E inoltre anche un pezzo firmato da Pier Paolo Pasolini, di un'attualità impressionante.
Il Medioevo che ci attende: la profezia di Jacques Attali
di Anais Ginori - La Repubblica - 9 Aprile 2010
Sono le classi dirigenti ad alimentare l´incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere. Nel suo ultimo libro l´economista francese fornisce alcune ricette contro la crisi. L´impossibilità dell´Occidente di mantenere questo tenore di vita senza indebitarsi Dovremo adattarci alla mancanza di solidarietà e alla necessità di cavarcela da soli. Intervista a Jacques Attali.
Dopo la crisi, le crisi. «Nel prossimo decennio il mondo attraverserà cambiamenti radicali, solo in parte collegati all´attuale situazione finanziaria. Ciascuno di noi sarà minacciato e dovrà trovare gli strumenti per salvarsi». Nel suo ultimo libro (Sopravvivere alle crisi, Fazi Editore), Jacques Attali profetizza un mondo sempre più precario e ostile, nel quale le classi dirigenti sono incapaci di pensare nel lungo periodo e anzi alimentano l´incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere.
«Dovremo abituarci a cavarcela da soli, come le avanguardie del passato» spiega l´economista, ex consigliere di François Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo.
Attali è uno degli intellettuali francesi più eclettici, capace di pubblicare opere su Karl Marx o sull´amore, ed è uno scrittore seriale. Si vanta di avere decine di libri già pronti nel cassetto, firma rubriche su molti giornali, colleziona consulenze e si occupa di Planet Finance, una Ong specializzata in progetti di microcredito. Instancabile, sempre di corsa. Come il mondo che prefigura.
Quali altre crisi ci aspettano?
«La crisi finanziaria del 2008 non è affatto terminata, nonostante i proclami trionfanti di qualche politico e banchiere. Quelli che gli anglosassoni definiscono "germogli" di ripresa sono, a mio avviso, soltanto segnali passeggeri. Molte banche continuano a essere insolventi, i prodotti speculativi più rischiosi si accumulano come e più di prima, i disavanzi pubblici sono ormai fuori controllo, il livello della produzione e il valore dei patrimoni restano in grandissima parte inferiori a quelli precedenti la crisi. La causa più profonda di questa crisi è l´impossibilità per l´Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi: su questo non è stata avviata un´adeguata riflessione».
Il peggio deve ancora venire?
«Nel 2020 la popolazione mondiale passerà da 7 a 8 miliardi e la classe media mondiale rappresenterà circa la metà degli individui che vorranno allinearsi al modello occidentale. Questo comporterà nuovi punti di criticità a livello ecologico. Nello stesso periodo assisteremo a progressi scientifici considerevoli, come le nanotecnologie, le neuroscienze, le biotecnologie. Ogni nuova scoperta scatenerà problemi etici e di possibili utilizzi secondari per scopi criminali o militari».
Tornando all´economia, dove finisce il tunnel?
«La congiuntura economica ci riserverà altre brutte sorprese. Personalmente, temo il ritorno dell´iperinflazione scatenata all´enorme liquidità creata dalle Banche centrali, la possibile esplosione della "bolla cinese" per colpa degli eccessivi crediti concessi e della sovraccapacità produttiva della Repubblica Popolare. Il sistema pubblico della sanità e dell´istruzione, per come l´abbiamo conosciuto finora, diventerà insostenibile per gli Stati. Il nostro stile di vita, sempre più precario e meno solidale. Chi vorrà sopravvivere dovrà accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno. Andiamo verso un mondo che assomiglia al Medioevo».
Non le sembra esagerato parlare di un ritorno al passato remoto?
«Come nel Quattrocento, il potere sarà concentrato in alcune città e alcune corporazioni. Già oggi 40 città-regioni producono due terzi della ricchezza del mondo e sono il luogo dove si realizza il 90 per cento delle innovazioni. In mancanza di una vera organizzazione globale, si diffonderanno epidemie e catastrofi naturali climatiche ed ecologiche. Ci saranno sempre più zone "fuori controllo", dove imperverseranno organizzazioni criminali e bande armate. I ricchi dovranno rifugiarsi in moderne fortezze».
