giovedì 22 aprile 2010

In Medio Oriente fa sempre più caldo...

Qui di seguito una panoramica sugli ultimi sviluppi in Medio Oriente e sulla questione del nucleare iraniano.

Da segnalare intanto come ieri il premier siriano Naji al Otri abbia ventilato l'ipotesi, stando all'agenzia Kuna, che le recenti minacce israeliane verso la Siria possano costituire il preludio a un'aggressione israeliana ai danni della Siria o del Libano.

Mentre secondo varie fonti egiziane, il presidente siriano Bashar al Assad potrebbe recarsi in visita in Egitto per colloqui con il presidente egiziano Hosni Mubarak proprio sui rischi di eventuali provocazioni israeliane.

Intanto oggi è avvenuta un'esplosione nel porto giordano di Aqaba, vicino alla città balneare israeliana di Eilat, che sembrerebbe essere stata causata da un razzo Katuysha lanciato dal Sinai egiziano. Ma l'Egitto nega che il lancio sia stato effettuato dal suo territorio, mentre pare che un secondo razzo sia invece precipitato nel Mar Rosso al largo di Eilat.

Chi mai sarà stato a provocare?...


Nucleare, la risposta di Teheran

di Giuseppe Zaccagni - Altrenotizie - 21 Aprile 2010

L'Iran annuncia che "nei prossimi giorni" discuterà con i Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu (invece che con gli Stati del gruppo 5+1) la proposta di scambiare il proprio uranio scarsamente arricchito con uranio al 20%. Intanto la Francia respinge preventivamente ogni nuova proposta di Teheran.

Risponde il ministro degli Esteri di Teheran, Manucher Mottaki: "Nei prossimi giorni condurremo discussioni dirette con i 14 membri del Consiglio di sicurezza e indirette con il quindicesimo membro, gli Stati Uniti, sullo scambio di combustibile". L'Iran, quindi, sul suo nucleare tratta, ma non molla. E rilancia all'Occidente una proposta tesa alla costituzione di un organo internazionale indipendente e la relativa sospensione dall'Aiea di chi minaccia di usare l'atomica.

E' questa la sintesi del vertice di Teheran che ha visto riuniti nei giorni scorsi i ministri degli Esteri di otto paesi - tra in quali Iraq, Siria e Libano - e i viceministri di altri 14, tra i quali la Russia, oltre a esperti nucleari di una sessantina di nazioni. Anche la Cina, tra l'altro, era presente al vertice pur se con un rappresentante di secondo piano.

Nel corso dell'incontro si è parlato molto del Trattato di non proliferazione (Tnp), del disarmo delle potenze nucleari e del pericolo rappresentato dall'arsenale atomico israeliano. E in tal senso i partecipanti alla conferenza hanno messo in guardia contro qualsiasi attacco contro i siti nucleari iraniani, lanciando un appello ad Israele affinchè aderisca al Tnp.

E' chiaro, comunque, che l'iniziativa è stata anche una risposta al vertice sulla sicurezza nucleare andato in scena a Washington il 12 e 13 aprile scorsi e che è stato utilizzato dal presidente Obama per fare pressioni sui leader mondiali al fine di affrettare l'approvazione di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica di Ahmadinejad.

Ma alle iniziative del leader della Casa Bianca ha subito risposto la Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, che con un messaggio ufficiale ha ribadito che "il solo criminale nucleare del mondo e cioè gli Usa afferma falsamente di essere impegnato a combattere la proliferazione di armi nucleari, ma non ha intrapreso nè intraprenderà mai alcuna serie azione in questo senso". Tesi e temi scottanti che spingono verso i fronti della nuova guerra fredda.

Dal canto suo il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha proposto, oltre a una "revisione equa" del Tnp, la creazione di "un organo internazionale indipendente sotto l'egida dell'Onu" che disponga di "pieni poteri per pianificare e supervisionare il disarmo e la non proliferazione nucleare".

Inoltre, ha chiesto che "tutti gli Stati che sono dotati dell'arma nucleare, che l'hanno utilizzata o che hanno minacciato di utilizzarla" siano "sospesi dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea)". Un chiaro riferimento alla nuova dottrina in materia di nucleare approvata recentemente da Obama, che non esclude l'uso da parte degli Usa di armi atomiche contro l'Iran (e la Corea del Nord).

Nel vertice di Teheran - e sempre nel quadro di un pericoloso precipitare degli eventi - si è insistito soprattutto sulla piena attuazione del Trattato di non proliferazione che, ha spiegato il ministro degli Esteri iraniano, Manucher Mottaki, "fu costituito sulla base di tre principi fondamentali: il disarmo nucleare, la non-proliferazione delle armi nucleari e l'uso pacifico dell'energia nucleare". Tuttavia - ha sottolineato Mottaki - alcuni stati nucleari "non hanno onorato" gli impegni in materia di non proliferazione, poichè "hanno fornito assistenza a Stati non del Tnp in particolare Israele a acquisire armi nucleari o sviluppare ulteriormente tali ordigni disumani".

Dello stesso avviso anche Kazem Jalali, portavoce della Commissione parlamentare per la Sicurezza Nazionale e Politica Estera, secondo cui alla prossima Conferenza di revisione del Tnp, in programma a maggio a New York, saranno presenti due fronti: "Il primo, guidato dagli Stati Uniti, mira a limitare il numero dei Paesi che intendono accedere alla tecnologia nucleare per usi pacifici, mentre il secondo fronte è costituito da Paesi non nucleari, che chiedono il disarmo in tutto il mondo".

