giovedì 8 gennaio 2009

Gaza: l'ennesimo lavoro sporco dei mainstream media

Mentre si sta aprendo un altro fronte di guerra, quello tra Israele e Libano, qui di seguito due articoli che affrontano il tema dell'ultima ed ennesima manipolazione delle notizie operata dai mainstream media a proposito della strage di Gaza.



Perché stiamo perdendo
di Giulietto Chiesa - Megachip - 7 Gennaio 2009

A volte è necessario mettere ordine nelle idee. Specie quando accade che le tue idee appaiono così in contrasto con ciò che ti circonda da farti pensare che, forse, sei tu che sbagli e tutti gli altri hanno ragione. Leggo la notizia che i morti, nella striscia di Gaza (4 gennaio sera) sono saliti a 500 e i feriti hanno superato quota 3000. Leggo, sugli stessi giornali, ma nelle ultime righe, che Israele ha avuto un solo militare morto. Due giorni dopo saliranno a quattro ma solo perché tre di loro sono caduti sotto il "fuoco amico" dei commilitoni.

Vedo che uno dei maggiori eserciti del mondo, dotato delle più avanzate tecnologie (americane) sta sviluppando un’offensiva a tutto campo contro la popolazione di un milione e mezzo di persone, schiacciata in un esiguo territorio, isolata, accerchiata, da 20 mesi strangolata da un embargo pressoché totale.

Leggo che l’«esercito» di Hamas ha non più di 25 mila uomini, so che non ha aviazione, non ha carri armati, non ha nemmeno pezzi di artiglieria pesante. Salvo missili artigianali che non servono neppure per la battaglia. Infatti partono da qualche cortile, a casaccio, spontaneamente. Cadono a casaccio. Qualche volta uccidono o feriscono. In tre anni sono morte 17 persone nelle cittadine e villaggi, ora israeliani, che circondano la striscia.

Leggo che tutto ciò è orribile, mostruoso. E lo è effettivamente. Ma queste cose le scrivono coloro che hanno taciuto sull’embargo che ha strozzato Gaza; quegli stessi che tacciono sulle violazioni di Israele di tutti gli accordi internazionali, delle risoluzioni dell’Onu; quegli stessi che negano che esista una questione umanitaria a Gaza, anzi che negano sia mai esistita.

Certo io non lancerei missili a casaccio, nemmeno per ritorsione contro violenze multiple subite da anni, da decenni. Ma io abito a Roma e posso comprarmi le medicine in farmacia, sempre che abbia i soldi per farlo. Loro, i palestinesi di Gaza, i padri e le madri, devono scavarsi i tunnel sottoterra per arrivare in Egitto, e poi schivare le pallottole dei fratelli arabi al servizio di Hosni Mubarak.

Leggo anche il bilancio delle vittime israeliane dei mostruosi missili di Hamas. Se le cifre che ho visto non mentono - cifre americane - si tratta di due morti e 20 feriti in tre mesi. Orribile, perché erano innocenti civili. Ma, come disse padre Balducci, quando il conto delle vittime raggiunge rapporti superiori a 1 contro 500 non si può più parlare di guerra ma solo di strage.

Leggo che Israele ha il diritto inalienabile di difendere la propria esistenza. Ma chi è in grado, oggi, domani, in un futuro qualsiasi, di minacciare l’esistenza di Israele? Hamas? Suvvia, nemmeno chi le dice può credere a queste sciocchezze. Leggo commenti scandalizzati per le bandiere di Israele bruciate e imbrattate con le svastiche naziste. Altri si sono scandalizzati per i musulmani che pregano nelle piazze europee, in segno di solidarietà con i fratelli di Palestina trucidati. A me pare che protesta più civile non si sarebbe potuta immaginare.

Invece c’è chi la trova scandalosa, non politically correct. Infatti, che musulmani sono se si limitano a pregare? Noi li vorremmo sanguinari, con il coltello in bocca. Così non funzionano. Ma poi ho l’impressione - scusate ma sono troppo confuso da questa doccia scozzese di notizie - che si pretenda correttezza politica dagli altri senza tenere conto della nostra (di noi europei, di noi italiani) responsabilità morale per avere tollerato, senza condannarlo, l’embargo illegale contro Gaza (per non parlare di tutta la storia pregressa dell’occupazione, anch’essa illegale, delle terre palestinesi).

