venerdì 23 aprile 2010

Iraq: il caos post-elettorale

In Iraq, a più di un mese e mezzo dalle ultime elezioni legislative, non si sa ancora con certezza chi le ha effettivamente vinte nè quando dovrà cominciare il riconteggio dei voti a Baghdad.

Una situazione caotica a cui si è aggiunta l'ennesima serie di attentati avvenuta oggi a Sadr City, il principale quartiere sciita di Baghdad, e che ha provocato la morte di almeno 67 persone e oltre 100 feriti. Le esplosioni sono state vicino a un mercato e due moschee sciite.

Qui di seguito qualche articolo sull'attuale situazione irachena, dove purtroppo l'unica certezza rimane sempre quella delle bombe.


Il riconteggio dei voti a Baghdad - che pasticcio!
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 23 Aprile 2010

A che punto sono i preparativi per il riconteggio dei voti a Baghdad, deciso dal comitato che sta esaminando i ricorsi presentati dalle diverse forze politiche riguardo ai risultati delle elezioni per il rinnovo del parlamento che si sono tenute lo scorso 7 marzo?

Non si sa: è questa la sola risposta possibile – al momento.

Dopo le dichiarazioni ottimistiche di alcuni dirigenti della Commissione elettorale (la IHEC), che deve organizzare il tutto, a gettare acqua sul fuoco è arrivato il suo presidente, Faraj al Haidari.

Haidari, che si trova all’estero, e ancora non è riuscito a tornare in Iraq, a causa della chiusura della maggior parte degli aeroporti europei, ha parlato [in arabo] con il quotidiano arabo al Sharq al Awsat, dicendosi stupito delle notizie secondo le quali la commissione avrebbe già approntato i meccanismi per il riconteggio – riconteggio che, a detta di alcuni dei suoi colleghi, richiederebbe solo una settimana.

Il suo presidente smentisce che la IHEC abbia ancora preso una qualsiasi posizione “ufficiale”a riguardo.

Il presidente della Commissione elettorale: la cosa va studiata bene

“Non è corretto” – dice al giornale – quando si dice che l’operazione di riconteggio avverrà nei prossimi giorni, in particolare dato che la decisione [di riconteggiare i voti a Baghdad NdR] necessita che l’organo direttivo della Commissione elettorale si riunisca per studiare la cosa, e dare la sua opinione ufficiale in merito alla decisione del comitato”.

Il comitato di cui si parla è quello che sta esaminando i ricorsi relativi ai risultati elettorali del 7 marzo presentati dalle varie forze politiche, e che ha deciso di accogliere la richiesta dell’Alleanza per lo Stato di Diritto (la coalizione del premier Nuri al Maliki), ordinando di ripetere il conteggio di tutti i voti – a mano – a Baghdad.

Haidari spiega che la IHEC ha bisogno di prendere una serie di misure: soprattutto, ha bisogno di un budget, che deve essere autorizzato. Deve inoltre invitare gli osservatori internazionali e i rappresentanti dei diversi blocchi politici, in considerazione del fatto che quella di riconteggiare i voti nella capitale è “una decisione delicata”, che deve essere studiata bene.

Una settimana per riconteggiare tutti i voti? Il presidente della Commissione elettorale si dice sorpreso: “Trovo strano che qualcuno lo dica”, commenta con il giornale, sottolineando che “farlo in una settimana non è facile”, soprattutto dato che la cosa va studiata - e senza fretta, e che bisogna invitare la comunità internazionale, “che ha già riconosciuto gli ultimi risultati elettorali”.

Se a sconfessare le dichiarazioni dei suoi colleghi è il presidente della IHEC, allora cosa sta succedendo?

Divergenze all’interno della IHEC?

Oggi al Hayat, un altro dei quotidiani panarabi che si pubblicano a Londra, riferisce a sua volta [in arabo] la posizione di Haidari: che torna a ribadire che la IHEC non ha ancora approntato i meccanismi necessari per il riconteggio manuale dei voti a Baghdad – riconteggio che, secondo quanto avevano dichiarato altri funzionari della commissione elettorale, sarebbe dovuto iniziare domani.