Si è, di nuovo, al punto di partenza in un crescendo di tensioni. Perchè alla minaccia di nuove sanzioni Teheran risponde dando il via libera a dieci nuovi "siti" dove verranno realizzati impianti per l'arricchimento dell'uranio. E si sa che, attualmente, la Repubblica Islamica arricchisce il suo uranio presso l'impianto di Natanz senza rispettare gli "avvertimenti" del Consiglio di Sicurezza dell'Onu.

E allora: nubi nere sul futuro? Forse c'è anche qualche timida schiarita. Perchè il ministro degli Esteri iraniano Mottaki ha dichiarato di voler discutere con tutti i membri del Consiglio eccetto che con gli Usa. Da Washington per ora, non ci sono risposte. I tempi si allungano e la tensione resta alta.


L'Iran e la sfida eurasiatica
di Alfredo Musto* - www.rinascita.eu - 16 Aprile 2010

Il focus dell’agenda internazionale sul Golfo Persico e l’Iran, all’interno della dimensione più ampia del quadrante asiatico-mediorientale, configura l’intera area come luogo privilegiato delle frizioni in atto nel mutante contesto multipolare e lascia intravedere come la struttura delle relazioni internazionali dei prossimi anni sia presumibilmente lontana da un modello sostanzialmente cooperativo.

Tutto ciò implica come la nuclearizzazione del confronto sia in un senso una forzatura e in un altro la strada maestra scelta per la conduzione di un conflitto strategico che, in quanto tale, non si riduce ovviamente alla disputa sul programma iraniano di arricchimento e di sviluppo delle centrali. Insomma, decidere sul dossier nucleare per trattare la questione iraniana.

Il ruolo geopolitico

L’elemento di fondo da considerare per cercare di cogliere l’evolversi della situazione è la particolare posizione geografica nonché il modo in cui Teheran percepisce se stessa, cioè il suo ruolo geopolitico. Nell’attuale contesto internazionale, in fase di cambiamento con l’emergere di nuovi poli dopo la disgregazione delle egemonie bipolari, la Repubblica Islamica è al bivio tra due indirizzi caratterizzanti quali il ruolo di potenza regionale e la funzione di integrazione eurasiatica. I fattori relativi ad ambo le prospettive sono molteplici e in certa parte coincidono, specie se si immagina un percorso progressivo in cui quelli interni non possono prescindere da quelli esterni.

Tuttavia, l’effetto strategico diverge in maniera sostanziale. Si è quindi aperta una conflittualità a lungo termine il cui risultato risentirà anche del peso degli attori principali, siano essi globali o regionali.

L’Iran sin qui si è al più barcamenato tra l’opzione regionalista e quella eurasiatica, ora attraverso cedimenti ora attraverso prese di posizione nette.

Il ruolo di potenza regionale comporterebbe l’esigenza di coniugare le istanze di influenza islamica sul mondo arabo e sulle circostanti comunità religiose con un necessario pragmatismo legato ai rapporti di forza tra Stati Uniti e Russia in quanto forze preponderanti e rispetto alle quali potrebbe agire solo di riflesso e con un raggio di autonomia comunque circoscritto.

Non solo, la vocazione regionalista significa automaticamente incidere sui relativi equilibri con l’apertura di una competizione egemonica con Pakistan, Arabia Saudita, Turchia e soprattutto Israele.

E se quest’ultima è una sfida per così dire orizzontale, ben più ardua sarebbe quella verticale rappresentata dal progetto americano di ridisegnamento dell’area, secondo i canoni del progetto del Grande Medio Oriente che permarrebbe come scelta strategica di controllo da parte di Washington, per quanto condizionato dagli eventi bellici e dalla tenuta economico-finanziaria.

L’opzione eurasiatica, invece, implicherebbe una funzione di integrazione continentale che l’Iran consoliderebbe, ad esempio, con l’ingresso nella Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) e nella Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) e perseverando in scelte come quella dell’oleodotto Iran – Pakistan – India (IPI).

Assecondando il processo integrativo, Teheran realizzerebbe una sinergia di intenti e di azione innanzitutto con la Russia, divenendo imprescindibile per la stabilizzazione dell’area caucasica e nucleo di raccordo – in continuità con Ankara – tra la penisola europea e lo spazio sino-indiano, in un continuum geopolitico che ingloberebbe le rotte energetiche e le sfere di influenza che Washington contende nella sfida vitale del Grande Gioco.

Tra i diversi nodi da sciogliere rimane particolarmente delicato quello dei rapporti con il mondo arabo. Al netto di considerazioni concrete anche se schematiche, la verve egemonica regionalista ma anche ideologico-religiosa della Repubblica Islamica è non solo prodotto dell’aprirsi di spazi strategici nell’avanzamento del policentrismo, ma anche del fallimento e del tramonto del grande progetto panarabo.

Oltre la valutazione degli attriti e delle incongruità tra i vertici politici dei Paesi arabi, l’azione progressiva ed efficace di Stati Uniti e Israele di scardinamento dei movimenti nazionalisti, laici, socialisti e panarabi – l’autentica minaccia alle loro mire di egemonia e controllo – ha innescato, da essi stessi indotta, una spirale di integralismo islamico dalle mille facce anche in contrasto nel suo variegato mondo e che, nella sua impossibilità di essere ricondotto ad un unicum, attua una forte frammentazione all’interno delle comunità arabe e contribuisce a minare una sovranità già notevolmente limitata e in alcuni casi nulla.