Mi chiedo: si può essere politicamente corretti in queste condizioni? Ovviamente di chi è oggetto di illegalità e violenza? Vogliamo concedere qualche attenuante generica? Ma interrompo qui le mie rimostranze "logiche". Capisco che non finirei più di avere le idee confuse. Quindi metto ordine. La domanda è questa: come è possibile che decine di mass media, tutti i più importanti, centinaia di giornalisti, migliaia di diplomatici, di ministri, di parlamentari, di uomini di governo (lascio da parte, per ora, i milioni di spettatori e lettori, vittime delle precedenti categorie) possano non vedere la monumentale incongruenza tra i fatti e la loro narrazione? Tra le affermazioni che sostengono e i fatti? C’è una logica in questa follia?

C’è, e viene da lontano. Il Glasgow Media Group (rete di accademici e ricercatori britannici che da trent’anni monitora i media del Regno Unito) ha pubblicato un’analisi di come quei media hanno "coperto" il conflitto israelo-palestinese. (per saperne di più e in dettaglio si legga su http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8475, che ha ripreso un articolo uscito su http://www.senzasoste.it/).

Il GMG ha analizzato 200 differenti edizioni dei Tg della BBC e di ITV News e intervistando più di 800 persone che hanno assorbito i loro messaggi. Il tutto in un periodo preciso, gli anni tra il 2000 e il 2002. Piuttosto lontano dagli eventi attuali. Ulteriore avvertenza: dato che il mainstream britannico è considerato tra i migliori del mondo (anche se di gran lunga non sempre lo è per davvero) possiamo ritenere che il suo esempio sia la versione migliore, il paradigma del mainstream occidentale nella sua interpretazione più decente, o, se preferite, meno indecente.

Ebbene, ecco, in sintesi, i risultati. Gli spettatori del Regno Unito hanno capito poco e male le cause del conflitto, le sue origini gli sfuggivano. Ma hanno assorbito in generale le spiegazioni date dal governo israeliano. Anche perché, si capisce, le fonti israeliane ascoltate e viste erano più del doppio di quelle palestinesi. A rafforzare la monodimensionalità del messaggio sono stati chiamati numerosi parlamentari e senatori americani, invariabilmente favorevoli a Israele, a prescindere.

I bambini palestinesi risultavano quasi sempre vittime del "fuoco incrociato" tra palestinesi e israeliani. Buona parte degli spettatori non sapeva cosa fossero i "territori occupati", e neppure chi fossero gli occupanti, se israeliani o, per caso, gli stessi palestinesi. Quasi tutti gl’intervistati pensavano che gl’incidenti erano sempre iniziati dai palestinesi e che gl’israeliani non facevano che reagire alle offese subite. La maggioranza del pubblico concepiva gl’insediamenti dei coloni israeliani come pacifiche comunità di agricoltori minacciate dall’aggressività araba.

Il numero dei morti israeliani risultava di molto superiore a quello dei morti palestinesi, sebbene il tragico conto della seconda Intifada dica che il rapporto delle vittime delle due parti fu di cinque palestinesi contro uno israeliano. Possiamo fermarci qui.

Il caso di Israele è un’eccezione? Niente affatto. Queste tecnologie informative sono state sperimentate in tutti gli scenari di conflitto , senza eccezione alcuna. Negli ultimi vent’anni, anzi, esse si sono affinate e migliorate, nel senso della loro efficacia manipolatrice. Si veda, come esempio più recente, la "copertura" della guerra di Georgia contro l’Ossetia del Sud.

L’intero mainstream occidentale ha assunto come standard questa intelaiatura al tempo stesso linguistica, concettuale, temporale, funzionale: il pensiero unico integrato con il messaggio unico. Vi è, per questo, una spiegazione oggettiva: l’esistenza del nemico comunista aveva reso relativamente semplice il compito di assegnare ad esso le cause dei problemi del mondo. C’era un "male" visibile (anch’esso sapientemente costruito nei primi anni post-bellici) al quale potevano essere immediatamente attribuite tutte le responsabilità, i crimini, le efferatezze, le ingiustizie ecc. Per giunta senza tema di smentite che provenissero dall’altra parte. Quando le si registrava era solo per irriderle.

