sabato 4 settembre 2010

Riprende la telenovela-farsa "I negoziati di pace tra israeliani e palestinesi"

Si è appena concluso a Washington il primo episodio della nuova serie della telenovela-farsa "I negoziati di pace tra israeliani e palestinesi", con la prossima puntata già fissata per il 14 e 15 settembre a Sharm el-Sheikh, in Egitto.

L'unica cosa che concretamente è stata decisa a Washington, visto che Netanyahu ha chiesto ad Abu Mazen di riconoscere Israele "come Stato nazionale del popolo ebraico" e il presidente dell'Anp ha chiesto al primo ministro israeliano di porre fine alla colonizzazione e all’embargo nella Striscia di Gaza.
Statisticamente è più probabile vincere al Superenalotto che esaudire queste richieste...

E d'altronde la stessa Hillary Clinton ha ufficialmente ammesso l'impotenza americana dichiarando che "Da parte nostra non possiamo imporre una soluzione e non lo faremo". Ma c'erano mai stati dubbi in proposito?

Chiarezza di idee arriva invece dal portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, che ha dichiarato che i colloqui di pace "non sono legittimi perché il popolo palestinese non ha dato nessun mandato ad Abu Mazen di condurre trattative in nome del nostro popolo. Ogni risultato che verrà raggiunto nel corso di questi colloqui non impegna il nostro popolo ma impegna solo lo stesso Abu Mazen".

Ugual chiarezza viene anche dai 13 gruppi palestinesi che hanno annunciato di aver unito le loro forze per coordinare i loro prossimi attacchi contro Israele.
"Abbiamo deciso di creare un centro di coordinamento per le nostre operazioni contro il nemico", ha dichiarato Abu Obeidah - il portavoce delle Brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas - durante una conferenza stampa che si è tenuta ieri a Gaza.

Abu Obeidah ha proclamato che "Il nemico sionista sarà colpito in ogni luogo e in qualsiasi momento", aggiungendo che "Tutte le opzioni sono aperte", in risposta a una domanda sulla possibilità che siano lanciati razzi contro Tel Aviv dalla Striscia di Gaza. Il portavoce delle Brigate Ezzedin al Qassam ha inoltre ingiunto all'Autorità nazionale palestinese di "cessare gli arresti" di simpatizzanti di Hamas in Cisgiordania.

E un assaggio di quello che potrà accadere nelle prossime settimane si è avuto oggi con il razzo sparato dalla Striscia di Gaza che ha raggiunto il Neghev occidentale senza causare vittime. Dopo che nei giorni scorsi, in attacchi rivendicati da Hamas, quattro coloni israeliani erano stati uccisi e altri due feriti in Cisgiordania.

La telenovela continua....


M.O. a favore di telecamere
di Luca Mazzuccato - Altrenotizie - 3 Settembre 2010

Abbas, Clinton e Netanyahu sorridono per le telecamere: si riparte con la farsa dei negoziati di pace israelo-palestinesi. Sembrava l'altro ieri quando Abbas, Ehud Olmert e Condoleezza Rice si stringevano le mani soddisfatti ad Annapolis, mentre George W. Bush benediceva la portata storica dell'accordo raggiunto: talmente importante che nessuno dei presenti giovedì l'ha nemmeno nominato.

L'unico effetto dell'incontro di oggi è stato l'immediato innesco di un nuovo ciclo di violenza in Palestina, con Hamas da una parte e l'IDF e i coloni dall'altra.

Abbas e Netanyahu si sono incontrati per la prima volta: un autocrate palestinese, ormai delegittimato tra la popolazione, che continua a rinviare le elezioni e controlla soltanto metà dei Territori Occupati, ma gode dell'appoggio della Lega Araba; un premier israeliano a capo del governo di destra più estremista nella storia dello Stato ebraico, la cui coalizione è in maggioranza appiattita sulle posizioni dei coloni ebrei.

