mercoledì 21 gennaio 2009

Obama Day

Barack Obama e' da ieri il 44esimo Presidente degli Stati Uniti. Nel suo primo discorso da Presidente ha toccato vari temi e il linguaggio usato sembra segnare una forte discontinuita' con l'Amministrazione uscente.

Ecco alcuni punti salienti del suo discorso inaugurale.
"La nostra economia è duramente indebolita, in conseguenza dell'avidità e dell'irresponsabilità di alcuni, ma anche del nostro fallimento collettivo nel compiere scelte dure e preparare la nazione a una nuova era. Case sono andate perdute, posti di lavoro tagliati, attività chiuse. La nostra sanità è troppo costosa, le nostre scuole trascurano troppi; e ogni giorno aggiunge un'ulteriore prova del fatto che i modi in cui usiamo l'energia rafforzano i nostri avversari e minacciano il nostro pianeta [...] Per quel che riguarda la nostra difesa comune, respingiamo come falsa la scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali. I Padri Fondatori, di fronte a pericoli che facciamo fatica a immaginare, prepararono un Carta che garantisse il rispetto della legge e i diritti dell’uomo, una Carta ampliata con il sangue versato da generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondo e non vi rinunceremo in nome del bisogno [...] Le generazioni passate sconfissero il fascismo e il comunismo non solo con i carri armati e i missili, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Capirono che la nostra forza da sola non basta a proteggerci, né ci dà il diritto di fare come ci pare. Al contrario, seppero che il potere cresce quando se ne fa un uso prudente [...] Al mondo musulmano: cerchiamo un modo nuovo per andare avanti basato sul rispetto reciproco e sul reciproco interesse. Ai leader che cercano di dare le colpe all'Occidente, sappiate che il vostro popolo vi giudicherà in base a cio' che siete in grado di costruire, non di distruggere. Siamo disposti a tendere la mano se sarete disposti a sciogliere il pugno [...] Ai popoli dei Paesi poveri, diciamo di volerci impegnare insieme a voi per far rendere le vostre fattorie e far scorrere acque pulita; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quei Paesi che come noi hanno la fortuna di godere di una relativa abbondanza, diciamo che non possiamo più permetterci di essere indifferenti verso la sofferenza fuori dai nostri confini; né possiamo consumare le risorse del pianeta senza pensare alle conseguenze. Perché il mondo è cambiato, e noi dobbiamo cambiare insieme al mondo [...] Questo il significato della nostra libertà e del nostro credo: il motivo per cui uomini e donne e bambine di ogni razza e ogni fede possono unirsi in celebrazione attraverso questo splendido viale, e per cui un uomo il cui padre sessant’anni fa avrebbe potuto non essere servito al ristorante oggi può starvi davanti a pronunciare un giuramento sacro".


Il Presidente Barack Hussein Obama

di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 21 Gennaio 2009

La Bibbia era di Abramo Lincoln, quasi un testimonio diretto di quanti e quali passi l’America ha compiuto nella lotta contro la segregazione razziale. L’ha ricordato lo stesso Obama: “Sessant’anni fa, mio padre non poteva nemmeno essere servito a un ristorante”. La mano, invece, era quella del 44esimo Presidente degli Stati Uniti. Obama Hussein Barak, si è finalmente insediato alla Casa Bianca, eseguendo lo sfratto decretato dall’elettorato al penultimo rampollo della dinastia Bush. Sfidando una temperatura polare, circa due milioni di persone hanno accompagnato Obama nel suo giorno più lungo, trasformando la saporifera e lobbista Washington nella capitale popolare dell’America di ieri. Mai la Casa Bianca era stata teatro di una manifestazione così grande; mai, dalla marcia di Marter Luther King, tanti afroamericani avevano invaso la capitale; mai l’insediamento di un presidente era stato un evento politico così partecipato a livello popolare. Tanta partecipazione rimanda chiaramente alle tante attese che la nuova presidenza suscita nel popolo americano, e non solo in quello americano.

E, sebbene il protocollo e la diplomazia suggerissero sorvolare sugli elementi più critici della presidenza passata, Obama non ha risparmiato critiche durissime all’amministrazione uscente. Le parole con le quali il nuovo presidente si é presentato agli americani e al mondo intero sono risuonate diverse, opposte persino, a quelle che otto anni di buio della democrazia ci avevano abituato ad ascoltare dalla Casa Bianca. E aldilà dell’inevitabile retorica, Obama, appunto, non ha voluto perdere la straordinaria occasione per ricordare gli impegni presi. Recupero economico, riforma del sistema sanitario e lotta alla disoccupazione; ambiente, Irak e Afghanistan, Guantanamo, rapporti internazionali, dialogo con l’Islam.

