martedì 14 settembre 2010

Basilea 3, crisi e banche: che stress...

Ieri il Comitato di Basilea sulla vigilanza bancaria ha approvato il nuovo accordo, denominato "Basilea 3" e che dovrà avere il vaglio definitivo al G20 di novembre, in cui si prevedono maggiori requisiti patrimoniali richiesti alle banche.

In pratica le banche centrali vogliono che gli istituti di credito abbiano più capitale, meno strumenti finanziari rischiosi e meno indebitamento. La luna insomma...

Le nuove norme dovrebbero entrare in vigore dal 2013 e saranno poi effettivamente applicate solo nel 2018. Campa cavallo quindi, anche perchè c'è da scommettere che le banche nel frattempo opporranno un certo "ostruzionismo"...

Intanto è di oggi la buona notizia che il debito pubblico italiano a luglio è salito rispetto a giugno e ha toccato un nuovo record, 1.838,296 miliardi di euro. Lo dice il supplemento del Bollettino statistico della Banca d'Italia dedicato alla Finanza pubblica.
Il debito pubblico a luglio 2010 è cresciuto del 4,7% rispetto a luglio 2009 e del 4,3% rispetto a 1.761,229 miliardi di euro con i quali si era chiuso il 2009.

Ma, come dice la coppia Silvio&Giulio, va tutto bene madama la marchesa....


Il bluff delle nuove regole bancarie

di Marcello Foa - www.ilgiornale.it - 13 Settembre 2010

Ci siamo: a Basilea stanno per varare le nuove regole bancarie ed è già partito lo spin per dare l’impressione all’opinione pubblica che la lezione della grande crisi è stata imparata. Grandi analisi, titoli rassicuranti. Ma è un passo nella giusta direzione? Sono perplesso per questi motivi

1) La tempistica. In risposta a una crisi maturata negli anni 2000, ed esplosa nel bienno 2007-2008, le nuove norme entreranno in vigore il primo gennaio 2013 con un periodo di transizione destinato a concludersi nel 2018. Dov’è l’urgenza?

2) Le regole. Saranno inasprite le norme per le attività di trading, verrà aumentato il patrimonio, saranno creati dei cuscinetti per assorbire eventuali perdite. Ma non è contemplata la norma fondamentale ovvero la separazione tra banche d’affari e banche commerciali; dunque l’amiguità all’origine della crisi viene protratta.

3) I valori del capitalismo. Ovvero un sistema che offre l’opportunità di grandi profitti, ma contempla la possibilità del fallimento. Invece, con le nome di Basilea 3, come vengono chiamate in gergo, si sancisce, di fatto, il concetto di Too big to fail, troppo grandi per fallire: il sistema non vuole che le grandi banche possano uscire di scena e questo implica un aumento di fatto del loro potere, reale sui mercati e di condizionamento della società.

4) Le rigidità. Basilea 2 ha fallito perchè ha posto vincoli molto rigidi, ma già obsoleti. I mercati finanziari evolvono a una velocità impressionante e gli operatori escogitano nuovi prodotti finanziari, sempre più complessi in ambiti e con caratteristiche che le norme in vigore nemmeno contemplano.

Dunque nel 2018 norme così faticosamente elaborate saranno, con ogni probabilità, superate; nel frattempo però avranno messo in difficoltà tanti piccoli istituti, per i quali sarà complicato adeguarsi. in genere saranno ancor più burocratiche, ottuse, meccaniche le procedure per erogare prestiti, mutui o consigliare strategie di investimento.

Il risultato complessivo? Un rafforzamento delle grandi banche e dunque quello che di fatto già oggi un sistema bancario corporativo e tendenzialmente oligopolista; senza garantire una riduzione dei rischi sistemici.

Insomma, prevalgono i soliti noti.

O sbaglio?


Il vizietto delle banche. L'irresistibile tentazione di abbellire il bilancio

di Vittorio Malagutti - www.ilfattoquotidiano.it - 14 Settembre 2010

Più rischi per salvare i risultati semestrali. I banchieri fanno il lifting ai conti accantonando meno soldi per proteggersi dai debitorori inaffidabili

Evviva, evviva, la Borsa festeggia le banche a suon di rialzi. Almeno per un giorno, dimenticati i problemi del credito all’italiana, gli operatori hanno comprato a man bassa le azioni degli istituti nostrani, privilegiando proprio quelli che negli ultimi mesi erano stati più penalizzati, dalla Popolare di Milano a Unicredit al Banco Popolare. Stesso film sulle piazze estere, trainate dai titoli finanziari.