Il risultato del meeting segue la prassi dei falliti negoziati di Annapolis. Abbas e Netanyahu si sono accordati soltanto sulla data per il prossimo meeting, da tenersi fra due settimane a Sharm el-Sheikh, sul Mar Rosso, alla presenza di Hillary Clinton, in cui verranno fissate le date dei meeting successivi, da tenersi in forma riservata ogni due settimane. Il format ricopia per filo e per segno i meeting riservati tra Abbas e Olmert, che precedettero il (non) accordo di Annapolis.

Come volevasi dimostrare, nessuno ha parlato di contenuti. Stupefacenti i due commenti del Segretario di Stato Clinton, secondo la quale “si può raggiungere un accordo entro un anno”, ma precisando che “l'America non può e non vuole imporre alcuna soluzione.”

Come dire, grazie per le foto e adesso arrangiatevi. È ovvio, infatti, che, senza la pesante pressione degli Stati Uniti, i cui finanziamenti massicci mantengono al potere Abbas da una parte e l'esercito israeliano dall'altra, non è possibile nessun tipo di accordo.

Che si tratti dell'ennesimo negoziato-farsa è sotto gli occhi di tutti. Innanzitutto, nel suo discorso di apertura Netanyahu si è rivolto direttamente ad Abbas e gli ha spiegato che “così come voi vi aspettate che noi riconosciamo lo Stato Palestinese come nazione di tutto il popolo palestinese, così noi ci aspettiamo che voi riconosciate Israele come la nazione del popolo ebraico.”

Condizione che nessun palestinese (con la possibile eccezione di Abbas) si sognerebbe mai di accettare, se non altro per via del milione e mezzo di palestinesi che sono cittadini israeliani. Per non parlare della questione dei profughi.

La condizione fondamentale da parte palestinese per l'avvio di negoziati è il blocco dell'espansione delle colonie ebraiche in West Bank, come ha ricordato Abbas durante la conferenza stampa. Anche se ha poi ribadito che i negoziati saranno “senza precondizioni,” nell'ennesimo walzer di smentite.

La questione degli insediamenti pare al momento del tutto irrisolvibile. Da una parte, Netanyahu ha ufficialmente congelato l'espansione delle colonie fino al 26 dicembre. Il blocco però non ha minimamente infastidito i coloni, che hanno continuato senza sosta a costruire abusivamente. Ad esempio, l'avamposto di Migron, smantellato dall'esercito israeliano, è stato prontamente ripristinato. Ma gli esempi sono innumerevoli e ben documentati dal lavoro delle organizzazioni pacifiste israeliane.

Anche prendendo per vera la storia del blocco degli insediamenti, al suo scadere in tre settimane la costruzione riprenderà a gonfie vele, come ha confermato oggi il vicepremier Silvan Shalom, secondo il quale un'estensione del blocco porterebbe inevitabilmente alla caduta del governo.

La maggioranza dei partiti che sostengono Netanyahu infatti aderiscono interamente al progetto di colonizzazione della West Bank e si fanno portavoce delle istanze dei coloni.

Poche ore dopo la conferenza stampa a Washington, DC, il Consiglio dei Coloni ebrei in West Bank ha annunciato la fine del blocco degli insediamenti e la ripresa immediata della costruzione di nuove case in ottanta insediamenti illegali.

La prova di forza tra coloni e governo israeliano è soltanto apparente. In realtà, Netanyahu non si è mai impegnato a far rispettare il blocco e dunque i coloni hanno sempre avuto mano libera.

L'incontro tra Abbas e Netanyahu ha purtroppo avuto un risultato netto: la ripresa delle violenze nei Territori Occupati. Hamas ha giurato di sabotare a tutti i costi i negoziati lanciando una campagna di attacchi contro i coloni israeliani e minacciando la ripresa di attacchi sul suolo d'Israele. Il portavoce di Hamas Zuhri ha infatti ribadito che “Abbas non ha il diritto di parlare per i Palestinesi, né quello di rappresentarli, e dunque nessun accordo sarà vincolante.”

Questa settimana, Hamas ha rivendicato l'uccisione di due uomini e due donne israeliani, di cui una incinta, nei pressi di Hebron. L'ala militare del gruppo islamico ha annunciato che “questo attacco è parte di una serie di attacchi, alcuni sono già stati eseguiti, altri seguiranno.”

