venerdì 17 settembre 2010

News shake

Oggi s'inaugura una nuova rubrica, una sottospecie di rassegna stampa.

Una serie di articoli su argomenti random che ben si confà comunque al nome del blog.

Non sarà a cadenza fissa. A caso, ma non per caso...


Afghanistan, un'altra commedia elettorale
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 17 Settembre 201

Sabato il voto per il rinnovo della Camera bassa del parlamento di Kabul. Milioni di tessere elettorali false sono già in circolazione. E quest'anno non ci sono nemmeno gli osservatori internazionali

Sabato va in scena in Afghanistan l'ennesima farsa elettorale.
Cinque milioni di afgani sono chiamati alle urne per rinnovare la Camera bassa del parlamento, la Wolesi Jirga.

La regolarità del voto, questa volta, non è in discussione, nel senso che è già assodato che i brogli saranno massicci e sistematici.

La moda di quest'anno sono le tessere elettorali false stampate a Peshawar (nella foto) e acquistate da quasi tutti i candidati per consentire il voto multiplo ai loro sostenitori. Ne sono state vendute almeno un milione e mezzo, e sono di fattura così buona che difficilmente, nei seggi, verranno individuate come false.

Di fronte a questa preannunciata orgia elettorale, la comunità internazionale, invece di moltiplicare gli sforzi per garantire un livello minimo di decenza e credibilità, ha pensato bene di ridurre drasticamente, praticamente di azzerare, il numero di osservatori elettorali.

La principale squadra di monitoraggio, quella dell'Unione europea, che alle elezioni presidenziali afgane dell'anno scorso era composta da 120 osservatori, schiera questa volta ben 7 persone.

Anche tutte le altre strutture straniere di monitoraggio hanno sostanzialmente abbandonato il campo, adducendo ragioni di sicurezza: l'International Republican Institute ha ridotto i suoi osservatori da 160 a 40; l'Asian Network for Free Elections, da 74 a 30, e così via.

Quindi, a vigilare sulla regolarità del voto nei quasi seimila seggi elettorali afgani, sabato rimarranno solo i volontari locali della Free and Fair Election Foundation Afghanistan (Fefa), che ha già fatto sapere che riuscirà a coprire al massimo due terzi dei seggi.

Brogli a parte, più che un voto per rinnovare i membri della Camera bassa, le elezioni di sabato la riconfermeranno. Il 90 per cento dei 249 deputati attuali si è infatti ricandidato e, ovviamente, sono loro ad avere la maggior probabilità di raccogliere voti.
Il nuovo parlamento sarà quindi quasi identico a quello eletto cinque anni fa, ovvero - salvo rare eccezioni - una congrega di criminali di guerra, mafiosi e narcotrafficanti.

Secondo un rapporto della Commissione afgana indipendente per i diritti umani, il 60 per cento degli attuali membri della Camera bassa è legata a gruppi armati, ovvero alle mai disarmate fazioni di mujaheddin dell'ex Alleanza del Nord, almeno 40 parlamentari sono tuttora 'commander' di tali milizie, 24 sono capi della criminalità organizzata, 17 sono noti trafficanti di droga e su 19 pendono accuse di gravi crimini di guerra e violazioni di diritti umani.


Narcoguerra
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 15 Settembre 2010

Eroina afgana sui voli militari britannici di ritorno dal fronte. La notizia rafforza i sospetti sui reali interessi economici che si nascondono dietro la guerra in Afghanistan

La notizia, diffusa lunedì dalla Bbc, dei militari britannici e canadesi accusati di trasportare eroina in Europa sfruttando l'assenza di controllo sui voli militari di ritorno dal fronte, non fa che rafforzare i sospetti sui reali interessi economici che si nascondono dietro la guerra in Afghanistan.

Il traffico 'militare' di eroina scoperto tra le basi Nato nel sud dell'Afghanistan (Helmand e Kandahar) e l'aeroporto militare di Brize Norton, nell'Oxfordshire, verrà liquidato con la solita spiegazione delle 'mele marce', del caso isolato che riguarda solo alcuni individui.

Più probabilmente si tratta invece della punta dell'iceberg, o meglio delle briciole di un traffico ben più grande e strutturato che i suoi principali gestori - militari e servizi segreti Usa - lasciano ai loro alleati, evidentemente meno bravi di loro nel non farsi scoprire.

Solo pochi mesi fa sulla stampa tedesca era venuto fuori che una delle principali agenzie private di contractors addette alla logistica delle basi Nato in Afghanistan - la Ecolog, sospettata di legami con la mafia albanese - era coinvolta in traffici di eroina afgana verso il Kosovo e la Germania.

L'anno scorso fece molto scalpore la rivelazione, del New York Times, che Walid Karzai, fratello del presidente afgano e principale trafficante di droga della provincia di Kandahar, fosse da anni sul libro paga della Cia.

"I militari americani non contrastano la produzione di droga in Afghanistan perché questa frutta loro almeno 50 miliardi di dollari all'anno: sono loro a trasportare la droga all'estero con i loro aerei militari, non è un mistero", dichiarava nell'estate 2009 a Russia Today il generale russo Mahmut Gareev.

Già nel 2008 la stampa russa, sulla base di informazioni di intelligence non smentite dall'allora ambasciatore di Mosca a Kabul, Zamir Kabulov, rivelava che l'eroina viene portata fuori dall'Afghanistan a bordo dei cargo militari Usa diretti nelle basi di Ganci, in Kirghizistan, e di Inchirlik, in Turchia.

Nello stesso periodo, un articolo apparso sul quotidiano britannico Guardian riferiva delle crescenti voci riguardanti la pratica dei militari Usa in Afghanistan di nascondere la droga nelle bare dei caduti aviotrasportate all'estero, riempite di eroina al posto dei cadaveri dei soldati.

"Le esperienze passate in Indocina e Centroamerica - si leggeva, sempre nel 2008, sull'americano Huffington Post - suggeriscono che la Cia potrebbe essere coinvolta nel traffico di droga afgana in maniera più pesante di quello che già sappiamo. In entrambi quei casi gli aerei Cia trasportavano all'estero la droga per conto dei loro alleati locali: lo stesso potrebbe avvenire in Afghanistan. Quando la storia della guerra sarà stata scritta, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina afgana sarà uno dei capitoli più vergognosi".

Nel 2002 il giornalista ameriano Dave Gibson di Newsmax ha citava una fonte anonima dell'intelligence Usa secondo la quale "la Cia è sempre stata implicata nel traffico mondiale di droga e in Afghanistan sta semplicemente portando avanti quello che è il suo affare preferito, come aveva già fatto durante la guerra in Vietnam".

Secondo lo storico Usa Alfred McCoy, principale studioso del coinvolgimento della Cia nel narcotraffico in tutti i teatri di guerra americani degli ultimi cinquant'anni (fino alla resistenza antisovietica afgana degli anni '80), il principale obiettivo dell'occupazione americana dell'Afghanistan era il ripristino della produzione di oppio, inaspettatamente vietata l'anno prima dal Mullah Omar nella speranza di guadagnarsi il riconoscimento internazionale.

I fatti, e il buon senso, sembrano confermare la tesi di McCoy: dopo l'invasione del 2001, la produzione e lo smercio di oppio afgano (e dell'eroina) sono ripresi a livelli mai visti, polverizzando in pochi anni i record dell'epoca talebana, mentre le truppe Usa e Nato si sono sempre rifiutate di impegnarsi nella lotta al narcotraffico, continuando a sostenere i locali signori della droga.

Rimane una domanda di fondo: perché mai gli apparati militari e d'intelligence americani, in teoria dediti alla sicurezza nazionale e internazionale, mirano da decenni al controllo del narcotraffico? Per la venalità dei loro vertici corrotti? Per garantirsi fondi neri per operazioni coperte? O forse dietro c'è qualcosa di più strategico e sistemico che, alla fine, riguarda realmente il mantenimento della la sicurezza?

Il direttore generale dell'Ufficio Onu per la droga e la criminalità (Unodc), Antonio Maria Costa, ha implicitamente risposto a questa domanda, dichiarando che gli enormi capitali derivanti dal riciclaggio dei proventi del narcotraffico costituiscono la linfa vitale che garantisce la sopravvivenza del sistema economico americano e occidentale nei momenti di crisi.