Sicchè, nell’ordine delle azioni strategiche, il ruolo di Teheran nel Vicino Oriente se in questa fase è garanzia di sostegno ai gruppi armati di resistenza come Hamas ed Hezbollah, alla Siria come rimanente soggetto sovrano non integrato nella strategia statunitense e sionista (senza perdere di vista le relazioni con la Turchia), e fonte di ingerenza nella crisi irachena, sotto il profilo progettuale rimane un’incognita in considerazione dei fattori confessionali, etnici, politici ed economici.

Fattori che sono basati su assonanze ed elementi comuni ma anche su significative differenze storiche e quindi, al di là delle contingenze, su differenze geopolitiche che rischierebbero di essere confliggenti ben oltre le reciproche diffidenze (guerra Iraq-Iran).

Al di là di tutta una serie di reciprocità storiche e tattiche degli iraniani con statunitensi e israeliani, può realmente l’Iran contribuire (supporto finanziario e militare a parte) alla risoluzione della questione palestinese? Fino a che punto gli arabi accetterebbero un suo ruolo preminente nella regione?

Quali i risvolti del rapporto tra il fattore identitario e quello geostrategico con gli iraniani? Fino a che punto può reggere il fronte di alcune forze contro nemici in comune e fin dove reggono gli accomodamenti tattici di altre forze o Paesi?

Come possono conciliarsi le istanze laiche di alcuni Paesi o le divergenze confessionali – sia interne sia esterne – con un’eventuale forte influenza proveniente da una entità con una marcata connotazione clerico-sciita? In definitiva, perché abdicare a favore della potenza persiana, comunque estranea alla dimensione araba?

Probabilmente, se Teheran propendesse per l’opzione di integrazione eurasiatica, maturerebbe una sua funzione sicuramente autonoma e rafforzata ma naturalmente sinergica con gli altri attori continentali e andrebbero in parte a sanarsi delle difficoltà storiche ed estemporanee anche nell’incerto scenario delle relazioni nel Vicino Oriente e nel Golfo Persico.

L’interesse nazionale

La propria proiezione sullo scacchiere che l’Iran sta elaborando risente di due variabili generali non isolabili quali gli assetti e la struttura interna di potere da un lato, e il contesto internazionale e regionale dall’altro. A fronte di tali due variabili, l’oggettiva identificazione del suo status geopolitico rimanda allo sforzo di delineare e perseguire il suo interesse nazionale. Il tutto serba una logica.

La Repubblica Islamica risente di una sindrome da accerchiamento e cerca di garantire la propria sicurezza in un sistema internazionale notoriamente anarchico attraverso la valorizzazione della propria specificità e l’utilizzo razionale delle risorse a disposizione.

Cosciente di incarnare uno snodo delle vie energetiche mondiali, è chiamato a conciliare interessi ed obiettivi propri con quelli di un’area instabile al cui interno ha l’assoluta necessità di procedere secondo i criteri di cooperazione e distensione, onde evitare di venire soffocata nelle sue ambizioni dagli eventi ancor prima di dispiegare il suo raggio d’azione.

Parimenti, è questa anche una fase di inquadramento di amici e nemici strategici al fine di uscire dallo stato di pressione cui si sente sottoposto e che, soccombendovi, diventerebbe forse persino di isolamento. Situazione che non gioverebbe a nessuna delle parti in campo.

Sussistono due macro-elementi di fondo legati al suo interesse nazionale:

- il primo: la sopravvivenza stessa del regime, la sua sicurezza e la sua difesa identitaria

Nell’odierna fase internazionale, l’entità statuale religiosa iraniana costituisce una singolarità, in particolare nella sua connotazione sciita e nel suo afflato islamico extra-confini, tanto da avvertire la propria difesa come un dovere religioso in primis.

L’aspetto identitario (per di più in una terra già incontro di civiltà diverse), oltre a quello interno, ha un risvolto fondamentale nel gioco di forze con gli altri attori, anche sotto il profilo mediatico e di immagine. Del resto, l’identità degli Stati può mutare nell’interazione con gli altri e nella struttura della politica internazionale, così come la percezione di una minaccia non prescinde dall’essere stesso del soggetto, o comunque dal profilo che di esso viene elaborato.

Tant’è che oggi Stati Uniti e Israele reputano e veicolano – brandendo la loro consolidata leva politico-mediatica – l’Iran come un pericolo, una minaccia rispetto alla quale acconsentire ad una sua dotazione nucleare non potrebbe costituire una scelta per così dire neutra, proprio in considerazione del suo status di rivale ancor più oggi di ieri.

Dal canto suo, la Repubblica Islamica vive la sua identità e modella il suo sforzo di sopravvivenza percependo gli USA come il suo altro da sé nonché come il simbolo di un neocolonialismo oppressivo di ritorno, di un imperialismo occidentalista che pone sotto scacco la sua missione e l’essenza stessa del mondo islamico.

Lontano da assolutizzazioni di sorta, sarà comunque determinante individuare di che tipo sarà la sua commistione tra il fattore religioso di autoproclamato paladino dei musulmani e dei popoli oppressi, e il fattore laico dell’azione politica concreta. Essa non è un monolite e sta già da tempo tentando di delineare una personale combinazione di tradizione e modernità.

La percezione dell’accerchiamento di Teheran proviene da tre fronti instabili e pieni di incognite.