Euforia provvisoria

Tutta questa euforia, probabilmente effimera, si spiega con Basilea 3, le nuove regole sulla dotazione di capitale e la gestione dei rischi varate domenica nella città svizzera dai governatori di tutti i principali paesi del mondo. Regole meno stringenti di quel che si temeva da principio e soprattutto con tempi e modi di attuazione assai rilassati (addirittura sette, otto anni).

Di conseguenza, nel breve termine, i banchieri non saranno costretti a raccogliere nuove risorse sul mercato, faranno più utili e potranno distribuire ricchi dividendi ai loro soci.

Queste almeno sono le speranze degli speculatori di Borsa, forse destinate, e non sarebbe certo la prima volta, a tramontare nel giro di pochi giorni. Perché a badare ai numeri, e non agli scenari futuribili di Basilea 3, i bilanci spiegano con chiarezza che la gran botta della recessione non è stata ancora assorbita.

E i banchieri fanno quello che possono per indorare la pillola a investitori e analisti. Prendiamo le ultime relazioni semestrali, chiuse a giugno e presentate al mercato nelle settimane scorse. “Il sistema tiene” è la parola d’ordine lanciata dal quartier generale delle banche e prontamente raccolta da schiere di analisti.

A dir la verità, se si guarda all’ultima riga del conto economico, i risultati in calo rispetto al giugno del 2009 non mancano davvero: Unicredit, Monte dei Paschi e Popolare di Milano su tutti. Ma per molti istituti poteva andare a finire molto peggio se i banchieri non avessero aperto alcuni provvidenziali paracadute contabili.

Sorprese semestrali

Problema principale da risolvere: l’anno scorso e nei primi mesi del 2010 il calo costante del margine d’interesse (differenza tra gli interessi incassati sui prestiti e quelli pagati ai depositanti) era stato compensato dagli utili da trading gonfiati dai mercati finanziari in rialzo. Senonchè questi proventi, pari a centinaia di milioni di euro per le banche più grandi, si sono ridotti fino quasi a scomparire nel secondo trimestre dell’anno.

Che fare per tappare la falla e presentarsi in gran forma sul mercato? Basta inventarsi un bel lifting contabile. Molti analisti, per esempio, hanno notato che qualche istituto ha limato gli accantonamenti sui crediti a rischio, cioè i prestiti di cui si fatica a ottenere la restituzione. Le risorse risparmiate su questa voce vanno a ingrassare il conto economico.

Intesa e Unicredit, per esempio, hanno dato una bella sforbiciata. La banca guidata da Corrado Passera è scesa dai 1.892 milioni degli ultimi sei mesi del 2009 ai 1.552 milioni segnalati a giugno. Per Unicredit invece siamo passati da 4.232 a 3.507 milioni.

Eppure nel frattempo i crediti deteriorati di Intesa sono aumentati di quasi 400 milioni. E l’incremento sarebbe stato ancora maggiore se tra un semestre e l’altro la banca con il permesso della Vigilanza di Bankitalia, non avesse cambiato il criterio di classificazione dei mutui immobiliari riuscendo così a risparmiare oltre 40 milioni su questi specifici accantonamenti. Si può dire quindi che questi banchieri si sono presi qualche rischio in più pur di dare una mano al conto economico.

D’altra parte sia Intesa che Unicredit possono per metterselo visto che hanno messo da parte riserve che coprono oltre il 40 per cento dei loro crediti deteriorati.

Per altre banche di minore dimensione Carige, Banco Popolare, Popolare Milano,Veneto Banca,questo rapporto si trova a un livello inferiore al 30 per cento. Nessuna di queste banche ha però aumentato in modo sostanziale gli accantonamenti nel primo semestre del 2010.

Pur di salvare il conto economico

Ma non è solo questione di crediti deteriorati. Il Monte Paschi ha aumentato di quasi 20 miliardi le attività detenute per la negoziazione (in gran parte titoli di Stato) e questo ha avuto l’effetto di limitare il calo del margine d’interesse.

Sul fronte patrimoniale però questa operazione finanziaria ha provocato una riduzione dei mezzi propri di quasi 900 milioni. Molti analisti, e molti grandi investitori, non hanno apprezzato.

Poi c’è il BancoPopolare,che ha salvato il conto economico (esclusa la controllata Italease) con proventi per quasi 260 milioni, rivalutando i titoli emessi negli anni scorsi. Tutto bene. Tutto regolare.

