giovedì 29 gennaio 2009

Crisi economica: lo scandalo dei manager premiati

Il presidente USA Barack Obama ha registrato una prima vittoria legislativa con il varo da parte della Camera di un pacchetto di stimolo per l'economia da 825 miliardi di dollari, senza però ottenere un voto bipartisan. Il provvedimento infatti è passato per 244 voti a 188, con i repubblicani contrari per i tagli alle tasse (275 miliardi di dollari) giudicati insufficienti e le spese (550 miliardi di dollari) considerate eccessive.

Ma ancora nessuno ha preso seri provvedimenti contro i manager responsabili della serie di bancarotte a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi.
Anzi, continuano a ricevere bonus e incentivi come se nulla fosse.

La speranza e' che Obama li costringa a un esilio in aperta campagna, vista l'abbondanza di mani sottratte all'agricoltura.



Negli USA l'economia e' in ginocchio, ma i manager vengono premiati

di Ennio Caretto - Il Corriere della Sera - 28 Gennaio 2009

La finanza e l’industria licenziano migliaia di dipendenti al giorno – ben 71 mila lunedì scorso – e gli scandali alla Madoff, il finanziere che truffò 50 miliardi di dollari, si moltiplicano. Ma i responsabili del disastro finanziario ed economico americano non solo sembrano godere d’immunità, continuano anche a percepire stipendi e premi enormi. Da un sondaggio, soltanto 1 su 10 dei “big” delle banche e delle aziende finite in bancarotta o salvate dal denaro pubblico ha perso il posto. Da un altro, il 79 per cento ha intascato un pingue premio per il 2008, per la metà di loro superiore a quello del 2007. Sono scandali che suscitano indignazione nel Paese.

IL CASO DI JOHN THAIN - Il New York Times ha denunciato il caso di John Thain, l’ex presidente della Banca d’affari Merrill Lynch, che in autunno fu comprata dalla Bank of America. Thain, uno dei pochi a venire licenziato, spese 1 milione 200 mila dollari per abbellire il proprio ufficio e fece distribuire in anticipo 4 miliardi di dollari di premi a sé e ad altri dirigenti sebbene la Merrill Lynch avesse registrato un passivo di 15 miliardi di dollari nello ultimo trimestre del 2008. Il procuratore dello stato di New York Andrew Cuomo lo ha inquisito per recuperare parte dei soldi. A suo giudizio, i padroni del mondo, come lo scrittore Tom Wolfe chiamò Thain e i colleghi ne “Il falò delle vanità”, non hanno imparato la lezione. Qualche volta, il governo ha vietato lussi inaccettabili come l’acquisto da parte del Citigroup di un jet per 12 “big” per 50 milioni di dollari: il Citigroup ha ottenuto dallo stato 345 miliardi di dollari in sussidi e garanzie, una somma folle, ma non si è rassegnato a risparmiare. Qualche altra, il governo ha confiscato le proprietà dei truffatori, come è accaduto a Madoff, cosa che ha spinto Fuld, l’ex presidente della Lehman Brothers, scomparsa a settembre, a vendere per 10 dollari alla moglie un palazzo in Florida del valore di 13 miliardi e mezzo di dollari. Ma in massima parte, i “big” hanno conservato i loro privilegi. Un fenomeno che Obama intende stroncare.

I POCHI ARRESTI - Un giro di vite vero e proprio è in corso solo contro i “MiniMadoff”, come gli imitatori del re dei truffatori in borsa, che rimane agli arresti domiciliari su cauzione di 10 milioni di dollari, sono stati battezzati. Si segnalano tra i tanti l’arresto di Nicholas Cosmo, un finanziere newyorchese già imprigionato nel ’97 che avrebbe defraudato di 370 milioni gli investitori; quello di Arthur Nadel, un finanziere della Florida che si sarebbe appropriato di 30 milioni; nonché l’incriminazione da parte della Sec, la Commissione di controllo della borsa, di Joseph Forte, un finanziere di Filadelfia, per un ammanco di 50 milioni. L’America non conosceva scandali del genere dall’età d’oro del 1900 – 1930.