Il crollo del comunismo rese più complicata l’esigenza di "motivare" la violenza e la sopraffazione occidentale. Da qui la creazione artificiale del "pericolo islamico", momento topico, culmine della quale fu l’11 settembre 2001. Il conflitto israelo-palestinese è quindi il luogo principale dove la strategia manipolatrice, di cui stiamo analizzando i caratteri, ha potuto svilupparsi con tutta la potenza dei suoi componenti.

È in Palestina che l’Occidente intero si scontra quotidianamente con i suoi nemici. È aiutando Israele che l’Occidente si lava le mani dell’olocausto hitleriano, che dall’Occidente fu concepito e attuato. È in Palestina che, mille volte più che altrove, la verità dev’essere rovesciata nel suo contrario; che la sopraffazione del più forte dev’essere dipinta come necessità di difesa contro il più debole.

E' in Palestina che deve essere imposta, a tutti i costi, la favola di Esopo, del lupo - a monte - che accusa (e uccide) l’agnello - a valle - dopo averlo accusato di intorbidirgli l’acqua del ruscello. Ciò contrasta - lo sappiamo - con la fisica dei corpi, che impedisce all’acqua di salire da valle a monte. Da qui la difficoltà dell’impresa di motivare l’uccisione dell’agnello. Esopo ha scritto la favola proprio per dimostrare l’assurdità della pretesa del lupo. Nasce da questa considerazione morale-letteraria una conclusione che è impossibile evitare. Essa dice che non c’è nulla di casuale in tutto quello che si è fin qui detto.

Queste strategie comunicative sono state studiate accuratamente, e vanno molto oltre la disonestà intellettuale e professionale di individui - pur spregevoli - come Riotta, Pagliara, Ostellino e altri, di cui qui è perfino inutile parlare. Queste strategie, come emerge limpidamente dallo studio citato del GMP, si basano sulla "sedimentazione" di medio e lungo periodo. Solo un pubblico già preventivamente manipolato (istupidito) può infatti accettare, senza cadere in confusione e poi in crisi, la favola del lupo e dell’agnello come logica.

Dio non voglia, sopratutto il Dio degli eserciti, che lo spettatore precipiti in una crisi da confusione. Smetterebbe non solo di applaudire gli assassini, ma anche di fare shopping! Due cose inammissibili. La manipolazione deve dunque essere sistematica, organizzata, continua, molteplice. Pagliara, per esempio, deve essere selezionato per tempo e inviato a Tel Aviv, mandando via i corrispondenti precedenti che facevano onestamente il loro mestiere, nel caso specifico Mark Innaro (esiliato al Cairo) e Paolo Longo (promoveatur ut amoveatur a Pechino).

Avverrà così per mesi, per anni, che il pubblico italiano verrà imbonito quotidianamente del pensiero unico filo-israeliano e anti-palestinese. Questa procedura spiega bene, per converso, come mai la manipolazione mediatica cui abbiamo assistito, lo scorso agosto (guerra di Georgia) non abbia funzionato se non per pochi giorni, per essere poi (provvisoriamente) abbandonata subito dopo: perché il pubblico occidentale non era stato preparato per tempo a "vedere" Saakashvili come il baluardo dell’Occidente.

C’era sì, certo che c’era, perfettamente lubrificata dai tempi della guerra fredda, la macchina russofobica. Ed è stata usata a piene mani mobilitando tutti i dinosauri commentatori dell’epoca, insieme ai loro epigoni attuali. Ma le generazioni cambiano e lo sforzo è risultato non sufficiente a mobilitare emozioni nell’opinione pubblica occidentale e a scagliarle contro l’evidenza dei fatti. Il lupo, cioè, non è riuscito a vestirsi da agnello.

E si spiega perfettamente. Perché per operazioni di questo genere - come bene dimostra la ricerca del Glasgow Media Center - ci vuole tempo e sistematicità. Ci vuole la "sedimentazione" di pensieri e, soprattutto, di immagini. Una volta che si è riusciti a far "sedimentare" nelle menti la propria narrazione del mondo (di quel problema in particolare) risulta allora più facile risvegliarla. Essa riappare obbediente, sollecitata da associazioni mentali che sono state accuratamente predisposte in anticipo.

