giovedì 23 settembre 2010

Update italiota

Il consueto aggiornamento sulla nauseante aria che si respira in Italia.


L'ira di Fini:"Il mandante è Silvio, sta falsificando tutto"
di Liana Milella - La Repubblica - 23 Settembre 2010

In una riunione con Bocchino e la Bongiorno la scelta di interrompere le trattative sul Lodo. Sui giornali del premier: documenti fasulli. Il ministro Alfano ha chiesto ai finiani se fosse possibile continuare a discutere

Di una cosa è convinto Gianfranco Fini. Ormai senza alcuna ombra di dubbio. E per questo, quasi a scandire la giornata, ha continuato a ripeterla. "Il mandante di quello che il Giornale pubblica è solo ed unicamente Berlusconi. È inutile che dica o faccia finta di non esserlo. Io so che è così".

Una certezza che ha reso la sua collera profonda, la sua indignazione grande "per quel documento falso" sparato in prima pagina, la sua reazione politica inevitabile. "Io da tempo sono convinto che con questi qui non si può più trattare".

Il Giornale aperto sulla scrivania, col titolo che troneggia "Fini non ha detto la verità". E lui scuote la testa e dice: "Quello che abbiamo sotto gli occhi è la prova che dobbiamo fermare tutto".

La conseguenza è scontata. Sta tutta nelle parole gravi che il presidente della Camera pronuncia mentre è a colloquio con il capogruppo di Futuro e libertà Italo Bocchino e con la responsabile Giustizia e suo avvocato Giulia Bongiorno.

Sono quasi le 14 e una nuova pagina del lungo e tormentato divorzio da Berlusconi si consuma: "Lui punta scientificamente a distruggermi. Lo pianifica. Ma io a questo punto blocco ogni trattativa. Sulla giustizia si deve fermare ogni passo. Il mio è un punto d'onore perché non mi faccio impallinare da lui così, su una ricostruzione del tutto falsa".

La sua collera diventa pubblica, ma dal quartiere berlusconiano non giunge neppure un minimo tentativo di ricucitura, né una possibile spiegazione. Non chiama neppure l'abituale colomba Gianni Letta.

Era cominciato il giorno prima il tam tam dello nuovo scoop di Feltri. Era arrivata all'orecchio di Fini proprio con il racconto di un Berlusconi che se ne vantava parlandone con i suoi. "Lo fottiamo un'altra volta" andava dicendo il Cavaliere. Pronto a liquidare chi gli raccomandava prudenza in vista del voto su Cosentino: "Ma che c'importa dei loro voti, tanto abbiamo i nostri".

Questo indigna il leader di Fli, la fredda premeditazione. La costruzione a tavolino di un documento che, nella migliore delle ipotesi, e secondo la lettura dei finiani, è falso nella firma, nella peggiore è un falso integrale.

Per questo, con Bocchino e la Bongiorno, fa ulteriori verifiche sulla possibile origine. E parla con il cognato Gianfranco Tulliani, dal quale ottiene una nuova conferma che no, non è lui il titolare di quelle società. E dunque Fini può dire tranquillo: "Avete visto? Questa prova è come quella di qualche giorno fa sulle firme uguali di Tulliani sotto i contratti. Un altro falso, perché le firme invece sono differenti".

Si può trattare sulla giustizia, lavorare a uno scudo per mettere in sicurezza il premier, mentre nell'ombra, proprio quello stesso premier, manovra per far cadere il suo interlocutore? "No, non è possibile" decide Fini. Se Berlusconi crea un clima "da piano Solo" allora tutto si ferma.

Salta l'appuntamento fissato per le 16 tra la Bongiorno e Niccolò Ghedini. L'avevano preso davanti alla buvette all'una. Fini ordina di cancellarlo un'ora dopo. La Bongiorno chiama Ghedini: "Mi dispiace, ma non ci vediamo più, la trattativa è chiusa".

Ghedini corre da Berlusconi dove lo raggiunge il Guardasigilli Angelino Alfano. Che tenta di mediare con Bocchino: "Che facciamo col lodo?" gli chiede al telefono. E Bocchino reagisce freddamente: "E a me lo chiedi? Devi chiederlo al tuo capo. Noi nel merito siamo d'accordo, ma voi state ponendo le condizioni per la definitiva rottura. A questo punto noi non scriviamo più il lodo con voi, fatelo da soli, presentatelo, e noi lo esamineremo in piena libertà. Ma, come per tutte le altre leggi costituzionali, anche per questa ti ricordo che ci vorranno sei o sette mesi solo per la prima lettura".

Peggio non poteva sentire il ministro della Giustizia che invece, nei suoi colloqui con il premier, aveva disegnato una road map ben più celere, un anno fino alla definitiva pubblicazione.

Ma, come dirà lo stesso Bocchino alla pattuglia di Fli riunita per tutto il pomeriggio, "ormai la guerra con Berlusconi è totale, noi il 29 settembre voteremo solo il suo documento, ma poi su tutto il resto non ci saranno trattative, ognuno per la sua strada".

Come per la commissione Giustizia, dove Fini sventa un altro "falso", il tentativo di impallinare la Bongiorno. Un altro tassello della strategia della disinformazione, l'insistenza nel ripetere che lei non è più la persona che Fini ha delegato a occuparsi di giustizia, che ora ci sono altri, da Moffa a Consolo, cui far riferimento.

Tale è il battage che la notizia esce sui giornali, condita dal dettaglio che anche sul piano legale, per l'affare di Montecarlo, accanto all'avvocato che fu di Andreotti ci sarà anche Giuseppe Consolo.

Nella giornata delle smentite furiose una è a tutela della Bongiorno, che non solo resta l'unico avvocato di Fini ("Non ho in animo di affiancarle alcuno"), ma è anche "l'unica candidata di Fli per la presidenza della commissione Giustizia".

Lei resta con lui per tutto il pomeriggio, legge e rilegge l'articolo del Giornale, quello che Flavia Perina sul Secolo di oggi definisce "una surreale bufala", l'ultimo pezzo "di un'escalation velenosa finalizzata a cancellare il principale competitor dell'attuale presidente del Consiglio".


"Ecco come gli uomini del premier hanno manovrato la macchina del fango"
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 23 Settembre 2010

I finiani: mossi anche i Servizi. Hanno isolato otto questioni "decisive per capire" e il direttore del Secolo Perina le ha ordinate come se fossero domande. Il presidente della Camera ha avuto la certezza che la casa di Montecarlo non è del cognato

Ora, tra Berlusconi e Fini, tutto ritorna in alto mare. Come prima. Se è possibile, peggio di prima. Molto peggio. Va per aria la pace concordata per scrivere insieme una legge immunitaria costituzionale e quindi la road map che avrebbe consentito al governo di vivacchiare per lo meno fino ai primi mesi del 2012 quando il referendum confermativo avrebbe dovuto decidere il destino della legislatura.

Che cosa è accaduto? Perché il presidente della Camera ha chiesto ai suoi "ambasciatori" Italo Bocchino e Giulia Bongiorno di chiudere ogni canale di comunicazione e trattativa con il ministro della Giustizia Alfano e l'avvocato del Cavaliere Ghedini?

Quali evidenze hanno convinto Fini che quella trattativa politico-legislativa è una falsa trattativa, una trappola, soltanto un modo per temporeggiare in attesa che si concluda il character assassination; una parentesi tattica per dar modo agli "assassini politici" di concludere il lavoro sporco di demolizione di ogni affidabilità pubblica del co-fondatore del Popolo della Libertà?