1) Nello scenario del Vicino Oriente, il tentativo di ritagliarsi una posizione di forza deve confrontarsi – come nel nucleo Palestina-Libano-Siria – con la propensione sionista e la spinta alla frammentarietà da parte di Israele e degli Stati Uniti, e con l’ambiguità delle petro-monarchie votate sia agli affari con gli occidentali che al sostegno dei vari gruppi sunniti. La partita curda e quella irachena sono poi una spina nel fianco alla luce di una conflittualità di varia intensità, ma nello stesso tempo un ottimo terreno di scontro e di compromesso con gli statunitensi, terreno sul quale gli iraniani stanno già spendendo la loro influenza in quello che è un gioco in cui l’instabilità prolungata rischia di logorare entrambi i contendenti, oltre che affossare una già compromessa sovranità irachena.

Così come è evidente che un pesante controllo di Washington sull’Iraq farebbe di quest’ultimo una testa di ponte contro Teheran, il cui senso di insicurezza non può che aggravarsi in virtù del dispiegamento statunitense di mezzi e uomini nel Golfo Persico con la flotta schierata allo stretto di Hormuz, in aggiunta ad una costante operatività dell’intelligence nemica nei vari Paesi circostanti mediante un’attività non solo di spionaggio ma anche di supporto a gruppi armati e di opposizione sul fronte interno, dove si registra una continua pratica del soft power.

2) Nell’area del Caucaso meridionale-Asia centrale, gli iraniani rilevano numerose insidie: la presenza statunitense in Azerbaigian e Kirghizistan, il possibile allargamento della Nato, la mai conclusa questione delle risorse del Caspio, le possibili ripercussioni del conflitto nel Nagorno-Karabakh, le velleità irredentiste dei gruppi azerbaigiani a forte componente iraniana, la possibile estensione del fenomeno etero-diretto delle rivoluzioni colorate, la proiezione di Ankara nei territori turcofoni, l’esigenza di non allontanare Mosca almeno sul piano tattico.

3) Sul versante Est, le preoccupazioni concernono l’instabilità e la permeabilità del fronte Af-Pak dove agiscono svariati gruppi e organizzazioni e prospera il narcotraffico; il rinfocolarsi del fondamentalismo sunnita; il ruolo estensivo del Pakistan – solitamente avvertito con timore – nel territorio afghano, ma anche la preoccupazione di un suo eventuale disfacimento; la minaccia dell’installazione di basi statunitensi in Afghanistan quale determinante fattore logistico-militare e di pressione.

E’ evidente, quindi, che l’evolversi della situazione iraniana si lega al processo di stabilizzazione dell’Iraq e dell’Afghanistan quali tasselli ineludibili della nuova architettura di sicurezza statunitense nell’intera area che comprende lo schema di una crescente pressione sul fianco sud della Federazione Russa.

Il centro degli interessi di Washington scivola dall’Europa e dai Balcani all’Asia centrale, caspica e pacifica. Siffatta percezione di una minaccia costante ai propri danni induce Teheran a mosse di rafforzamento anche sotto l’aspetto militare, persino giustificando, in un contesto di marcato squilibrio di forze, l’ipotesi di un arma atomica di difesa o attacco.

Alla luce delle vicende post–Guerra Fredda concernenti il rapporto potenza egemonica – medie potenze, quella della guerra in Kosovo potrebbe essere fatta propria dagli iraniani: il ragionamento poggia sul presupposto che se Milosevic avesse potuto disporre di un apparato di difesa sufficientemente valido, la sua capacità negoziale rispetto all’Occidente avrebbe avuto maggior peso.

Per l’Iran, date le condizioni di accerchiamento, sanzioni di tipo economico-commerciale o simili opzioni coercitive non potranno che cristallizzare la sensazione di insicurezza e la percezione dei rischi per la propria sicurezza nazionale.

- il secondo: l’intrinseca valenza geoeconomica del Paese
Le risorse energetiche e la relativa posizione pivot fanno del territorio persiano un moderno protagonista geostrategico. Esso non solo è a cavallo del Golfo Persico – il maggior canale di traffici petroliferi globali – , confinando con sette Paesi, ma vanta anche il privilegio di affacciarsi sul Mar Caspio che sempre più si configura come importante e contesissima rotta di transito intra-continentale per i prodotti energetici e commerciali. Il fiorire di numerosi progetti di oleodotti e gasdotti misura l’alto livello della sfida geopolitica in atto.

Teheran sa di avere un ruolo imprescindibile e mira ad utilizzare, sulla base di una piena ed effettiva “scomoda” sovranità, tali immense risorse nell’ambito di una prospettiva sviluppista e di crescita industriale che le permetterebbe di coltivare l’ambizione di divenire Paese guida nel progresso economico e tecnologico dell’intera regione del Golfo Persico.

Ha un potenziale petrolifero enorme in virtù dei suoi 137,6 miliardi di barili in termini di riserve, pari al 10% su scala mondiale, con una produzione di 3,77 milioni di barili al giorno (ponendosi al secondo posto dietro l’Arabia Saudita nella classifica OPEC). Il suo altissimo livello delle esportazioni, contando sull’innalzamento del prezzo in un’area di instabilità, frutta una sostanziosa crescita del PIL tale da consentirgli una progettualità infrastrutturale di sfruttamento e ricerca, tra cui si annovera naturalmente anche l’opzione nucleare.

Opzione questa che ha una giustificazione di fondo nel deficit energetico del Paese, come evidenzia il dato che lo vede al secondo posto dopo gli USA come importatore di benzina, a fronte di un consumo che da più di un decennio è sopra il 10%. L’alto fabbisogno comporta quindi un incremento della capacità di raffinazione che esso cerca di ottenere mediante la costruzione di nuove raffinerie sia all’interno sia all’estero, come dimostrano gli accordi con Siria e Venezuela (con il loro carico di risvolti politici).