Contemporaneamente alla conclusione dell'incontro a Washington, l'esercito israeliano è entrato a Gaza con carri armati e bulldozer per demolire delle case a Beit Hanoun, mentre scontri a fuoco nella zona sono proseguiti per tutto il giorno.

I colloqui sono dunque serviti a tutte e tre le parti in causa. Obama, in un momento di estrema difficoltà in vista delle elezioni di novembre, può vantare la riapertura dei negoziati come prova del suo successo in politica estera, dopo aver ottenuto il Premio Nobel per la Pace sulla fiducia.

Il Presidente palestinese Abbas, come la testa di Nixon sotto formalina in Futurama, è ormai tenuto in vita artificialmente al solo scopo di rendere possibili questi incontri fotogenici.

Ma il vero vincitore è Benjamin Netanyahu, che può vestire ora i panni della colomba, mentre dietro la schiena continua la costruzione del Muro, l'espulsione di palestinesi da Gerusalemme Est e la costruzione indisturbata di nuove colonie in West Bank. Ma tutto a telecamere spente.


L'Iran: niente pace con Israele

di Maurizio Molinari - La Stampa - 4 Settembre 2010

Netanyahu pensa a un referendum sull'accordo con l'Anp

L’Iran e gli Hezbollah tuonano contro il negoziato di pace ripreso a Washington mentre israeliani e palestinesi lavorano per preparare l’agenda del prossimo summit, che si svolgerà a Sharm el-Sheik.

Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha definito i negoziati «nati morti e condannati al fallimento» parlando a Teheran durante una manifestazione pro-palestinese per il «Giorno di Gerusalemme» celebrato dagli sciiti. «Abu Mazen è un ostaggio dei sionisti e i colloqui che ha iniziato a Washington sono illegittimi» ha aggiunto Ahmadinejad, ammonendo il presidente dell’Autorità nazionale palestinese a «non fare concessioni in nome di un popolo che non rappresenta».

«Chi gli ha dato il diritto di svendere un pezzo di terra palestinese? Il popolo palestinese e quelli della regione non glielo consentiranno» ha tuonato, assicurando la folla che «la sorte della Palestina sarà decisa dalla resistenza e non a Washington, Parigi o Londra, se i leader della regione non ne hanno la forza saranno i popoli a rimuovere il regime sionista dalla faccia della terra».

I manifestanti erano decine di migliaia ed hanno gridato «Morte all’America, morte a Israele» innalzando caricature offensive di Barack Obama e cartelli con la scritta «Gerusalemme è nostra».

In marcata convergenza di toni e termini con Ahmadinejad, ha parlato dal Libano Hassan Nasrallah, leader del partito filo-iraniano Hezbollah, durante un discorso tv nel quale ha affermato che «tutta la Palestina dal Mediterraneo al fiume Giordano appartiene solamente ai palestinesi, agli arabi e ai musulmani e nessuno ha diritto a cederne un grano di terra o una goccia d’acqua».

L’affondo contro il negoziato è stato ripetuto, duro e diretto: «Neanche una singola strada di Gerusalemme potrà mai essere la capitale di uno Stato immorale e illegale chiamato Israele, queste trattative sono nate morte perché la grande maggioranza dei palestinesi è contraria al principio di negoziare con Israele così come lo siamo noi».

Da qui l’appello a «continuare la resistenza che è l’unica via alla vittoria» anche perché «Israele è in grande crisi» e «gli Usa non sono più in grado di combattere guerre in questa regione del mondo».

Le parole di Ahmadinejad e Nasrallah confermano come Teheran sia l’avversario strategico dichiarato del processo di pace, e l’Egitto di Hosni Mubarak ha reagito cancellando la visita al Cairo che lunedì avrebbe dovuto fare il ministro degli Esteri Manouchehr Mottaki.

Proprio Mottaki aveva definito nei giorni scorsi «traditori» i leader arabi come Mubarak che sostengono il negoziato diretto e l’Egitto ha voluto mandare un segnale che si sovrappone alla conferma che sarà Sharm el-Sheik, nel Sinai, ad ospitare il 14 e 15 settembre il prossimo summit fra Netanyahu, Abu Mazen e Hillary Clinton.