Ma forse prima di cantar vittoria per la tenuta del sistema converrebbe capire fino a quando le banche riusciranno a salvarsi in corner con queste manovre.


I forzieri di Basilea3
di Angelo Miotto - Peacereporter - 13 Settembre 2010

Intervista al professor Emilio Barucci*, docente al Politecnico di Milano

"Eliminare l'incertezza". Il governatore della Banca centrale europea Jean Claude Trichet ha battuto su 'incertezza', parola chiave in tempo di crisi, per sostenere l'accordo Basilea3. Il nuovo regolmento è strumento necessario per evitare il ripetersi degli eccessi emersi nella crisi finanziaria, quando le banche si trovarono a dover ricorrere ai capitali pubblici per evitare il fallimento.

Il testo licenziato dai governatori delle banche centrali verrà adottato ufficialmente al prossimo G20 di novembre. I punti principali riguardano le riserve, e i cosidetti 'buffer', dei cuscinetti di capitale che dovranno essere accantonati in funzione di possibili 'rschi' del sistema.

E sui punti chiave dell'accordo restano le posizioni conflittuali di chi vede una opportunità - invocata nel bel mezzo della crisi - di costruire degli argini alti e forti per evitare che il rischio provochi il default e chi, invece, legge i provvedimenti contenuti nelle regole di slavguardia di Basilea3 come un impedimento alla ripresa, fragile, con la possibilità di indebolire il settore bancario, bloccando così il flusso del denaro verso l'economia, le imprese.

Per questo le dichiarazioni ufficiali che vengono dal Financial stability board,che ha impresso uno potente spinta per l'accordo, sono incentrate su questo argomento: "Le banche italiane saranno in grado di muoversi verso livelli patrimoniali più elevati con gradualità - ha detto il governatore Mario Draghi - assicurando al tempo stesso il sostegno alle imprese e all'economia".

Le associazioni confindustriali sono pessimiste, mentre le nuove regole - che troveranno graduale applicazione in un lasso di tempo assai lungo, dal 2013 e fino al 2020 - hanno trovato una calda accoglienza nei listini di borsa italiani.

Basilea3 è il tentativo di riscrivere le regole riguardo a un punto cruciale della crisi finanziaria, il comportamento degli intermediari. Si cerca di intervenire su quanto capitale le banche debbano detenere a fronte delle attività che svolgono. La crisi finanziaria ha mostrato che il capitale che avevano era insufficiente per affrontare la cirsi.

Detto altrimenti, le banche erano poco solide. La direzione in cui si va è quella di chiedere più capitale e questo vorrà dire che gli istituti di credito saranno meno liberi di fare 'quello che volevano' e dovranno cercare capitale sul mercato. Faranno meno utili, dovranno emettere azioni o altri strumenti, quindi la torta degli utili sarà più piccola, perchè avranno più azionisti da soddisfare.

Nonostante la gradualità dell'applicazione delle nuove regole, le associazioni industriali e la banche hanno paventato la possibilità di intaccare una già fragile ripresa. E' un argomento 'corporativo'?

Le banche si sono difese in tutta Europa dicendo che con questi requisiti o aumentano il capitale proprio o diminuiscono le attività che svolgono. E hanno detto che potrebbero diminuire il finanziamento all'economia reale, quindi alle imprese e ai risparmiatori. Questo approccio, questa difesa del sistema bancario, era prevedibile. Perché si sta scontrando la volontà di rendere le banche più robuste e più stabili, mentre le banche vogliono essere completamente libere.

La crisi finanziaria ha mostrato che c'è un contrasto fra la stabilità del sistema e la capacità delle banche a svolgere attività ad ampio spettro. I governatori delle banche centrali hanno detto che quello che è successo nel 2007 dimostra che ci dobbiamo dotare di strumenti più forti per impedire una prossima crisi.

La difesa delle banche, secondo me, è ingiustificata. Molti studi dicono che queste regole avranno una modesta ricaduta sul fatto che non vi sia la capacità di finanziare l'economia.

Esiste un problema di competitività fra banche europee e il sistema statunitense?

Le banche europee sostengono che le banche Usa avevano meno attività dirette all'economia reale e che in Basilea3 ci sono regole penalizzanti che dovrebbero interessare soprattutto le banche statunitensi, perché quelle italiane ed europee hanno sempre avuto un occhio di riguardo all'economia. Non credo che ci sia un problema di concorrenza, ma è chiaro che un ridisegno delle regole così profondo ci porterà a banche che torneranno a fare il loro mestiere, invece di fare finanza.