Non è vero niente, dice il suo presidente, aggiungendo che ancora la IHEC non si è riunita, dal momento che la maggior parte dei suoi membri rientrerà in Iraq solo la settimana prossima.

“Fonti informate” avrebbero parlato ad al Hayat di divergenze all’interno della Commissione elettorale su come interpretare la decisione di riconteggiare (a mano) tutti i voti nella capitale (due milioni e mezzo) presa dal comitato che esamina i ricorsi: ovvero se devono essere riconteggiati i voti in tutte le sezioni, o solo quelli delle 1001 sezioni di cui la lista di Maliki aveva chiesto la verifica.

Comunque sia, il riconteggio non inizierà domani. A dirlo è Iyad al Kanani, un altro dei funzionari della IHEC, che conferma che i meccanismi necessari non sono ancora stati definiti. E aggiunge che le operazioni si svolgeranno alla presenza dei rappresentanti delle forze politiche e di quelli della Missione Onu in Iraq – l’UNAMI.

Mettendo le mani avanti: al momento non è possibile – sottolinea – definire con precisione quando sarà completato il riconteggio.



La lista di Allawi favorevole a riconteggiare i voti a Baghdad
da www.osservatorioiraq.it - 20 Aprile 2010

Sì al riconteggio dei voti deciso per Baghdad, ma preoccupazione per come esso verrà condotto. La esprime Iraqiya, la coalizione nazionalista dell'ex Primo Ministro Iyad Allawi, uscita vincitrice, sia pure di strettissima misura (due soli seggi) dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento che si sono tenute in Iraq il 7 marzo scorso.

"Temiamo le pratiche che potrebbero verificarsi", si legge in un comunicato diffuso oggi dal gruppo, "potrebbero portare a un cambiamento dei risultati a beneficio di una determinata parte".

Il comunicato questo non lo dice, ma la parte è l'Alleanza per lo Stato di diritto: la coalizione del premier Nuri al Maliki, che, battuta da Iraqiya con 91 seggi a 89 (secondo i risultati annunciati a fine marzo dalla Commissione elettorale), aveva chiesto inizialmente che venissero riconteggiati i voti in tutto il Paese, per poi limitarsi a cinque province, e infine alla sola Baghdad.

Il riconteggio nella capitale riguarda la totalità dei voti: due milioni e mezzo. A Baghdad i risultati definitivi hanno visto la vittoria della coalizione di Maliki, con 26 seggi dei 68 in palio, tallonata però dall'alleanza di Allawi, che di seggi ne ha ottenuti 24, solo due in meno.

"Ora quello che ci preoccupa" - dicono da Iraqiya - "è: come mai nel riconteggio non sono state incluse altre zone?"

Allawi definisce una sorpresa la decisione di ordinare il riconteggio delle schede a Baghdad, presa dal comitato che sta esaminando i ricorsi contro i risultati elettorali, sei settimane dopo le elezioni.

Ed esprime preoccupazione "su dove siano state conservate le urne con le schede dalle elezioni a oggi".



La scoperta di una prigione segreta (per sunniti) a Baghdad minaccia il futuro politico di Maliki
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 22 Aprile 2010

Una prigione segreta a Baghdad – dove per mesi sono spariti in centinaia – tutti sunniti, molti dei quali venivano regolarmente torturati.

Che c’è di così strano – visto che stiamo parlando di Iraq? Beh, il fatto che la struttura era apparentemente sotto il diretto controllo del premier Nuri al Maliki - rivelazioni che, se confermate, non sono esattamente quello che ci vuole in un momento in cui sta cercando di ottenere un secondo mandato.

Tutto comincia ai primi di ottobre dello scorso anno – ottobre 2009. L’esercito iracheno effettua delle retate nella provincia di Ninive, nel nord, considerata una roccaforte di “al Qaeda in Iraq”, e comunque una delle più violente del Paese, tutt’altro che pacificata.