“Una nazione non può prosperare se favorisce solo i più prosperi” ha detto il Presidente degli Stati Uniti, indicando un cammino che vedrà investimenti poderosi nell’infrastruttura del paese per stimolare un’economia debilitata. Edilizia per costruire ed ammodernare edifici pubblici e scuole; e poi crediti fiscali per le imprese che generano lavoro, riduzione delle imposte per i lavoratori dipendenti e ampliamento dei sussidi di disoccupazione. Sempre sul terreno del welfare, Obama lancia la sfida alle lobby della salute, indicando come priorità la riduzione dei costi delle assicurazioni sanitarie e offrendo allo stesso tempo, a coloro che non possono permettersele, un nuovo piano più accessibile che renda “Medicare” un servizio sanitario degno di tal nome. In questo senso, le nomine annunciate, prima tra tutte quella di Tom Daschle, sembrano indicare la voglia di fare sul serio. A indiretta, parziale conferma, il crollo di Wall Street proprio nel giorno dell’inaugurazione della nuova presidenza. Gli speculatori proprio non si fidano.

Anche sull’ambiente sembra davvero finita l’epoca della famiglia Bush, che ha stracciato il Protocollo di Kyoto per dare impulso alle produzioni inquinanti civili e militari destinate a sostenere le speculazioni delle lobbies petrolifere e del complesso militar-industriale. Obama ha confermato le promesse fatte in campagna elettorale: entro il 2012, almeno il 10% del fabbisogno energetico degli Usa dovrà provenire da fonti rinnovabili di energia. Investimento di oltre 150 miliardi di dollari in combustibili alternativi nei prossimi dieci anni e lavoro immediato per stabilire un programma di commercio di “diritti di emissioni” per ridurre le emissioni di gas. Come già nella Ue, il commercio dei diritti di emissione fa sì che le imprese che abbiano le emissioni più inquinanti siano obbligate ad acquistare i permessi da quelle che inquinano meno.

Forte e non scontato, il messaggio all’Islam, al quale propone "rispetto e ascolto" e che promette "di dare la mano se voi abbasserete il pugno". Un passaggio che pare, tra l'altro, voler costruire la cornice nella quale operare i cambiamenti di politica estera a cominciare dal progressivo ritiro dall’Irak e allo spostamento delle truppe sul terreno afgano. Ci sarà modo per analizzare un cambio di strategia che comporta, come architrave, il tentativo di dividere il mondo islamico, ma certo è che, anche su questo terreno, appare forte la discontinuità con l’Amministrazione Bush. Curioso, forse simbolico che, mentre si accingeva a giurare e a pronunciare queste parole, l’ex vice-presidente, Dick Cheney – del gruppo degli Stranamore l’unico con Condoleeza Rice a non essersi dimesso prima - lasciava la Casa Bianca su una sedia a rotelle.

E poi Guantanamo, la vergogna dell’America. Il nuovo presidente non ha dubbi: Guantanamo va chiusa. Ne va della decenza del paese. In una recente intervista a Time Obama disse: “Se nei prossimi due anni la mia amministrazione non avrà chiuso Guantanamo, non avrà posto fine alla tortura e restaurato un equilibrio tra le nostre esigenze di sicurezza e la nostra Costituzione, allora avrò fallito”.

E anche i rapporti internazionali sembrano segnare la profonda discontinuità con l’amministrazione Bush. Il primo, non secondario elemento, è che Bush era giudicato unanimemente un idiota pericoloso: il segreto disprezzo delle cancellerie di tutto il mondo nei suoi confronti si palesò finalmente palesato in occasione dell’ultimo g-20, quando nessuno dei capi di Stato presenti volle stringere la mano al texano ormai ex-presidente. Barak Hussein Obama, popolarissimo ovunque, gode invece della stima pressoché incondizionata dei leader internazionali, europei in testa. Obama ha ribadito a più riprese come la sua amministrazione cercherà un dialogo più serrato con la comunità internazionale e i teatri di crisi, Medio Oriente tra tutti, potrebbero risentire positivamente di una governante condivisa.