Ha letto le regole. Giudizio positivo o negativo?

Se le cifre sono quelle riportate sui giornali, io dico positivo. All'inizio le cifre che giravano erano troppo penalizzanti. Ora siamo di fronte a misure forti, ma non eccessivamente penalizzanti.

Le regole di Basilea3 come incideranno sui prodotti 'derivati'?

Si è scelta una strada per cui molti titoli derivati scambiati in mercati regolamentati vengono penalizzati, perché le banche saranno meno incentivate a tenerli nel loro portafoglio. Al posto di un divieto, si è scelta la strada di dare incentivi alle banche perché non li usino in maniera sconsiderata. Bisognerà vedere se questi incentivi raggiungeranno il loro scopo o meno. Ma questa era l'unica strada che si poteva battere.

* Emilio Barucci è docente di finanza matematica al Politecnico di Milano e redattore del sito nelMerito.com.



Ecco i dati che confermano il futuro nero del mercato azionario
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 10 Settembre 2010

Spiace essere ritenuti profeti di sventura ma quando la realtà è testardamente palese, appare ineluttabile. Nell'articolo di ieri mettevamo, infatti, in guardia dal fatto che Anglo Irish Bank, l'istituto irlandese semi-nazionalizzato, potesse divenire l'agnello sacrificale del governo di Dublino per evitare che la nuova ondata di crisi bancaria e di debito colpisca mortalmente il paese: ieri, puntuale, è giunto l'annuncio della break-up dell'istituto, una parcellizzazione che vedrà di fatto la banca ridotta all'osso e alcuni rami di attività annullati.

Brian Lenihan, ministro delle Finanze irlandese, ha dichiarato che l'istituto sarà spaccato in due, una deposit bank sana e una bad bank che dovrebbe vendere assets e chiudere posizioni e operazioni: «Per recuperare la reputazione del sistema finanziario irlandese è essenziale porre fine al problema rappresentato da Anglo Irish Bank», operazione di cui, però, Lenihan non ha quantificato i costi.

L'Ue ha già definito «positiva» la decisione irlandese mentre i cds di Anglo Irish Bank sono schizzati di72 punti base a quota 785 ieri mattina, chiaro segnale che il governo di Dublino potrebbe sfuggire dai debiti della banca in ossequi alla politica di appeasement verso l'opinione pubblica: di fatto una replica di quanto fatto dal governo islandese nei confronti delle tre cosiddette "viking raiders".

La mossa, obbligata, è giunta dopo che il rendimento del bond decennale irlandese è salito sopra il 6 per cento per la prima volta dal lancio dell'euro: lo spread con i bund tedeschi è salito al record di 379 punti base.

Ma la situazione è più o meno simile, a livello di sofferenze, per tutti i paesi dei cosiddetti Piigs: i cds di Portogallo, Spagna, Italia ma anche Belgio (sempre alle prese con l'ingovernabilità) hanno continuato a salire questa settimana e la cosiddetta "stress gauge" di Markit registra livelli più alti di quelli prezzati nel pieno della crisi, ovvero prima del piano di salvataggio da 440 miliardi di euro della Bce.

Joachim Fels, economista capo a Morgan Stanley, ha dichiarato che «le sofferenze hanno toccato un punto per il quale uno o più governi potrebbero dover a breve mettere mano a un meccanismo di salvataggio.

Infatti, né la crisi del debito sovrano europeo né quella del settore bancario sono state risolte e, anzi, continuano mutualmente a rafforzarsi l'una con l'altra. Se a questo uniamo che gli stress tests hanno fatto tutto tranne che rafforzare la fiducia, il quadro pare completo».

Una situazione che comincia a far traballare pesantemente il già non granitico europeismo degli irlandesi. In un fondo pubblicato dall'Irish Times, Fintan O'Toole, a fronte del dei costi di salvataggio già saliti a 25 miliardi di euro, poneva la seguente domanda: «La scelta ora è drastica: dobbiamo essere "buoni europei" al costo di distruggere la nostra società o dobbiamo diventare "cattivi europei", perdendo la fiducia dei nostri partner europei ma salvare noi stessi? Si arriva ad un punto di una crisi esistenziale in cui anche i paesi più mansueti devono porre i propri vitali interessi nazionali prima del resto. Noi siamo giunti a quel punto».

