatica satura di persuasioni occulte, l’opinione viene influenzata per lo più dalla voce di chi sia percepito come figura autorevole e del tutto indipendente. Così, ancora prima dell’11 settembre, aveva costruito all’interno del Pentagono un sistema volto a reclutare "persone con influenza cruciale", in procinto di congedarsi o di cambiare attività, che con un’assistenza adeguata avrebbero potuto divenire elementi su cui far conto per far sorgere un sostegno popolare alle priorità dettate da Rumsfeld.

Nei mesi che seguirono l’11 settembre, quando ogni network si precipitava per accaparrarsi la propria squadra all-star di ufficiali militari in pensione, la signora Clarke e i suoi collaboratori intuirono una nuova opportunità. Per la squadra della Clarke, gli analisti militari erano il massimo quanto a "persone con influenza cruciale": autorevoli, e in maggioranza decorati come eroi di guerra, tutti in grado di raggiungere una vasta audience. Gli analisti, notavano, spesso catturavano per più tempo gli spettatori rispetto ai corrispondenti dei network, e non stavano semplicemente spiegando le capacità degli elicotteri Apache. Stavano strutturando il modo in cui gli spettatori dovevano interpretare gli eventi. Inoltre, mentre gli analisti erano dentro i media delle notizie, non ne facevano parte. Erano uomini militari, molti dei quali sintonizzati ideologicamente con la squadra di cervelli neoconservatori dell’Amministrazione, dei quali molti avevano un ruolo chiave presso un’industria militare che si attendeva grandi incrementi nel bilancio in vista di una guerra in Iraq. [...]

Perfino analisti senza alcun legame con l’industria della difesa e nessuna simpatia per l’Amministrazione, erano restii a essere critici nei confronti dei leader militari, con molti dei quali erano amici.« È davvero difficile per me criticare l’esercito statunitense», ha detto William Nash, un generale a riposo dell’esercito, analista alla ABC. «È la mia vita...». Altre amministrazioni presidenziali fecero in passato dei tentativi sporadici e su scala ridotta volti a costruire dei rapporti con gli analisti militari occasionali. Ma si trattava di casi irrisori, se comparati con quanto aveva in mente il team di Torie Clarke. Don Meyer, un aiutante della Clarke, ha affermato che nel 2002 fu presa una decisione strategica che puntava a fare degli analisti il fulcro della spinta impressa alle pubbliche relazioni per costruire le giustificazioni per la guerra. I giornalisti venivano dopo: «Non volevamo dipendere da loro tanto da farne il nostro principale veicolo di diffusione delle informazioni». Il normale ufficio stampa del Pentagono sarebbe stato tenuto separato dagli analisti militari. Agli analisti sarebbe invece venuto incontro un piccolo gruppo di funzionari di nomina politica, imperniato su Brent T. Krueger, un altro assistente di alto rango della Clarke. La decisione richiamava altre tattiche dell’Amministrazione che mandavano sottosopra il giornalismo tradizionale. Delle agenzie federali, per esempio, hanno pagato degli editorialisti affinché scrivessero in favore dell’Amministrazione. Avevano distribuito alle stazioni televisive locali centinaia di pseudo-notizie grondanti di resoconti melliflui sulle magnifiche sorti e progressive dell’Amministrazione. Lo stesso Pentagono ha pagato segretamente i quotidiani irakeni per pubblicare la propaganda della Coalizione.Anziché perdersi nelle lamentele sul “filtro dei media”, ciascuna di queste tecniche semplicemente riconvertiva il filtro in un amplificatore. Stavolta, ha detto Krueger, gli analisti militari starebbero «scrivendo la pagina delle opinioni» per la guerra.

L’assemblaggio della squadra
Sin dall’inizio, rivelano i colloqui, la Casa Bianca si è molto interessata a quali analisti erano stati identificati dal Pentagono, richiedendo liste di potenziali aderenti e suggerendo dei nomi. L’equipe di Torie Clarke ha redatto delle schede riassuntive che descrivevano il loro background, le loro affiliazioni d’affari e le posizioni da essi assunte sulla guerra.[...]
Un po’ alla volta il Pentagono è arrivato a reclutare più di 75 ufficiali in pensione, sebbene alcuni abbiano partecipato solo brevemente e occasionalmente. Il contingente più numeroso è stato affiliato a Fox News, seguito dalla NBC e dalla CNN. Ma furono inclusi anche gli analisti della CBS e dell’ABC. Alcuni di loro, anche se non erano sul libro paga di alcun network, riuscivano a essere influenti in altri modi, sia perché ospiti di trasmissioni radiofoniche, sia perché spesso scrivevano editoriali o perché venivano citati da riviste, siti web e giornali.Almeno nove di loro hanno scritto articoli di commento per il «New York Times.» Il gruppo era rappresentato in modo preponderante da uomini impegnati ad aiutare le società a vincere contratti militari. Diversi di loro ricoprivano posizioni di alto grado presso i contractor che davano loro una responsabilità diretta per conquistare nuovi affari presso il Pentagono. James Marks, un generale a riposo dell’esercito e analista della CNN dal 2004 al 2007, si batteva per ottenere contratti nei settori dell’intelligence e della difesa in qualità di manager di alto rango della McNeill Technologies. Ancora, altri erano consiglieri di amministrazione di aziende militari che affidavano loro la responsabilità degli affari con il governo. Il generale McInerey, analista della Fox, per esempio, siede nei consigli di amministrazione di vari contractors militari, compresa la Nortel Government solutions, un fornitore di reti di comunicazione.

Diversi erano lobbisti dell’industria della difesa, come McCausland, che lavora per la Buchanan Ingersoll & Rooney, un peso massimo fra gli studi di lobbisti, presso cui svolge le funzioni di direttore di un team sulla sicurezza nazionale che rappresenta svariati contractor militari. «Ai clienti offriamo l’accesso alle persone in grado di prendere le decisioni chiave», recitava allettante il team di McCausland sul sito web aziendale. McCausland non era il solo analista a fare questa promessa. Un altro era Joseph W. Ralston, un generale dell’Air Force a riposo. Subito dopo aver firmato con la CBS, il generale Ralston fu nominato vice presidente del Cohen Group, una società di consulenza capeggiata da un ex segretario della difesa, William Cohen, ora a sua volta analista sulla politica mondiale per la CNN. «Il Cohen Group sa che arrivare al “sì” nel mercato dell’industria aerospaziale e della difesa, sia negli Stati Uniti sia all’estero, richiede che le società abbiano una comprensione sistematica e aggiornata del pensiero di chi prende decisioni a livello di governo», sostiene la società al cospetto dei clienti sul proprio sito web.