Sia le consolidate potenze industriali sia quelle emergenti vedono nel greggio del Golfo una risorsa fondamentale per le impellenti esigenze di crescita e consumo, cosa di cui assolutamente tengono conto gli stessi Usa nella loro politica del contenimento nei confronti dell’Iran. Per gli statunitensi, infatti, la tela delle rotte petrolifere in quella zona è una pericolosissima causa di dipendenza e vulnerabilità.

L’altra formidabile risorsa energetica è il gas, di cui l’Iran detiene il 15% di riserve mondiali accertate e di cui costituisce il secondo produttore. In forza pure di imprecisati giacimenti da esplorare, gli iraniani puntano a fare di esso un settore chiave (e questa è una crescente tendenza globale) non solo in termini di competizione sui mercati, ma anche nei termini di un disegno secondo il quale sostituire progressivamente il gas al petrolio come principale fonte energetica, così da liberare per l’esportazione ulteriori disponibilità di greggio attualmente impiegate per il fabbisogno interno. Sempre più significativi e strutturanti sono le collaborazioni industriali e tecnologiche con Russia, Cina e India, per un combinato di partnership che inevitabilmente allarga la strategia anche al campo delle influenza politiche.

La combinazione di questi grandi vettori energetici, cui si sommano le grandi risorse minerarie ed agricole, con la disponibilità di una enorme forza lavoro in virtù di una popolazione prevalentemente giovane, alimenta la prospettiva di un Iran come potenza industriale ad alto consumo, con tutto il suo potenziale corollario di industrie nazionali, infrastrutture e patrimonio di conoscenze proprio. L’arma dell’energia è contemporaneamente un’arma diplomatica che permette alla Repubblica Islamica di tessere la sua rete di relazioni e muoversi secondo una logica di difesa/attacco e azione/reazione.

Si fa spesso riferimento ad una possibile ritorsione iraniana nel taglio della produzione di petrolio, ma ben più significativo sarebbe il progetto che ruota intorno alla Borsa di Kish, che rimane il simbolo di una terribile minaccia per gli Stati Uniti: la vendita del greggio non più in dollari ma in euro con il conseguente sconvolgimento del paradigma finanziario americano che finora consente alla superpotenza atlantica di librarsi oltre le sue possibilità.

Washington e Tel Aviv – al di là delle difformità contingenti – sembrano aver posto ormai l’Iran al centro di una contesa strategica. Alla lunga è un’azione per mettere fuori gioco dalle rotte energetiche e dalle sfere di influenza politica l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Giappone nella competizione delle potenze.

A Teheran si gioca una partita della sfida eurasiatica.


*Alfredo Musto, dottore in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università La Sapienza di Roma), collabora con “Africana”


Siria, la nuova crisi dei missili
di Giorgio Caccamo - Peacereporter - 21 Aprile 2010

Nuove tensioni in Medioriente dopo la diffusione della notizia che la Siria avrebbe inviato missili Scud ai miliziani di Hezbollah in Libano

Il 13 aprile Al-Rai Al-Aam, un quotidiano di Kuwait City, ha pubblicato un rapporto in cui denunciava che la Siria avrebbe inviato missili Scud agli Hezbollah libanesi. Sarebbe questa la ragione alla base del ritardo della nomina del nuovo ambasciatore Usa a Damasco, il primo dal 2005.

La notizia era stata immediatamente rilanciata dal quotidiano israeliano Haaretz, che ha sottolineato come il sostegno siriano a Hezbollah e all'Iran non crei le condizioni affinché si giunga ad un accordo di pace tra Damasco e Tel Aviv.

Israele dunque auspicava un intervento degli Stati Uniti a sostegno dei leader libanesi. Intervento che in effetti non ha tardato ad arrivare. Il Dipartimento di Stato di Washington ha infatti convocato ieri, 20 aprile, un diplomatico siriano, per protestare per "l'atteggiamento provocatorio".

La Siria ha però sin da subito smentito la notizia e negato il suo coinvolgimento, lamentando soprattutto che gli Usa hanno accettato acriticamente le accuse israeliane. Le accuse non si sono infatti limitate alla stampa, ma sono state rilanciate persino dal presidente israeliano Shimon Peres.

Durante una visita ufficiale in Italia, lunedì scorso, il primo ministro libanese Saad Hariri aveva da parte sua smentito le "illazioni" israeliane, paragonando le accuse a quelle che gli Stati Uniti mossero nel 2003 all'Iraq di Saddam Hussein sulla mai provata presenza di armi di distruzione di massa.

Hariri è stato molto critico soprattutto nei confronti della stampa che ha diffuso la notizia senza curarsi della sua veridicità. Il ministro degli Esteri siriano, Walid al Muallim, ha detto oggi che gli Stati Uniti ignorano sostanzialmente le ragioni che hanno spinto gli israeliani a formulare accuse ritenute prive di fondamento.

Citato dall'agenzia di stampa siriana Sana, Muallim è stato chiaro: "L'obiettivo di Israele è di mischiare le carte e sviare l'attenzione dai crimini commessi nei Territori occupati palestinesi, in un momento in cui le relazioni tra Israele e gli Stati Uniti sono a un minimo storico".

Proprio l'atteggiamento degli Usa è stato contraddittorio. È stato convocato il diplomatico siriano, ma i funzionari del Dipartimento di Stato si sono affrettati a a precisare che non esistono ancora dati certi o conferme sul reale invio di missili siriani alle milizie di Hezbollah.