Per Alessandro Capuano, managing director di IgMarkets Italia, società leader nel settore dei cfd, contratti per differenza su indici, forex e commodities, la questione irlandese

«è seria ma nettamente diversa da quella greca, per più motivi anche se in effetti questo progetto bad bank ricorda molto Alitalia, ovvero scaricare i debiti sui contribuenti. Dublino ha infatti prospettive di recupero che Atene non ha, certo pagherà duramente l'austerity fiscale ma ricordiamoci che la Grecia è un paese in cui solo sei cittadini dichiaravano più di un milione di euro. Certo, il sistema finanziario irlandese è massacrato ma ponendo sul piatto le emergenze attuale, ritengo che l'intervento dell'Ue e il controllo dei regolatori rendano il rischio finanziario sistemico minore rispetto a quello del debito sovrano.

Quello è il vero rischio, anche perché, se non è quest'anno sarà il prossimo, la Grecia dovrà andare in default. Fino ad oggi il problema è stato politico, visto che in base a un ragionamento prettamente economico Atene, in maggio, sarebbe andata tranquillamente in default e per chi aveva in mano quei titoli avremmo detto "pazienza".

Il guaio non è il default in sé: l'Argentina, la Russia, il Brasile sono andati in default e sono ancora lì, la Grecia invece è all'interno del contesto euro, questo rende imprevedibile l'effetto che un default sovrano potrà avere. Detto questo, il default greco è ineluttabile: al di là del rapporto debito/Pil alto, il dato grave è la raccolta fiscale insufficiente per un piano di risanamento serio».

Ma non solo l'Irlanda pare giunta al cosiddetto "punto di non ritorno". Molti paesi dell'Europa continentale, ma soprattutto dell'Est, rischiano di pagare infatti a caro prezzo la quotazione record del franco svizzero, giunto mercoledì al massimo di 1,2801 sull'euro. Le banche che hanno prestato denaro ai propri clienti denominando questi prestiti in franchi, quindi, rischiano di soffrire: e non poco.

Prima del 2008, i prestiti in franchi svizzeri erano molto in voga poiché gli istituti gli promuovevano a spron battuto giudicando la moneta elvetica più stabile e prevedibile negli andamenti rispetto a monete locali dell'Est o allo stesso euro.

Ma ora, con l'economia svizzera cresciuta dell'1 per cento nel primo trimestre e surplus commerciale da record, il franco si sta apprezzando molto velocemente e, dopo i massicci acquisti di euro dei mesi scorsi, la Banca centrale svizzera non sembra intenzionata ad intervenire più per bloccare l'ascesa.

La quale sta creando guai seri ai cittadini dei paesi dell'Europa centrale e dell'Est, i cui salari hanno conosciuto una netta diminuzione in termini reali e le cui monete sono crollate contro il franco, per ripagare i loro prestiti.

Ungheria e Polonia hanno la maggior parte dei loro mutui denominati in franchi svizzeri ma Varsavia non ha esperienze di recessioni dalla crisi cominciata nel 2007: per questo, «i problemi sono seri per l'Ungheria, più che per la Polonia», ha dichiarato Bartosz Pawlowski, analista strategico per i mercati emergenti a BNP Paribas, secondo cui «i rischi anche per il settore finanziario sono significativi, sia per l'ipotesi di svalutazione delle valute regionali sia per un rischio di ulteriore apprezzamento del franco».

Il fiorino ungherese ha toccato un record negativo verso il franco mercoledì ma nonostante questo il regolatore finanziario nazionale ha dichiarato che non ci sono ragioni per interventi specifici.

L'Ungheria, nell'area, è il paese più esposto ai prestiti denominati in franchi, moneta che rappresenta il 39 per cento dei prestiti al settore privato e il 60 per cento del totale dei mutui, stando ai calcoli di Simon Quijano-Evans, analista presso la Cheuvreux EEMEA.

Per quanto riguarda la Polonia, il paese registra il 22 per cento di prestiti al settore privato denominato in franchi e il 60 per cento dei mutui. Nell'eurozona, le banche austriache forniscono il 40 per cento del credito in franchi svizzeri, parzialmente a persone che abitano nell'area ovest del paese e che lavorano in Svizzera.

Il rischio di non-performing loans, quindi, torna alto, soprattutto a fronte del rafforzamento del franco e del rischio correlato del Libor del franco. Per Alessandro Capuano, quello rappresentato dal franco svizzero è un doppio indicatore: «Prima cosa, il rischio sistemico per quei prestiti e mutui denominati in franchi esiste, può essere un problema ma il problema è più generale.