Da domani inizia quindi il cammino della nuova presidenza. Un cammino che non sarà semplice e che dovrà essere misurato sulla relazione possibile tra le ambizioni di cambiamento e la difesa strenua dei loro interessi da parte dei poteri forti. Sarebbe davvero ingeneroso non credere agli impegni che la nuova presidenza statunitense ha preso davanti ai cittadini americani e al mondo intero; ma sarebbe altresì ingenuo ritenere che l’impero, per quanto in crisi profonda, rinunci al dominio planetario in nome della democratizzazione; che possa insomma sopportare un mondo multipolare che soppianti l’unipolarismo che, dal 1989 ad oggi, è stato la cifra assoluta del comando globale statunitense.

La crisi economica, le sconfitte militari e la crisi di leadership politica che hanno messo in ginocchio il gigante a stelle e strisce consentono però oggi ai paesi emergenti e, in parte, alla stessa Europa, un livello di autonomia politica prima impensabile. Gli americani hanno trovato il loro comandante in capo, ma che questo diventi anche il leader della comunità internazionale, è tutto da vedere.


Obama e le verità indicibili
di Giulietto Chiesa - Megachip - 21 Gennaio 2009

Chi l’ha detto mi trova concorde: i presidenti si giudicano per quello che fanno, non per quello che promettono. In realtà varrebbe non solo per i presidenti, ma per tutti. Sicuramente vale dunque anche per Barack Hussein Obama, il quale sappiamo già che passerà alla storia per la assoluta peculiarità che ha accompagnato la sua elezione, a prescindere da quello che farà o non farà, e anche dal fatto se lo farà bene o male.

Passerà alla storia come la più fantastica operazione di marketing presidenziale che mai sia stata anche soltanto immaginata.

Quando ero giovanissimo ricordo di avere letto un libro, in cui si spiegava che un presidente americano, già allora, era un fenomeno di mercato, in tutti i sensi. L’autore era un americano, Joe McGinnis. Il titolo, “Come si vende un presidente”, era da intendersi nel senso “buono”, appunto, di come un presidente sia equiparabile a una grossa saponetta, non nel senso, cattivo, di un presidente che vende se stesso al migliore offerente.

Nel caso di Obama, trascorsi alcuni decenni, abbiamo però superato ogni precedente asticella. Gli altri, i predecessori, venivano ‘“venduti” tutti con gli stessi sistemi. Questo nostro si trova in una situazione inedita per un presidente americano: di un paese in preda a una crisi profonda. Tanto profonda che, al momento, nessuno è ancora in grado di guardare in fondo alla voragine.

Per la qual cosa eleggere un presidente, nel 2008, non poteva più significare soltanto vendere una saponetta. Le menti che questa volta hanno costruito la “merce” avevano di fronte a sé il compito di “rivendere l’America” tutta intera. E non era neppure questione di ricostruire il suo maquillage, di farle un lifting radicale. Era questione di rilanciare il “sogno americano” in tutta la sua hollywoodiana magnificenza. E di farlo nel momento peggiore, quello in cui tutte le “mission accomplished” si rivelavano niente affatto “accomplished”.

Ho letto in questi mesi di attesa dell’entrata in carica, decine di commenti, variegati ma accomunati da un mantra: ecco, vedete, l’America in crisi riesce a scuotersi, si rialza, si rilancia, dimostra che non c’è alcun declino, che si tratta solo di una parentesi infausta, provocata dal disastro del suo predecessore.

Ecc, dovessi dire, questo è l’unico segno che dimostra la vera grandezza dell’Impero: la sua capacità di gestire la propria immagine. Geniale la campagna elettorale che ha messo in lizza una donna (sarebbe stata la prima in assoluto nella storia americana) e un nero (altro primato assoluto, roba da Guinness). Prima ancora di finire la campagna gli ideatori di questa operazione avevano già ottenuto il 50% del successo, fornendo una nuova versione dell’America ad uso e consumo del mondo intero. Una classica situazione che proprio gli americani hanno icasticamente definito come “win-win”. Cioè una situazione in cui non puoi perdere, puoi solo vincere, alla grande o alla Guinness.

Poi, cammin facendo, il senso comune degli americani (chi ha detto che i popoli non esistono e sono soltanto astrazioni? Io sto con Elias Canetti, che credeva nell’anima della massa) ha capito che non si poteva rilanciare l’idea di un nuovo Impero se non con un cambio d’immagine totale. E ha fatto vincere il nero.

Fine del razzismo? Macché. Certo questa cosa c’è nella vittoria di Obama, ma io credo che l’America ha scelto colui che meglio di ogni altro le avrebbe dato la possibilità di dimostrare il suo dinamismo, di rilanciare la sua supremazia mondiale, cioè il suo - direbbero i francesi - train de vie.