DISUGUAGLIANZA SOCIALE -
Come allora, l’1 per cento più ricco della popolazione possiede il 7 per cento della ricchezza nazionale, più di tutto il 90 per cento meno privilegiato della popolazione. Mentre in termini reali il reddito dell' americano medio è venuto diminuendo anche prima della crisi, i super manager hanno continuato a intascano fino a 100 - 150 milioni di dollari l’anno, e a riscuotere liquidazioni di oltre 200 milioni.



Black List: Le 17 persone che con i loro errori hanno portato il mondo verso la recessione

da La Stampa - 28 Gennaio 2009

La grande crisi, la peggiore dalla «Great depression» del 1929, non è un fenomeno naturale, ma un disastro in cui la mano dell'uomo ha avuto la sua parte. Già, ma quali mani? Ecco, allora, 17 uomini. Diciassette volti che hanno contribuito a far scatenare, con le loro azioni ed omissioni, la tempesta.

A cominciare da Alain Greenspan, il presidente della Federal Reserve. Sì, proprio lui. L'uomo che era riuscito a far superare agli Stati Uniti la crisi finanziaria del 1987 e a traghettare il Paese attraverso lo choc dell'attacco terroristico alle Twin Towers dell'11 settembre 2001. Lui che, sull'onda di questi successi, era diventato una star. Allora, lo chiamavano «l'oracolo», «il maestro».

Oggi, invece, è visto come un «appestato». Come il principale colpevole della grande crisi in atto. È biasimato per aver lasciato decollare la bolla immobiliare, alimentata dalle basse rate dei mutui e della mancata regolamentazione sui prestiti, lacuna che ha impedito di arginare lo scandalo dei subprime.

Greenspan, anzi, ha incoraggiato lo sviluppo vertiginoso e pericoloso dei mutui-spazzatura e ha convinto i proprietari delle case ad abbandonare il tasso fisso per quello variabile, esponendo così migliaia di famiglie alla «tagliola» dell'impennata dell'assegno mensile, sino al punto di non ritorno, quando la rata è diventata, sotto i colpi della tempesta, troppo alta per consentire loro di onorarla.

Il presidente della Fed, inoltre, ha difeso e sostenuto per anni il boom dei derivati, strumenti che già esistevano quando lui è arrivato alla banca centrale Usa e ne ha preso il controllo, ma strumenti che sotto la sua amministrazione sono letteralmente lievitati, passando da un valore di 100 trilioni (100 mila miliardi) di dollari nel 2002 a 500 trilioni cinque anni dopo. Di recente, Greenspan, ha ammesso che diverse sue convinzioni nel lungo termine si sono dimostrate sbagliate.

BILL CLINTON (Ex Presidente Usa) - Ex presidente degli Usa. Ha abolito nel 1999 il Glass Steagall Act, una legge che stabiliva la completa separazione tra le banche commerciali e quelle d'investimento. Questa mossa ha avviato l'era delle superbanche e ha innescato la «bomba» dei mutui subprime, esplosa dopo molti anni.

GEORGE W. BUSH (Ex presidente degli Stati Uniti) - L'amministrazione del presidente uscente degli Usa non ha certamente messo il freno all'erogazione della montagna di denaro finita in prestito a migliaia di sottoscrittori che non presentavano garanzie di rimborso. Non ha trattenuto la corsa di Wall Street, con regole che impedissero il successivo bagno di sangue.

GORDON BROWN (Premier britannico) - Si è lasciato completamente abbagliare dai protagonisti della City e dai loro vagiti. Ha anteposto gli interessi dello «Square Mile» a quelli di altre realtà economiche, coma l'industria manifatturiera. Ha reintrodotto la bassa tassazione per migliaia di banchieri stranieri che lavorano a Londra e società di private equity.

PHIL GRAMM (Ex senatore del Texas) - Ha combattuto a lungo e duramente per imporre la deregulation finanziaria, incoraggiato dall'allora presidente Bill Clinton. Il suo lavoro ha facilitato la crescita esplosiva dei derivati e dei «credit swaps». Nel 2001 disse in una discussione del Senato: «Guardando ai mutui subprime vedo il sogno americano in atto».

GEIR HAARDE (Primo ministro islandese) - Ha annunciato venerdì scorso che vorrebbe dimettersi e indire nuove elezioni a maggio, sull'onda delle proteste popolari per il crac finanziario del Paese. A ottobre le tre più grandi banche islandesi erano collassate sotto
i debiti. Il governo si è fatto prestare 2,1 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale e si è esposto con diversi Paesi europei.