''La maggior parte dei proventi del traffico di droga, un volume impressionante di denaro, viene immesso nell'economia legale con il riciclaggio'', affermava Maria Costa nel gennaio 2009. ''Ciò significa introdurre capitale da investimento, fondi che sono finiti anche nel settore finanziario, che si trova sotto ovvia pressione (a causa della crisi finanziaria globale, ndr)''.

''Il denaro proveniente dal narcotraffico attualmente è l'unico capitale liquido da investimento disponibile'', proseguiva il direttore dell'Unodc. ''Nel 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E' ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi''.


Blackwater: uccidere e depredare
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 16 Settembre 2010

La Blackwater non lascia, anzi raddoppia. La notizia, recentemente accreditata da una serie di articoli del New York Times, riguarda la mancata dissoluzione della Blackwater Worldwide, l’azienda fondata nel 1998 da ex membri della Navy Seals - United States Navy SEa, Air and Land forces (SEAL); cioè da ex membri delle forze speciali d'élite della U.S. Navy, impiegate dal governo degli Stati Uniti d'America in conflitti e guerre non convenzionali, difesa interna, azione diretta, azioni anti-terrorismo ed in missioni speciali di ricognizione, in ambienti operativi prevalentemente marittimi e costieri.

La Blackwater Worldwide che in più occasioni non ha fatto segreto di aver preparato decine di migliaia di agenti di sicurezza, specializzati per lavorare in zone calde del mondo, ha creato recentemente notevoli imbarazzi alle amministrazioni americane, dimostrando in più occasioni di non aver rispetto per nulla che non sia il fiume di denaro derivante dai contratti con il Pentagono ed il dipartimento di Stato americano.

La sua triste fama è dovuta ai numerosi scandali che hanno recentemente interessato i conflitti, post 11 settembre, in Afghanistan e in Iraq. Se, infatti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale furono gli americani a mostrare al mondo i tesori artistici recuperati dalla residenza di Herman Goering (che aveva depredato sistematicamente tutti i migliori musei delle città europee conquistate), nel 2003 sono stati gli iracheni a mostrare al mondo quel poco che rimaneva del loro immenso tesoro culturale ed artistico, distrutto e trafugato dalle truppe occupanti dopo la conquista di Baghdad.

Scoppiato lo scandalo, il dito dell’accusa fu immediatamente puntato sui “contractors” - quei soggetti cioè che forniscono consulenze o servizi specialistici di natura militare, talora assimilabili alle prestazioni dei mercenari – e, tra tutti, proprio su quelli della Blackwater Worldwide.

Quando ancora i soccorsi umanitari non potevano accedere alle zone più disastrate del paese, pare che gli antiquari e i commercianti d’arte in amicizia con il Pentagono avessero totale libertà di transito nel paese. Oggetti preziosi e insostituibili risalenti all’antica civiltà dei sumeri sono stati distrutti o sono scomparsi.

Intere biblioteche sono state svuotate e quello che non veniva portato via veniva distrutto con speciali composti chimici, come documentato da tutta una serie di copiosi servizi realizzati da giornalisti indipendenti.

Sembrava quasi che si volesse togliere alla nazione ogni possibilità di rinascita, negando alle nuove generazioni l’accesso all’immenso patrimonio culturale del paese. Anche i più noti scavi archeologici venivano selvaggiamente distrutti senza alcun motivo apparente.

Ad organizzare il tutto erano gli unici soggetti che avevano un diretto interesse economico nella gestione di simili traffici: non certo l’esercito regolare né i marines né qualsivoglia altro soggetto a vario titolo inseribile nell’organigramma gerarchico statunitense, quanto piuttosto quelle truppe di mercenari pagate per eseguire il lavoro sporco, quelle “pratiche” troppo lerce per portare ufficialmente la firma dello Zio Sam, ma che comunque dovevano essere sbrigate.

Nel frattempo, con la promessa di accelerare la ricostruzione dell’Iraq, gli uomini dell’amministrazione Bush convinsero il Congresso ad autorizzare la stampa straordinaria di 20 miliardi di dollari in contanti. “Li aiuteremo a rimettere in piedi i servizi primari - affermava il Bush in diretta televisiva - come l’elettricità e l’acqua e a costruire nuove scuole, strade e ospedali”.

Fu così che 360 tonnellate di banconote da 100 dollari l’una vennero trasferite in Iraq in pacchi molto simili alla carta fotocopiatrice, ma del valore di svariati milioni di dollari ciascuno. Una volta giunte a destinazione le banconote venivano stipate nei sotterranei della ex residenza di Saddam Hussein.

I soldi erano ufficialmente sotto la responsabilità della coalizione internazionale, ma nella realtà a gestirli era il Pentagono nella persona del Proconsole americano, Paul Bremer. Costui, dopo essersi insediato a Baghdad, dichiarò che l’Iraq non era più un territorio dove vigeva la legge irachena.

Purtroppo per l’Iraq non vigeva neanche quella americana. Nel vuoto di potere lasciato dalla deposizione di Saddam, si creava così una terra di nessuno nella quale l’unica legge in vigore era quella del più forte.

E infatti, chiunque si presentasse a nome di una società americana con in mano qualunque progetto di ricostruzione, veniva immediatamente finanziato senza particolari verifiche e, spesso, senza neanche rilasciare ricevute.

Tutti gli appalti più sostanziosi sono così finiti nelle mani della Halliburton o delle sue società ausiliarie, che erano che erano le uniche stranamente autorizzate alle aste. Quando, infatti, il vice-Presidente degli Stati Uniti è anche il tuo ex direttore generale, ti si aprono strade che altri non riuscirebbero neanche a immaginare.

Ma non basta: i soldi sono tutti scomparsi letteralmente nell’arco di pochi mesi, senza che una sola autostrada, un solo ponte o un solo ospedale siano mai stati ricostruiti. In questo modo si realizzava un mostruoso paradosso nel quale le stesse persone che avevano appena finito di distruggere il paese, il vice-Presidente e il ministro della Difesa, gestivano e ricevevano i lucrosi appalti per ricostruirlo.

Pare, infatti, che non sia una coincidenza che la ex società del vice-Presidente Cheney abbia avuto un mastodontico appalto per la ricostruzione dell’Iraq. La rivista TIME sostenne, infatti, di essere in possesso di una e-mail del Pentagono in cui si affermava che è stato proprio l’ufficio di Cheney a coordinare il contratto plurimiliardario della Halliburton. Non male come conflitto d’interessi.

Questo il contesto in cui la Blackwater, ora nota come Xe Services, ha operato con il pieno appoggio della stessa Halliburton e della sua controllata KBR. Il comportamento della società è stato oggetto di severe critiche per quello che gli iracheni hanno descritto come un comportamento sconsiderato da parte delle sue guardie di sicurezza.

Tanto che, nel 2009, la compagnia ha perso il suo lucroso contratto con il Dipartimento di Stato per garantire la sicurezza diplomatica dell’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad, dopo che fu accertato dalla giurisdizione americana che, nel 2007, proprio la Blackwater si era resa responsabile di una sparatoria dove morirono 17 civili iracheni.

Nel dicembre del 2009, fu sempre il New York Times a denunciare che le guardie di sicurezza private della Blackwater avevano partecipato ad alcune tra le attività più delicate della CIA, tra cui incursioni clandestine al fianco di ufficiali dell’agenzia nei confronti di persone anche solo sospettate di essere insorti, in Iraq e in Afghanistan, oltre al trasporto dei detenuti e dei “resistenti belligeranti” presso luoghi idonei ad estorcergli confessioni non certo spontanee.

Questo secondo quanto riferito da alcuni ex dipendenti della società e da alcuni funzionari dell’intelligence, in seguito alla fuga di notizie sui metodi di interrogatorio praticati nelle carceri ed avallati dall’allora Sottosegretario alla Difesa Rumsfeld e dal vice-Presidente Cheney. Su tutti si ricorderà di certo il caso Abu Ghraib.

Dopo che la società venne duramente condannata per il suo comportamento in Iraq, gli oscuri personaggi che muovo i fili della Blackwater hanno pensato bene di spegnere i riflettori e darsi alla macchia, attraverso la creazione di una rete di più di 30 società simulate, per continuare ad ottenere milioni di dollari in contratti con il governo americano, sempre secondo quanto puntualmente verificato dagli investigatori del Congresso anche in seguito alle rivelazioni di alcuni ex funzionari della Blackwater.