In preparazione di tale vertice i negoziatori israeliano, Yizhak Molcho, e palestinese, Nabil Shaat, si vedranno lunedì a Gerico, in Cisgiordania, per discutere degli aspetti del dossier sicurezza che dovranno essere inclusi nel «Framework Agreement» sulla base del quale si dovrebbe arrivare all’accordo finale entro un anno.

Il premier israeliano ha fatto sapere di essere disposto a prendere in considerazione l’ipotesi di un referendum sui contenuti del «Framework Agreement» prima della sigla finale.

Da Ramallah invece si è appreso che Abu Mazen, durante l’incontro bilaterale con Netanyahu a Washington, gli ha consegnato copia degli accordi raggiunti con il precedente premier Ehud Olmert per fargli sapere «fino a dove eravamo arrivati». Netanyahu ha reagito prendendo appunti e commentando: «Mi interessa ogni cosa che dici».


Medio Oriente, neanche Obama fa miracoli

di Lucia Annunziata - La Stampa - 4 Settembre 2010

Il processo di pace fra israeliani e palestinesi è per i Presidenti americani una sorta di pellegrinaggio a Medjugorie: la regolare, sia pur quasi sempre disperata, ricerca di un miracolo. Neppure Barack Obama ha fatto eccezione a questa regola.

Il suo recente tentativo di ravvivare la speranza in Medioriente convocando a Washington i leader più direttamente coinvolti nel conflitto ha ottenuto risultati definiti «modesti» anche dai più benevoli osservatori.

L’accordo fra le parti consiste infatti nell’essersi accordati ad incontrarsi ogni due settimane - il prossimo incontro è per il 14 e il 15 settembre - per la durata di un anno, nella promessa che in un anno «si raggiungerà la pace».

Il primo ostacolo si profila già per il 26 settembre. In quella data scade la moratoria sulla costruzione degli insediamenti, e Israele non avrebbe intenzione di prolungarla.

Quello che rimane della due giorni di Washington è dunque solo una domanda: perché mai questi colloqui sono stati convocati? E forse la parte più interessante dell’appuntamento è proprio il tipo di risposta che comincia a circolare: forse il metodo (oltre che il merito) dei colloqui di pace in Medioriente ha fatto il suo tempo.

In epoca di leadership deboli, quale è - a dispetto di tutti i suoi ammiratori - anche quella di Obama, forse gli Stati Uniti non sono più i migliori mediatori.

Prima di arrivare ad esplicitare questi dubbi, va ricordato che l’intervento americano in Medioriente ha, in politica estera, una forte valenza narrativa. Lo racconta molto bene William Quandt, membro del National Security Council, nella riedizione aggiornata di un suo libro, un classico per il settore: «Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict Since 1967».

L’intervento Usa in Medioriente è, vi viene ricordato, relativamente nuovo, ma ha un alto impatto simbolico. Dal primo coinvolgimento diretto nella questione arabo-israeliana di Lyndon Johnson, che nel 1967 appoggiò l’invasione e occupazione dei Territori della West Bank, fino all’Obama di oggi, il ruolo americano è una lunga catena di speranze, successi, e delusioni.

Johnson vede spezzata la sua speranza di pace con la guerra del 1973, che portò poi il Medioriente dritto sul tavolo di Kissinger e Nixon, essi stessi ben altrimenti occupati dal conflitto in Vietnam.

L’idea di un negoziato americano nasce, nota Quandt, tuttavia, proprio dal metodo che porta alla fine del Vietnam - l’idea appunto di un tavolo di trattative in cui gli americani siano la forza propulsiva.

Il primo successo di questo approccio lo coglie Carter, con il Camp David del 1978, in cui Begin ed Anwar Sadat si stringono la mano.

I due leader ricevono il Nobel per la Pace, ma nemmeno quel successo dura: la presidenza Carter è oscurata dalla crisi iraniana, e nell’era Reagan, l’assassinio di Sadat nel 1981, poi l’uccisione di 242 marines a Beirut nel primo suicidio bomba della storia, infine lo scandalo Iran-Contras, chiudono definitivamente l’era di Camp David.