E tutto questo sarebbe dovuto anche all´incapacità delle classi dirigenti e al fallimento del sistema di governance mondiale?
«Di fronte a una crisi, qualunque essa sia, la maggioranza degli individui comincia con il negare la realtà. Purtroppo questo meccanismo si applica perfettamente anche alle imprese e alle nazioni. Finora i governi hanno adottato una strategia che fa finanziare dai futuri contribuenti gli errori dei banchieri di ieri e i bonus di quelli di oggi».
Lei ha presieduto la Commissione per la liberazione della crescita voluta dal governo Sarkozy, ma le riforme che aveva proposto sono state disattese. Anche nel caso della Francia manca il coraggio di preparare il futuro?
«Quello che più mi colpisce è che molti potenti vorrebbero tornare rapidamente al vecchio ordine, anche se è quello che ha scatenato la crisi finanziaria. Nell´attuale modello economico l´impresa è passata al servizio del capitale, a sua volta manipolato dalle leggi della Borsa. Le cose stanno così dal 1975, data dell´invenzione delle stock-options negli Stati Uniti».
Non è una visione troppo apocalittica?
«Non bisogna farsi prendere né dall´ottimismo né dal pessimismo. Negli ultimi 650 milioni di anni, la vita è praticamente scomparsa sette volte dalla superficie della Terra. Oggi rischiamo che succeda un´altra volta. Ma qualsiasi minaccia è anche un´opportunità. Quando si arriva a un punto di rottura siamo costretti a riconsiderare il nostro posto nel mondo e a cercare un´etica dei comportamenti completamente nuova. Sopravviverà di noi solo chi avrà fiducia in se stesso, chi non si rassegnerà. Ho affrontato parecchie crisi. E per questo ho pensato anche di raccogliere le mie lezioni di sopravvivenza».
Lei suggerisce il dono dell´ubiquità: cosa significa?
«I miei principi sono sette, da attuare nell´ordine. Innanzitutto bisogna partire dal rispetto di sé, e quindi prendere consapevolezza della propria persona, e dall´intensità, ovvero vivere pienamente sapendo proiettarsi nel lungo periodo. Ci sono poi l´empatia, indispensabile per capire gli altri, avversari o potenziali alleati, la resilienza che ci permette di costruire le nostre difese e la creatività per trasformare le minacce e gli attacchi in opportunità. Se questi cinque principi non funzionano bisogna cambiare radicalmente, coltivando l´ambiguità o persino l´ubiquità, imparando a essere mobili nella propria identità».
Ci lascia insomma un po´ di speranza…
«L´ultima lezione riguarda il pensiero rivoluzionario. In condizioni estreme, bisogna osare fino anche a violare le regole del gioco. Nessun organismo può sopravvivere senza operare una rivoluzione al suo interno. Ma tutto dovrà sempre partire dall´individuo. Come diceva Mahatma Gandhi: "Siate voi stessi il cambiamento che volete realizzare nel mondo"».
Ha appena pubblicato il primo "iperlibro", un volume cartaceo integrato da contributi audio e video. È questo il futuro della lettura?
«Non credo alla morte dei libri tradizionali. Ma è evidente che i giovani crescono imparando a leggere su uno schermo. Per loro sarà normale sfogliare una tavoletta elettronica come noi sfogliamo un libro. Anche quella dell´editoria è una crisi che si supera solo con il cambiamento».
L'economia della felicità
di Helena Norberg-Hodge* - www.countercurrents.org - 26 Febbraio 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Elisa Nichelli
Trentatré anni fa osservavo come una cultura, che fino a quel momento era stata isolata dal resto del mondo, venisse improvvisamente spalancata allo sviluppo economico.