La risposta che si raccoglie negli ambienti vicini al presidente della Camera non è ambigua: "Fini ha qualche prova e la ragionevole certezza che le informazioni distruttive che ogni giorno vengono pubblicate da il Giornale e Libero, controllati dal presidente del Consiglio, sono fabbricate in un circuito che fa capo direttamente a Silvio Berlusconi".

Fini, nel pomeriggio di ieri, può dire ai suoi "ambasciatori" che quel che gli viene riferito, quel che gli viene mostrato, quel che ha accertato con indagini private non lascia spazio al dubbio. Gli uomini più esposti nell'aggressione riferiscono passo dopo passo del loro lavoro e delle loro mosse al Cavaliere.

Che martedì, alla vigilia del titolo "Fini ha mentito, ecco le prove", ha incontrato Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti, i "sicari" del Giornale, e ieri Amedeo Laboccetta, il parlamentare del Pdl, vecchio esponente napoletano di An, capace di "muovere le cose" nei Caraibi grazie all'influenza di Francesco Corallo.

Altro nome chiave - Francesco Corallo - di questa storia. Figlio di Gaetano, detto Tanino, latitante catanese legato al boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, Francesco Corallo è nei Caraibi "l'imperatore di Saint Maarten", dove gestisce con attività collegate a Santo Domingo alberghi, un giornale, quattro casinò con l'Atlantis World, multinazionale off-shore, partner dei nostri Monopoli di Stato nel business (complessivamente 4 miliardi di euro) delle slot machines ufficiali.

Le mani che s'intravedono nella "macchina del fango" che muove contro Fini da mesi sono di Berlusconi, Feltri, Angelucci (editore di Libero), Laboccetta (Corallo), dicono senza cautela gli uomini del presidente della Camera.

"Non è più il tempo della prudenza. Abbiamo sufficienti informazioni per poter ricostruire che cosa è accaduto e per responsabilità di chi". Gli uomini di Fini hanno isolato otto questioni "decisive per capire" e Flavia Perina, direttora del Secolo d'Italia, le ha ordinate come se fossero domande.

"È vero, come ha scritto Libero che c'è un rapporto personale tra l'ex primo ministro di Santa Lucia e Silvio Berlusconi che "deve far tremare Fini" (nell'isola di Santa Lucia è registrata la società proprietaria dell'appartamento di Montecarlo affittato dal cognato di Fini, ndr)? È vero, come ha scritto il Giornale il 17 settembre scorso che sono stati inviati a Santa Lucia agenti dei Servizi e della Guardia di finanza, e chi li ha mandati?

È vero che a Santa Lucia ci sono, e da tempo, inviati della testata di Paolo Berlusconi, il Giornale e del mondadoriano Panorama? E' vero che la lettera di Rudolph Francis, con la dicitura "riservata e confidenziale" è stata fatta filtrare alla stampa estera attraverso un sito di Santo Domingo, località di residenza - guarda caso - di Luciano Gaucci?

E' solo una coincidenza che Gaucci sia la "mina vagante" della stagione dei talk show, indicato negli scorsi giorni come possibile ospite eccellente di Matrix, l'Ultima Parola e persino Quelli che il calcio? Cosa significa l'ambigua nota in coda alla lettera di Francis "le nostre indagini restano in corso in una prospettiva di una determinazione finale"?

E ancora, come è immaginabile che il ministro di un paradiso fiscale giudichi "pubblicità negativa" la segretezza delle società off-shore, posto che essa è il principale motivo per cui il suo Paese sta in piedi? Dice niente a nessuno il fatto che l'attuale editore di El National, Ramon Baez Figueroa, sia anche proprietario di diverse reti televisive come Telecanal e Supercanal?".

Gli otto dubbi retorici consentono di ricostruire il puzzle che, benché ancora monco, Gianfranco Fini ha sotto gli occhi. Indagini private gli hanno confermato che Giancarlo Tulliani non è il proprietario dell'appartamento di Montecarlo. Sospiro di sollievo: il giovane cognato avrebbe sempre potuto mentirgli ostinatamente, e fino ad oggi. Con la certezza dell'estraneità di Tulliani, Fini ha potuto sistemare meglio le altre tessere del mosaico.

Si è chiesto: ma è ragionevole che un'isola (Santa Lucia) che vive con la leva della sua legislazione offshore si dia da fare per svelare i nomi dei proprietari di una società registrata in quel paradiso fiscale? Un non-sense. Epperò perché il ministro di Giustizia scrive che è Tulliani il proprietario delle sue società sospette? Ma è vero che questo ha scritto quel ministro? E' autentica quella lettera o su carta intestata (autentica) è stata sovrapposto un testo apocrifo?

La lettera se la sono rigirata a lungo tra le mani, ieri, Giulia Bongiorno e Italo Bocchino e hanno concluso che o la lettera è del tutto falsa o, anche se non lo è, non aggiunge nulla di nuovo a quel che si sa perché conferma che, secondo fonti monegasche, Giancarlo Tulliani è il "beneficiario dell'appartamento" che potrebbe voler dire soltanto che Tulliani è - bella scoperta, a questo punto - l'affittuario dell'immobile.

Gianfranco Fini è apparso più interessato a ricostruire, con le informazioni che ha a disposizione, lungo quale canale e con quali protagonisti quella lettera manipolata si sia messa in movimento consapevole che il mandante dell'assassinio politico provochi la fuga di notizie rimanendo al di fuori della mischia. Dicono che sul tavolo intorno a cui Fini ha incontrato i suoi collaboratori sia rimasto a lungo un foglio, presto annotato con nomi, frecce, connessioni. Lo si può ricostruire così.

Uomini dei servizi segreti o della Guardia di finanza raggiungono Santa Lucia (la notizia è del Giornale). Devono soltanto sovrintendere che "le cose vadano nel verso giusto", che quel ministro di Giustizia dica quel che deve o fornisca le lettere con intestazione originale che necessitano. E' stato lo stesso Silvio Berlusconi a predisporre le cose potendo contare sul "rapporto personale tra l'ex ministro di Santa Lucia e il nostro presidente del Consiglio". Un legame (notizia di Libero) che "deve far tremare Fini".

Bene, viene confezionato il falso. Ora deve arrivare in Italia senza l'impronta digitale del mandante. Bisogna seguire le frecce sul foglio dinanzi a Gianfranco Fini. Da Santa Lucia la lettera farlocca (o ambigua) arriva su un sito e poi nelle redazioni di due giornali di Santo Domingo. Da qui afferrata come per una pesca miracolosa dal sito Dagospia.

Ora - gli uomini di Fini chiedono - chi ispira Dagospia? Credono di saperlo. Anzi, dicono di saperlo con certezza: "Dagospia, sostenuto dai finanziamenti di Eni ed Enel, è governato nelle informazioni più sensibili da Luigi Bisignani, il piduista, l'uomo delle nomine delicate, braccio destro operativo di Gianni Letta dal suo ufficio di piazza Mignanelli".

Da Dagospia l'informazione manipolata slitterà sulle prime pagine di Giornale e Libero. Che potranno dire: abbiamo rilanciato soltanto una notizia pubblicata dalla stampa internazionale.

Una menzogna che tace e copre e manipola quanto ormai è chiaro a tutti dal character assassination di Veronica Lario, Dino Boffo, Raimondo Mesiano, Piero Marrazzo e ancora prima di Piero Fassino.

Il giornalismo, diventato tecnica sovietica di disinformazione, alterato in calunnia, non ha nulla a che fare con queste pratiche che non sono altro che un sistema di dominio, un dispositivo di potere.

Uno stesso soggetto, Silvio Berlusconi, ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati".

Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi da più di un anno e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi.

Quel che ci viene svelato in queste ore ancora una volta, con l'"assassinio" di Gianfranco Fini, è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole.