Come continuare a fare shopping? A non pagare le tasse? A poter dettare al resto del mondo le proprie scelte come se fossero quelle di tutti? No, non intendo filosofare. So bene che questi non sono gli obiettivi dell’americano medio. È chiaro che queste sono le idee dell’élite di quella società, di quella che ha il potere da sempre. Ma la sua forza è sempre consistita - come ha spiegato magistralmente Michael Moore - nel tenere la carota del sogno americano così vicina al naso del vero americano medio da fargliene sentire l’odore. E cioè dal convincerlo che poteva mangiarsela, con un po’ di fortuna, anche domani.

Il problema viene adesso, quando Obama sarà costretto ad allontanare di qualche centimetro la carota. E il vero punto interrogativo si sposterà alla fine di quest’altra domanda: lo farà dicendo la verità, almeno “qualche” verità, oppure dovrà farlo con brutalità, senza dire come stanno le cose?

Ma su questo punto, se il lettore permette, tornerò tra poco. Adesso vorrei parlare di noi, sudditi dell’Impero che sarà guidato da Obama. Siamo estasiati da questo sfavillio di novità, di energia. Ho una cara amica che non fa che ripetermi una cosa che non posso trascurare: mi invita a riflettere che le cose che Obama dice non può avergliele scritte nessuno, perché sono troppo intelligenti. E che certi vocaboli, certe idee, o le hai in testa, oppure non ti vengono fuori neanche se avessi i migliori dieci speech writers del mondo.


E poi io ho visto con i miei occhi emergere un altro “mutante” in un altro paese in crisi epocale, assai vicina, per profondità a quella dell’America di oggi. Nessuno avrebbe mai immaginato che potesse scaturire, quel “mutante”, da quelle condizioni. Eppure comparve e produsse, o forse semplicemente interpretò ciò che stava per accadere. Era Gorbaciov, che usciva dalle viscere dell’apparato più chiuso e refrattario alla novità, portando una ventata di cambiamenti che non ha ancora smesso di scuotere il pianeta. Sappiamo che andò male, ma questo è un altro discorso.

Il fatto è che avvenne. E se avvenne allora, perché non potrebbe avvenire di nuovo?

Quindi mantengo una riserva positiva: per lui. Un credito di fiducia: non si sa mai.
Quello di cui diffido di più sono i suoi esaltatori nostrani. Quelli che tutto andava bene anche con Bush Junior, e che adesso si sono iscritti in fretta nella squadra di Obama. Quelli che, quando osavi dire che c’era qualche cosa di insano in quella mano nascosta del mercato che menava fendenti da cui schizzava sangue e dolore per miliardi di diseredati, ti bollavano come ingrato, quando non come nemico dell’Occidente.

“Quelli che”, avrebbe detto Giorgio Gaber, perché sarebbero stati bene nel suo elenco di allora, anni ’60. Che erano pronti a vendere l’Europa per comprarsi l’America, visto che tutta la novità veniva di là, visto che noi eravamo vecchi e loro erano Silicon Valley, visto che noi avevamo la pensione e loro invece mettevano in campo i fondi pensione, che a dispetto della somiglianza terminologica, con le pensioni poco o nulla avevano in comune, tant’è vero che chi ci aveva creduto la pensione non la vedrà più.

Che bello sognare la carota altrui! Ecco, di questi non mi fido.

E allora torno al nero Obama e alla voragine su cui è affacciato. So che da come guarderà là dentro dipenderà non solo il nostro benessere ma perfino la nostra vita, sicuramente quella dei nostri figli. So che se sbaglia lui, e quelle trenta persone che gli stanno intorno, saranno guai per tutti.

So che, per non sbagliare, dovrà dire agli americani - a quelli che l’american way of life, quello che ha conquistato il mondo, se lo sono goduto - che è finito.

Che l’America è arrivata al capolinea, come tutti noi ricchi, si fa per dire, ma ricchi rispetto agli altri, che ricchi non sono mai stati. Che una “ripresa economica”, se ci sarà, sarà di breve durata e poi si andrà di sotto di nuovo, come accade a quelli che non sanno nuotare e che ogni tanto riescono comunque a riemergere per prendere una boccata d’aria. Perché tutto il modello di crescita esponenziale nel quale siamo vissuti per un secolo e mezzo non è più perseguibile, non è nemmeno più realizzabile, perché le risorse non ci sono più. Dovrebbe dire ai suoi concittadini che la festa è finita, anzi che non era nemmeno una festa ma un simulacro di festa. Era immagine, come è l’immagine quella che lo ha portato al potere per salvare quell’altra immagine che l’ha preceduta. E noi dovremmo pensare, ora, che da un miraggio, che ci ha tratto in inganno, possa emergere una realtà che ci consoli da quell’inganno nel quale abbiamo creduto, costasse - agli altri- quello che doveva costare?