Peraltro questi missili avrebbero testate esplosive più potenti rispetto a quelle già negli arsenali dei miliziani guidati da Hassan Nasrallah. Ma Hezbollah non ha confermato né smentito le accuse israeliane alla Siria.

Le tensioni tra Israele, Siria e Libano, relativamente alla vicenda degli Scud a Hezbollah, datano già al mese di gennaio, quando fonti militari di Washington e Tel Aviv avevano espresso la propria preoccupazione per l'eventuale riarmo delle milizie di Nasrallah grazie al sostegno siriano ed iraniano.

Secondo quanto riporta ancora Al-Rai Al-Aam, all'inizio del mese, il senatore John Kerry, presidente della commissione Esteri al Senato Usa, avrebbe chiesto spiegazioni alla Siria sui rapporti con Hezbollah. Lo stesso rapporto sostiene addirittura che l'esercito siriano avrebbe addestrato la scorsa estate i miliziani sciiti libanesi all'utilizzo di missili Scud.

Israele ha fatto sua la notizia del giornale kuwaitiano, rilanciandola anche a livello ufficiale, per quanto il ministro della Difesa, Ehud Barak, abbia dichiarato due giorni fa non è nelle intenzioni di Israele iniziare una nuova guerra con la Siria.

Gli Stati Uniti hanno compiuto un dietrofront, trincerandosi ora dietro l'incertezza delle accuse israeliane, ma Haaretz, generalmente vicino agli ambienti dell'establishment isrealiano, ha già avvertito che l'amministrazione Obama non sembra in grado di influenzare Damasco circa i rapporti con Hezbollah. Siria e Libano hanno smentito la notizia, respinto le accuse e contrattaccato. Hezbollah tace.

L'imprevista visita di Assad in Egitto, annunciata da tutti i media arabi, rientrerebbe in questo contesto. Il presidente siriano non si recava da quattro anni al Cairo, ma la situazione attuale sembra aver reso necessario un suo incontro con Mubarak.

Oltre a discutere del destino della Palestina, oltre a riprendere il dialogo interrotto proprio a causa del sostegno siriano ad Hezbollah nella seconda guerra libanese del 2006, Assad insisterà probabilmente sulla falsità della notizia dell'invio di Scud agli sciiti libanesi, ribadendo - come ha notato un commentatore siriano - che le accuse sono "la scusa di Israele per giustificare il suo bellicismo".


Israele distrae gli Usa dall'occupazione della Palestina
di Matteo Bernabei - www.rinascita.eu - 21 Aprile 2010

Dove sono finiti i missili Scud che la Siria avrebbe fornito a Hizbollah? Nessuno lo sa, d’altronde non si sa nemmeno se effettivamente la consegna sia avvenuta, ma nonostante tutto gli Stati Uniti sono molto preoccupati da questa nuova possibile minaccia o per dirla con le loro stesse parole da questo “atto di provocazione” presunto.

Non sono bastate alla Casa Bianca le smentite fornite nei giorni scorsi dai leder di Libano e Siria, tanto che il portavoce dell’amministrazione statunitense Philip Crowley ha lanciato ieri un nuovo monito ai due Paesi arabi affermando che gli Usa hanno ha visionato e studiato le informazioni a loro disposizione e che continueranno a monitorare l’intera vicenda.

Dal canto suo il ministro degli Esteri di Damasco, Walid Muallem, si è detto “rammaricato” del fatto che gli Stati Uniti si siano associati alle “illazioni israeliane”.

“I responsabili americani ignorano i fattori che hanno spinto gli israeliani a fare queste rumorose accuse senza fondamento – ha affermato il responsabile della diplomazia siriana – l’obiettivo di Israele è di mischiare le carte e sviare l’attenzione dai crimini commessi nei territori palestinesi occupati, in un momento in cui le relazioni tra Israele e gli Stati Uniti sono a un minimo storico”.

Ipotesi sostenuta anche dal premier libanese Saad Hariri, secondo il quale, infatti, “il vero problema è che Israele non vuole dare ai palestinesi la terra né riconoscere la soluzione dei due Stati” ed adotta queste strategie per distrarre la Casa Bianca da quello che avviene in Palestina.

Affermazioni che Barack Obama farebbe bene a prendere in seria considerazione se davvero vuole evitare l’ennesima figuraccia politica in ambito internazionale e fare la fine del suo predecessore George W. Bush.

Al di là del fatto in se, però, l’intera vicenda ha riportato alla luce una questione mai risolta che è da sempre una delle maggiori preoccupazioni di Israele: l’arsenale di Hizbollah e il suo ruolo nel Paese e nella regione.

Negli ultimi mesi il governo di Beirut ha cercato di rivedere il ruolo del Partito di dio e delle suo milizie situate nel sud del Paese cercando di renderlo sempre più parte integrante dell’intero sistema militare nazionale, cosa che non è stata certo gradita dal governo di Tel Aviv.

Il 7 marzo scorso, poco prima dell’inizio dei colloqui per il Dialogo nazionale interlibanese, il ministro delle riforme amministrative Muhammad Fneish aveva affermato che la questione di uno smantellamento delle armi del Partito di dio non era nemmeno in agenda.

All’inizio di aprile poi il leader druso Walid Jumblat ha ufficializzato la sua nuova alleanza politica con Hizbollah in un incontro con il leader islamico Hassan Narsallah, mettendo così fine a una rivalità storica. Ieri, infine, anche il leader cristiano ed ex comandante dell’esercito libanese, Michel Aoun, ha espresso l’auspicio che si compia una completa integrazione delle milizie di Hizbollah con quelle delle forze armate regolari.