Vi riproverà il primo Bush, con la shuttle diplomacy inventata da James Baker, che porterà alla conferenza di pace di Madrid, e i cui frutti saranno colti da Bill Clinton con gli accordi di Oslo del 1993. Le guerre non si fermano.

Nel 2000 prima di chiudere il suo secondo mandato Clinton rifarà un tentativo, che verrà ricordato solo per la cerimonia che scimmiotta il primo Camp David. C’è poi un secondo Bush, il cui lavoro finirà nel mare magno della doppia guerra nel Golfo (Iraq e Afghanistan).

Infine Obama, il cui segretario di Stato e un altro Clinton, Hillary, che della pace con il mondo musulmano ha fatto la più rilevante promessa della sua campagna elettorale.

Sulla strada di questa pacificazione Obama si è molto impegnato. Va ricordato il suo discorso al Cairo, il primo fatto in territorio musulmano da un presidente Usa; il ritiro dall’Iraq, e quello, promesso, dall’Afghanistan; ma anche la decisione di dare via libera alla moschea vicino al sito dell’11 Settembre.

Per questo lavoro Obama ha anche pagato dei costi: primo fra tutti una crescente tensione con Israele, che fin dall’inizio ha guardato alle sue attività mediorientali come a una presa di distanza, nei fatti, dalla tradizionale amicizia senza se e senza ma fin qui esistita fra Israele e Washington.

Ma il dossier Palestina-Israele è cresciuto, comunque, nei mesi passati: gli Usa hanno ottenuto un isolamento parziale di Hamas, nella West Bank hanno rafforzato la leadership palestinese moderata che sta costruendo un primo abbozzo di Stato; dalla stessa Israele, nel bene o nel male, hanno ottenuto la moratoria sugli insediamenti.

Eppure, come si è visto in questi giorni chiaramente, il processo di pace rimane sempre più «un processo», e sempre meno «pace».

Si torna così alla domanda: perché allora convocare questi appuntamenti? La risposta tradizionale, cui si accennava sopra, non è più sufficiente. L’impegno in Medioriente è un «obbligo» per la politica estera americana, e i colloqui danno ai presidenti lustro, specie in periodi di difficoltà politiche.

Ma l’altalena storica di successi e insuccessi è ormai probabilmente troppo lunga persino per i meglio intenzionati. Un’atmosfera di scetticismo accompagna ormai, infatti, questi incontri: gli stessi leader che vi intervengono non nascondono i loro (mal)umori.

Sfogliando il dibattito politico a più ampio raggio, si ha l’impressione che da questa impasse stia emergendo un ripensamento dell’intero approccio. Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia in Israele, ed ex negoziatore israeliano, due giorni fa ha scritto in merito una riflessione che punta dritto al cuore del problema.

Ricordo - scrive - che siamo riusciti non poco tempo fa a stendere 500 pagine di accordi dettagliati in cui tutte le questioni venivano risolte, ma le 500 pagine sono rimaste lettera morta. Perché? La risposta è semplice e difficile insieme: la pace non è un negoziato, dice Beilin, la pace è un atto politico.

Gli fa eco un altro ex negoziatore, Aaron David Miller che è stato a lungo consigliere sul Medioriente per segretari di Stato sia repubblicani che democratici. Miller, che ha scritto «The Much Too Promised Land: America’s Elusive Search for Arab-Israeli Peace», è intervenuto sul numero di maggio-giugno di Foreign Policy denunciando la sua sfiducia in quella che secondo lui, negli anni, è diventata una convinzione quasi religiosa: «L’America ha usato il suo potere per fare guerre, può dunque usarlo anche per fare la pace. Ne ero un credente. Oggi non lo sono più».

Le ragioni di questa sua disillusione vanno probabilmente lette - da chi volesse saperle - direttamente su Foreign Policy. Quello che davvero rimane del suo intervento sono i dubbi che innesta nelle sicurezze fin qui coltivate: «Il vecchio modo di pensare su come costruire la pace vale ancora oggi in un nuovo contesto? Il conflitto arabo-israeliano è davvero al centro di tutto?