Il presidente della Camera sembra determinato a spezzare il gioco e, saltato il tavolo della non belligeranza, la partita appare soltanto all'inizio e sarà la partita finale.


Altro che covi, c'è il Parlamento
di Anna Petrozzi - www.antimafiaduemila.com - 22 Settembre 2010

Cosentino, niente intercettazioni. Potrebbero far scoprire la verità

Ancora una volta la casta senza vergogna sbatte in faccia ai cittadini i suoi privilegi. Se solo scordi uno scontrino o se, con i tempi che corrono, non arrivi a pagare tutte le bollette di casa entro la scadenza scattano le regole senza pietà, come, per carità, è giusto che sia.

Ma se per caso ti capita di essere intercettato ben 46 volte mentre intrattieni dialoghi di affari e intrallazzi con i casalesi, il più spietato dei clan camorristi responsabile di centinaia di vite umane distrutte tra droga, regolamento di conti e traffici di ogni genere, allora puoi dormire “sonni tranquilli”.

Con la massima serenità Nicola Cosentino si aspettava infatti il verdetto di oggi. L'ex sottosegretario all’Economia, già scampato all’arresto, sempre grazie alla Camera, proprio per i suoi presunti rapporti con i casalesi, era sicuro che i suoi compari non l’avrebbero lasciato.

Infatti anche se la maretta alzata dai finiani nell’ultimo periodo poteva far scorrere qualche brivido lungo la schiena, lo scudo trasversale ad castam non ha tradito le aspettative. Qualche voto in meno, a dire la verità, rispetto al diniego per l’arresto c’è, ma il sistema retto da chissà quanti ricatti incrociati non ha permesso che uno di loro, uno della loro combriccola, venisse ceduto al nemico: la verità, la giustizia e, diciamolo, la decenza.

Gli analisti che da giorni si arrovellano per capire se esista ancora una maggioranza utile per governare hanno fatto la conta dei voti.

Se fossimo in un Paese normale ci sorprenderemmo di sapere che la vera differenza a favore dell’impunità di Cosentino l’avrebbero fatta almeno una decina di deputati del Pd, la cosiddetta opposizione. Franchi tiratori, li chiamano. Semplici collusi, si dovrebbero definire. E vigliacchi pure, che nascondono il loro voto pro-camorra dietro la protezione della segretezza.

I finiani con “altra sensibilità”, come ha cercato di sdrammatizzare la prima sentita delusione Fabio Granata sul suo blog, sarebbero in realtà solo 4. Sufficienti però per scaldare gli animi di coloro che avevano fiducia in una destra democratica e legalitaria e che si sentono già traditi.

Insomma tanto rumore per nulla. E’ ormai noto che qualsiasi politico abbia guai con la mafia sappia dove andare a rifugiarsi per sfuggire alla legge uguale per tutti: in parlamento.

Lì non ci sono pentiti.


La Corte dei conti indaga su Padania ladrona
di Ivana Gherbaz - www.ilfattoquotidiano.it - 23 Settembre 2010

Secondo i giudici amministrativi gli accertamenti confermerebbero che il politico ha usato l'auto blu per motivi non istituzionali

“Niente auto blu, grazie. Preferisco la mia Rover 75, nove anni e 220 mila chilometri”. Detta così sembra una buona azione di un funzionario pubblico che vuole fare risparmiare alle casse dello Stato. Peccato però che a fare queste affermazioni è stato l’ex leghista (si è autosospeso) ed ex presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia (si è dimesso), Edouard Ballaman.

E adesso a cercare di vederci chiaro è la Procura della Corte dei conti del Friuli Venezia Giulia che, in collaborazione con la Guardia di Finanza, ha acquisito le agende, i fogli di viaggio e i tabulati autostradali per chiarire i motivi degli spostamenti.

Le sue erano parole da leghista duro e puro, pronunciate ad aprile, che però sono cadute nel nulla solo pochi mesi dopo, quando, i primi giorni di settembre , un dossier pubblicato dal quotidiano di Udine Messaggero Veneto ha fatto emergere l’anima “ladrona” dei leghisti nostrani.

Sì perché, se Edouard Ballaman ad aprile scorso aveva deciso di rinunciare all’Audi A6 full optional con autista – chiedendo comunque un rimborso spese di 3.200 euro mensili per raggiungere la sede del Consiglio regionale a Trieste dalla sua casa a Pordenone – nel frattempo però, seduto comodo sui sedili in pelle dell’Audi blu regionale, nei due anni precedenti si era girato mezzo nord-est per i fatti suoi. Dai viaggi con la fidanzata, poi moglie, Chiara Feltrin, per accompagnarla dal dentista, o durante i preparativi per il matrimonio.

Su e giù da Pordenone a Camponogara in Veneto, circa un’ora di macchina. E poi un salto a Milano per la prima del film leghista Barbarossa e perché no? Una puntatina a Santa Margherita di Caorle dove Ballaman e la moglie hanno una casa al mare.

Senza dimenticare tutte le trasferte in aeroporto in occasione delle vacanze destinazione Istanbul, compresa quella per il viaggio di nozze andata e ritorno da Malpensa. In tutto una settantina di viaggi a spese della Regione.

Il procuratore Maurizio Zappatori ha affermato che “gli accertamenti effettuati finora confermano che l’ex presidente del Consiglio regionale Edouard Ballaman ha utilizzato l’auto blu per motivi non istituzionali”. Chissà se ora tornerà a fare l’insegnante (è in aspettativa) o il commercialista?


Guasti per 70 milioni alla metropolitana. "La linea 5 avrà un ritardo di 6 mesi"
di Armando Stella - Il Corriere della Sera - 23 Settembre 2010

La stima dei danni emerge adesso che il 90 per cento dell'acqua è stato drenato dalle stazioni del metrò, ed è un primo bilancio provvisorio: almeno 35 milioni di euro per la linea 3 e altrettanti per la M5.

È il doppio della cifra, evocata in questi giorni, che basterebbe a mettere in sicurezza il Seveso e a proteggere dalla piena il quartiere di Niguarda, senza aspettare lo sblocco dei fondi dal governo: 70 milioni di euro bruciati, nell'emergenza, per arginare la piena, prosciugare le gallerie, pagare navette e turni straordinari ai dipendenti Atm, spesare A2A e Amsa, coprire l'intervento di uomini e mezzi dei vigili del fuoco e accantonare i rimborsi per i «volontari» della Protezione civile.

Un primo bilancio che esclude, ancora, i disagi subiti dai cittadini. Per misurare l'entità del disastro bisogna tornare al pomeriggio di sabato. Il Seveso esonda, fa saltare i tombini, gonfia la terra, provoca una frana, apre una voragine; in viale Zara esplode un tubo dell'acquedotto che pompa 60 mila metri cubi al minuto e riversa un fiume d'acqua e fango nel cantiere della M5, all'altezza della fermata Istria; il tunnel della nuova metropolitana si riempie completamente e canalizza un torrente contro le porte blindate che dividono la futura linea 5 (la lilla) dalla linea gialla, alla fermata Zara; la pressione sfonda la barriera; l'onda allaga completamente i binari e i mezzanini di Zara, Sondrio, fino a raggiungere la Centrale e a spingere sui pozzi della Stazione Repubblica e del Passante.

Un responsabile dei vigili del fuoco descrive una situazione «incredibile, inimmaginabile». Un incubo.

La fermata M3 alla Centrale, ieri mattina, è stata asciugata e riaperta al pubblico, ma sono Zara e Sondrio a presentare le incognite maggiori. I danni sono enormi: «Nelle prossime settimane - spiega un ingegnere - bisognerà ricontrollare l'armamento, l'impianto elettrico, le infiltrazioni...».