Mentre non è chiaro quante di queste imprese abbiano vinto appalti, almeno tre di queste vantano ad oggi contratti con l’esercito degli Stati Uniti o con la CIA. Dal 2001, l'agenzia d’intelligence ha infatti assegnato fino a 600 milioni di dollari in contratti classificati in favore della Blackwater e delle sue affiliate, secondo quanto affermato da un funzionario del governo degli Stati Uniti e riportato in una inchiesta del NYT.

La rete di società – molte delle quali allocate in paradisi fiscali off-shore - ha consentito ai mercenari della Blackwater di oscurare il loro coinvolgimento nei lavori sporchi appaltati dal governo americano e di assicurare un basso profilo per ogni forma di attività classificate. Ragione del loro grande successo e del perché tra le fila della società siedano tanti ex alti ufficiali dell’esercito e dei marines oramai in pensione.

Per questo motivo il senatore democratico del Michigan, Carl Levin, Presidente del Comitato per il controllo delle Forze Armate, ha chiesto ufficialmente che il Dipartimento della Giustizia verifichi la possibilità che gli agenti della Blackwater abbiano ingannato il governo attraverso l’interposizione di false società affiliate per sollecitare la stipula di contratti milionari.

A tutto questo ha fatto seguito, nell’agosto 2010, un accordo che la Blackwater ha firmato con il Dipartimento di Stato che costringeva l’azienda - a titolo di transazione - a pagare 42 milioni dollari in multe per le centinaia di violazioni delle norme di controllo delle esportazioni degli Stati Uniti. Un modo forse per evitare di indagare ulteriormente su legami troppo solidi e troppo importanti per poter essere sciolti da un semplice cambio politico alla guida di quello che dovrebbe essere il paese della democrazia e della libertà.

Tra le violazioni contestate ed incluse nell’accordo vi sono infatti le esportazioni illegali di armi in Afghanistan, la formazione di truppe di belligeranti non autorizzate nel Sud del Sudan e l’addestramento di cecchini per gli agenti di polizia di Taiwan.

L'insediamento della nuova presidenza, lungi dal portare una ventata di chiarezza e giustizia sulle vicende fin qui raccontate, ha solo portato a lunghi colloqui tra la Blackwater e lo stesso Dipartimento di Stato, che ha volutamente trattato la questione come una violazione amministrativa, consentendo all'impresa di evitare accuse penali.

Tale impostazione, se da una parte chiarisce la gravità della questione mettendo chiaramente in evidenza le collusioni tra alcune frange del governo federale e le compagnie di mercenari, dall’altra - per fortuna - non risolve gli altri problemi legali che ancora oggi si imputano alla Blackwater e alla sua ex dirigenza.

I raid contro i sospettati estremisti islamici in territorio straniero si sono verificati infatti quasi ogni notte durante il momento di massima intensità della rivolta irachena, tra il 2004 e il 2006, con il personale della Blackwater che, in questo scenario, ha giocato un ruolo centrale in quello che gli addetti della società denominavano " snatch and grab”, strappare e afferrare.

Invece di limitarsi a garantire la sicurezza per gli ufficiali della CIA, molti ex guardie della Blackwater hanno anche riferito di aver partecipato, non di rado, a missioni per catturare o uccidere militanti in Iraq e in Afghanistan: una pratica che solleva questioni molto serie circa l'uso di armi e personale privato per conto di terzi sul campo di battaglia.

Se infatti un militare, almeno in teoria, è inserito in uno preciso organigramma gerarchico e risponde delle sue azioni ai sensi delle convenzioni internazionali e del codice militare di guerra in vigore nel suo paese, un agente di sicurezza privato è del tutto svincolato da qualsiasi vincolo giuridico di carattere pubblico, rispondendo solo agli ordini impartitigli dal suo committente. Con tutto quello che questo può comportare.

Separatamente, sempre alcuni ex dipendenti della Blackwater hanno confessato di aver contribuito ad assicurare la sicurezza su alcuni voli della CIA per il trasporto dei detenuti negli anni successivi al 2001.

La società privata era dunque organica e funzionalmente preposta alla gestione di tutte quelle pratiche scomode - volute dalla CIA su ordine diretto del vice-presidente Cheney - che, se scoperte, avrebbero potuto creare più di un imbarazzo all’amministrazione Bush. Quanto sopra fa emergere e rende palese come il rapporto tra i servizi americani e società private di sicurezza sia molto più profondo rispetto a quanto i funzionari di governo avevano riconosciuto.

Va da sé che la partnership della Blackwater con la CIA è stata enormemente vantaggiosa per la società del North Carolina: un legame che è diventato ancora più solido e lucroso, per entrambi i soggetti coinvolti, dopo che alcuni alti funzionari dell'agenzia sono stati iscritti - come personale di collegamento e analisti strategici - tra le fila della Blackwater. Ovviamente dietro lauti compensi.

L'azienda ha infatti continuato a crescere attraverso gli appalti concessi dal governo, nonostante le crescenti critiche e le accuse di brutalità più volte sollevate nei confronti dei suoi metodi. Sulla base di indiscrezioni raccolte e pubblicate dal NYT, l’azienda avrebbe infatti assunto un ruolo centrale nel programma di controterrorismo più importante di Washington: l'uso di droni per uccidere i leader di Al Qaeda sparsi per il mondo.

Insomma nulla lascia sperare che qualcosa in futuro possa cambiare. Se basta cambiare nome ad una società ed inventarsi qualche piccolo artificio para-legale per far dimenticare ignobili delitti, perpetrati nel disprezzo più assoluto di qualsiasi norma giuridica nazionale ed internazionale, quale speranza si può avere? Tutto cambia affinché non cambi niente.


Iraq, Le forze Usa sotto tiro nel sud sciita
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 16 Settembre 2010

Soldati americani sempre più nel mirino nella provincia di Dhi Qar, in pieno sud sciita, dove cresce il numero degli attacchi contro le loro basi – quelle rimaste – e i convogli.

Razzi, colpi di mortaio, ordigni esplosivi – tutti aumentati, e di molto, di recente – in particolare nell’ultimo mese, quello di Ramadan, che si è appena concluso.

A dar conto della situazione, un comunicato delle forze Usa nella provincia, dal quale si apprende in particolare, che a farne le spese per poco non è stata la celebre Ziggurat di Ur – che ahimé si trova non lontana della base aerea di Tallil, tuttora occupata dagli americani.

E’ successo il 6 settembre, quando alcuni razzi sono caduti a meno di un chilometro dal monumento millenario (ha 4.000 anni ed è considerato uno dei grandi tesori archeologici dell’Iraq), senza tuttavia causare perdite umane o materiali. Ma i soldati iracheni - e anche alcuni civili - se la sono vista brutta. Secondo gli americani, sarebbe stato lanciato almeno un razzo – del calibro di 122 mm.

PRT a guida italiana

A rischio in particolare è il “training center” di Camp Mittica, che ospita la 10a Divisione dell’esercito iracheno, ma anche un ospedale civile – gestito dal locale PRT (sta per Provincial Reconstruction Team), a guida italiana (il nostro ministero degli Esteri lo chiama USR: Unità di sostegno alla ricostruzione), che offre formazione ai medici iracheni ma anche assistenza ai bambini e agli anziani.

Dopo l’attacco, la polizia irachena dell’unità di risposta di emergenza di Nassiriya (la capitale di Dhi Qar) sarebbe stata spedita subito a indagare sull’accaduto, assieme ad alcuni esperti di esplosivi statunitensi. Ma è chiaro che la situazione non è tranquilla.

Secondo il quotidiano arabo al Hayat, che riferisce l’episodio [in arabo] dando la parola al portavoce delle forze Usa a Dhi Qar, maggiore Alan Brown, i militari americani nell’ultimo periodo avrebbero subito in media due attacchi al giorno, oltre agli ordigni esplosivi che scoppiano durante gli spostamenti dei convogli fuori dalle città.

Dopo il ritiro delle “forze da combattimento” completato il 31 agosto, a Dhi Qar è rimasta agli americani la base aerea di Tallil (che gli iracheni chiamano “Imam Ali”), all’interno della quale si trova il Comando delle operazioni per le province di Bassora, Muthanna, e Maysan, oltre che di Dhi Qar – e il nostro PRT (o USR che dir si voglia).