“Il Libano non ha alternative alle armi della resistenza islamica – ha detto l’ex ufficiale anche lui acerrimo rivale del movimento fino al 2006 - alcuni dicono che l’esercito è l’alternativa, ma esso non è pronto a far fronte ad un attacco israeliano. Può solo fermare le dispute interne. D’altro canto, Hizbollah è pienamente in grado di affrontare Israele e a differenza di come lo dipingono Tel Aviv e Washington è una forza difensiva e non offensiva”.

Concludendo poi il suo intervento alla radio militare, Aoun ha parlato della vicenda Scud affermando che in ogni caso anche il Libano ha pieno diritto ad acquistare tutte le armi necessarie alla propria difesa.

Un principio sacrosanto quello espresso dal leader cattolico se affiancato a quello arrogatosi dall’entità sionista che pretende, a torto, di dover essere l’unico Paese del Vicino Oriente a poter fare qualunque cosa sia necessaria a mantenere la propria sicurezza nazionale. Persino scatenare una nuova guerra.


Colonie a Gerusalemme Est, Israele non intende fermarsi
da www.osservatorioiraq.it - 20 Aprile 2010

Israele non smetterà di costruire a Gerusalemme Est e non intende raccogliere gli appelli per una moratoria, arrivati negli ultimi mesi dagli Stati Uniti, dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Ue, Onu e Russia) e dal resto della comunità internazionale.

Ad affermarlo è il primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui le pretese palestinesi sulla parte orientale della città santa (occupata dagli israeliani durante la guerra del 1967 e annessa nel 1981) rappresentano un ostacolo per la ripresa dei negoziati di pace.

“Questa richiesta che adesso i palestinesi hanno introdotto – di fermare tutte le costruzioni, le costruzioni ebraiche nei quartieri ebraici di Gerusalemme – è totalmente senza futuro, perché non fa che prevenire la pace”, ha detto il premier in un’intervista al network Usa Abc.

“La mia proposta è togliere di mezzo tutte le precondizioni, comprese quelle su Gerusalemme. Sediamoci a un tavolo e negoziamo la pace senza precondizioni. È questa la maniera più semplice di ottenere la pace”, ha detto ancora Netanyahu.

Concetto analogo ha espresso nelle stesse ore il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman: “Eventuali tentativi di imporre una soluzione del conflitto senza stabilire basi di fiducia reciproca – ha dichiarato - non faranno altro che aggravarlo”, in quanto “la pace va costruita”.

Lieberman, che è intervenuto in occasione del 62esimo anniversario della creazione dello Stato ebraico, si è soffermato anche sulla questione cruciale dello status di Gerusalemme, che i palestinesi rivendicano come capitale del loro futuro Stato.

La città santa - ha detto - “resta la nostra capitale eterna” e “non potrà mai essere divisa né direttamente né indirettamente”.

Risposta a Obama

Il riferimento - neppure troppo velato - delle precisazioni del ministro israeliano sono gli Stati Uniti e l’amministrazione Obama, che nelle ultime settimane hanno tentato di far pressione su Tel Aviv.

Solo pochi giorni fa il segretario di Stato Usa Hillary Clinton aveva rivolto un nuovo appello allo Stato ebraico, chiedendogli di fare di più per ottenere una pace con i palestinesi, e ribadendo la richiesta di uno stop alle colonie.

In risposta alle pressioni internazionali, lo scorso dicembre Israele ha accettato una moratoria di dieci mesi sulle colonie, da cui però ha escluso Gerusalemme.

A marzo, anzi, Tel Aviv ha fatto sapere di volere realizzare 1600 nuove unità abitative nel quartiere ultraortodosso di Ramat Shlomo, nella parte palestinese della città.

L’annuncio, avvenuto durante una visita ufficiale del vicepresidente Usa Joe Biden, ha aperto una seria crisi diplomatica tra Washington e Tel Aviv, mettendo a rischio le storiche relazioni tra i due paesi.



Diritti collettivi per i cittadini arabi di Israele
di Sarah Ozacky-Lazar* - Common Ground News Service - 15 Aprile 2010
Traduzione a cura di Medarabnews

Secondo un sondaggio pubblicato all’inizio del mese scorso, il 56 per cento degli studenti ebrei delle scuole superiori in Israele ritiene che gli arabi non debbano essere eletti alla Knesset (il parlamento israeliano) e il 46 per cento non è a favore dell’uguaglianza civile per gli arabi.

Questa è l’ennesima manifestazione di come sia problematico conciliare la contraddizione interna tra l’identità ebraica dichiarata da Israele da un lato e, dall’altro, il suo desiderio di essere un paese democratico basato sull’uguaglianza civile per tutti i cittadini.

Benché il problema sia stato affrontato più volte nel corso degli anni, non è ancora stata trovata nessuna formula praticabile per far “quadrare il cerchio” e non è stata offerta alcuna soluzione adeguata per risolvere il problema dello status della comunità arabo-palestinese in Israele.

Dalla fondazione dello stato e dalla dichiarazione di indipendenza che ha sancito l’uguaglianza civile come obiettivo di Israele, la discussione teorica e pratica del concetto di uguaglianza ha subito molte trasformazioni.

Al giorno d’oggi, c’è una forte domanda da parte degli arabi di Israele perché vengano riconosciuti come minoranza nazionale e perché vengano loro garantiti i diritti collettivi che tale riconoscimento comporta.