Il treno rimasto sepolto a Sondrio (6-7 milioni di euro) dovrà essere trascinato fino al deposito di San Donato: smontarlo è impossibile. Infine, i tecnici stanno cercando di capire come separare nuovamente le linee 3 e 5, che si sovrappongono a Zara: «Se le barriere non potranno essere riposizionate, o puntellate, bisognerà ricostruirle».

Il tracciato della linea 5 era praticamente concluso, le stazioni rifinite, i binari pronti per i test: l'inaugurazione, prevista in primavera, sarà rinviata. Il contratto concede al consorzio M5 il diritto a dilazionare di due mesi la consegna per ogni evento naturale che blocca il cantiere: sono almeno 6 mesi di ritardo per le esondazioni di agosto e settembre. Le idrovore, qui, hanno iniziato a pompare acqua ieri pomeriggio. Domani piove.


Afghanistan: le manfrine di Frattini, La Russa & soci
di Giancarlo Chetoni - http://byebyeunclesam.wordpress.com - 23 Settembre 2010

Il “Freccia“ è il 5° blindato, in questo caso di produzione FIAT Iveco-Oto Melara, utilizzato dal “nostro“ contingente in Afghanistan ed il 3° progettato ed uscito dalle catene di montaggio nazionali per dotare i militari “tricolori“ di “un mezzo idoneo ad affrontare le minacce di formazioni ostili in Paesi in cui si imponga la necessità di operazioni di polizia internazionale per ristabilire l’ordine e sicurezza“ (dichiarazione di La Russa Ignazio).

Insomma, peace-keeping e peace-enforcing sotto l’egida dell’ONU ed occasione utile per soddisfare al tempo stesso le esigenze dell’ Esercito Italiano (E.I.) per dotare i suoi reparti di un numero adeguato di VBL/VCM/VCE/IFV che soddisfi l’esigenza di dotazioni della Forza Armata.

Un esigenza che coincide con l’acquisto da parte del Ministero della Difesa di un numero di blindati tale da generare, in ogni caso, un lauto profitto alle società costruttrici che si accollano, bontà loro, i costi di progetto, produzione, modifica, manutenzione a tempo e le scorte ricambi all’ E.I..

La conseguenza più immediata di una tale procedura è il volatilizzarsi del rischio di impresa e l’acquisizione da parte dell’E.I. di quantità “regolarmente eccedenti di esemplari prodotti, rispetto alle necessità operative“ essendo ben noti i benefici economici che ricava il personale di alto grado della Forza Armata, Marina ed Aviazione comprese, alla quiescenza, dall’’inserimento a livello dirigenziale nell’industria militare pubblica e privata.
Lobbies che opacizzano, nel migliore dei casi, i bilanci di settore ed inquinano, ormai a partire dagli anni Settanta, le destinazioni di spesa di Via XX Settembre.

Il “Freccia“ pesa in ordine di combattimento 26+2 tonnellate, ha un cannone a tiro rapido da 25 mm KBA, una mitragliatrice MG-42 da 7,62 mm ed una trasmissione su quattro assi. L’arma più temibile nelle mani di un coraggiosissimo ed eternamente appiedato straccione pashtun è un RPG-7 che a 150 metri perde i tre quarti della sua precisione di tiro od un AK-47 che a 130 mt la dimezza.

Nella versione controcarro il “Freccia” aggiungerà, grazie al professore, una dotazione di missili antitank “made in Israel“ Spike con un raggio d’azione dai 4 ai 6 km.

Trasporta un equipaggio composto da 3 addetti ed una squadra di 7/8 uomini armati nel vano “protetto“. Vedremo successivamente perché abbiamo usato le virgolette. Ad oggi a Herat ne sono arrivate complessivamente 21 unità in versione “combat“ che arriveranno a 36 entro il 2012 (altro che fine guerra nel 2011 come annunciato dal premio Nobel per la pace!), compresi 6 “Freccia“ con funzioni “Porta Mortaio” e “Porta Feriti”.

Superfluo aggiungere che né i C-130J né tantomeno gli Spartan C-27J in dotazione alla 42° Brigata dell’Aeronautica Militare sono in grado di far arrivare per via aerea al PRT-11 i nuovi VBM.

Intanto, all’aeroporto di Pisa crescerà la militarizzazione delle aree a verde che recintano il corpo centrale della pista di volo. Il portavoce ufficiale maggiore Giorgio Mattia ha dichiarato il 2 Agosto scorso che entro il 2013 l’aeroporto di Pisa diventerà “hub nazionale“ e potrà accogliere e movimentare 30.000 militari al mese (!).

Il comandante generale Stefano Fort, dal canto suo, ha precisato che il progetto sarà portato a completamento per essere lo scalo Dall’Oro servito egregiamente già dai quadriturbina da trasporto C-130J e di godere di ottimi collegamenti autostradali e ferroviari per la movimentazione di materiale militare. In linea d’aria a meno di 3,5 km, la base USA di Camp Darby ha dato il via all’ulteriore costruzione di edifici militari ed aree di sosta per mezzi corazzati di 80.000 mq.

Alle 30.000 tonnellate di esplosivi ad alto potenziale immagazzinati in sotterranei di cemento ed alla logistica per un’intera brigata Stryker, dai carri da battaglia Abrahams agli Humvee, l’8° Comando Logistico SETAF di Camp Darby aggiungerà presto propellenti per munizionamento bellico a lunga gittata.

Da parte “italiana“, l’amministrazione PD di Pisa (sindaco Filippeschi) darà vita ad un consorzio per l’allargamento del Canale dei Navicelli atto a permettere lo spostamento, via acqua fluviale, di materiale bellico a stelle e strisce verso il porto di Livorno, città amministrata anch’essa dal PD (sindaco Cosimi).

L’aeroporto di Herat, all’altro capo del mondo, è nel frattempo cresciuto di altri 100.000 mq di pista in cemento armato spessorato fino a raggiungere un’estensione di 725.000 mq per permettere l’atterraggio ed il decollo di cacciabombardieri USA e NATO nonché di C-5 Galaxy statunitensi che trasportano i “Freccia“.

Il blindato della FIAT Iveco-Oto Melara ha preso servizio per la prima volta il 4 Agosto a Shindand, uno dei punti più caldi della zona Ovest controllata (si fa per dire) dal Bel Paese.
Vediamo ora quanto sono costati e costeranno alle tasche del contribuente i soli nuovi VBM “Freccia“, dal 2006 al 2014, per arrivare ad una produzione finale di 249 unità (tre le linee sostituite dal 2005 al 2010, ripetiamo, approntati con carattere di particolare urgenza per l’uso in Afghanistan, di VBL/VCM).

Quando si invia su un teatro di guerra un mezzo che si rivela inadeguato a proteggere il personale militare come il “Puma“ o il “Lince“ e lo si deve sostituire con un altro di peso pari o superiore, di (rivendicata) maggiore affidabilità sul terreno e con protezione balistica migliorata, si gettano ogni volta al vento decine di milioni di euro.

L’addensamento dei VBL/VCL/VCM presso i reparti della Forza Armata finisce poi per limitarne l’uso e la manutenzione con conseguente abbandono e rottamazione.

Ecco la lista delle spesuccie per l’ultimo grido della FIAT Iveco-Oto Melara:
2006: 6 milioni di euro
2007: 50 milioni
2008: 120 milioni
2009: 220 milioni
2010: 260 milioni
2011: 280 milioni
2012: 280 milioni
2013: 266 milioni
2014: 64 milioni
per un totale di 1.540 milioni di euro. Per ora.