E, dopo due decenni di grandi speranze seguite da violenza e terrore, possiamo davvero credere che le negoziazioni servono? Infine, davvero l'America ha il potere di fare la pace?».
In assenza di risposte, la grande politica mondiale rimane in stand by.


Il fascismo israeliano, le divisioni palestinesi
di Zvi Schuldiner - www.ilmanifesto.it - 4 Settembre 2010

Il grande show di Washington riflette più i problemi e le necessità del Medio oriente che un reale processo di pace.

Dopo essersi guadagnato critiche favorevoli ma forse frettolose quando sembrava interessato a un processo di pace diverso da quello sperimentato in passato, ora il presidente degli Stati uniti Obama sostanzialmente cerca solo di assicurare un periodo di pace per le prossime elezioni americane.

Il primo ministro israeliano Netanyahu ripete un po' ciò che aveva fatto il suo predecessore Barak nel 2000: dimostrare, sforzandosi soltanto un po', che la paralisi del processo di pace è colpa della posizione dei palestinesi.

Il premier palestinese Abbas si trascina all'incontro come lo fece, a suo tempo, Arafat: sa che non succederà niente di serio o di sostanza, ma non può smettere di giocare.

Obama cercherà di segnare qualche punto in vista di elezioni la cui questione centrale sarà, con ogni probabilità, una politica economica che aiuta molto il settore finanziario e lascia i salariati e i disoccupati ai loro problemi. Il neoliberalismo, che ha già rafforzato la linea di Reagan negli anni di Clinton, continua a imporsi, più o meno con gli stessi improbabili personaggi in campo economico.

Alla guida di una coalizione di estrema destra, Netanyahu manterrà la paralisi che ha già caratterizzato i negoziati del governo precedente: la posizione israeliana è la piena continuità di un processo coloniale che, continuando così, minaccerà il futuro di Israele più di qualunque bomba iraniana, reale o immaginaria.

In Israele non si sono registrati cambiamenti essenziali e il predominio del nazionalismo estremo, alleato a forti correnti fondamentaliste, si manifesta nella forma di un crescente deterioramento della società.

Forme di maccartismo e di razzismo si coniugano in maniera tale che la xenofobia ormai si manifesta in forme da essere divenuta l'ostacolo più formidabile per qualsiasi reale negoziato di pace.

La pace e il fascismo israeliano diventano un binomio antagonista, e in modo brutale. I diversi elementi della grande coalizione nazionalista-fondamentalista e neofascista rappresentano il vero nemico di una pace possibile e alimentano gli elementi più radicali, non solo nella società palestinese ma in tutto il mondo arabo.

Nel frattempo all'interno della società palestinese diventa chiaro, molto chiaro, che senza una riunificazione nazionale palestinese i negoziati non sono più che un teatrino diplomatico privo di alcun significato.

Il presidente Abbas non rappresenta altro che un pugno di leader che non godono nemmeno dell'appoggio del loro stesso partito. Hamas potrebbe appoggiare silenziosamente i negoziati se intravedesse la possibilità di un risultato pratico, ma teme che che se Abbas e l'Olp conseguissero un progresso reale, ciò li rafforzerebbe nella politica interna palestinese.

La maggior parte della popolazione palestinese è stanca della guerra e appoggerebbe una soluzione diplomatica di compromesso, ma le attuali divisioni nella sua leadership rendono molto difficile presentare una proposta forte nei negoziati.

Fondamentalmente, tre elementi sono necessari per arrivare a un vero processo di pace. Il primo è un cambiamento reale e non solo verbale e demagogico degli intenti colonialisti di Israele, quindi una vera predisposizione alla pace che non nasconda sofisticati sotterfugi per continuare l'occipazione con mezzi più «sottili».

Il secondo elemento riguarda la frammentazione della società palestinese, la lotta interna tra l'Olp e Hamas alimentata tra l'altro da diversi paesi arabi.

Il terzo è altrettanto importante e serio: non c'è ancora stato un reale cambiamento nella politica degli Stati uniti e di altri paesi occidentali, che continuano ad appoggiare in un modo o nell'altro l'espansionismo israeliano.