Anche in giorni di buone contrattazioni per le Borse, come ieri, continuiamo a vedere franco da record e oro altissimo: questa costante componente negativa mi fa dire che poco è cambiato sui mercati a livello di fiducia.

Certo, i fondi possono speculare sul franco in attesa di eventuali mosse della Banca Centrale svizzera ma sull'oro, cosa fanno se non cercare un bene rifugio dall'instabilità? Chi vede nero per il futuro dei mercati e dell'azionario, trova conferme in questi dati incontrovertibili. Quando vedrò le Borse chiudere a +3 e l'oro a -5, allora dirò che la tendenza è cambiata».

Gli stress test, in questo senso, certo non hanno sortito l'effetto sperato di tranquillizzare i mercati.

«E non avrebbe potuto che essere così, visto che la non credibilità degli stress test, paradossalmente, non è una cosa nuova, si sapeva da subito per il semplice fatto che non hanno simulato lo scenario di default di uno Stato, situazione ora contingente. Per questo il mercato picchia sui finanziari, titoli dai quali per ora è meglio tenersi alla larga».

Perché, quindi, ci si dovrebbe affidare o scegliere come opzione il mercato dei cfd?

«Per una semplice fatto, correlato alla situazione che ho appena delineato. Con noi è più facile operare su valute sia per traders che per investitori ma soprattutto sulle commodities, in primis quei beni rifugio tanto richiesti. Con noi operare sull'oro è semplice e rapido, si apre la posizione e si opera mentre se andate in banche chiedendo di mettere oro nel vostro portafoglio di investimenti cosa avete? Etf, magari o comunque operazioni marginali e con difficoltà che con i cfd non si riscontrano. Siamo in un periodo di disaffezione verso l'azionario, si va - per usare un termine poco ortodosso, più sull'esotico e per questo vediamo che le valute dei cosidetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina ), i mercati emergenti, entrano sempre di più nei portafogli d'investimento. Queste valute non sono più periferiche ma rappresentano un tema dominante sui mercati, le faccio un esempio che riguardo la mia azienda. Fino a poco fa il real brasiliano non era richiesto, non aveva clienti mentre ora c'è richiesta: certo, non siamo al livello dell'euro/dollaro ma chi vuole operare in Brasile, comprare azioni deve avere i real. Il rischio palese che una volta avrebbe tenuto lontani gli investitori, ora è stato soppiantato dalla consapevolezza che i paesi Bric sono già il traino dell'economia globale».

Insomma, come vedete, qualche opportunità esiste anche in tempo di crisi. Ma ricordate - e IGMarkets, azienda serissima, lo ricorda in ogni suo prospetto ma anche sui banner e negli spot pubblicitari - che con i cfd «le perdite possono superare, anche di molto, il capitale investito». Quindi, sempre stop loss e cautela nello scegliere gli operatori.


Fortis: il maxipiano di Obama affossa gli Usa e fa bene alla Cina

di Pietro Vernizzi - www.ilsussidiario.net - 8 Settembre 2010

Il piano di Barack Obama, che prevede di investire 50 miliardi di dollari in opere pubbliche come antidoto alla recessione, non farà altro che peggiorare il debito pubblico americano, la cui situazione è già di per sé disastrosa. Senza riuscire a restituire vitalità all’economia Usa, in quanto i finanziamenti saranno pari solo allo 0,1% del Pil annuo degli Stati Uniti.

Lo sostiene Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison e professore di Economia industriale all’Università cattolica, secondo cui al contrario il rilancio dell’economia mondiale può venire da una politica Ue in grado di creare una maggiore integrazione tra l’Europa e la Cina.

Professor Fortis, come valuta il piano di investimenti pubblici voluto dal presidente Obama?

In un momento come quello attuale in cui l’indebitamento dei consumatori americani è alle stelle, il tentativo della Casa bianca è di far ripartire la domanda interna attraverso la leva dei finanziamenti federali.

Il debito delle famiglie Usa al 31 marzo 2010 è infatti pari al 119% del Pil, contro il 44% dell’Italia, il 53% della Francia e il 63% della Germania. E questo è il risultato di una politica sconsiderata, che ha portato a regalare ai disoccupati finanziamenti da 400mila dollari per comprarsi casa, che presto si sono trasformati in mutui tossici portandoli a indebitarsi oltre le loro possibilità.

La strada percorsa da Obama è dunque una possibile soluzione?