L’acquisto dei primi 49 VBM è stato finanziato dal Ministero dello Sviluppo Economico – cercate di non ridere! – per 310 milioni di euro, in base ad una convenzione tra il Ministero della Difesa e quello dell’Economia e Finanze che trova il suo riferimento normativo nell’art. 1, comma 95, della legge 266 del 23 Dicembre 2005 (legge Finanziaria 2006).
Ai primi 49 “Freccia“ si sono aggiunte ordinazioni di 5 nuove unità per un ammontare di 14 milioni di euro con stanziamento previsto da D.M. in data 6 Agosto 2009.

Abbiamo riportato la tabella 2006-2014 per far capire a chi legge che i costi effettivi della “missione di pace“ della Repubblica delle Banane in Afghanistan superano di gran lunga quelli ufficialmente dichiarati sui semestrali di rifinanziamento approvati (all’unanimità) da tutti i gruppi parlamentari a Camera e Senato, con un’ultima astensione a Palazzo Madama dell’IDV.

Bilancio misteriosamente, ma non troppo, fermo ad una ufficialità da barzelletta, anche se non è stato possibile nascondere un “minimum“ di 364 milioni di euro con un aumento di stanziamenti per il 2010 di 54 milioni sul 2009, con 139 milioni destinati al pagamento del personale e 225 per la gestione militare, con integrazione di 18,7 milioni di euro per una cooperazione italo-afghana non meglio precisata e 1,8 milioni per contributi ordinari al “fondo gestione“ NATO.

Intanto nel solo mese di Luglio, il 20 per la precisione, il ministro degli Esteri Frattini ha portato in dono al sindaco di Kabul un assegnetto da 316 milioni di euro in conto spese per l’anno in corso, anche se “il presidente Karzai dovrà concretamente dimostrare di poter garantire, attraverso polizia e forze armate, una maggiore sicurezza nella gestione dell’ordine pubblico e nella difesa del territorio“.

Il solito blablablà arrivato dal solito quaquaraquà gallonato della Repubblica delle Banane.
Lievitato il numero delle basi operative, permanenti, del contingente italiano da Camp Vianini e Camp Arena del PRT-11 di Herat a sette: Shindand, con costruzione di nuove piste di atterraggio e di piazzole per la sosta elicotteri più infrastrutture e l’assegnazione di 500 militari, Bala Baluk e Bala Murghab, Shewan, Delahram. Quanti sono i militari “tricolori“ in Afghanistan in questo mese di Settembre?

Dopo il rinforzo di 1.350 uomini nel corso del 2010, escluso fucilieri dell’aria, personale addetto ai Predator A e B, piloti e copiloti, personale addetto alle armi, alla manutenzione meccanica ed elettronica dei Mangusta, degli AMX (Herat) e Tornado (Mazar-i-Sharif) ed i 200 della Task Force 45, siamo a 3.780.

E’ di queste ore la notizia che La Russa ha accolto, senza fiatare, la richiesta di Petreaus di inviare in Afghanista altri 150 “istruttori“ e che commercializziamo – sentite questa! – blocchi di marmo afghani per trasportarli ad… Abu Dhabi e dirottarne una parte nel nord Italia con i C-130J per metterli a disposizione di un’impresa che costruisce manufatti di marmo con marchio certificato UE.

L’aumento delle basi militari “permanenti“ dei militari italiani, le assegnazioni di personale fuori dalla provincia di Herat ed il conseguente allungamento delle vie di rifornimento logistico insieme alla crescente pericolosità della guerriglia pashtun sugli snodi secondari e sull’arteria stradale che inanella l’Afghanistan, ha determinato un uso sempre più massiccio di elicotteri leggeri da ricognizione e medio-pesanti da trasporto CH-47 in dotazione al Gruppo di Volo “Antares“ dell’Aviazione Esercito.

Attualmente i CH-47 in Afghanistan sono quattro più un quinto con la sigla MM80833 utilizzato dai “soldati di Roma (incappucciati)“, come li chiama Alemanno, della Task Force 45.

Un’unità “tricolore“ che ha mutuato il nome da un distaccamento di Artiglieria Antiaerea Alleata addetta alla protezione ravvicinata di trasmettitori “Echelon“, in realtà appartenente a quell’Office of Strategic Service (OSS) che ha sostenuto e armato le formazioni partigiane di “Giustizia e Liberta“ nel centro e nord Italia fino al Gennaio 1945.

La storia della Task Force 45 è stata ricostruita nel dopoguerra dall’italo-americana Nancy Schiesari che ha intervistato in più occasioni Enrico Tassinari comandante dell’O.R.I (Organizzazione Resistenza Italiana) aggregata all’OSS.

Un reparto che operava nelle retrovie alleate dove non volava nemmeno una Cicogna e che ci ha lasciato in eredità roba come Gladio e derivati.
Tanto per precisare.

Dei 40 elicotteri Boeing acquisiti dall’E.I. negli anni Settanta, due sono andati perduti in incidenti di navigazione aerea. Ne resterebbero 38 ma dieci sono in rottamazione e due non sono più utilizzabili per mancanza dei requisiti di sicurezza al volo, nonostante un upgrade per 26 unità allo standard “plus“ nel corso degli anni Ottanta-Novanta.

Dal momento che trasportano fino a 32 militari, una sola perdita di un CH-47, macchina ormai largamente usurata, dai rotori alle turbine, adibita nel corso degli anni anche ad elicottero antincendio su richiesta della Protezione Civile, farebbe lievitare le perdite italiane in Afghanistan di un sol colpo del 100%, con effetti di portata catastrofica, per maggioranza ed “opposizione“ presso un’opinione pubblica già largamente ostile all’avventura bellica dell’Italietta ai… confini della Cina.

Tanto per dare un po’ di spazio all’attualità, un altro CH-47 appartenente ad Enduring Freedom USA, non sappiamo se di modello C o F, si è schiantato al suolo in queste ore.

Una “guerra di aggressione“, quella scelta dai governi di centrosinistra e di centrodestra con ISAF NATO, che sottrae anno dopo anno al Paese sempre più ingenti risorse finanziarie.
Ricchezza che esce dalle tasche della gente perbene che paga le tasse alla fonte e non riesce più a mettere insieme pranzo e cena.

L’uso in Afghanistan del CH-47 da parte del Comando di Herat è quindi molto ma molto parsimonioso. La Spagna in un solo colpo ha perso nella provincia di Herat 30 militari trasportati da questo stesso modello.

Utilizzo da parte italiana che si scontra con l’esigenza di garantire un sempre maggior numero di voli nell’arco dei trenta giorni per poter assicurare i rifornimenti liquidi e solidi, e la sostituzione del personale, alle basi sparse per l’ovest dell’Afghanistan.

Un Paese che sta affogando le forze USA e NATO nei suoi 648mila e rotti kmq e 30 milioni di uomini tra i 18 e i 35 anni, residenti tra il Paese delle Montagne e le Zone Federate del Pakistan, in grado di imbracciare un AK-47 od un RPG.

L’affermazione non è mia ma del generale Fabio Mini.
Esigenza che ha determinato l’input per aprire un altro gigantesco “punto spesa“ nei bilanci miliardari a due cifre gestiti, annualmente, da Ignazio La Russa & soci del Consiglio Supremo di Difesa che non esitano a stringere mani che grondano fiumi di sangue.
Ecco la chicca che mancava.

Agusta-Westland, su licenza Boeing, ha siglato il 13 Maggio del 2009 un contratto di vendita per 16 elicotteri medio-pesanti CH-47 F Chinook all’Aviazione Esercito, Reggimento “Antares” di Viterbo, più un opzione per altre quattro macchine, per la bazzecola di altri 900 milioni di euro compreso – sembra – 5 anni di fornitura di pezzi di ricambio.