Io so che Obama non potrà dire la verità, e non la dirà. Nemmeno se avesse visto fino in fondo alla voragine. Dovrebbe dirci, crudamente, una cosa che molti non potrebbero neppure capire, non dico condividere: che una crescita indefinita in un sistema finito di risorse non è materialmente possibile. E noi, insieme agli americani, ci troviamo, guarda caso, proprio all’interno di un sistema finito di risorse, dopo avere prodotto una crescita talmente infinita da rompere perfino quel sistema. Stiamo vivendo con gli spiccioli di natura che non abbiamo ancora mangiato e bevuto e ancora pensiamo che possano durare all’infinito. In questo guidati da quella “scienza sciocca” che è l’economia, la quale non ha saputo distinguere il denaro (che abbiamo inventato noi e che non ha limiti) dalla materia, che non abbiamo inventato noi e che è inesorabilmente limitata.

Il disastro viene da qui. E Obama, anche se fosse un “mutante”, non ha i freni per fermarlo.


Tutti i problemi del Presidente
di Alessandro Ursic - Peacereporter - 20 Gennaio 2009

Un Paese in recessione e con le casse pubbliche che fanno acqua, nel tentativo di salvare decine di compagnie dalla bancarotta: Barack Obama diventa presidente nella peggiore crisi economica degli Stati Uniti dai tempi della Grande Depressione degli anni Trenta. Per uscirne punta a indebitare gli Usa ancora di più, grazie agli investimenti pubblici e a tagli alle tasse, nella speranza che gli americani tornino a spendere. Ma il cammino è irto di difficoltà.

I numeri. Nel 2008 gli Stati Uniti hanno perso 2,6 milioni di posti di lavoro, di cui 524mila nel solo mese di dicembre. E la maggioranza degli esperti concorda nel credere che il peggio deve ancora venire, prima della ripresa. I salvataggi finanziari degli ultimi tre mesi - colossi come Aig, Citigroup, General Motors ma anche decine di istituti minori - stanno avendo un peso senza precedenti sui conti statali: è stato calcolato che nell'anno fiscale 2009 il deficit di bilancio sarà di 1.200 miliardi di dollari, cioè l'8,3 percento del Prodotto interno lordo. Si tratta del più ampio buco nei conti pubblici dalla Seconda guerra mondiale: per fare un confronto, si pensi che i Paesi dell'area euro devono contenere il rapporto deficit/Pil entro il 3 percento. Pur sapendo che spendere oltre le proprie capacità oggi si paga con maggiori interessi domani, gli Stati Uniti credono di potersi permettere il rischio, anche perché partono da un debito pubblico in proporzione minore rispetto ad altri Paesi: circa il 60 percento del Pil (in Italia tale rapporto è di 108).

La ricetta di Obama. E tutto questo, senza contare il piano di stimolo all'economia pensato da Obama: 775 miliardi di dollari, in spese pubbliche e tagli fiscali che si sommerebbero al già enorme buco di bilancio. L'idea del presidente è di impiegare circa il 40 percento di questa cifra in riduzioni delle imposte per le classi medio-basse, che riceverebbero in sostanza 500-1.000 dollari in più a famiglia. Il resto dovrebbe essere speso per rilanciare le infrastrutture, creando 600mila posti di lavoro tramite gli investimenti pubblici. Obama si ispira insomma alle teorie keynesiane, secondo cui un'economia in crisi può venire rilanciata grazie alla spesa pubblica. Ma al contempo, sono previsti tagli ai programmi di assistenza sanitaria per i più poveri e per gli anziani: in questo quadro l'obiettivo di fornire a tutti un'assicurazione medica, centrale nella campagna elettorale, è destinato a essere rinviato.