Questi elementi sono le condizioni fondamentali, senza di cui il teatri di Washington non potrà trasformarsi un un vero negoziato di pace. Peggio ancora: similmente all'anno 2000, questo potrebbe essere il preludio a un nuovo spargimento di sangue, magari dopo le elezioni di novembre degli Stati uniti.


Israele-Palestina: ricominciamo
di Christian Elia - Peacereporter - 2 Settembre 2010

''Ho distrutto gli Accordi di Oslo, facendo credere all'Amministrazione Clinton di aver fermato nuovi insediamenti e di lavorare per il processo di pace. In realtà facevo l'opposto e firmavo leggi per aiutare l'espansione territoriale ebraica''.

Così parlò il premier d'Israele, Benjamin Netanyahu. A incastrarlo un video, trasmesso da Canale 10 un mese fa, che riprende l'attuale premier (e primo ministro anche nel 1996) mentre visita una famiglia di coloni. ''Questo video avrebbe dovuto essere proibito ai minori. Questo video avrebbe dovuto essere visto in tutte le case di Israele e poi mandato a Washington e a Ramallah.

Proibito ai bambini, per non corromperli e distribuito in tutto il Paese e nel mondo perché ognuno sapesse chi è alla testa del governo di Israele'', ha commentato Gideon Levy, grande firma del quotidiano israeliano Ha'aretz.

Immagini che fanno pensare, visto che oggi, 2 settembre 2010, iniziano i colloqui diretti - sotto l'egida degli Stati Uniti d'America - tra l'Autorità Nazionale Palestinese guidata da Mahmoud Abbas e il governo israeliano del premier Benjamin Netanyahu.

Per una vita, dagli israeliani e non solo, i palestinesi sono stati ritenuti partner poco affidabili. Del vecchio Arafat si diceva che studiasse un discorso prima nella versione in inglese, piena di buone intenzioni care agli occidentali, poi in arabo, piena di parole di fuoco a uso dell'opinione pubblica interna. Sarà stato anche vero, ma è tempo di chiedersi quanto peso bisogna dare anche alle parole dei leader israeliani.

Se un conflitto, senza tregua, si trascina dal 1948 è difficile che la colpa sia di una parte sola. Questo il peso che aleggia sul confronto che da oggi mette allo stesso tavolo, per l'ennesima volta, i leader del conflitto israelo-palestinese.

Come spesso è accaduto in passato, ultimo esempio il vertice di Annapolis a novembre 2007, i colloqui sono più utili alla stampa che alle popolazioni interessate. In primo luogo a causa della fragilità degli interlocutori.

G.W.Bush, presidente Usa in grande difficoltà, perso nel pantano iracheno, tentò un colpo ad effetto ma il vertice tra Abbas e Ehud Olmert, premier israeliano nel 2007, si rivelò un nulla di fatto.

Obama, oggi, non pare in una posizione molto differente dal suo predecessore. Il suo pantano di chiama Afghanistan e la crisi economica che attanaglia gli Usa. Incombono - novembre 2010 - le elezioni di medio termine e come spesso accade le amministrazioni Usa s'impegnano nel conflitto israelo-palestinese quando ne hanno bisogno.

Se è debole il mediatore, figuriamoci i contendenti. Ancora una volta è stata esclusa Hamas, in sprezzo di qualsiasi logica. Viene lasciata fuori una parte politica determinante della società palestinese.

Ma non solo, visto che Abbas è stato umiliato dal Segretario di Stato Usa Hillary Clinton che lo fa sedere al tavolo delle trattative senza precondizioni. Questo significa che la potenza occupante non dovrà impegnarsi a ripristinare nessuna delle richieste del diritto internazionale.

Questo ha alienato ad Abbas anche il sostegno di molti del suo stesso partito, al-Fatah, come Marwan Barghouti, leader in carcere ma molto ascoltato. Rifiuto che arriva anche dai settori della società civile palestinese, come il dottor Mustafà Barghouti, e dagli ambienti progressisti e laici del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Un uomo solo, Abbas, che detiene una presidenza ben oltre la scadenza del suo mandato elettorale. Chi rappresenta Abbas, se non se stesso? Dopo il video, poi, chi crederà alle promesse di Netanyahu? Il conflitto arabo-israeliano è un rebus sempre più intricato, che soffoca la popolazione civile palestinese.