MERVYN KING (Governatore della Bank of England) - Amava dire di avere un'ambizione: che il processo decisionale della politica monetaria diventasse «noioso», tanto le cose andavano bene. Nelle prime settimane della crisi si è rifiutato di finanziare le banche in difficoltà. Non ha saputo prevenire la bolla immobiliare. Non ha tagliato i tassi abbastanza in fretta.

DICK FULD (Ex «ceo» di Lehman) - Soprannominato «il Gorilla», è stato in Lehman per
decenni. Al Congresso si è detto meravigliato che il governo non abbia salvato la banca. Nell'audizione parlamentare gli hanno chiesto se riteneva giusto aver guadagnato 500 milioni di dollari in 8 anni. Ha risposto che erano solo 300. Subito prima che Lehman andasse in bancarotta ha mancato l'occasione di un grosso affare in Corea. E ha continuato a investire nell'immobiliare quando il mercato era al massimo.

HANK GREENBERG (Ex numero uno di Aig) - Ha fatto diventare Aig il più grande gruppo assicurativo del mondo. Ma con le sue mosse imprudenti ha anche reso la società estremamente vulnerabile alla crisi dei mutui. Per salvare Aig sono stati necessari fondi pubblici per 85 miliardi di dollari.

ABI COHEN (Ex capo strategie di Goldman Sachs) - Era definita la donna più potente degli Stati Uniti. Ma ha avuto torto troppo spesso. Non ha visto arrivare il crollo delle quotazioni azionarie. Prevedeva sempre mercati in rialzo. È stata sostituita nel marzo scorso.

ANDY HORNBY (Ex top manager di Hbos) - Reputatissimo, ammiratissimo e abilissimo, piazzatosi al primo posto nel suo corso di 800 studenti a Harvard. Però è stata la sua strategia, in occasione della fusione di Bank of Scotland e Halifax, che ha trascinato la Hbos al disastro. Chi avrebbe mai immaginato Halifax nazionalizzata?

FRED GOODWIN (Ex boss di R.B. of Scotland) - Era uno degli uomini d'affari preferiti da Gordon Brown. Adesso il premier è furioso con lui per la maniera in cui ha guidato la Royal Bank of Scotland. Ha portato la Banca a perdere 28 miliardi di sterline e a cedere il 70 per cento delle azioni al governo. Le perdite dipendono da prestiti inesigibili e da svalutazioni di investimenti fatti da lui.

ADAM APPLEGARTH (L'ex Mr. Northern Rock) - L'ambizioso dirigente ha lasciato la banca prima che il governo inglese decidesse di nazionalizzarla portandosi a casa una gratifica milionaria. Ha voluto gestire la banca seguendo un modello di business fallimentare che ha portato Northern Rock a subire una fortissima crisi di liquidità.

STEVE CRAWSHAW (Per 4 anni al timone di B&B) - Il manager è salito ai vertici di Bradford & Bingley (B&B) nel 2004 e ha trasformato la società di costruzioni in una finanziaria specializzata in prestiti immobiliari. Ha fatto fare al gruppo investimenti legati ai mutui subprime portandolo al tracollo. Si è ritirato con bonus di 1,8 milioni di sterline.

STAN O' NEAL (Ai vertici di Merrill Lynch) - È diventato una delle principali vittime sacrificali del credit crunch quando verso la fine del 2007 perse la fiducia del board della banca. Prima delle dimissioni Stan O'Neal annunciò che Merrill Lynch aveva un'esposizione di circa 8 miliardi verso asset tossici.

KATHLEN CORBET (Ex ad di Standard & Poor's) - Ha guidato la più grande agenzia di rating fino all'agosto del 2007, quando è stata costretta a dimettersi, travolta dalle polemiche. L'hanno accusata di aver sottovalutato i rischi sui prodotti finanziari legati ai mutui subprime americani. Durante la sua gestione Standard & Poor's ha assegnato rating di alto livello (tripla A) a obbligazioni, Abs e Mbs, che poi si sono trasformate in asset tossici.