E l’elenco delle spesuccie è tutt’altro che finito.



Ultimatum di Berlusconi a Masi, fuori Travaglio o te ne vai
di Carlo Tecce - www.ilfattoquotidiano.it - 23 Settembre 2010

Pressioni del premier alla vigilia del debutto di Annozero

Oggi è pure l’Annozero di Mauro Masi, in equilibrio precario e con un dubbio: censurare Marco Travaglio oppure lasciare la poltrona. Perché il messaggio di Silvio Berlusconi recapitato al direttore generale – dicono fonti qualificate di viale Mazzini – è poco rassicurante: trovati un nuovo lavoro, non posso tollerare decine di puntate con Santoro e Travaglio.

Più che un messaggio, un avviso di sfratto e una chiamata per Antonio Verro, naturale successore di Masi, il consigliere di amministrazione più fidato per Palazzo Chigi. La direzione generale studia un’ultima e disperata offensiva: non può bloccare la trasmissione di Santoro, ma può architettare un sabotaggio a un soffio dal via.

E la statistica è lunga: basta ricordare il parere dell’ufficio legale per impedire l’intervista a Patrizia D’Addario oppure i pretestuosi esposti all’Autorità di garanzia di Gianpi Tarantini. Un’aspra battuta di Fabrizio Cicchitto, capogruppo a Montecitorio del Pdl, sembra l’ennesimo monito per Masi: “È incredibile che Travaglio possa parlare senza contraddittorio per 5 o 7 minuti”.

Pensiero condiviso da Masi che rintuzza, solerte, Santoro a distanza: “La vera questione è proprio la mancanza di contraddittorio e pluralismo. Non è Travaglio sì Travaglio no, né la persona che è un professionista che fa il suo mestiere né che sull’eventuale contratto possano esistere problemi giuridici. È davvero pensabile – chiede il dg – che il servizio pubblico, che si rivolge a tutti i cittadini, faccia le sue trasmissioni di approfondimento attraverso monologhi senza contraddittorio?”.

La risposta è nella domanda: non è possibile, per Masi. Anzi, il direttore generale convoca Vittorio Sgarbi per provocare: “Solo un esempio, se una trasmissione esprime sempre e comunque una posizione ‘giustizialista’ alla Travaglio dovrebbe essere in grado di esprimere anche una posizione ‘garantista’, alla Sgarbi. Quindi nessun problema sulle persone, ma decisioni da prendere serie e ponderate sui fondamenti del servizio pubblico”.

E così Travaglio e Vauro sono senza contratto. Santoro ha comunicato a viale Mazzini che saranno presenti in studio perché sono autori, protagonisti, tratti distintivi di Annozero. Il silenzio dell’azienda è preoccupante. E nemmeno gli ospiti e il tema sono graditi: il finiano Italo Bocchino, il leghista Roberto Castelli e Antonio Di Pietro dell’Idv a discutere di “ribaltonisti” e un contributo di Beppe Grillo.

Ieri mattina Annozero s’è mostrato ai giornalisti: c’erano Santoro, Massimo Lavatore (vicedirettore di Raidue), Nino Rizzo Nervo e Giorgio Van Straten (consiglieri d’opposizione).

E c’era una strana sensazione di solitudine, un programma di successo che riparte, e un’azienda che scappa. E parla soltanto per circolari bavaglio. Oppure vieta l’ingresso ai dipendenti per una conferenza stampa.

Quando una signora minuta e vestita di blu di Raitre urla contro i vertici, Santoro libera uno sfogo: “La Rai deve funzionare bene, non si può andare avanti così. Contro di noi è in atto un vero e proprio mobbing, ma chi lo fa non si capisce. È una situazione kafkiana. Masi deve prendersi le sue responsabilità e deve decidere, o dobbiamo solo dimostrare a un padrone esterno che si fa qualcosa? Un comportamento che ha la complicità della stampa che invece di discutere dei problemi seri si occupa di queste scemenze delle scalette.

E poi c’è Garimberti che dimentica le nostre difficoltà”. Il presidente, impassibile, aveva già abbandonato l’argomento: “Voglio prima vedere la trasmissione, non dico nulla su Annozero e Santoro”. E il conduttore cita Niccolò Ammaniti: “Io non ho paura”.

Ma il racconto dei mesi trascorsi nel campo minato di Masi creano, almeno, un po’ di ansia a sentire il resoconto del giornalista: “Le troupe ci sono state date solo una settimana fa mentre normalmente ne servirebbero quattro. Il contratto del mio collaboratore Formigli è stato firmato solo martedì. Non ci saranno grosse novità perché non abbiamo avuto il tempo di fare le modifiche che volevamo. Ho presentato due mesi fa un progetto per la modifica della scenografia che non è stato nemmeno preso in considerazione”.

E Santoro pianta paletti che mai andranno via: “Ospiti e argomenti spettano a me, non accetterò ingerenze esterne. La mia autonomia è garantita dal contratto Rai. Le scalette continueremo a darle il giovedì, nessuno ci ha detto il contrario. Il pubblico lo sceglieremo noi, perché è rappresentativo di quello a casa e non prevede claque. E Travaglio non è un opinionista e in studio qualcuno potrà replicare”.

E nella sala degli Arazzi che per guardie giurate e facce appese sembra un raduno di carbonari, il ritorno di un Annozero – senza censure in extratime – sarà un segnale di lotta: “La politica vuole ordine e silenzio. Non si possono più fare fiction sulla mafia, autori scomodi come Celentano non trovano spazio. Occorre dire basta. Un tempo c’era Grillo, Indietro tutta e Mixer, oggi arriva uno come Mentana e fa sembrare vecchio tutto quello che c’è attorno a lui, perchè Tg1 e Tg5 non si fanno più concorrenza”.


Profumo, puzza di bruciato e spartizione delle banche
di Eugenio Orso - http://pauperclass.myblog.it - 22 Settembre 2010

L’antefatto è notissimo: le dimissioni del top manager bancario Alessandro Profumo dalla carica di Ad di Unicredit, carica che occupava se ben ricordo dal lontano 1998, frutto di un’affermazione personale progressiva, dopo la rapida scalata in Credito Italiano avvenuta negli anni novanta.

Alessandro Profumo sembra essere un self made man inserito non in un American Dream, ma in più modesto Italian Dream, che da giovanetto è partito come impiegato al Banco Lariano, in posizione umile, lavorando durante il giorno allo sportello e la sera “studiando alla candela” per una laurea alla prestigiosa Bocconi.

Poi è “cresciuto”, naturalmente in termini aziendalistici di affermazione personale e di scalata, entrando in McKinsey e successivamente in RAS.

Certo non è uno degli squali finanziari peggiori, ma è comunque un Top Manager, un Banchiere contemporaneo, uno che cura gli impietosi interessi degli Investitori, oltre che i suoi personali, e quindi per tutti noi non può che rappresentare un nemico.

Volendo fare un po’ di chiarezza nell’intricata vicenda del repentino “siluramento” di Profumo, senza troppe pretese di scoprire verità assolute o segreti inquietanti, è bene porsi alcune domande.

Normale avvicendamento al vertice di una delle due più grandi banche della penisola?

E’ l’ipotesi meno probabile, anche se Mercati ed Investitori talora esigono sacrifici umani fra gli stessi VIP che ne curano gli interessi, per spingere l’acceleratore sul valore creato e sul profitto.
Non dovrebbe essere questo il caso di Profumo, definibile come un banchiere con tendenze “globali”, ben attento al dividendo da distribuire alla Sovrana Proprietà ed ai Rentiers, orientato verso le grandi acquisizioni [l’HVB tedesca e Capitalia, ad esempio] e il superamento degli angusti confini nazionali.