Le difficoltà.
Il piano di Obama non piace però a buona parte del Congresso, e non solo tra l'opposizione. Se i repubblicani storcono il naso di fronte all'esplosione della spesa pubblica, seguendo i principi reaganiani del "governo leggero", anche all'interno del Partito democratico ci sono voci contrarie: quel mix di tagli fiscali e aumento della spesa pubblica, secondo loro, è troppo sbilanciato in favore della riduzione delle imposte. Ma sapendo che la battaglia per l'approvazione del pacchetto sarà dura, con i tagli fiscali il presidente ha cercato probabilmente un'esca per l'appoggio dei repubblicani al Congresso. E' probabile che, prima della stesura finale, il piano Obama verrà ampiamente emendato e c'è la possibilità - solo ventilata per ora, quasi fosse tabù parlarne - che la cifra di 775 miliardi superi in realtà il trilione, se saranno necessari altri salvataggi di grandi aziende. E nonostante il piano di stimolo sia stato accolto come l'inizio della fine della recessione, c'è già chi teme che non sarà sufficiente per allontanare l'economia statunitense dal baratro.



Nuove energie
di Alessandro Ursic - Peacereporter - 20 Gennaio 2009

L'amministrazione Bush quasi negava il riscaldamento globale provocato dall'uomo, e aveva legami documentati con le grandi compagnie petrolifere. Il nuovo segretario all'Energia scelto da Barack Obama è invece uno scienziato che da anni conduce studi sui biocombustibili, vorrebbe portare le tasse sulla benzina ai livelli europei e crede che gli Stati Uniti debbano muoversi per primi nella lotta all'effetto serra. A parole è una rivoluzione, forse il "change" più drastico dell'amministrazione Obama. Ma il cambiamento, se diventerà tale anche nei fatti, non potrà che essere graduale.

Steven Chu, un sino-americano premiato con il Nobel per la fisica nel 1997, ha presentato nei giorni scorsi il suo programma di fronte alla Commissione Energia e Risorse naturali del Senato. Non ha usato mezze misure per descrivere le sue idee sul riscaldamento globale: "E' ormai chiaro che se continuiamo di questo passo, corriamo il rischio di drammatici cambiamenti al nostro sistema climatico, i cui effetti saranno subiti dai nostri figli e nipoti", ha detto il nuovo segretario all'Energia. L'altra priorità, ha aggiunto, è rendere gli Stati Uniti meno dipendenti dalle forniture estere di petrolio, che ora rappresentano il 60 percento dei consumi. Come? "Migliorare l'efficienza energetica è il singolo fattore che più può ridurre la nostra dipendenza dal greggio straniero", ha detto Chu. Anche questa è una risposta rivoluzionaria, e spazio per migliorare ce n'è: al momento, infatti, gli Usa spendono per le armi nucleari 11 volte tanto quello che investono nel migliorare l'efficienza energetica.

I repubblicani hanno spesso sminuito l'importanza del risparmio energetico, che non significa solo consumare meno, bensì eliminare gli sprechi del sistema. In campagna elettorale, Obama è stato a lungo dileggiato dai conservatori per aver suggerito di "gonfiare le gomme delle vostre automobili" per risparmiare benzina, nel tentativo di dipingerlo come un ingenuo ambientalista; e storicamente, negli Usa parlare di efficienza energetica era quasi un tabù, di fronte alla paura di nuocere all'economia nazionale e di peggiorare lo stile di vita. E' per questo che il protocollo di Kyoto - che Bush non ha sottoposto al Senato per la ratifica, ma che avrebbe potuto comunque essere bocciato - era così impopolare. L'obiezione classica è: se Cina e India non sono tenute a porre limiti alle loro emissioni in quanto Paesi emergenti, perché dobbiamo cominciare noi? Incalzato dalla Commissione, Chu ha riconosciuto che Washington e Pechino sono bloccate su questo punto. Ma sul problema sembra avere un approccio innovativo: secondo lui, gli Stati Uniti "dovrebbero fare il primo passo, e la Cina seguirci da vicino". Se ciò non avverrà, ha precisato, allora gli Usa potrebbero riconsiderare la loro posizione.

Come arrivare alla riduzione delle emissioni? Obama ha promesso investimenti miliardari nelle nuove fonti energetiche, ma Chu ha già fatto capire che l'energia pulita - al momento il 7 percento di quella consumata negli Usa - dovrà convivere per un bel po' con le fonti tradizionali. Anche con la più inquinante di tutte, il carbone. Nel 2007 Chu lo definì "il mio peggior incubo". Ma davanti alla Commissione ha già ammesso che, nell'attesa di sviluppare la tecnologia del "carbone pulito", verranno costruite anche centrali termoelettriche che usano questo combustibile fossile; d'altronde, la lobby del carbone è una presenza politica importante negli Usa, e specie nell'est del Paese tale settore dà lavoro a decine di migliaia di persone. Anche il nucleare, che fornisce il 20 percento dell'elettricità consumata in America, sarà parte del "mix energetico" previsto da Chu, che ha annunciato la costruzione di nuove centrali. Infine, ha detto il nuovo segretario, l'amministrazione Obama favorirà la creazione di un sistema di "cap and trade" delle emissioni: cioè l'assegnazione di quote inquinanti alle singole aziende, che possono vendere alle più inefficienti gli eventuali crediti di carbonio accumulati, se avranno limitato le loro emissioni più del previsto.