JIMMY CAYNE (Ex guida di Bear Stearns) - È stato il top manager di quella che è poi risultata la prima banca d'affari a essere colpita dalla crisi finanziaria. Durante il suo mandato, sono falliti due hedge fund di Bear Stearns che hanno portato la banca sull'orlo del fallimento.



Quando la crisi colpisce le fortezze del denaro

di Federico Rampini - La Repubblica - 28 Gennaio 2009

La riforma adottata negli anni Trenta fu una nuova legislazione bancaria per impedire gli eccessi che avevano portato al ‘29


"Gangster. Nemici della democrazia". Sono le definizioni dei banchieri date ieri da Franz Muentefering, presidente dell´Spd tedesco, il secondo maggiore partito di governo in Germania. La sua frustrazione è comprensibile. Dall´inizio di questa crisi il governo di Berlino ha messo in campo una rete di protezione di 500 miliardi di euro di aiuti potenziali per proteggere le sue banche; più una partecipazione azionaria del 25 per cento per salvare da un crac la Commerzbank. Eppure ancora oggi il sistema bancario tedesco – un tempo ammirato nel mondo per la sua granitica solidità – assomiglia a un campo minato. Secondo la Bundesbank le 18 più grosse banche tedesche hanno tuttora più di 300 miliardi di euro di titoli tossici, invendibili sui mercati; solo il 23 per cento sono stati riconosciuti come tali e quindi cancellati dai rispettivi bilanci. Da qui il senso d´impotenza che regna a Berlino: nonostante gli sforzi dello Stato, la fiducia è ben lungi dall´essere ritornata nel sistema creditizio. Il mondo intero è nella stessa situazione. Causa primaria della crisi che viviamo, le banche ne rimangono tuttora l´epicentro.

In fatto di comportamenti anti-sociali e criminali, le parole del leader tedesco descrivono senza esagerazione i banchieri americani. Mesi dopo che le loro carriere sono finite nel disastro, l´arroganza di molti resta stupefacente. L´ultima l´ha combinata Richard Fuld, l´ex chief executive che ha guidato la Lehman Brothers fino alla bancarotta di settembre. Fuld ha appena venduto alla moglie per l´obolo simbolico di dieci dollari la sontuosa villa che aveva comprato a Jupiter Island (Florida) per 13 milioni di dollari: è un tentativo plateale di aggirare le leggi sulla bancarotta e sottrarre il proprio patrimonio ai liquidatori.

La frustrazione del governo tedesco è poca cosa in confronto a quella che si respira alla Casa Bianca e al Congresso di Washington. Da ottobre le 13 maggiori banche americane hanno già ricevuto 148 miliardi di dollari di aiuti cash dal contribuente, solo come ricapitalizzazioni da parte dello Stato, senza contare le garanzie assicurative accollate al bilancio pubblico per future perdite (altre centinaia di miliardi). Nonostante questo fra il terzo e il quarto trimestre del 2008 i finanziamenti erogati dalle banche sono scesi di ben 46 miliardi di dollari. Le banche hanno sequestrato gli aiuti senza che il paese – imprese e consumatori – ne ricevesse il minimo sollievo.

L´esasperazione di fronte allo "sciopero dei banchieri" è accentuata dalla disparità di trattamento rispetto ad altri settori dell´economia. Tutti soffrono la recessione ma nessuno potrà mai sperare di avere una frazione degli aiuti pubblici concessi alle banche. Industria automobilistica o elettronica, turismo o grande distribuzione, l´elenco dei settori colpiti dalla crisi non risparmia quasi nessuno. Solo per le banche i governi sono scesi in campo all´unisono, con rapidità, e senza badare a spese. Questo vale senza eccezioni, dagli Stati Uniti all´Inghilterra, dal Belgio all´Irlanda. Con quello che ogni contribuente americano o europeo ha già pagato per Citigroup, Northern Rock o Fortis, gli operai dell´automobile starebbero sereni fino alla pensione.