Questo si basa sul fatto che gli arabi di Israele sono una minoranza nativa, indigena o “originale” che, secondo il diritto internazionale, ha diritto alla terra, alle risorse naturali e alla conservazione del proprio patrimonio.

In questo senso, la lotta degli arabi di Israele per il riconoscimento è simile alla lotta di altre minoranze etniche di tutto il mondo che hanno difficoltà a praticare la propria cultura in condizioni di inferiorità numerica ed economica.

In seguito agli eventi dell’ottobre del 2000, in cui gli scontri tra polizia e manifestanti arabi condussero alla morte di 12 cittadini arabi, è stata istituita una commissione d’inchiesta chiamata “Commissione Or” per indagare riguardo agli eventi.

Essa pubblicò un rapporto che trattava, tra i vari aspetti, i diritti collettivi richiesti dalla minoranza araba in materia di istruzione, lingua, cultura e religione. Nelle sue conclusioni, essa sottolineava il divario tra le richieste di uguaglianza collettiva e il diritto di uguaglianza, così come appare nel diritto israeliano, che viene conferito su base individuale.

La commissione non ha espresso alcun parere su questo argomento, ma importanti studiosi ed esperti legali ebrei, come Yitzhak Zamir e Ruth Gavison, pensano che non ci sia necessariamente contraddizione tra l’identità ebraica dello stato e la concessione di diritti collettivi alla popolazione araba.

Inoltre, diverse sentenze della Corte Suprema nel corso degli anni hanno rafforzato i diritti collettivi degli arabi in relazione alla lingua, alla cultura e all’istruzione, senza che ciò abbia minato il carattere ebraico dello Stato.

Nei documenti soprannominati “vision papers” editi da alcuni gruppi della società civile araba nel 2007, è stata articolata una chiara richiesta perché gli arabi di Israele vengano riconosciuti come una minoranza nazionale e perché vengano loro concessi i diritti collettivi.

Tali diritti includono la gestione indipendente del loro sistema di istruzione, degli affari religiosi e dei mass media, un’adeguata rappresentanza nei centri del processo decisionale e per quanto riguarda i simboli dello stato, e il riconoscimento delle ingiustizie storiche subite per quanto riguarda la terra, i profughi interni e i beni che un tempo appartenevano al Waqf.

Questi documenti comprendevano anche delle rivendicazioni che inevitabilmente richiederebbero di stravolgere il carattere ebraico dello stato e trasformarlo in una democrazia socio-nazionale in cui i diritti della minoranza sono protetti dalla legge, o in una democrazia bilingue e bi-culturale, come proposto dall’organizzazione Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele.

Queste rivendicazioni sono considerate dalla maggioranza del pubblico ebraico come estreme ed inaccettabili in quanto rivelerebbero il desiderio da parte della popolazione araba di isolarsi e staccarsi dallo stato, o di trasformarlo in un’entità bi-nazionale.

Tuttavia, uno sguardo più attento a queste rivendicazioni dimostra che esse rappresentano una nuova fase nella lotta dei cittadini arabi per la vera uguaglianza civile all’interno di una cornice statale, e non il desiderio di staccarsi dallo stato.

Tutti i documenti danno per scontata l’esistenza di Israele all’interno della Linea Verde, accanto ad uno stato palestinese, e chiaramente rappresentano il desiderio di rimanere cittadini di Israele, e non di diventare cittadini di un futuro stato palestinese.

A mio parere, questa è la chiara indicazione di un atteggiamento serio da parte degli arabi nei confronti della loro cittadinanza israeliana e del desiderio di avviare un dialogo con lo stato per migliorare il loro status all’interno di esso.

A mio parere, riconoscere gli arabi come minoranza nazionale non contraddice l’interesse dello stato di Israele di preservare la sua identità ebraica. Anzi, al contrario, uno stato che si definisce in termini nazionali e sottolinea più volte il suo carattere nazionale ebraico potrebbe beneficiare del fatto di riconoscere il gruppo arabo-palestinese come una minoranza nazionale diversa.

Se lo stato riconoscesse questa richiesta potrebbe a sua volta pretendere che la minoranza araba riconosca il diritto della maggioranza ebraica di definire il proprio stato come ebraico.

Naturalmente, al di là del dibattito accademico e giuridico, dovremmo affrontare seriamente le implicazioni a lungo termine che il conferimento di diritti collettivi alla minoranza araba all’interno dello stato comporterebbe, e il suo rapporto con lo stato e la maggioranza ebraica.

Questo, tuttavia, deve avvenire nel rispetto reciproco, e non in un clima di paura e isteria. Siamo nel bel mezzo di un processo pericoloso in cui le aspettative della minoranza araba in Israele sono sempre più alte, sia in termini di richieste di uguaglianza individuale che di diritti collettivi e nazionali.

Allo stesso tempo, la democrazia israeliana è diventata sempre più debole in generale e in maniera più evidente in relazione agli arabi in qualità di cittadini, come dimostrato così chiaramente dal sondaggio di cui sopra. Questa è una ricetta per una pericolosa conflagrazione, perciò le richieste dei cittadini arabi di Israele devono essere affrontate.

Alla luce di ciò, al fine di mantenere stabilità sociale e politica è necessario che una vera e approfondita discussione su questi temi abbia luogo il prima possibile, in modo da poter raggiungere dei compromessi e degli accordi che possano essere considerati accettabili da entrambe le parti.


* ricercatrice presso il Van Leer Jerusalem Institute, e si occupa della comunità araba in Israele. Questo articolo si basa su un intervento tenuto in occasione della Conferenza di Jaffa sulle relazioni ebraico-arabe nel 2010