Gli arresti sono centinaia, e a protestare è lo stesso governatore, Athil al Nujaifi, secondo il quale non si tratterebbe solo di insorti o terroristi, ma anche di cittadini comuni, spesso portati via senza un regolare mandato.

Le famiglie degli arrestati organizzano manifestazioni per chiederne la liberazione, e poi si mettono a cercarli – senza successo, perché nel frattempo gli uomini sono stati trasferiti a Baghdad, per timore che le autorità giudiziarie locali potessero ordinarne il rilascio.

Poi, nel marzo di quest’anno, la scoperta della prigione segreta – nel vecchio aeroporto di Muthanna, zona ovest della capitale irachena - da parte di funzionari del ministero per i Diritti Umani, secondo quanto riferisce il Los Angeles Times, il giornale che ha pubblicato per primo la notizia.

Inizialmente, il solito muro: di ispezioni non se ne parla. Poi il muro pian piano cede: e due squadre del ministero ricevono il via libera – fra loro, c’è anche il ministro (donna), Wijdan Salim Mikhail.

Lo spettacolo che si trovano davanti: 431 prigionieri, in condizioni terrificanti.

Prigionieri picchiati, torturati, soffocati

"Più di 100 erano stati torturati. Avevano i corpi pieni di segni", ha raccontato al Los Angeles Times un funzionario iracheno a conoscenza delle ispezioni, che – comprensibilmente – ha chiesto che non venga fatto il suo nome.

"Li hanno picchiati, hanno usato l’elettricità. Li hanno soffocati con buste di plastica, e metodi vari".

Altre informazioni arrivano dagli americani. In un rapporto a uso interno dell’ambasciata Usa a Baghdad – che il giornale californiano è riuscito ad avere, il ministro dei Diritti Umani riferisce le testimonianze di alcuni prigionieri, che le hanno raccontato di essere stati tenuti ammanettati 3-4 ore per volta in posizioni assai scomode, o addirittura sodomizzati, a volte tutti i giorni.

Anche le guardie della prigione facevano la loro parte: dal rapporto dell’ambasciata Usa si apprende che c’era chi chiedeva ai detenuti fino 1.000 dollari per lasciarli telefonare alle famiglie.

Secondo le fonti irachene del Los Angeles Times, a porre fine a tutto questo sarebbe stato l’intervento del ministero dei Diritti Umani – del ministro in particolare.

Di fronte a un rapporto presentatogli questo mese dalla Mikhail, il premier Maliki si sarebbe impegnato a chiudere la prigione, dopo aver ordinato l’arresto degli ufficiali che ci lavoravano.

Sempre secondo le fonti irachene, 75 detenuti sarebbero stati liberati, e altri 275 trasferiti in carceri “normali”.

Maliki è responsabile?

Dal ministro per i Diritti Umani, arriva una difesa del premier.

"Il Primo Ministro non può essere ritenuto responsabile per tutti i comportamenti dei suoi soldati e del suo staff", ha dichiarato la Mikhail - una cristiana caldea entrata nel governo in quota alla Iraqi National List di Allawi, che alle elezioni del 7 marzo scorso si è presentata nelle liste dell’Alleanza per lo Stato di diritto, la formazione di Maliki.

Quanto al capo del governo, sostiene che non sapeva nulla degli abusi che avvenivano nella prigione, giustificando il trasferimento dei detenuti a Baghdad con timori di corruzione delle autorità giudiziarie di Mosul.

E ribadisce l’impegno a eliminare l’uso della tortura - largamente praticata nelle carceri irachene, secondo le organizzazioni per i diritti umani, internazionali e locali.

“Le nostre riforme continuano, e abbiamo il ministero per i Diritti Umani per monitorarlo”, ha detto Maliki al Los Angeles Times. “Se verrà provato che qualcuno è coinvolto in atti del genere, lo chiameremo a risponderne”.