Esito di una lotta ai coltelli per il controllo di pezzi importanti del sistema bancario nazionale?

Il Profumo di turno ha votato alle primarie del Pd e in qualche modo appartiene a questa trista fazione della politica sistemica, non potendo escludere, nonostante si sia parlato spesso di lui come di un manager “distante” dalla politica, una sua prossima “discesa in campo”
Alessandro come prossimo anti-Silvio?

C’è chi lo vede come il possibile, futuro, “Papa straniero” nel Pd, il quale dovrebbe risolvere i problemi di questo cartello elettorale che sembra molto vicino allo sfaldamento.

Ma i giochi sono complessi più di quanto può sembrare, e l’intricata jungla pidiina, infestata di nomenklature postcomuniste e postdemocristiane in reciproca lotta, prive di qualsivoglia programma ma affamate di posti di potere, è forse un po’ troppo anche per un “collaudato” manager come Profumo, per anni al vertice di un organismo finanziario sempre più multinazionale, che vanta oltre 10.000 filiali in 22 paesi [http://www.unicreditgroup.eu/it/About_us/About_us.htm].

Inoltre, una liquidazione di ben 40 milioni di euro – autentica buonuscita da manager globalista di media tacca – potrebbe suscitare qualche piccola discussione, anche se la cosa non dovrebbe avere troppo peso all’interno della cinica burocrazia pidiina, la quale ha da tempo [e volentieri] rinunciato alla battaglia per la giustizia sociale e la difesa dei subalterni impoveriti, schierandosi apertamente sul fronte opposto.

Dall’altra parte della politica sistemica, è fin troppo chiaro che l’interesse di un Berlusconi in difficoltà, in vistoso calo di consensi nei sondaggi – il quale si è finalmente accorto, seppur in ritardo, che la truffa del berlusconismo è ormai scoperta – è proprio quello di controllare quanti più organismi possibili [bancari e non] per mantenersi ancora in sella a qualsiasi costo, e di metterci ai vertici suoi burattini, o comunque personaggi non potenzialmente ostili al suo gruppo di potere e alle politiche, talora feudali, localistiche e regionaliste, che questo esprime, complici le pressioni [e i molti casi i diktat] di una Lega sempre più determinante.

Da più parti si ricorda che Alessandro Profumo intendeva fare di Unicredit una vera e propria “banca globale”, confliggendo con tutta una serie di interessi consolidati proprio all’interno del gruppo, non di rado di natura localistica/ regionalista.

C’è di mezzo il solito Gheddafi con i cospicui capitali libici da investire in “paesi amici”?

Anche, ma forse non è la ragione principale del “siluramento” di Profumo, pur potendo avere qualche peso nella complessa vicenda che ha indotto il consiglio di amministrazione della banca a sfiduciare il brillante manager, dando mandato al presidente Dieter Rampl di “trattare la resa” con il manager e attribuendogli temporaneamente le deleghe dell’Ad.

In effetti, la banca centrale libica ha un suo alto rappresentate in Unicredit ed una cospicua partecipazione nell’istituto, tendenzialmente in crescita. E’ possibile che nel contrasto fra l’Ad “storico” di Unicredit e i soci, più della controversa questione della “penetrazione libica”, pesi la questione delle Fondazioni, principali azioniste della banca, ormai nemiche giurate del Profumo con aspirazioni “globali”, tendente alla banca unitaria che parla fluentemente inglese e che non dovrebbe piacere molto alle Fondazioni stesse.

Quanto conta in questa vicenda la Lega, che preme da buon parvenu per un suo feudo bancario?

La Lega si è finalmente integrata in “Roma ladrona” – non più tanto sputtanata, se non per tener buoni i bruti nelle sagre padane – ed aspira ad avere un suo peso nelle banche, anzi, vorrebbe una banca importante e “tutta sua”, come la volevano non troppo tempo fa [2005] i capi diessini Fassino, i D’Alema, i La Torre intercettati telefonicamente, che facevano il tifo per l’intraprendente Unipol di Gianni Consorte [al quale D’Alema disse telefonicamente “facci sognare”].

Come i politici diessini di allora[non c’era ancora il Pd], che in pieno 2005 volevano una banca tutta loro a costo di andare a braccetto con i “furbetti del quartierino”, anche i leghisti che ormai fanno parte a tutti gli effetti del sistema della piccola politica corrotta e cialtrona, aspirano ad entrare nei salotti buoni finanziari, pur a livello locale, non potendo puntare più in alto, ad esempio a JP Morgan Chase/ Chase Manhattan Bank, alle guglie più alte del capitalismo contemporaneo finanziarizzato, come farebbero i tutti gli strateghi globalisti che si rispettano …

E’ chiaro che la Lega deve accontentarsi di ciò “che passa il convento”, essendo il sistema bancario italiano piuttosto provinciale, ancora in parte protetto e “riserva di caccia” per cordate indigene politico-economiche, nonché giudicato un po’ “asfittico” e arretrato rispetto ai brillanti attori finanziari occidentali del collasso “sub-prime” e della più folle finanza creativa.

La Lega giustifica i suoi appetiti in campo bancario, le sue pulsioni acquisitive, con la necessità di concedere credito alla PMI del nord in agonia, soffocata dal credit crunch e bisognosa di supporto finanziario per poter sperare di sopravvivere ancora un po’, ed in effetti è in parte vero, perché si tratta di una fetta importante del suo elettorato tipico, che deve essere preservata per poter continuare la scalata al potere.

La Lega, inoltre, oltre alla naturale avversione per la penetrazione dei capitali libici nel sistema bancario italiano, ha mostrato di essere contraria alla visione politico-strategica di Profumo, un po’ troppo globalista/ mondialista per gli xenofobi-regionalisti padani, ben arroccati nei loro feudi, influenti nella Fondazione Cariverona che partecipa al capitale del gruppo, nonché pilastro principale del IV esecutivo Berlusconi.

In conclusione, tanti sono gli attori della partita per il controllo di Unicredit, dalle Fondazioni ai libici [i cui interessi sembrano divergenti], dalla Lega a Berlusconi [i cui interessi non sempre sono coincidenti], trattandosi di almeno tre o quattro parti in lizza per determinare il futuro della banca, ma ciò che emerge è che sia le Fondazioni sia la Lega, incatenando il gruppo bancario ai feudi sul territorio, respingendo la visione un po’ ”globalista” dell’estromesso Profumo, oggettivamente ed occasionalmente incarnano la resistenza locale/ regionale all’avanzare inesorabile della globalizzazione finanziaria, che prima o poi dovrà investire in pieno anche il sistema bancario italiano, per ora ancora soggetto ai giochi di potere interni.

Più che Profumo, c’è un po’ di puzza di bruciato nella complessa vicenda, che è tuttora in sviluppo non essendoci ancora il successore dell’Ad costretto alle dimissioni, il quale dovrà essere formalmente nominato dal presidente Rampl scegliendo in una ristretta rosa di nomi. La partita è quindi aperta, e se provvisoriamente la vittoria può essere assegnata alle Fondazioni bancarie e alla Lega bossiana, alleati nei fatti contro Profumo, nessuno può escludere colpi di scena futuri.

Ad infima!


Ma Profumo merita 40 milioni di liquidazione?
di Marcello Foa - http://blog.ilgiornale.it - 22 Settembre 2010

Profumo se n’è andato. E sia. Lasciamo perdere i retroscena sul suo allontanamento e concentriamoci sui fatti che sono i seguenti.