Ma la situazione sembra piuttosto calda anche in altre province del sud. E non solo per i soldati a stelle e strisce.

Secondo una “fonte della sicurezza” citata dal giornale arabo, a Maysan la sede della 10a Divisione dell’esercito iracheno (a nord della capitale, Amara) sarebbe stata colpita da cinque razzi Katiusha il giorno dell’Aid el Fitr – a tarda notte.

Niente vittime, ma si tratta indubbiamente di un segnale che il sud sciita non è proprio sotto controllo.



L'Iraq è ricco e gli Usa pagano
di Antonio Marafioti - Peacereporter - 14 Settembre 2010

Un rapporto stilato dal Gao rivela che le casse statale irachene sono in attivo di 52,1 miliardi di dollari mentre il debito pubblico degli Usa negli anni della guerra è arrivato a 13.400 miliardi di dollari

Gli Stati Uniti impiegano soldi pubblici per ricostruire l'Iraq quando l'Iraq ha un'eccedenza nei bilanci statali di 52,1 miliardi di dollari. Questo l'inquietante quadro ricostruito dall'ultimo rapporto del Government Accountability Office (Gao), l'agenzia statale incaricata di controllare l'impiego dei fondi pubblici da parte di Washington.

Verità nascoste. Il dossier di settantotto pagine si apre subito con un dato allarmante "Dal 2003, gli Stati Uniti hanno impegnato 642 miliardi di dollari per le operazioni militari americane in Iraq e hanno fornito circa 24 miliardi di dollari per la formazione, le attrezzature e gli altri servizi per le forze di sicurezza irachene mentre le analisi del Gao sui dati del governo iracheno hanno dimostrato che l'Iraq ha generato un surplus di bilancio complessivo stimato in 52,1 miliardi di dollari fino alla fine del 2009". Di questo surplus poco, o niente, è stato impiegato dal governo di Baghdad per la ricostruzione del Paese martoriato, dal 2003 fino allo scorso 31 agosto, da ben sette anni di guerra.

Nonostante tutto, i contabili dell'ufficio federale sono riusciti a scoprire inedite ricchezze nelle casse statali irachene analizzando l'ammontare e la disponibilità del bilancio statale; i saldi dei depositi bancari; e le spese che Baghdad ha riservato alla sicurezza interna. Per la conduzione della verifica oltre i dati finanziari iracheni e le documentazioni statunitensi, gli analisti hanno anche intervistato i funzionari dei rispettivi Paesi.

Deficit in aumento. Dal giorno in cui l'ex presidente George W. Bush decise di invadere l'Iraq a oggi, il debito pubblico statunitense è più che raddoppiato: da 6,400 miliardi di dollari del 2003 agli attuali 13,400 miliardi di dollari.

E mentre gli Usa hanno chiesto, e continuano a chiedere, prestiti per i conflitti in giro per il mondo, anche per quello appena terminato in Iraq, dall'altra parte della barricata il Prodotto Interno Lordo annunciato dal governo di Baghdad è aumentato fino a toccare, nel 2009, quota 65,8 miliardi di dollari.

Cifra raggiunta, secondo il Gao, a causa di discrepanze nei metodi di contabilizzazione delle somme di denaro che, stando alle affermazione del ministero del Tesoro iracheno, includono "i fondi per le lettere di credito, gli anticipi sui contratti nazionali, e altre innovazioni".

Lo stesso Consiglio Superiore di controllo iracheno ha ammesso che, riporta il dossier, "le debolezze nel sistema di registrazione degli anticipi potrebbe comportare l'appropriazione indebita di fondi statali e la presentazione non accurata delle spese".

Ma all'establishment di Washington questo sembra importare poco visto che lo stesso presidente Barack Obama ha da poco chiesto il finanziamento di 2 miliardi di dollari aggiuntivi nel bilancio per l'anno fiscale 2011 per sostenere le spese della formazione e l'equipaggiamento dei militari e della polizia irachena.

Ora il Gao si attende l'intervento del Congresso che, scrivono i redattori del rapporto, "dovrebbe considerare le risorse finanziarie disponibili dell'Iraq nel momento del riesame delle future richieste di finanziamento per sostenere le forze di sicurezza irachene".

Per il controllo dei bilanci statali l'agenzia federale statunitense si appella al Fondo Monetario Internazionale affinché monitori gli anticipi di spesa dichiarati dall'Iraq che proprio il prossimo 30 settembre dovrà presentare presso l'istituzione di Bretton Woods un resoconto dettagliato di quei "progressi (attivi di bilancio ndr) che potrebbero essere impiegati per spese future".

E dovrà farlo nel modo più preciso possibile visto che ancora non è chiaro l'ammontare esatto dei depositi finanziari vincolati dalle amministrazioni nazionali succedutesi negli anni presso istituti come la Banca centrale irachena, il Fondo di Sviluppo per l'Iraq - con sede a New York - e le varie banche di proprietà statale.

Secondo le ultime stime del Gao, nel 2009, il saldo dei depositi accumulati in questi istituti da parte del governo iracheno oscilla fra i 15,3 e i 32,2 miliardi di dollari. Mentre queste cifre rimangono pressoché intatte i contribuenti statunitensi continuano a pagare il prezzo della guerra.


Soluzione 5 per cento
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 16 Settembre 2010

Navigando senza Tom Tom nelle centinaia di paginate dei giornali piene di indiscrezioni, retroscena, interviste, dichiarazioni con smentita incorporata, il cittadino (e)lettore si chiede che diavolo sta succedendo. Ha sentito i finiani garantire il loro voto al 95% del programma in 5 punti e 13 pagine di B, che comprende tutto lo scibile umano, dall’economia planetaria alla Salerno-Reggio Calabria, e ingenuamente domanda: dov’è allora il problema?

Perché il pover’ometto, a quell’età e in quelle condizioni psicofisiche, si arrabatta per comprare traditori pronti a tradirlo appena svoltato l’angolo, pescandoli preferibilmente (e comprensibilmente) tra le coppole siciliane? Perché non s’accontenta di quel 95% di riforme, visto che in 16 anni non ne ha fatta manco una?

La risposta è banale, addirittura lapalissiana. Ma diventa un rompicapo, una sciarada, visto che la stampa italiana non serve, come nel resto del mondo, a semplificare le cose complicate, ma a complicare le cose semplici.

È raro trovare un giornale (men che meno un tg) che spieghi chiaramente cos’angustia il Caimano in queste notti di fine estate: non le grandi o le piccole riforme, e nemmeno la Salerno-Reggio Calabria; bensì, pensate un po’, i suoi processi.

Due (Mills e Mediaset) furono bloccati col “legittimo impedimento” alle soglie della sentenza di primo grado; il terzo (Mediatrade) alle soglie del tribunale. Poi ci sarebbe l’inchiesta di Trani sulle manovre anti-Annozero, ma quella riposa in pace alla Procura di Roma, così solerte invece (addirittura nella pausa estiva) sul mega-scandalo di casa Tulliani, di cui peraltro si ignora il reato.

Varato nel febbraio scorso per la durata di 18 mesi, il “legittimo impedimento” scade fra un anno. Ma potrebbe svanire già il 14 dicembre se la Consulta dovesse bocciarlo. Insomma, i tre processi potrebbero ripartire a gennaio e i primi due chiudersi in tribunale entro l’estate.

Dunque B. ha tre mesi per inventarsi qualcos’altro di più sicuro e duraturo, e trovare una maggioranza che glielo voti. L’ideale era il “processo breve”, ma ammazzava mezzo milione di processi: ritirato dopo il marameo di Fini. Che fare? Allungare il congelamento con un nuovo “legittimo impedimento” che impedisca alla Consulta di pronunciarsi sul primo? Troppo rischioso.

Trattandosi di una nuova legge, la Consulta potrebbe intanto bocciare la vecchia e, implicitamente, anche la nuova: a quel punto persino Napolitano avrebbe difficoltà a firmarla. Meglio una soluzione finale, che fulmini i tre processi una volta per tutte. Perfidamente Fini insiste per il lodo Alfano costituzionale.

Ma Ghedini giustamente non ne vuol sapere: per una legge costituzionale occorre almeno un anno di lavori parlamentari, con doppia lettura Camera-Senato-Camera-Senato più un altro anno per il referendum confermativo (evitabile solo con una maggioranza del 66%, e B. non è sicuro nemmeno del 51%) che, con l’aria che tira, diventerebbe abrogativo.