Unità d’élite, carceri speciali

Parole che non convincono molti – in particolare, dato che notoriamente esistono unità speciali (complete di magistrati inquirenti e personale addetto agli interrogatori) che rispondono direttamente all’ufficio del Primo Ministro. E di cui più volte è stato denunciato l’operato – e l’incostituzionalità [in arabo] – spesso a (grande) rischio e pericolo di chi lo ha fatto.

Sono la “Brigata Baghdad” e la “Forza anti-terrorismo” – due unità di elite sotto il controllo diretto del premier.

Resta il fatto che quello scoperto a Baghdad non era uno dei (tanti) carceri “ufficiali”: “né sotto il ministero della Difesa, né sotto quello della Giustizia, o sotto quello degli Interni”, sottolinea un funzionario della sicurezza irachena, anche lui coperto dall’anonimato.

La “Brigata Baghdad” e la “Forza anti-terrorismo” gestiscono due strutture di detenzione (dove vengono tenuti i “sospettati super”): tutti lo sanno, a Camp Honor, una base all’interno della Green Zone – la zona superfortificata della capitale irachena. Dove sarebbero stati tenuti inizialmente gli oltre 400 arrestati a Ninive. E dove si dice che il personale della “Brigata Baghdad” addetto agli interrogatori utilizzi la tortura.

E dunque? Come faceva Maliki a non sapere?

Per il “nuovo” Iraq del resto non si tratta di una novità. Un carcere segreto - sotto il controllo del ministero degli Interni, allora guidato dal famigerato Bayan Jabr – attuale ministro delle Finanze – era stato scoperto (dagli americani) nel novembre 2005. Anche in quel caso, era pieno di sunniti.

Brutti tempi quelli: di lì a poco sarebbe iniziata una guerra civile a tutti gli effetti – fra sciiti e sunniti – che doveva durare quasi due anni, facendo migliaia e migliaia di morti, e costringendo gli iracheni a fuggire in massa dalle loro case, andando a ingrossare le fila degli sfollati e dei profughi.

Un siluro degli americani a Maliki?

Adesso l’ambasciata Usa a Baghdad lancia l’allarme – e probabilmente un siluro alle ambizioni di Maliki di ottenere un secondo mandato alla guida del governo.

Nel rapporto interno citato dal (passato al?) Los Angeles Times – che ne riporta ampi stralci - si avverte che “la rivelazione di una prigione segreta in cui gli arabi sunniti venivano sistematicamente torturati non diventerebbe solo un imbarazzo internazionale, ma probabilmente comprometterebbe anche la capacità del Primo Ministro di mettere insieme una coalizione di governo in grado di sopravvivere con lui al timone".

E’ questo l’obiettivo?



Capo al-Qa'ida In Iraq: arrestato, ucciso, mai esistito, riarrestato, riucciso
di Paolo Maccioni - E Polis - 21 Aprile 2010

Fonti Usa e irachene hanno annunciato che due leader di al-Qa'ida, Abu Ayyub al-Masri e Abu Omar al-Baghdadi, sono stati uccisi lunedì in un raid delle forze aeree statunitensi. Secondo il premier iraqeno il raid è avvenuto a 50 km da Baghdad, secondo il Washington Post in un'area 160 km più in là.

Ma non è questa la maggiore incongruenza, infatti entrambi gli uomini erano stati catturati e uccisi... diverse altre volte, ma non solo: il 20 luglio 2007 il generale di brigata Usa Kevin Bergner rivelò alla giornalista Tina Susman del Los Angeles Times che il terrorista al-Baghdadi era "non-esistente", ovvero una figura immaginaria, impersonata da un attore, creata per dare una faccia irachena a una organizzazione terroristica straniera.

Eppure ancora nel 2009 e nel 2010 agenzie e media planetari riferivano di messaggi audio e video attribuiti ad al-Baghdadi.

Quanto ad al-Masri era già stato ucciso nel 2007 (Fox News), poi catturato nel 2008 in un'operazione congiunta Usa-Iraq (Times).