Vedere l'impatto del mondo moderno su una cultura antica mi ha illuminato su come la globalizzazione economica sia in grado di generare sensazioni di inadeguatezza e di inferiorità, specialmente nei giovani, e come queste pressioni psicologiche siano d'aiuto nella diffusione della cultura consumistica. Fin da allora ho continuato a promuovere la ricostruzione delle comunità e delle economie locali come fondamento dell'"Economia della Felicità".
Quando sono arrivata in Ladakh, una regione sull'altopiano tibetano detta anche "piccolo Tibet", questa era ancora in larga parte non alterata da colonialismo ed economia globale. Per ragioni politiche la regione era rimasta isolata per molti secoli, sia geograficamente che culturalmente.
Dopo svariati anni di convivenza con gli abitanti del Ladakh, avevo la sensazione che fossero il popolo più appagato e felice in cui mi fossi mai imbattuta. Il loro senso di autostima era profondo e solido, sorrisi e risate erano i loro compagni fedeli.
Poi, nel 1975, il governo indiano impose improvvisamente l'apertura da parte del Ladakh all'importazione di cibo e beni di consumo, al turismo e ai media globali, all'educaizone occidentale ed altri orpelli tipici del processo di "sviluppo".
I media hanno diffuso impressioni romanzate dell'occidente, mentre le pubblicità e gli incontri fugaci con i turisti hanno avuto un impatto immediato e profondo sugli abitanti della regione. Le immagini pulite e accattivanti della cultura consumistica hanno creato l'illusione che le persone al di fuori del Ladakh godessero di ricchezze e agi infiniti.
Per contrasto, lavorare nei campi e ricavarne ciò che è necessario per ciascuno sembrava antiquato e primitivo. Improvvisamente, qualunque cosa, a partire dal cibo, i vestiti, le case, fino alla lingua, sembrava inferiore. I giovani più di altri sono stati colpiti da questo cambiamento, cedendo rapidamente ad un senso di insicurezza e di rifiuto verso se stessi.
L'uso di una pericolosa crema per schiarire la pelle chiamata "Fair and Lovely" divenne estremamente diffuso, andando a simboleggiare il nuovo bisogno di imitare modelli lontani - occidentale, civilizzato, biondo - proposti dai media.
Nelle ultime tre decadi ho osservato questo processo in numerose culture sparse per il mondo e ho scoperto che siamo tutti vittime delle stesse pressioni psicologiche. Di fatto, in ogni paese industrializzato, inclusi Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Francia e Giappone, abbiamo quella che viene descritta come un'epidemia di depressione.
Si stima che in Giappone un milione di giovani si rifiuti di lasciare la propria camera da letto - a volte per decenni - in un fenomeno noto come "Hikikomori" [letteralmente "stare in disparte", "isolarsi", ndt].
Negli Stati Uniti, una frazione crescente di giovani ragazze sono così profondamente insicure del proprio aspetto che cadono nell'anorressia e nella bulimia, o ricorrono a costosi interventi di chirurgia estetica.
Perché succede tutto questo ? Troppo spesso questi segnali di crollo vengono visti come fossero "normali": diamo per scontato che la depressione sia una calamità universale, che i ragazzi siano per natura insicuri sul loro aspetto, che l'ingordigia, l'avidità e la competitività siano condizioni innate della natura umana.
Ciò che non prendiamo in considerazione sono i miliardi di dollari spesi dagli uomini d'affari con lo scopo di instillare, fin dall'età di due anni, la convinzione che il possesso di beni materiali possa assicurare alle persone l'amore e l'apprezzamento che bramano.
Mentre i media globali raggiungono le regioni più remote del pianeta, il messaggio che portano con sé è: "se vuoi essere guardato, ascoltato, apprezzato ed amato devi avere le scarpe da ginnastica giuste, i jeans più alla moda, i giochi e i gadget più recenti".
Ma la realtà è che il consumismo porta a competizioni e invidie sempre maggiori, rendendo i bambini più isolati, insicuri ed infelici, alimentando quindi un consumo ancora più frenetico in un vero e proprio circolo vizioso.