Intanto c’è tutto il tempo per arrivare alle sentenze di primo grado, più l’appello della causa civile Mondadori (in primo grado la Fininvest fu condannata a pagare 750 milioni a De Benedetti).

Qualche buontempone ripropone il lodo Consolo: decide il Parlamento se un reato è ministeriale o no. Ma i delitti contestati a B. sono corruzione, falso in bilancio, appropriazione indebita, frode fiscale: che c’entrano con le funzioni di governo?

In attesa che il cilindro di Mavalà partorisca un nuovo coniglio morto, B. passa le notti in bianco. E il Paese è sempre appeso ai suoi processi: 60 milioni di scudi umani presi in ostaggio in cambio della sua impunità. Ma zitti, mi raccomando, non si deve sapere.

Ieri Ostellino, sul Pompiere, invitava B. a “mostrare di essere un uomo di Stato” e “chiarire quali ostacoli istituzionali, politici, sociali gli hanno impedito di fare le riforme”. Povero Ostellino, la mamma non gli ha ancora spiegato nulla. Quando uno lo legge, non capisce mai se ci è o ci fa. L’ipotesi più accreditata è che ci sia e ci faccia contemporaneamente.


Ratzinger in UK: la fiera delle ipocrisie
di Mario Braconi - Altrenotizie - 16 Settembre 2010

Il Papa non è il benvenuto in Gran Bretagna: la sua visita di quattro giorni nel Regno, iniziata ad Edimburgo (Scozia), è talmente imbarazzante per i politici britannici che il Washington Post racconta di un memo riservato che girava al Foreign Office nel quale anonimi funzionari burloni suggerivano di invitare ufficialmente il Pontefice ad una cerimonia di benedizione di una coppia gay e in una clinica dove si praticano aborti.

Il documento è, in tutta evidenza, una goliardata e i buontemponi hanno subìto una lavata di capo: eppure il suo contenuto rappresenta efficacemente lo stato d’animo della maggioranza dei Sudditi nei confronti della visita papale.

Secondo un sondaggio pubblicato dal Guardian, solo il 14% della popolazione è favorevole al viaggio papale, mentre al 54% non va giù il conto di 30 milioni di sterline (!) che il Papa lascerà da pagare ai contribuenti britannici.

A far infuriare gli abitanti del Regno Unito sono motivazioni politiche oltre che finanziarie. Tanto per dirne una, Benedetto XVI rappresenta un’organizzazione che si oppone fieramente alla diffusione dei preservativi in Africa, un atteggiamento che è la concausa della morte per AIDS di circa due milioni di persone ogni anno. Ben Goldacre, medico e columnist del Guardian espone un’antologia di dichiarazioni di Benedetto XVI e dei suoi cardinali in materia, una più imbarazzante dell’altra.

Si va dal disinvolto nonsense delle parole pronunciate dal Papa in Camerun a maggio del 2009, (“questa tragedia non può essere fermata con i preservativi, che anzi rischiano di peggiorare la situazione”) alle idiozie mistificanti con cui a più riprese diversi cardinali hanno cercato di negare una semplice verità scientifica: l’impiego del condom riduce dell’80% la possibilità di contrarre l’infezione.

Piaccia o no, la lotta contro questa malattia si conduce con l’astinenza, la monogamia e i rapporti protetti; se Ratzinger (come anche Woytila) decide deliberatamente di abbattere una delle tre colonne su cui si basa lo stop al contagio, questo significa, né più né meno, che la chiesa romana costituisce “un grave problema di sanità pubblica”.

Sostenere poi che la Chiesa è l’organizzazione che gestisce il più alto numero di ospedali per la cura dell’AIDS, nota sarcasticamente Polly Toynbee, Presidente della Associazione Umanista Britannica, equivale a dire che la chiesa gestiva le migliori unità di riabilitazione dalla tortura durante il periodo dell’Inquisizione...

Grazie alle reticenze e all’inerzia puntellate dai concordati bilaterali con i vari Paesi (Italia inclusa), la chiesa di Roma, inoltre, si è resa responsabile (e continua a rendersi responsabile) di quella che Goldacre definisce una “cospirazione internazionale finalizzata alla copertura di stupri di massa ai danni di bambini”.

Oltre allo scandalo degli innumerevoli casi di pedofilia riscontrati negli USA e in Europa, ad irritare i sudditi del Regno è un report recentemente pubblicato in Gran Bretagna secondo cui oltre la metà dei preti pedofili finiti in carcere continuano a mantenere il loro stato di religiosi e una gran parte di loro riceve sostegno economico da parte della Chiesa.

Peter Saunders, rappresentante di un’associazione di vittime di abusi in età infantile (la NAPAC), nella conferenza stampa di mercoledì 15 settembre, si è detto scandalizzato dalla condotta della chiesa cattolica: “Le scuse non servono a niente: quello che desideriamo è verità, giustizia e magari anche una dimostrazione di senso di responsabiltà. [...] Vogliamo che il Papa dica: “Passerò tutti i documenti in nostro possesso alle autorità competenti dei Paesi nei quali i preti pedofili si stanno attualmente nascondendo”.

Inoltre, la chiesa di Benedetto XVI porta avanti un’agenda politica innegabilmente retrograda nonché fieramente avversa ai diritti civili, in particolare in materia di interruzione di gravidanza e di discriminazione nei confronti degli appartenenti alla comunità GLBT, spesso contrastando nei fatti le disposizioni di legge dei Paesi che ospitano i suoi rappresentanti.

Ce ne è abbastanza per far arrabbiare una cinquantina di intellettuali, i quali hanno scritto una lettera aperta sul Guardian chiedendo la Governo di non concedere a Benedetto XVI l’onore di una visita ufficiale nel Paese: Ratzinger è libero, ovviamente, di recarsi in Gran Bretagna, ma in qualità di Capo di Stato non dovrebbe essere onorato per ciò che ha fatto e ciò che intende fare in futuro; un principio sano, certamente, ma che si spera possa essere in futuro applicato anche a capi di stato ugualmente vergognosi e criminali.

Anche agli Anglicani il Papa cattolico non fa mancare ragioni di disappunto: prima di tutto, corteggiando, in una sorta di grottesco “chiesa-mercato”, quei vescovi anglicani scandalizzati dalla recente apertura della loro chiesa all’ordinamento di sacerdoti omosessuali: pur di condurli nel suo “ovile”, Benedetto XVI ha messo a punto una piattaforma ad hoc, che consentirebbe loro di passare sotto le bandiere della chiesa cattolica, mantenendo però liturgia e tradizione di origine. In questo modo, la Chiesa di Roma, che non ammette il matrimonio per i suoi preti, avrebbe dei cardinali regolarmente (e legittimamente) ammogliati. Quando si dice la coerenza...

Come se non bastasse, il 19 settembre a Birmingham Ratzinger beatificherà il cardinale John Henry Newman, teologo e filosofo, oppositore del liberalismo e del relativismo (perché stupirsene?), ma soprattutto, divenuto cattolico dopo essere stato prete anglicano: più schiaffo morale di così! Vale la pena annotare che di Newman si racconta che fosse gay, particolare che rende particolarmente spassoso il riconoscimento tributatogli da uno dei papi più omofobi.

In questo scenario molto delicato si inscrive la gaffe del Cardinal Kasper, che, in un’intervista a Focus ha sostenuto che la Gran Bretagna somiglia ad un Paese del Terzo Mondo, parrebbe di capire, a causa della gran varietà etniche che vi sono rappresentate.

Ovviamente, sulla scia dell’ulteriore irritazione provocata nel paese ospite dall’improvvida uscita del porporato, quest’ultimo è stato costretto a rinunciare alla visita, accampando l’improvvisa quanto provvidenziale insorgenza di una forma di artrite.

Eppure si tratta del cardinale che, a valle della demenziale riabilitazione del lefevbriano negazionista Richard Williamson da parte di Ratzinger, fece parlare di sé (nei corridoi del Vaticano) rilasciando un’intervista insolitamente critica verso la decisione papale.