Purtroppo la cosiddetta contro-informazione, l’informazione alternativa a quella del mainstream, non dispone di queste strategie. E, se anche le avesse elaborate (cosa che non è) non avrebbe gli strumenti per realizzare una diversa "sedimentazione". Purtroppo la sinistra e l’intero campo democratico, in occidente, non è stata capace, fino ad ora, nemmeno di capire il funzionamento di questa macchina, che merita senza dubbio l’appellativo di orwelliana.

L’origine di tutte le sconfitte di questi ultimi 30 anni, quelli dell’avvento della televisione e dei computer, patite dalla democrazia e dalla civiltà, deriva dal fatto, ormai tremendamente evidente, che il controllo della informazione-comunicazione è stato interamente preso dalle forze dominanti, in primo luogo dall’Impero.

Mentre le forze popolari e le loro rappresentanze politiche sono rimaste in una condizione subalterna: tanto dal punto di vista dei mezzi materiali e tecnologici, quanto da quello della teoria, quanto da quello dell’organizzazione politica. Le sinistre - in Italia in modo particolarmente stupido, poiché sono state le sinistre a lasciare aperto il varco al dominio berlusconiano - hanno subito la pratica, e la teoria, che l’avversario stava elaborando e realizzando.

L’anchilosi teorica della sinistra e del liberalismo democratico (ma anche quella della Chiesa cattolica) si è trasformata in subalternità ideologica e in impotenza pratica. La società in trasformazione non è stata studiata, non solo nei suoi aspetti sociali e strutturali (che significavano una diversa composizione della fisionomia delle classi sociali), ma anche nella impressionante serie di modificazioni che le innovazioni tecnologiche producevano nella coscienza delle grandi masse.

Basti pensare che la parte migliore, più attiva, ma comunque largamente minoritaria delle sinistre si è impegnata nella cosiddetta "contro-informazione". Senza neppure rendersi conto, per esempio, che l’informazione è una parte esigua del flusso dei messaggi, largamente sopravanzata da intrattenimento e pubblicità. E che la parte assolutamente decisiva del condizionamento manipolatorio delle coscienze non avviene soltanto, o prevalentemente, mediante l’inganno informativo o il silenzio informativo, bensì si realizza nell’intrattenimento e nella pubblicità.

E, dunque, non essendoci a sinistra alcuna ipotesi di "contro-intrattenimento" e di "contro-pubblicità", la lotta contro la manipolazione diventa uno sforzo vacuo e impotente, con mezzi insufficienti e nella direzione sbagliata, perché secondaria. E basti pensare che in larghi settori della sinistra - e in generale tra le giovani generazioni, anche questo è segnale che l’egemonia culturale è ormai saldamente nelle mani dell’Impero - prevale ancora l’idea che la via della liberazione sia quella di Internet.

Che non solo non può rispondere, nel breve e medio periodo (perché in esso Internet resterà comunque minoritaria e "nicchia") ai problemi descritti sopra, ma che, sotto altro profilo, altro non è che l’illusione secondo cui la tecnologia può liberare l’individuo. E si tenga conto che tutto ciò, pur con tutti i suoi limiti, concerne la parte migliore, la più giovane, quella intellettualmente più attiva, delle forze democratiche.

Il resto: i partiti politici, le istituzioni rappresentative, i mass media, le caste accademiche, gl’intellettuali "progressisti", sono stati risucchiati completamente dalla narrazione egemonica del pensiero unico. Narrazione eminentemente televisiva, che ha modificato, con impressionante potenza "di fuoco", i contenuti e i luoghi della politica, la forma e la durata dei ricordi collettivi, ha ri-plasmato la qualità e l’intensità delle emozioni individuali, ha rivoluzionato il linguaggio e ha marchiato di sé le stesse forme di apprendimento che presiedono all’educazione degl’individui. In una parola ha creato una "mutazione antropologica".

La politica dell’homo videns non può essere la stessa che fu per l’homo legens. Così è per la democrazia. I dominanti hanno come obiettivo l’eliminazione dell’una e dell’altra. I dominati devono chiedersi se hanno capito il rischio che corrono e se esiste una via per resistere.