In questo modo la cultura del consumismo globale attinge alla necessità fondamentale dell'uomo, ovvero l'amore, e la trasforma in una bramosia insaziabile.
Oggi come oggi, un numero crescente di persone si sta rendendo conto del fatto che, a causa dei costi ambientali, un modello economico basato sul consumo senza fine è semplicemente insostenibile.
Ma siccome c'è molta meno consapevolezza dei costi sociali e psicologici della cultura dei consumi, la maggior parte delle persone credono che per ottenere i cambiamenti necessari a salvare l'ambiente occorrano grandi sacrifici.
Una volta capito che la crescita globale basata sul consumo di petrolio non è soltanto responsabile dei cambiamenti climatici o della crisi ambientale, ma comporta anche un aumento di stress, ansia e crollo sociale, allora diventa evidente che i passi necessari per curare il pianeta sono gli stessi che dobbiamo fare per curare noi stessi: in entrambi i casi si tratta di ridurre le dimensioni dell'economia - ovvero di localizzarne l'attività, piuttosto che continuare a globalizzarla.
La mia impressione, dopo aver intervistato persone provenienti da quattro continenti, è che la consapevolezza stia crescendo, e che abbia il potenziale per diffondersi a macchia d'olio.
La localizzazione dell'economia significa spostare le attività più vicino a casa, dando supporto alle realtà locali e alle piccole comunità anziché alle grandi corporazioni.
Invece di un'economia basata sullo sfruttamento del sud del mondo, su famiglie stressate e composte da almeno due lavoratori al nord, e su una manciata di miliardari sparsi qua e là, la localizzazione significa un divario inferiore tra ricchi e poveri, e rapporti più stretti tra produttori e consumatori.
Questo si traduce in una maggiore coesione sociale: uno studio recente ha dimostrato che chi acquista nei mercatini sostiene conversazioni dieci volte superiori a quelle delle persone che si recano nei supermercati.
La comunità è un ingrediente chiave per la felicità. Le ricerche confermano in modo pressoché universale che li sentimento di connessione con gli altri è un bisogno umano fondamentale. Le economie locali, basate sulla comunità, sono cruciali anche per il benessere dei nostri bambini, poiché forniscono loro modelli di vita e un senso di identità sano.
Studi recenti sull'infanzia rivelano l'importanza, nei primi anni di vita, di imparare il proprio ruolo in relazione ai genitori, ai fratelli e alla comunità in generale. Questi sono i veri modelli a cui rifarsi, non gli stereotipi artificiali che si possono rintracciare nei media.
Una profonda connessione con la natura è altrettanto fondamentale per il nostro benessere. Lo scrittore Richard Louv ha addirittura coniato l'espressione "nature deficit disorder" [letteralmente "disturbo da carenza di natura", ndt] per descrivere ciò che accade ai bambini privati del contatto con la natura.
I benefici terapeutici del contatto con il mondo naturale, nel frattempo, stanno diventando sempre più evidenti. Uno studio svolto di recente nel Regno Unito ha mostrato che il 90% delle persone che soffrono di depressione avvertono un aumento di autostima dopo una passeggiata in un parco.
In seguito ad una visita ad un centro commerciale, d'altro canto, il 44% delle persone percepisce una diminuzione di autostima, e il 22% si sente addirittura più depressa. Considerando che nell'ultimo anno sono state distribuite oltre 31 milioni di prescrizioni per antidepressivi, questo è un risultato cruciale.
Malgrado l'immensità della crisi che stiamo affrontando, convertirsi ad economie basate sulle comunità locali rappresenta una soluzione di grande potenza. Come ha affermato Kali Wendorf, direttore della rivista Kindred, "la via d'uscita è in realtà abbastanza semplice: spendere più tempo con gli altri, nella natura, in situazioni collettive, che ci diano un senso di comunità, come i mercatini ad esempio, o anche acquistare frutta e verdura nei negozi dietro l'angolo. Non significa tornare all'età della pietra. Vuol dire tornare alle fondamenta delle relazioni".