Non credo che sarà sufficiente a rilanciare l’economia. I suoi 50 miliardi di dollari in sei anni sono infatti meno dello 0,1% del Pil Usa, pari a 13.500 miliardi di dollari l’anno. Ma soprattutto vanno a incrementare il debito federale, che è a quota 13.442 miliardi di dollari, cui si aggiungono altri 2.454 miliardi di dollari di passivo nei bilanci di Stati e municipalità (l’equivalente dei nostri Comuni, ndr). Mi domando quindi che ne sarà dei conti pubblici Usa. In alcune città, come Kansas City, sono state chiuse le scuole pubbliche perché non ci sono più i soldi per pagare gli insegnanti.

La situazione è critica: il piano di Obama può avere un certo respiro, ma le spese per gli investimenti incidono sul bilancio e potrebbero peggiorare il quadro finanziario disastroso in cui si trova la nazione. Tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 quella degli Usa è stata infatti una crescita a debito, e nel futuro del Paese vedo il rischio di un declino che sarà speculare alla crescita della Cina.

E l’Europa seguirà il declino degli Usa?

Da noi la situazione è completamente diversa, soprattutto in Italia, Francia e Germania dove l’indebitamento delle famiglie è molto basso (a differenza che in Gran Bretagna, dove è pari al 101% del Pil, e in Spagna, dove è all’86%). Questo compensa il debito pubblico dell’Italia, il cui indebitamento nell’ultimo anno è stato addirittura più basso che in Germania: in un certo senso siamo diventati tedeschi anche noi...

Per non parlare del fatto che Italia e Germania sono due dei cinque Paesi al mondo con il maggiore surplus industriale (insieme a Cina, Giappone e Corea del Sud). Ma soprattutto, l’Europa ha un punto di forza che potrebbe farne la guida dell’economia mondiale.

Qual è questo punto di forza?

Le nostre riserve auree sono ancora intatte (a differenza dell’oro Usa di Fort Knox). E se solo l’Ue riuscisse ad adottare una politica davvero comune, potrebbe rilanciare l’economia dei Paesi membri attraendo gli investimenti cinesi. Barroso ha annunciato l’intenzione di emettere degli eurobond destinati agli investimenti infrastrutturali. E secondo Quadrio Curzio le risorse auree dell'Ue potrebbero essere utilizzate per garantire gli eurobond.

E il governo italiano che cosa può fare?

Fare ripartire la domanda interna è molto difficile, perché il mercato italiano è già saturo. E d’altra parte il modello tedesco è irraggiungibile, perché in Italia non abbiamo i grandi gruppi industriali della Germania. Ma al di là delle differenze, né il governo italiano né quello tedesco possono far crescere il Pil fino al 2%: già prima della crisi economica la crescita era ferma allo 0,5%.

Quale può essere quindi la via d’uscita?

Una maggiore integrazione tra Ue e Cina, con una Cina che sappia non solo produrre ma anche consumare, e un’Europa che sappia cogliere l’opportunità legata a un bacino 1 miliardo e 300 milioni di consumatori, in grado di assorbire la produzione e l’export delle industrie italiane e tedesche.


I dati e la crisi Usa bocciano la "ripresina" dell'Italia

di Ugo Bertone - www.ilsussidiario.net - 10 Settembre 2010

Ma quanto è difficile, di questi tempi, navigare a vista nel mare dell’economia globale. Nemmeno il tempo di digerire le speranze di ripresa, rilanciate dal rapporto Ocse di giugno, ed ecco nuovi segnali di rallentamento, a conforto delle tesi di Nouriel Roubini, l’economista Cassandra che dà per scontato il “double dip”, cioè un nuovo rallentamento dell’economia mondiale dopo la boccata d’ossigeno vissuto da fine 2009 a metà anno.

Quel rimbalzo, è la diagnosi dell’economista, è stata la combinazione della ricostituzione delle scorte e degli incentivi messi in opera dagli Usa e da altri Paesi.

Ora, però, i magazzini tornano ad essere pieni mentre si esauriscono gli sgravi fiscali americani. Pure l’effetto Cina, la vera locomotiva del pianeta, sembra destinato a rallentare. Pechino vuole evitare l’impennata dell’inflazione, spinta dall’aumento del prezzo degli alimentari e dal boom del mattone.

E una momentanea stretta cinese, dicono gli esperti, non potrà che avere un impatto immediato sull’economia tedesca, la grande beneficiaria dell’aumento dei consumi e degli investimenti del made in China.