E il petrolio? Nella sfida tra Obama e John McCain, la questione delle trivellazioni offshore era stata centrale: all'epoca, solo qualche mese fa, il prezzo del petrolio era arrivato a 147 dollari al barile, e quello della benzina a oltre 4 dollari al gallone. L'idea dei repubblicani era che il divieto di esplorazione al largo delle coste Usa, introdotto negli anni Ottanta per il timore di catastrofi ambientali, andasse rivisto, perché la scoperta di nuovi pozzi petroliferi avrebbe contribuito al calo del prezzo del greggio. Oggi che il petrolio è venduto a 34 dollari al barile, delle trivellazioni offshore si parla meno. Chu, ricalcando la posizione di Obama, non esclude di revocare l'attuale divieto; ma fa notare che, con il 3 percento delle riserve conosciute di gas e petrolio, la soluzione del problema non può essere ricercata solo sul fondo del mare al largo delle coste Usa.

Le posizioni di Chu hanno ricevuto parole di apprezzamento da diversi gruppi ambientalisti. Ma le idee del segretario all'Energia, come altri cambiamenti promessi da Obama, dovranno confrontarsi con la grave crisi economica, e diversi progetti rischiano di finire nel cassetto. A settembre, in un'intervista Chu disse che "in qualche modo, dobbiamo trovare un modo di portare il prezzo della benzina ai livelli europei": negli Usa, infatti, il carburante costa anche un terzo di quanto si paga in Europa, grazie a un'imposizione di tasse minima. Davanti alla Commissione, però, la posizione è già cambiata. In questo momento, ha ammesso Chu, l'ultima cosa che gli americani vogliono è "pagare una quota crescente dei loro risparmi in costi energetici".



L'umiliazione dell'America
di Paul Craig Roberts - www.vdare.com - 13 Gennaio 2009
Traduzione di Gianluca Freda

Venerdì mattina il Segretario di Stato USA stava considerando l’ipotesi di sottoporre la questione del cessate il fuoco al Consiglio di Sicurezza ONU e noi non volevamo che lei votasse a favore”, ha detto Olmert. “Io ho detto ‘chiamatemi il presidente Bush’. Hanno provato a cercarlo e mi hanno riferito che era nel pieno di una conferenza a Philadelphia. Io ho detto: ‘Non mi interessa, ho bisogno di parlargli adesso’. Così lui è sceso dal podio, è uscito e ha preso la telefonata”. (articolo di Yaakov Lappin “PM: Rice left embarrassed in UN vote”, Jerusalem Post, 12 gennaio 2009).

“Vediamo se ho capito bene”, mi ha scritto un amico in risposta alle notizie secondo le quali il Primo Ministro israeliano Olmert avrebbe ordinato al presidente Bush di scendere dal podio dove stava tenendo un discorso per ricevere le istruzioni di Israele su come gli Stati Uniti avrebbero dovuto votare in una risoluzione dell’ONU. “L’11 settembre il presidente Bush venne interrotto mentre leggeva una favola agli scolari con la notizia che il World Trade Center era stato colpito. Eppure continuò a leggere. Ora Olmert telefona per parlare di una risoluzione dell’ONU mentre Bush sta tenendo un discorso e Bush lascia la sala per ricevere la telefonata. Non esiste un esempio migliore di un rapporto padrone-servo”.

Olmert gongolava raccontando agli israeliani di come avesse umiliato il Segretario di Stato americano Condi Rice impedendole di sostenere una risoluzione che lei stessa aveva contribuito ad elaborare. Olmert riferiva con orgoglio di aver interrotto il discorso del presidente Bush per fornirgli gli ordini di marcia sul voto delle Nazioni Unite.

I politici israeliani si vantano da decenni del controllo che esercitano sul governo americano. Nella sua ultima conferenza stampa, il presidente Bush, illuso fino alla fine, ha affermato che il mondo intero rispetta l’America. In realtà quando il mondo guarda l’America ciò che vede è una colonia israeliana.