Chiamata da Benjamin
di Amira Haas* - www.internazionale.it - 2 Settembre 2010

Non sono il tipo che rifiuta le telefonate anonime. Qualche giorno fa ne ho ricevuta una mentre camminavo sulle terre espropriate del villaggio di Nabi Samuel, verso le case dei palestinesi a cui le autorità israeliane impediscono qualsiasi costruzione.

È il villaggio che negli ultimi quarant’anni non ha potuto avere una roulotte per l’ambulatorio medico né espandere il monolocale che ospita la scuola. Famiglie composte da quindici o venti persone vivono in due o tre stanze.

Una famiglia con cui ho parlato era stata costretta a trasformare la rimessa delle capre in una stanza per sei persone. Mi hanno fatto promettere che non avrei parlato del loro abuso edilizio. Temevano che l’esercito isrealiano arrivasse per distruggere la stanza.

Mentre mi avvicinavo all’ex rimessa delle capre, è arrivata la telefonata. Una voce familiare mi è risuonata nell’orecchio: “Shalom, sono Benjamin Netanyahu”. Era un messaggio registrato. Seguiva un lungo discorso nel quale il primo ministro prometteva di riprendere l’edificazione nelle colonie subito dopo la fine del periodo di congelamento (26 settembre).

Le telefonate sono solo uno dei molti strumenti di pressione usato dalla potente lobby dei coloni. Mandano anche degli sms in cui si parla della crescita naturale dei coloni e del loro diritto di espansione.

La fonte degli sms non rivela l’intero numero, ma un codice che – chissà se volutamente – è 1948. L’anno in cui le forze armate israeliane eseguirono l’espulsione di massa del popolo palestinese.

* Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, scrive per il quotidiano Ha'aretz e ha una rubrica su Internazionale.


Quei giovani israeliani e palestinesi senza sogni
di Paola Caridi e Serena Danna - Il Sole 24 Ore - 4 Settembre 2010

Vivono in una bolla i giovani israeliani e quelli palestinesi mentre Washington ha tenuto a battesimo l'inizio del nuovo processo di pace in Medio Oriente con l'incontro fra il segretario di stato Usa Hillary Clinton, il premier israeliano Beniamin Netanyahu e il presidente dell'autorità nazionale palestinese Abu Mazen.

È un inizio, l'ennesimo. Ma i trentenni parlano d'altro. Il settimanale Time dedica l'ultima copertina a Why Israel doesn't care about peace. È «una bolla», come la chiamano in Israele. «I giovani non credono più che le cose possano cambiare - dice lo scrittore Ron Leshem, 33 anni, autore di Tredici soldati -. Sono stanchi di guerra e politica. Avendo perso la speranza nel futuro, l'unica cosa che resta è vivere alla giornata».

Leshem, che ha dato voce alle contraddizioni nella narrativa israeliana, racconta che i suoi coetanei si sono chiusi nell'individualismo: «Le nuove generazioni sono ossessionate dal presente e il presente si riduce a sesso e alcolici».

Sul fronte palestinese tanta disillusione verso i politici, soprattutto i propri, e la ricerca di impegno civile diverso, tra web e gruppi di pressione: «I palestinesi, giovani compresi, non pensano alla pace», dice Najwan Darwish, uno dei poeti più interessanti della giovane generazione palestinese.

A parlare con i ragazzi tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania, si capisce che il loro rapporto con il futuro ha il sapore di una parola ebraica che risuona nelle conversazioni in arabo. Machsom, cioè check point, e ciò che ne consegue: barriera, fila, perquisizione, controllo documenti.

Vecchi incubi, di cui i giovani, per pudore, non parlano. Sono le madri a farlo. Loro vorrebbero una politica normale, uno stato, un paese, per questo parlano di accordi e pace, ma temono che i leader che li guidano non rappresentino la società.