In effetti, l’uscita di scena di Kasper - certo non una colomba, ma riconosciuto come valido negoziatore con gli Anglicani - sembra funzionale alla strategia muscolare del muro contro muro tanto gradita al Pastore tedesco ma il cui successo è tutto da verificare; poiché il diavolo è nei dettagli, è interessante notare che il religioso che prenderà il posto di Kasper non ha un inglese particolarmente fluente, il che costituisce un ostacolo non proprio da sottovalutare in un contesto di grande tensione tra le due chiese. Forse l’obiettivo vero, viene da pensare, è proprio esacerbare a dovere gli animi.


Ecco come stanno svuotando la Costituzione
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 16 Settembre 2010

Federalismo, legge elettorale, norme ad personam, questione morale, sistema fiscale: parla Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta.

Pubblichiamo il testo della video-intervista su “La questione morale”, promossa dall’associazione “Il Libro Ritrovato” e presentata ieri sera al teatro Carignano di Torino, che Marco Travaglio ha realizzato con Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, dal titolo “La Guardia è stanca“.

La prima domanda che viene da fare a un ex presidente della Corte costituzionale che si ostina a difendere la Costituzione è: qual è lo stato di salute della Carta oggi? L’impressione è che molti temano che la Costituzione venga cambiata, sconvolta, modificata, ma che il peggio sia già avvenuto, che la Costituzione sia già stata cambiata senza nemmeno toccarla, svuotata dall’interno lasciando soltanto la corteccia. Infatti si dà per scontato che, su quella scritta, prevalga una non meglio precisata “Costituzione materiale”…
Questo discorso che fai sulla Costituzione si potrebbe fare sulla democrazia più in generale. Costituzione e democrazia sono degli involucri, bisogna vedere cosa c’è dentro: è più importante quello che c’è fuori o quello che c’è dentro? Questa è una domanda che ti farei socraticamente. Volendo usare un’altra immagine: sono più importanti le regole formali o gli uomini che fanno funzionare le regole? È una domanda antica: sono più importanti le istituzioni o la qualità degli uomini?

Normalmente si dice: le istituzioni sono molto importanti, ma non c’è nessuna buona istituzione o Costituzione che può dare dei buoni risultati, se è in mano a un personale politico di infimo livello. Viceversa una mediocre Costituzione può dare luogo a risultati accettabili se è manipolata, usata da un personale politico a sua volta eticamente accettabile.

Dico eticamente perché bisogna avere il coraggio di ripristinare alcune categorie, alcune parole: quando si dice “eticamente” a proposito della politica, non si fa del moralismo, si indica semplicemente la necessità che coloro che occupano posizioni pubbliche siano consapevoli e coerenti con l’ethos che quella funzione comporta. In generale, la Costituzione stabilisce, prevede, auspica che coloro che occupano posizioni pubbliche adempiano alle relative funzioni “con disciplina e onore”: che parole desuete, sembrano quasi delle prese in giro…

È l’articolo 54, ma nessuno lo conosce.
Infatti, in tanti anni di esami all’università, credo di non averlo mai indicato come oggetto di una possibile domanda. Onore e disciplina: purtroppo sono quelle norme che non hanno sanzione, che indicano addirittura il presupposto di una decente vita pubblica prima di tutto, prima ancora che democratica. Quindi, tornando a noi, allo stato di salute della Costituzione: dal punto di vista formale, la nostra Costituzione dimostra di essere fortissima, sono più di 30 anni che ci si arrabatta per modificarla nelle parti essenziali, senza che nessuno sia mai riuscito a stravolgerla dal punto di vista formale.

Ma dal punto di vista sostanziale naturalmente le cose stanno diversamente. Per cui sono dell’idea che oggi non si tratti tanto di difendere la Costituzione, ma di ripristinarla: è un compito molto più impegnativo perché oggi il 90 per cento delle nostre forze politiche in Parlamento vogliono cambiarla. Però non basta volerla cambiare: bisognerebbe essere d’accordo sul come cambiarla, e lì si crea il blocco.

Questo le dà una grande forza: la Costituzione come documento formale è importante che resti, perché è pur sempre un punto di riferimento ideale, in base al quale si possono condurre determinate battaglie civili. Ma l’oggetto delle battaglie non è il testo costituzionale, ma la realtà costituzionale, l’ethos, i princìpi che la Costituzione indica.

Il punto principale è la concezione della democrazia. Si è realizzata, nei fatti, una trasformazione che definirei proprio un rovesciamento della concezione della democrazia. Prendiamo la legge elettorale come sintomo: essa è l’espressione più evidente del rovesciamento del principio di sovranità. La sovranità in una democrazia comporta prima di tutto che i rappresentati eleggano i propri rappresentanti. Ma, con la legge elettorale attuale, per i motivi che tutti conosciamo, i capi-partito nominano i loro rappresentanti. E il corpo elettorale è lì a fare che? A distribuire le quote dell’azionariato politico dei vertici dei partiti.

Forse un punto debole della Costituzione, o almeno di chi dovrebbe garantirne i principi fondamentali, è che assistiamo continuamente alla coesistenza di una Costituzione che dice una cosa e di leggi che dicono esattamente il contrario, consentendo una serie di prassi che sono totalmente antitetiche rispetto a quello che prevede la Costituzione. Allora una persona semplice si domanda: ma com’è possibile che non sia intervenuto nessuno a bloccare o a cancellare o a fulminare una legge elettorale così palesemente incostituzionale? Manca qualche valvola di salvaguardia, nel sistema costituzionale?
Qui si entra in una discussione molto tecnica. Che questa legge sia palesemente incostituzionale non saprei dirlo: qual è la norma che viene violata? Bisognerebbe tenere distinto il giudizio di costituzionalità freddo, scientifico, giuridico. Dunque qual è la norma che viene violata dall’attuale legge elettorale?

Sono decenni che si dice, per esempio, che le preferenze sono una cosa negativa, perché quando c’erano le preferenze plurime si facevano “cordate” molto permeabili agli interessi mafiosi. Poi si è passati alla preferenza unica, che però ha scatenato la lotta di tutti contro tutti: l’elezione è diventata molto costosa e questo ha favorito in linea di principio i gruppi di potere che disponevano di risorse economiche.

Dunque l’abolizione delle preferenze e il premio di maggioranza non appaiono incostituzionali, anche perché l’abolizione delle preferenze non esclude che i partiti democraticamente si aprano alla società civile con qualche meccanismo che dia voce ai cittadini-elettori facendoli sentire padroni del meccanismo e non semplicemente clienti che vanno a votare su opzioni già prese da altri.

Invece non è stato così, e questo rovesciamento dei rapporti fra cittadino ed eletto ha fatto scadere la qualità della nostra rappresentanza: quando sono i vertici che scelgono i propri rappresentanti, privilegeranno gente di fiducia, uomini e donne di fatica. E questo con la democrazia non ha molto a che vedere.

I candidati vengono cooptati in base al servilismo e alla fedeltà…
Quindi poi, nell’equilibrio tra i poteri costituzionali, il Parlamento oggi fa la figura non dico neanche dell’incomodo, ma del superfluo. Tant’è vero qualcuno ha detto: non aboliamolo tout court, ma…facciamo votare soltanto i capigruppo. I capigruppo in proporzione al peso elettorale… Poi di fatto il Parlamento viene emarginato con i voti di fiducia…

Nessuno se lo ricorda più, ma il Parlamento dovrebbe essere il primo organo di controllo del governo: abbiamo perso proprio l’essenza del Parlamento, considerato ormai come un luogo dove si mette il timbro su decisioni prese altrove. Che poi sono perlopiù leggi per sistemare problemi personali o di poche combriccole…
Abbiamo tutti, o molti, certamente noi due, la sensazione che questa legge elettorale sia uno stravolgimento dei principi della democrazia. Ma non è facile individuare la norma specifica che viene violata. È tutta una concezione che viene messa in crisi. Lo stesso vale per le leggi ad personam: sono tutte formulate in termini generali. Se si fa uno scudo penale per l’attuale presidente del Consiglio, si fa una legge che riguarda il presidente del Consiglio, cioè la carica e non la persona.

Se si fa il “processo breve”, si dice che è nell’interesse della generalità dei cittadini avere processi brevi (anche se poi “processo breve” è un eufemismo: questo è il processo morto…). Tutte queste leggi – e non potrebbe essere diversamente – si presentano formalmente in termini generali, perché è chiaro che, se si facesse una legge che esplicitamente si riferisce a Tizio o Caio, con il nome e il cognome, non avrebbe alcuna possibilità di passare… Sarebbe uno sconcio tale che gli organi di controllo interverrebbero.