In risposta al numero crescente di informazioni della Croce Rossa e delle organizzazioni per i diritti umani, che denunciavano gli immensi crimini di guerra compiuti da Israele a Gaza, il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU ha votato, il 12 gennaio, una proposta accettata per 33 voti contro 1 con cui si chiede di condannare Israele per gravi violazioni dei diritti umani.

Il 13 gennaio il London Times riferiva che alcuni israeliani si erano radunati su una collina con vista su Gaza per godersi il massacro dei palestinesi in quello che il Times definisce “Uno sport voyeuristico estremo”.

Sono i jet F-16, gli elicotteri, i missili e le bombe fornite dagli americani che stanno distruggendo le infrastrutture civili di Gaza e stanno massacrando i palestinesi ammassati in questa stretta striscia di terra. Ciò che sta accadendo ai palestinesi rinchiusi come bestie nel ghetto di Gaza lo si deve al denaro e alle armi fornite dagli americani. Si tratta di un attacco di cui gli Stati Uniti sono responsabili quanto Israele. Il governo americano è complice dei crimini di guerra.

Nonostante ciò, nella sua conferenza di addio del 12 gennaio, il presidente Bush ha detto che il mondo rispetta l’America per la sua compassione.

- La compassione di bombardare una scuola femminile dell’ONU?

- La compassione di rinchiudere 100 palestinesi in un edificio per poi bombardarlo?

- La compassione di bombardare ospedali e moschee?

- La compassione di privare un milione e mezzo di palestinesi di cibo, medicine ed energia elettrica?

- La compassione di rovesciare in modo violento il governo democraticamente eletto di Hamas?

- La compassione di bombardare le infrastrutture di uno dei popoli più poveri e affamati della Terra?

- La compassione di astenersi da un voto del Consiglio di Sicurezza che condanna questi atti?

Tutto questo non è che una replica di ciò che israeliani ed americani hanno fatto in Libano nel 2006, di ciò che gli americani hanno fatto agli irakeni per sei anni e che continuano a fare dopo sette anni agli afghani. E che sperano ancora di poter fare in futuro a iraniani e siriani.

Nel 2002 avevo soprannominato Bush “l’idiota alla Casa Bianca”. Se mai ci fossero stati dei dubbi su questa designazione, la sua ultima conferenza stampa li ha spazzati via.

Bush ha parlato di collegare i punti tra loro, ma Bush non è riuscito a collegare nessun punto in otto lunghi anni. Il “nostro” presidente era una marionetta nelle mani di una cabala guidata da Dick Cheney e da un manipolo di ebrei neoconservatori che hanno preso il controllo del Pentagono, del Dipartimento di Stato, del National Security Council, della CIA e della Homeland Security. Da queste posizioni di potere, la cabala neocon ha usato menzogne ed inganni per invadere Iraq e Afghanistan, guerre senza scopo costate agli americani 3 trilioni di dollari, il tutto mentre milioni di americani perdono il lavoro, la pensione e la possibilità di accedere alle cure sanitarie.

“Questi tempi economici ovviamente molto difficili” ha detto Bush nella sua conferenza stampa, “sono iniziati prima della mia presidenza”.

Bush è in compagnia di un mucchio di liberali nella sua incapacità di collegare una guerra da 3 trilioni di dollari con la durezza dei tempi. Il Centro per il Budget e le Politiche Prioritarie dà la colpa ai tagli fiscali di Bush, anziché alle guerre, per il “deterioramento fiscale”.

Bush ha dichiarato al gruppo stampa della Casa Bianca, un'inutile accozzaglia di non-giornalisti, che i due errori commessi nella sua invasione dell’Iraq sono stati:

1) Innalzare il vessillo della “missione compiuta” sulla portaerei, il che, ha detto, “ha trasmesso un messaggio sbagliato”;
2) L’assenza delle presunte armi di distruzione di massa che aveva utilizzato per giustificare l’invasione.

Per quanto oggi Bush ammetta che queste armi non esistevano, egli continua a dire che l’invasione era la cosa giusta da fare.

La morte di 1,25 milioni di irakeni, l’esilio di altri 4 milioni, la distruzione delle infrastrutture e dell’economia di un paese, non sono che semplici danni collaterali legati alla necessità di “portare libertà e democrazia” in Medio Oriente.

A meno che George W. Bush non sia il miglior attore della storia umana, egli crede davvero a ciò che ha detto al gruppo stampa della Casa Bianca.

Ciò che Bush non ha chiarito è come l’America possa essere rispettata avendo mantenuto in carica un imbecille per ben otto anni.