Per quanto sia ingiusto bisogna arrendersi all´evidenza: le banche sono diverse. La loro centralità per l´economia le rende uniche, insostituibili. Basta pensare al loro ruolo nel sistema dei pagamenti. Quanti di noi ancora ricevono lo stipendio in contanti a fine mese dal datore di lavoro? È significativo il caos in cui è precipitata la piccola Islanda: dà la misura delle conseguenze che può avere l´insolvibilità bancaria – anche momentanea – in un paese sviluppato. È così da molto tempo ormai. Non a caso le banche sono sempre state l´oggetto di un´attenzione speciale e di una legislazione su misura da parte degli Stati moderni. La più immediata riforma adottata negli anni Trenta, in paesi così diversi come l´America di Roosevelt e l´Italia di Mussolini, fu una nuova legislazione bancaria per impedire gli eccessi che avevano portato al 1929.

La lezione degli anni Trenta però fu via via dimenticata e cancellata, a ondate successive, con una serie di cambiamenti che hanno ridisegnato il ruolo delle banche. Si è persa per strada l´idea che le banche, in contropartita di una protezione superiore, dovessero essere molto più regolate di altri settori. Negli anni Settanta la congiunzione fra l´avvento dei computer e l´egemonia neoliberista della "scuola di Chicago" (Milton Friedman) portò al primo boom della finanza derivata, ai futures, alle liberalizzazioni dei movimenti di capitali. E la storia dell´ultima fase della globalizzazione è stata segnata da uno smisurato aumento d´importanza del settore finanziario, insieme con l´ipertrofìa dell´indebitamento. Nella escalation del laissez-faire le tappe finali verso il disastro sono state lucidamente descritte dall´ex vicepresidente della Federal Reserve, Alan Blinder. «Nel 1998 quando la commissione di vigilanza sui futures delle materie prime cercò di estendere i suoi controlli anche sui derivati, l´idea fu bocciata dalle due authority più potenti, la Federal Reserve e la Sec. Nel 2004 la stessa Sec, l´organo di vigilanza sulla Borsa, autorizzò un forte aumento dell´effetto-leva (leggi: indebitamento) per le banche d´investimento. Da un rapporto 12 a 1 si passò a una media di 33 a 1: con questi livelli di debiti basta il 3 per cento di declino nel valore degli attivi per cancellare tutto il capitale di una banca. E negli ultimi anni il mercato dei mutui subprime, che era sempre stato una frangia marginale e modesta, è stato lasciato crescere fino a diventare una componente grossa e pericolosa». Per finire Blinder definisce «disordinato, contraddittorio e incoerente» l´uso del fondo Tarp per i salvataggi bancari: non ha risolto il vero problema di fondo, che rimane l´immenso buco nero di titoli tossici dentro i bilanci delle banche.

Questa situazione apre la strada a scenari estremi. «Non avremmo mai pensato – dice la presidente della Camera Nancy Pelosi – di dover usare questo termine in America: nazionalizzazione delle banche». Per effetto degli aiuti recenti già ora lo Stato è il primo azionista di Citigroup con il 7,8 per cento del capitale e di Bank of America con il 6 (molto di più se si includono le garanzie sui titoli tossici). Eppure la voce del contribuente resta irrilevante nel management del credito. Questa semi-nazionalizzazione senza contropartite è una soluzione pericolosa. Ricorda da vicino gli errori compiuti dal Giappone negli anni Novanta, il "decennio perduto" di depressione economica per l´economia nipponica dopo lo scoppio della sua bolla immobiliare e finanziaria.

Sette giorni dopo l´insediamento di Barack Obama cominciano a giungere segnali di un ripensamento più drastico. Come il 1929 anche questa crisi può portare a una grande riforma del sistema bancario. Tra le nuove regole ci sarebbero controlli più stringenti per i derivati, i credit default swaps, gli hedge fund; nonché sui conflitti d´interessi delle agenzie di rating. Una radicale re-regulation dei mutui. Forse perfino una "ingerenza" del legislatore sulle retribuzioni dei manager, un tema finora tabù nell´America del libero mercato. In tal caso le ripercussioni potrebbero riguardare non solo l´economia ma anche le gerarchie di valori nella società in cui viviamo. Per qualche decennio una parte dei giovani talenti più brillanti furono attirati dai mestieri della finanza, perché il sistema degli incentivi era squilibrato a favore di quel mondo. In futuro forse avremo meno trader e più cervelli impegnati nella battaglia contro la malaria o il cambiamento climatico? Il tracollo delle banche avrebbe almeno un effetto collaterale positivo.