Tutti sanno che certe leggi si fanno per Tizio o Caio, il nome c’è eccome: la sostanza è individuale, particolare, ma la forma è generale. E come fa la Corte costituzionale a bocciarle? Il fatto che ci siano delle leggi che noi tutti consideriamo prodotte da una mentalità malata ma che non violano specificamente una norma costituzionale precisa, non vuol dire affatto che queste leggi vadano bene: vuol dire che violano addirittura i presupposti, quei principi che sono così fondamentali che non c’è neanche bisogno di esplicitarli.

Se avessero previsto questa classe politica, forse i Costituenti avrebbero aggiunto qualche premessa alla Costituzione…
Le difficoltà della nostra democrazia e della nostra Costituzione, secondo me, si radicano su un terreno primordiale. Poi ci sono questioni che dovrebbero essere affrontate con gli strumenti dell’etica politica, della diffusione di una cultura politica. La vita costituzionale ha bisogno di questo humus. Infatti questo nostro incontro s’intitola “La guardia è stanca”…

La “guardia stanca”, se non erro, è il popolo russo che protesta con Lenin perché la rivoluzione tarda a partire. Oggi forse possiamo leggere questo motto come la stanchezza di una parte della società civile nei confronti delle vergogne che ci vengono ogni giorno rovesciate addosso. Ma la guardia stanca potrebbe anche essere la metafora di tutti quegli organi di controllo che dovrebbero montare la guardia per controllare il potere, ma in questi anni sono stati fiaccati, perforati, neutralizzati, o magari semplicemente si sono stancati e non esercitano più il loro dovere di vigilanza…
Sì, potrebbe anche essere. In che senso si è stanchi? Si è stanchi di aspettare e quindi è una stanchezza che prelude a un’azione, a un rinnovamento? Oppure la guardia è stanca perché è esausta? Credo che il nostro Paese si trovi un po’ su questo crinale: in certi momenti o in certi ambienti si può cogliere una stanchezza che vorrebbe anche trovare le forme di aggregazione per reagire, ma dall’altra parte c’è la stanchezza intesa come esaurimento, come rinuncia, come pessimismo. C’è un punto su cui credo che le forze politiche dovrebbero fare una riflessione: quelle che, almeno a parole, dichiarano che la situazione attuale non corrisponde alle loro aspirazioni, cioè l’opposizione.

L’Italia è l’unico Paese in cui le forze di governo perdono consensi e le forze di opposizione non li guadagnano: questo dicono i sondaggi. Non ti pare che questo sia un sintomo di stanchezza, purtroppo nel secondo senso? La gente che non si riconosce più nelle forze di maggioranza non trova un approdo in altre formazioni, in altri schieramenti, questo forse è il segno dello scoramento, che sfocia nell’astensione. Io credo che sia vero che molti elettori votano per le forze di opposizione perché la maggioranza è questa. Il giorno in cui non ci fosse più questa maggioranza con questi capi, anzi con questo capo riconosciuto, non sarebbe un grande risultato per l’opposizione.

Forse è per questo che da anni il grosso dell’opposizione sostiene così amorevolmente il presidente del Consiglio: se non ci fosse più lui, nessuno li voterebbe più.
Conosciamo tanta gente che dice: questa è l’ultima volta che vado a votare. Poi ci va ancora, per cercare di evitare o limitare il peggio. Ma il giorno in cui non ci fosse più quel peggio lì, sarebbe un tracollo anche per l’opposizione. Quindi ci troviamo in questa situazione paradossale: la sconfitta della maggioranza non si trasforma in vittoria dell’opposizione. Invece ogni democrazia ben funzionante si regge su questa legge: se perde la maggioranza, vince l’opposizione.

Quando questa legge viene smentita dai fatti è a rischio la democrazia, perché subentra il distacco dei cittadini. Quindi non sarei tanto soddisfatto, se fossi un politico dell’opposizione, dinanzi al declino di consensi della maggioranza, perché mi domanderei: dove vanno questi voti? E se non vanno all’opposizione, c’è da fare una riflessione molto profonda.

La Televisione Unica del Padrone Unico ha imposto al Paese una serie di parole e di slogan malati: per esempio, quello secondo cui “le riforme sono buone purché condivise”. Non ho mai capito per quale motivo una riforma dovrebbe essere buona solo se la condividono in tanti: se è una porcheria ed è condivisa da tanti, peggio mi sento; una porcheria rimane una porcheria anche se la votano tutti; eppure ci viene ogni giorno spiegato che, se le riforme sono condivise da tanti o da tutti, allora vanno bene a prescindere. Tra le riforme che siamo quasi obbligati a condividere, per esempio, c’è quella del federalismo fiscale che nessuno sa esattamente cosa sia: qualcuno lo intende come un’anticamera del separatismo, altri come la panacea che dovrebbe liberarci dalla burocrazia. Ma è ancora possibile dire “io sono contro il federalismo” o si rischia di bestemmiare in chiesa?
Tu vorresti una risposta secca, ma hai posto due domande e due problemi: la corruzione delle parole e la questione del federalismo. Primo: come cittadini politicamente responsabili che non godiamo nel vedere la situazione stupefacente che si è creata, ma avvertiamo l’obbligo di fare qualcosa per migliorarla, per bonificarla, sappiamo che uno dei punti principali del degrado italiano è la corruzione delle parole. Per esempio, c’è un’espressione che è largamente utilizzata dagli uomini di governo, ma anche dell’opposizione: “Non abbiamo messo le mani nelle tasche degli italiani”.

Pare sempre una trovata brillante. A parte la veridicità o meno del contenuto, questa espressione ha avuto un grande successo, purtroppo, a destra come a sinistra. Ora, io la trovo di una volgarità senza pari, perché sottintende – questo è il messaggio subliminale – l’idea che uno Stato che chiede ai cittadini di partecipare alle spese pubbliche sia un ladro sempre e comunque. Quindi, se lo Stato è ladro, ben si giustifica l’evasione fiscale. E il cerchio si chiude.

Mettere le mani in tasca? Ma in un paese civile tutti i cittadini dovrebbero essere chiamati responsabilmente a far fronte, secondo criteri di giustizia, alle esigenze della collettività. La Costituzione prevede sistemi fiscali progressivi: nessuno se ne ricorda più, ma “imposte progressive” vuole dire che chi più ha più deve contribuire rispetto a chi meno ha. Applichiamo questo semplice schema mentale alla manovra finanziaria in corso, e ci accorgiamo che dovrebbe portare a porre dei problemi che nessuno osa porre: l’imposta patrimoniale sulle grandi fortune, la tassazione delle speculazioni finanziarie…

Anziché ai ladri, questa manovra mette le mani in tasca alle guardie: poliziotti, magistrati e cittadini onesti…
Purtroppo dobbiamo pensare a ricostruire la nostra convivenza sulla base di parole non malate, perché la corruzione di ogni regime politico è accompagnata dalla corruzione delle parole. C’è un libro interessantissimo pubblicato da Mondadori qualche anno fa e da poco ripubblicato in versione più ampia: l’autore è Victor Klemperer, un filologo ebreo tedesco, marito di una donna ariana (uso queste categorie che non ci sono proprie), che ha seguito la trasformazione della lingua sotto il Terzo Reich. Uno studio interessantissimo su come si avvelenano gli animi modificando il senso delle parole o inventandone di parole.

Ora è uscito da Giuntina un seguito: LTI. La lingua del Terzo Reich. Bisognerebbe leggerlo, per capire il veleno che le parole possono contenere. Tu ora dicevi “riforme condivise”. È uno slogan che presenta un aspetto malato: se siamo tutti d’accordo, questa sarebbe la riprova che la cosa che stiamo facendo è buona. Ma in una democrazia liberale il non essere d’accordo è il fatto positivo, perché il dissenso crea il distacco e dà lo spessore del problema.

Nella democrazia liberale l’unanimismo, l’essere tutti insieme e tutti d’accordo, non è un valore, anzi. Però in questa formula c’è anche un dato positivo che non va sottovalutato: le riforme costituzionali devono essere condivise perché non possono essere imposte nell’interesse di una sola parte, altrimenti l’esito terminale sarebbe una Costituzione ad personam.