Omonimie ricorrenti o piuttosto un'amnesia generale? La propaganda bellica non ha bisogno di scervellarsi per bluffare bene: sa quanto possono essere boccaloni media, agenzie e opinione pubblica, basta saperli controllare.

Già nel 1968 lo teorizzava Edward Luttwak (oggi frequente ospite tv) in "Colpo di stato: manuale pratico": «Le trasmissioni radio e televisive avranno lo scopo non già di fornire informazioni sulla situazione, bensì di controllarne gli sviluppi grazie al nostro monopolio sui media».

Leggi anche: http://www.prisonplanet.com/al-qaeda-chief-in-iraq-captured-killed-never-actually-existed-re-captured-now-killed-again.html.


Il ruolo dei vicini arabi dell'Iraq
di Ranj Alaaldin* - www.guardian.co.uk - 15 Aprile 2010
Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq

L’Iraq continua a essere danneggiato politicamente dalla spaccatura tra sunniti e sciiti. Nelle elezioni del mese scorso non è emerso nessun gruppo il cui messaggio superi il settarismo confessionale.

Questa spaccatura esiste anche esternamente, sottoforma di frattura tra il mondo arabo sunnita e l’Iran sciita, che si gioca sul suolo iracheno. Ma mentre il ruolo controproducente dell’Iran negli affari iracheni viene spesso rimarcato, l’altra faccia della medaglia riceve meno attenzione.

Da quando è stato rovesciato Saddam Hussein, nel 2003, l’Iran ha avuto un’influenza senza pari sull’Iraq e sulle sue questioni interne, ed è naturale che ciò sia avvenuto. Esso ha appoggiato storicamente le principali entità sciite che sono al governo, compreso il partito islamico Da'wa del Primo Ministro Nuri al-Maliki e il Consiglio Supremo Islamico Iracheno (ISCI).

Questi gruppi, insieme ai sadristi, si sono uniti e fusi per le prime elezioni nazionali del Paese nel 2005 per assicurarsi rapidamente la loro posizione di forza dominante in Iraq e, in pratica, consegnare l’Iraq all’Iran in un pacchetto regalo.

Tuttavia, questa confezione regalo sta iniziando a disfarsi, non ultimo per il fatto che, prima o poi, i protagonisti sciiti iracheni sostenuti dall’Iran si trasformeranno in attori sciiti indipendenti.

Questi gruppi riconoscono che l’etichetta iraniana li danneggia presso l'opinione pubblica irachena, e mentre Da'wa si è ricaratterizzato con successo come partito nazionalista in qualche modo indipendente dall’Iran, l’ISCI continua a soffrire alle elezioni.

Per il successo di Da'wa è stato cruciale il controllo del partito sull’ufficio del Primo Ministro, una piattaforma che gli ha dato la possibilità di portare a termine il suo rinnovamento, cosa alla quale l’ISCI penserà e che cercherà disperatamente di fare mentre pianifica il suo futuro politico.

Grazie al petrolio di cui dispone, l’Iraq è un paese ricco. Gruppi come Da'wa e ISCI, in quanto parte dell’élite dirigente che controlla le istituzioni e le risorse irachene, non hanno quindi più bisogno del denaro iraniano.

Non necessitano più delle armi iraniane dal momento che esiste un mercato altrove e, avendo il controllo sulle forze di sicurezza del Paese, non hanno più bisogno neanche del sostegno dell’Iran anche nel caso di una guerra civile contro una rivolta sunnita. Il sostegno iraniano sta, dunque, diventando superfluo.

E per quanto riguarda il ruolo svolto dai Paesi arabi? L’Iraq ha avviato una serie di accordi bilaterali con i suoi vicini arabi, e Stati quali la Giordania e l’Egitto hanno le loro ambasciate a Baghdad. Tuttavia, la grande assente è l’ambasciata dell’Arabia Saudita.