Inoltre, sull’Europa, pesano tre incognite: a) la politica di rigore fiscale nell’eurozona, che riduce il potere d’acquisto dei consumatori; b) l’approssimarsi di una stagione ad alto rischio per il debito pubblico dei Paesi del Sud Europa. Tra settembre e novembre, per limitarci all’Italia, sarà necessario sostenere richieste complessive superiori ai cento miliardi; c) il rischio di nuove, brutte sorprese sul fronte bancario.

Gli “stress test”, secondo l’analisi del The Wall Street Journal, sono stati troppo blandi. In particolare, gli istituti di credito tedeschi dovrebbero essere oggetto di una terapia d’urto che peserà sul bilancio pubblico di Berlino.

La lettura complessiva di queste note sparse ci porta a comprendere l’ondata di pessimismo diffusa dall’Ocse: nella media dei Paesi del G7 la crescita su base annua per il periodo luglio-settembre si è fermata attorno all'1,4%, più o meno la metà del 2,7% stimato e sperato nel rapporto di maggio.

Anche in caso di ripresa nell’ultimo scorcio dell’anno, non c’è da farsi troppe illusioni: «le incertezze circa la disoccupazione potrebbero mettere un freno all'espansione dei consumi privati che potrebbero essere frenati da ulteriori aggiustamenti nelle spese delle famiglie in seguito al peggioramento dei bilanci che c'è stato nel corso del periodo di recessione».

Non c’è da stare allegri, insomma. Non a caso il presidente Obama, a meno di due mesi dalle elezioni di mid term, ha deciso di dare il via ad una nuova terapia d’urto per aggredire la disoccupazione. Stavolta la terapia si basa su un piano gigantesco di opere pubbliche che, a detta degli scettici, richiederà comunque molto tempo, forse troppo tempo, prima di produrre i suoi effetti.

Va detto, però, che non tutte le statistiche vanno nella stessa direzione. Gli ultimi dati in arrivo da Washington segnalano la forte caduta del debito commerciale americano (-14 per cento) a conferma che, pur con qualche difficoltà, il riequilibrio del deficit Usa procede, in parallelo al formidabile aumento del tasso di risparmio delle famiglie.

Terapia obbligata anche se non priva di effetti collaterali spiacevoli: è difficile immaginare un boom dell’economia americana, che rappresenta pur sempre un terzo circa del pianeta, in presenza di un calo dei consumi e dell’aumento dei risparmi.

Così non è facile immaginare un’ondata di ottimismo negli States finché sulle famiglie pende la spada di Damocle di altri 4,5 milioni di sfratti oltre ai quasi 4 milioni degli ultimi anni (più sotto la presidenza Obama che quella di Bush).

Insomma, come sostiene Roubini, più che sperare in una duratura inversione di tendenza, sarà necessario rassegnarsi ad una lunga sequenza di “stop and go”, ovvero di ricadute nella crisi accompagnate da segnali di ripresa: il “develeraging”, cioè il calo dei debiti accumulati dalle famiglie Usa e dagli Stati europei impone sacrifici.

La speranza è che le energie scatenate nei Paesi emergenti non si esauriscano, a causa del calo dei consumi in Occidente, ma possano produrre effetti virtuosi, anche a vantaggio dell’export italiano.

A giudicare dall’Ocse, l’anello debole tra i paesi del G 7, è proprio l’Italia che rischia di finire in recessione. Il problema è che la ripresina italiana è dipesa esclusivamente dal rimbalzo delle esportazioni, ma l’economia del Paese non ha fatto passi in avanti sul fronte della produttività e della competitività.

Intanto, i gap strutturali del Paese, a partire dalla qualificazione professionale delle nuove leve (conseguenza di un tessuto produttivo povero sul piano tecnologico), si rivelano un handicap drammatico anche nel breve termine: ormai le decisioni di investimento sono sempre più rapide in un mondo più competitivo.

E l’Italia, dove la promessa di 20 miliardi di investimenti nell’auto si è tradotta nello scontro su Pomigliano, non manda segnali positivi. Ha ragione il presidente Napolitano: è l’ora di rilanciare una seria politica industriale, cosa che non si esaurisce con un nuovo ministro. O con il sogno delle Partecipazioni Statali (sarebbe quella la seria politica di cui ha nostalgia il Presidente?).

Ma con un’iniezione di libertà che, finora, è rimasta più nelle intenzioni che nei fatti. Nel frattempo, difficile illudersi che una società bloccata su barriere contrapposte possa fare di più che evitare la bancarotta finanziaria o la difesa dei posti di lavoro già garantiti. Come si è fatto, lodevolmente, in questi anni.