E ognuno se la cambia a suo uso e consumo a ogni mutare di maggioranza.
Come in certi regimi sudamericani, in cui le forze politiche (per esempio, certi colonnelli) si presentano alle elezioni con la loro Costituzione al punto numero 1 del programma. Il nostro concetto di Costituzione, radicato nei secoli, è invece quello di un testo, un documento di princìpi stabili, più stabili della politica. Perché è la politica che deve sottostare alla Costituzione e la Costituzione non può mai diventare uno strumento della politica. Da questo punto di vista, vedrei nella formula “riforme costituzionali condivise” un aspetto positivo, questo; e non l’altro, quello secondo cui dobbiamo per forza essere tutti d’accordo.

Anche perché poi questo discorso sulle riforme condivise si inserisce in un contesto in cui si dice: le riforme si devono fare, “res publica reformanda est”, e chi è contro certe riforme è un pazzo, un irresponsabile, un passatista. Secondo me, bisognerebbe riuscire a dire laicamente che le riforme, di per sé, non sono né bene né male. Bisogna vedere cosa ci si mette dentro.

Vista l’esperienza degli ultimi anni…
Vista l’esperienza… se uno volesse fare un po’ di qualunquismo potrebbe anche dire: una classe politica così degradata che cosa può produrre di buono? Sarà un discorso qualunquistico, ma evangelicamente l’albero si riconosce dai frutti, quindi… Veniamo al tema del federalismo: anche qui direi che viviamo in un clima di pensiero unico. Chi oggi osa proclamarsi non-federalista? Dico “proclamarsi” perché sappiamo benissimo che le perplessità o i dubbi in materia sono molto diffusi, ma c’è questa cappa ideologica per cui essere contro il federalismo non è à la page…

Questi discorsi sul federalismo, secondo me, hanno qualcosa di fondato rispetto ai problemi che abbiamo: ormai la dimensione delle questioni politiche non coincide più con la dimensione degli Stati nazionali, quindi il federalismo dovrebbe servire a creare dimensioni sopranazionali. Invece, detto per inciso, il federalismo di cui si parla in Italia è rovesciato: non si tratta di creare unità politiche più ampie, ma di spezzare o ridurre o limitare l’unità politica nazionale verso il basso. Dall’altra parte, si dice, ci sono esigenze di avvicinamento e di sburocratizzazione.

Quali sono le tue perplessità sul federalismo?
Mentre l’esigenza di un federalismo che si rivolge a una dimensione sopranazionale la vedo chiara (anche se mi sembra che purtroppo l’Italia in generale non sia particolarmente attiva nel creare forme di solidarietà sopranazionali, europee, ma non solo europee, anzi la nostra vita politica mi pare molto provinciale), non riesco a condividere chi auspica il federalismo verso il basso. Non come dice il motto costituzionale americano ex pluribus unum, per un processo verso l’alto finalizzato a creare unità politica, ma al contrario ex uno plures. Ecco: dove ci porterà questo plures non lo sappiamo. Temo che possa essere un primo passo verso una divisione del nostro Paese.

La balcanizzazione dell’Italia.
La balcanizzazione. L’idea che muove il federalismo all’italiana è che le regioni del Sud sono sottosviluppate e inquinate dalla criminalità (come se quelle del Nord non lo fossero…) e dunque devono essere sottoposte a una scossa, per responsabilizzarne le classi dirigenti liberandole dalla tutela dello Stato centrale e costringendole a guarire da sole le proprie magagne e a risolvere da sole i loro problemi. E se non li risolvono? Quali motivi abbiamo per sperare che le regioni del Sud, lasciate da sole, siano in grado per esempio di combattere il malaffare, la criminalità organizzata, meglio di quanto non riesca a fare lo Stato centrale?

Infatti personalmente non solo sono anti-federalista, ma comincio a provare una certa nostalgia dei prefetti, possibilmente tedeschi.
Adesso non esageriamo. Tra le ragioni che oggi muovono il pensiero federalista in Italia, ce ne sono di apprezzabili: chi di noi non vorrebbe una maggiore vicinanza delle classi dirigenti ai bisogni delle popolazioni? Chi non vorrebbe una burocrazia pubblica più limitata? Chi non vorrebbe – anzi, mi viene freudianamente da dire: chi vorrebbe – classi politiche più oneste? Tutto questo fa certo parte delle nostre speranze. Ma che la risposta sia il federalismo, questo non mi è chiaro: vedo un salto tra le speranze, i bisogni e la risposta. Invece vedo chiaro il pericolo: il giorno in cui si dovesse constatare che il federalismo, invece di promuovere quel movimento virtuoso di rinnovamento delle regioni più povere, più arretrate anche dal punto di vista della cultura politica, provocasse l’effetto contrario, a quel punto le pulsioni secessionistiche aumenterebbero.

Un magistrato siciliano, Roberto Scarpinato, nel libro-intervista a Saverio Lodato Il ritorno del principe, sostiene che la nostra Costituzione è nata in un periodo eccezionale, perché in Italia le cose buone si fanno soltanto nei periodi eccezionali, quando la figura del Principe è molto indebolita e quindi è in questi intervalli della storia – il Risorgimento, la Resistenza, la Costituente, Mani pulite – che piccole élite illuminate riescono a prendere il sopravvento e a imporre a un Paese che non le vuole soluzioni più avanzate della cultura media nazionale. Quindi la nostra Costituzione fu una camicia di forza calata dall’alto sulle culture autoritarie che dominano da sempre nelle classi dirigenti italiane, infatti, non appena tornò il Principe, cominciò a picconarne i valori fondanti. Non a caso, da 15 anni, il centrodestra e il centrosinistra, al di là di quello che dicono di volta in volta secondo le convenienze del momento, sono entrambi allergici alla Costituzione. A cominciare dall’articolo 3 sull’eguaglianza, dall’articolo 11 sulla guerra, dall’articolo 21 sulla libertà di espressione, per non parlare dell’indipendenza della Magistratura. Sono 15 anni che partiti di destra e sinistra tentano di cambiare la Costituzione per attribuire maggiori poteri alla politica e smontare gli organi di controllo. Forse quella di Scarpinato è una tesi un po’ estrema, ma dal craxismo alla Bicamerale al berlusconismo, abbiamo visto avvicendarsi al governo un po’ tutti i partiti, e nessuno ha preso in mano la bandiera della difesa della Costituzione. Poi però, nel 2006, quando siamo andati a votare nel referendum confermativo sulla “devolution”, abbiamo scoperto che i cittadini apprezzano la Costituzione molto più delle loro classi dirigenti, a riprova del fatto che queste sono un po’ peggio della società che le esprime.
Peggio o meglio, a me sembra abbastanza fisiologico che le classi dirigenti abbiano un atteggiamento, un rapporto di insofferenza con la Costituzione, perché le costituzioni sono state scritte e pensate per limitare l’onnipotenza del politico e della politica. Le costituzioni della tradizione liberale sono costituzioni dei cittadini, non delle classi politiche. Quella di Scarpinato è un’interpretazione un po’ élitista, ma c’è una buona dose di verità dove si dice che la politica l’hanno sempre fatta le élite. Però la democrazia non è oligarchia, e neanche oligarchia illuminata: la democrazia vive in quanto le regole costituzionali sono interiorizzate dai cittadini.

L’esempio che facevi del referendum del 2006 è sotto certi aspetti consolante. Ma di lì bisognerebbe partire per dire che la difesa della democrazia e della Costituzione è un compito che devono assumersi i cittadini. Possiamo concludere con una verità lapalissiana: la democrazia è il regime dei cittadini, dunque la difesa della democrazia è in mano ai cittadini. Non possiamo fare distinzioni tra cittadini e forze politiche.

Un sistema ben funzionante è quello in cui le forze politiche interpretano effettivamente le istanze dei cittadini in rapporto continuo di rappresentanza vera e vitale. Ma, nei momenti di crisi come quello che viviamo, questo rapporto vive una frattura. E allora questo è il momento in cui la “guardia stanca”, cioè i cittadini, deve darsi una mossa e ritrovare le ragioni del proprio impegno politico.

E dare vita al partito della Costituzione.
Sì, anche se “partito della Costituzione” è quasi una contraddizione, perché la Costituzione dovrebbe essere di tutti i cittadini, non di un partito. Diciamo che deve nascere un’opinione pubblica costituzionale.