Gli sforzi verso economie localizzate stanno già prendendo piede nelle zone rurali di tutto il mondo, portando con sé una sensazione di benessere. Un giovane uomo che ha dato vita ad un giardino urbano a Detroit, una delle città statunitensi più appassite, ci ha detto "ho vissuto in questa comunità per oltre 35 anni, e da quando ho iniziato ad occuparmi di questo progetto sono venute a parlarmi persone che non avevo mai conosciuto prima. Questo ci ha rimesso in collegamento con le persone che ci sono vicine, rendendo la nostra comunità una realtà". Un altro giovane giardiniere di Detroit ha affermato: "Tutto sembra migliore quando c'è qualcosa che cresce".
Il riscaldamento globale e il prezzo del petrolio richiedono un cambiamento radicale delle nostre abitudini di vita. La decisione sta a noi.
Possiamo continuare lungo la strada della globalizzazione economica, che come minimo creerà ulteriore sofferenza umana e problemi ambientali, e come risvolto peggiore, minaccerà la nostra stessa sopravvivenza.
Oppure, grazie alla localizzazione, possiamo cominciare a ricostruire le nostre comunità ed economie locali, le basi per sostenibilità e felicità.
*Helena Norberg-Hodge è un'analista dell'impatto dell'economia globale sulle culture e sulle agricolture mondiali, nonché una pioniera del movimento di localizzazione.
Ha fondato e diretto l'International Society for Ecology and Culture (ISEC). Con base negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e sedi in Svezia, Germania, Australia e Ladakh, la missione dell'ISEC è di studiare le cause delle crisi sociali ed ambientali che stiamo attraversando, oltre a promuovere soluzioni più sostenibili ed eque sia al nord che al sud.
Le sue attività includono il progetto Ladakh, un programma a favore del cibo locale e quello per il passaggio da globale a locale. Helena è autrice di "Ancient Futures: Learning from Ladakh", testo basato sulla sua esperienza diretta sugli effetti dello sviluppo convenzionale in Ladakh.
"Ancient Futures" è stato definito dal London Times un "classico illuminante" e, oltre alla realizzazione di un film con lo stesso titolo, è stato tradotto in 42 lingue.
Una nuova edizione verrà pubblicata nel 2009 da Random House. È anche coautrice di "Bringing the Food Economy Home and From the Ground Up: Rethinking Industrial Agriculture".
Nel 1986 ha ricevuto il Right Livelihood Award [premio al corretto sostentamento, ndt], anche detto "premio Nobel alternativo", come riconoscimento per il suo lavoro in Ladakh.
P.P.P. Pasolini sulla cultura di massa
di Pier Paolo Pasolini - Il Corriere della Sera - 9 Dicembre 1973
Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro “cattivo” nelle periferie “buone” (viste come dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza più reali rapporti umani). Lamento retorico.
Se infatti ciò di cui nelle periferie si lamenta la mancanza ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche delle quali – appunto fino a pochi anni fa – era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere, addirittura miserabili.
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta.
Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole.
Oggi, al contrario, l’adesione a modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta.
Si può dunque affermare che la “tolleranza” dell’ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore repressione della storia umana. Come si è potuta esercitare una tale repressione?
Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema di informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale.
Ma la rivoluzione del sistema di informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali.
Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma” ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.
L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli Italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo.
Non c’è niente infatti di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e s’intende che vanno ancora a messa la Domenica: in macchina).
Gli Italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?
No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stai d’animo collettivi.
Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la culturae non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso porò del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i “figli di papà”, i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli.
Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimsi).
Nello stesso tempo, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello televisivo – che, essendo la sua stessa classe a creare, gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e infelice.
Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.
La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi.
È il luogo in cui si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.
Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore.
Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente nemmeno in grado di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di informazione e di comunicazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.