I sauditi devono ancora accettare la situazione oltreconfine. Diffidano della cultura democratica in Iraq, si lamentano della realtà dominante su tutti i fronti dei gruppi sciiti appoggiati dall’Iran che controllano un Paese tanto ricco di risorse come l’Iraq, e sono preoccupati dalla possibilità che l’Iraq abbia il potenziale per sorpassarli diventando il primo esportatore mondiale di petrolio.

L’Arabia Saudita, dunque, farà quello che può per garantire che l’instabilità prevalga in Iraq (anche facilitando e sostenendo attacchi terroristici), per timore che l’Iraq e i suoi gruppi sciiti diventino ancora più forti di quanto non lo siano già ora.

Se per i sauditi l’obiettivo è principalmente quello di contrastare l’influenza iraniana, allora questa opportunità ce l’hanno sotto il naso, poiché gli attori sciiti dell’Iraq vogliono avere forti relazioni con l’Arabia Saudita. E delle incrinature stanno iniziando ad apparire anche sul fronte sciita (appoggiato dall’Iran), una volta unito.

Un evento significativo è stato la divisione del partito Da'wa dalla coalizione sciita, l’Iraqi National Alliance, con grande costernazione da parte di Tehran. Ma invece di sfruttare questa divisione e assestare il colpo all’Iran, i sauditi hanno scelto di silurare un’alleanza di Maliki con Ahmed Abu Risha, leader di spicco sunnita sostenuto dal mondo arabo, del Fronte del Risveglio di Anbar, che avrebbe potuto ulteriormente allontanare Maliki dall’orbita iraniana.

Ugualmente significativa l’opportunità presentata dall’INM di Allawi (appoggiato dall’Arabia Saudita). Con 91 seggi in Parlamento, costituisce un partner alternativo sia per i kurdi che per gli sciiti. Alle scorse elezioni, non c’era un partito serio sostenuto dal mondo arabo sunnita con cui formare una coalizione, ma il successo di Allawi indica che ISCI e Da'wa ora possono guardare oltre l’Iran.

Tutto questo sarà possibile solo quando i sauditi inizieranno a impegnarsi seriamente. Come minimo, questo significa creare un consolato a Baghdad, introdurre voli aerei tra Baghdad e Riyadh, una cooperazione economica, e scambi culturali.

Più torbido, ma reso più facile attraverso un impegno di questo tipo, sarebbe immettere denaro saudita all’interno di questi gruppi come contromisura a qualsiasi sostegno finanziario iraniano – potenziale e significativo – che essi possano ottenere. Nel frattempo, un accesso alle varie reti dei servizi segreti di cui dispongono potrebbe risultare un beneficio aggiuntivo.

I sauditi dovrebbero prendere nota delle misure adottate dal Bahrain, guidato dai sunniti ma con una popolazione a maggioranza sciita. Il Bahrain partecipa con gli attori sciiti dell’Iraq, invia migliaia di pellegrini sciiti in Iraq, ha voli regolari per Baghdad, e sta per istituire un consolato a Najaf.

In quanto Stato situato su una piccola isola, che ha i suoi problemi con Tehran, il Bahrain non può fare più di tanto senza sporcarsi le mani. Sta alla potenza araba dell’Arabia Saudita fare da guida, se quello che vuole veramente è uno Stato iracheno dominato dagli arabi libero dal controllo iraniano.

Gli attori sciiti dell’Iraq si stanno lentamente allontanando dall’orbita dell’influenza iraniana, ma sarà l’Arabia Saudita e spingerceli di nuovo dentro – a meno che non riesca a vincere la partita. Come ha scritto su Twitter Khalid al-Khalifa, accattivante e carismatico Ministro degli Esteri del Bahrain, i vicini dell’Iraq dovrebbero tendere la mano all’Iraq, e non metterci le mani, il che rivela il ruolo dell’Arabia Saudita nel Paese quanto quello dell’Iran.


*Ranj Alaaldin è analista specializzato in questioni di politica e di sicurezza del Medio Oriente presso la London School of Economics and Political Science.