- Unicredit nel 2007 ha macinato utili per 6,5 miliardi, nel 2008 per 4, l’anno scorso ha chiuso con 1,7, e nel primo semestre di quest’anno i milioni sono 669.

- Profumo ha trasformato Unicredit in un gigante. dal 1997 al 2005, l’allora Ad del Credito Italiano ha acquistato oltre 100 banche, poi nel 2005 il grande salto internazionale: UniCredit annunciò l’Opa sulla banca tedesca HypoVereinsbank AG (HVB-Group), che portò alle OPA a cascata su Bank Austria Creditanstalt e BPH (controllate da HVB). Poi espansione in Polonia, in Croazia. nel 2007 fusione con Capitalia.

- Oggi è un gruppo presente in 22 paesi, con 29,7 milioni di clienti e 160mila dipendenti sparsi in Europa. In apparenza un successo, ma la realtà è ben diversa. Acquistando Hvb Profumo non ha comprato una grande banca tedesca, ma un istituto zeppo di titoli tossici (suprime e affini), troppo esposto sul mercato immobiliare, come peraltro, se non erro, anche le sue banche nell’Europa dell’est.

Ovvero: da manager non ha saputo valutare bene la banca che comprava.

Qualcuno tenta di giustificarlo osservano che la crisi del 2008 ha rovinato i suoi piani. Vero, però è altresì vero che se Hvb non fosse stata così esposta, Unicredit non avrebbe sofferto come sappiamo.

Esaminando l’andamento del titolo in Borsa il risultato è sconfortante. Se cliccate qui selezionando il grafico a 5 anni, vi accorgerete che il titolo oggi vale circa 1,9 euro, dunque 5 volte meno rispetto al massimo storico di 10,9 toccato nell’estate del 2008, ma anche rimettendo le lancette ancora più indietro al 2005 la performance resta ampiamente negativa: allora valeva 6 euro.

Pochi giorni fa la stessa Unicredit ammetteva di ”essere sotto pressione sul versante della profittabilità e dell’efficienza“, al punto di dover annunciare ben 4700 esuberi. Grande gruppo sì, ma tutt’altro che brillante; anzi in costante difficoltà, al punto di dover aumentare il capitale e spalancare le porte ai libici,

Dunque Profumo ha fallito.

E allora mi chiedo: è giusto che ottenga una liquidazione da 40 milioni di euro? Quaranta milioni di euro sono il premio a un manager che esce trionfando, mentre normalmente chi sbaglia dovrebbe risponderne personalmente e uscire alla chetichella con la liquidazione minima. Ma in questo capitalismo i supermanager alla Profumo non pagano mai. Vincono soltanto. Cadono eppure riescono ad arricchirsi.

Anzi: magari fanno anche carriera politica. Secondo alcune voci dall’interno del Pd, rilanciate gioiosamente da Repubblica, Profumo potrebbe essere il “Papa nero” ovvero il leader a sorpresa in grado di battere Berlusconi. Tanto per chiarire da che parte sta una certa sinistra.

O sbaglio?


Perchè Berlino ha voluto la testa di "Alessandro il Grande"
di Moreno Pasquinelli - http://sollevazione.blogspot.com - 22 Settembre 2010

La cacciata di Alessandro Profumo, Amministratore delegato da Unicredit, è un evento che potrebbe causare uno sciame sismico che lascerà il segno, vedremo se indelebile, negli assetti finanziari, economici e politici dell’Italia.

Gli sciocchi soltanto possono credere alle motivazioni date dal Presidente Dieter Rample, e con lui di alcuni zelanti giornalisti e politici, per cui la defenestrazione sarebbe avvenuta per le maniere decisionistiche di Profumo. Non è forse con Profumo che Unicredit è diventato il secondo gruppo bancario d’Europa? Con filiali in ben 22 paesi e ben 9.200 sportelli? Non è forse anche grazie al suo “decisionismo” che la capitalizzazione di mercato di Unicredit è schizzata da 1,5 Miliardi di euro a circa 37? E’ evidente che c’è dell’altro.

«Il «pomo della discordia», che ha fatto esplodere i conflitti interni sulla figura dell'ad della prima banca (per capitalizzazione) italiana, è l'ascesa nel capitale di Unicredit dei soci libici. A più riprese durante l'estate Tripoli ha comprato azioni sia con Central Bank of Libya che con il fondo sovrano Libyan Investment Authority, detenendo fino al 7,58% complessivo». (Il Sole on line del 21 settembre 2010)

Ovvero:

«L’avvento della Libia nel grande azionariato di Piazza Cordusio ha mandato in pezzi molti equilibri delicati: primo fra tutti il convincimento, tra Monaco e Berlino, di detenere una golden share strategica su Unicredit, destinata a restare “europea”, e quindi “tedesca”».
(Antonio Quaglio, Il Sole 24 Ore del 21 settembre 2010).

Quindi: «La partita è di puro potere e ha una natura geopolitica: il blocco di interessi tedesco ha battuto il blocco italiano. Chi li ha fatti entrare, gli investitori libici? Senza il placet del governo, non se ne faceva nulla». ( Giulio Sapelli a Il Sole 24 Ore del 22 settembre 2010)

Ed è degno di nota che non solo il padanismo leghista, ma il mondo delle grandi fondazioni bancarie post-democristiane, malgrado sia governo che opposizione (tranne i dipietristi, vedi le dichiarazioni di Elio Lannutti) abbiano spalleggiato Profumo, abbiano avuto partita vinta. Con l’appoggio del padano-leghismo ha in pratica vinto il capitalismo bancario tedesco, che doveva far fuori Profumo per controllare Unicredit.

E controllando Unicredit il grande capitale finanziario e bancario tedesco allunga le mani sul piano succulento dell’economia padana —che se non è ancora collassata è solo perché, in larga misura, lavora per la locomotiva teutonica, e quindi guarda pù a Monaco o Berlino che a Roma.

Con l’avallo esplicito della Lega (vedi le dichiarazioni del Sindaco di Verona Tosi e di Giancarlo Giorgetti, presidente della Commissione Bilancio della Camera) il capitalismo lombardo-veneto ha dunque deciso (non si sa mai come andrà a finire con l’Italia) sotto la tutela tedesca.

«Sono scomodo, non faccio parte del sistema» avrebbe confessato Profumo. (La Repubblica del 21 settembre 2010) La qual cosa è sintomatica e inquietante. Di quale sistema parla? Evidentemente di un sistema, quello finanziario, bancario e industriale italiano, quello cioè che ha in mano quasi tutti i fili dell’economia e del credito, un sistema che evidentemente corre in parallelo alla sua apparente rappresentanza bipolare.

Due le false flag con cui i ciarlatani leghisti hanno motivato la loro capitolazione al capitalismo teutonico. La prima: “vogliamo una banca legata al territorio”. In realtà si autorizzano i tedeschi, una volta acquisito il controllo di Unicredit, a “depredare” il piatto ricco del risparmio padano, per poi rimpinguare con denaro sonante il traballante sistema bancario tedesco, bavarese anzitutto.

La seconda essendo lo spauracchio libico. Vaglielo a dire a queste "sentinelle della civiltà cristiano-occidentale" che senza i soldi freschi dei fondi sovrani arabi, non solo Unicredit, ma tutto il sistema bancario euro-atlantico sarebbe crollato come un castello di carte dopo il fallimento di Lehaman Brothers. Vaglielo a spiegare che la grande finanza araba è il vero scudo che ha salvato l’imperialismo da un crack irreversibile.

Su questa vicenda sarà doveroso tornare.