Tutto ciò avrebbe richiesto - e richiederebbe urgentemente anche adesso, ormai in condizioni di emergenza democratica - una strategia, uno studio attento delle nuove condizioni in cui le forze democratiche possano organizzare una controffensiva o, come minimo, possano difendersi dall’ondata "rivoluzionaria" che sopraggiunge di pari passo con la più grave crisi del sistema capitalistico. È, o dovrebbe essere, evidente, che l’insieme delle tecnologie del potere che nel frattempo il Potere ha organizzato sarà utilizzato con abbondanza di mezzi e una furia iconoclasta direttamente proporzionale alla paura che le classi dominanti hanno ormai elaborato e secreto. Il loro dominio non offre loro una soluzione ai limiti, alle crisi - finanziaria, energetica, climatica - che la Natura sta frapponendo sul loro percorso.

Gli spiriti selvaggi che lo sviluppo capitalistico "infinito" ha evocato non sono dominabili (e comunque solo per breve periodo) se non esercitando la violenza sui più poveri in forme mai prima sperimentate. Altrimenti vi sarà spazio per la rivolta. La paura rende feroci. La "distruzione creativa" verrà dunque applicata alle istituzioni della democrazia liberale, ormai obsolete e inutilizzabili nelle attuali condizioni.

Dai modelli di democrazia autoritaria, già largamente in uso, si passerà alla guerra: quella di classe all’interno dei singoli comparti, quella classica, militare, tra stati e verso le aggregazioni, di qualunque forma e geometria, sotto qualunque latitudine e longitudine, che si mostrassero renitenti. Solo chi non comprende la vastità della crisi può ignorare o trascurare questa prospettiva. Ma farvi fronte significa contestare la narrazione dominante. Ed essa non può più essere contrastata con la "vecchia politica".

Solo una diversa narrazione, a cominciare da un diverso uso delle immagini in movimento, che raggiunga larghe masse popolari, può costituire un’alternativa di eguale potenza. È questo l’unico terreno possibile per la difesa e il contrattacco. Si potrebbe dire, parafrasando antiche terminologie: niente capacità di comunicare, niente possibilità di difesa. Non basta più avere una buona descrizione del problema, del conflitto. Anche la migliore idea, analisi, proposta, se non potrà essere trasmessa, risulterà inutile, monumento all’impotenza. Al massimo patrimonio di una nicchia di privilegiati che hanno capito. Comunque inoffensiva, anche se fosse relativamente grande. Il Ministero della Verità e quello dell’Amore potrebbero perfino lasciarla in vita, tanto saprebbero che non conta.

Il progetto di una televisione indipendente, Pandora, ha questo significato. Di altri progetti, magari migliori, per il momento, non c’è traccia. Chi alza le spalle e guarda altrove, si troverà di fronte, da qualunque parte si giri, come avviene oggi, gli schermi che raccontano la strage di Gaza come evento giusto. E non potrà fare altro che strapparsi i capelli. Aggiungo: meritatamente.



“I Protocolli dei Savi dell'ISlam" ovvero come si costruiscono le leggende nere
di Domenico Losurdo - http://domenicolosurdo.blogspot.com/ -6 Gennaio 2009

Sfogliando su Internet le reazioni al mio ultimo libro (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci 2008), a canto ai commenti positivi e a quelli più critici si notano altri contrassegnati da incredulità: è mai possibile che le infamie attribuite a Stalin e accreditate da un consenso generale siano molto spesso il risultato di distorsioni e a volte di vere e proprie falsificazioni storiche?

A questi lettori in particolare voglio suggerire una riflessione a partire dalla cronaca di questi giorni. E’ sotto gli occhi di tutti la tragedia del popolo palestinese a Gaza, prima affamato dal blocco e ora invaso e massacrato dalla terribile macchina da guerra israeliana.
Vediamo come reagiscono i grandi organi di «informazione».

Sul «Corriere della Sera» del 29 dicembre l’editoriale di Piero Ostellino sentenzia: «L’articolo 7 della Carta di Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei, così come sostiene il presidente iraniano Ahmadinejad». Vale la pena di notare che, pur facendo un’affermazione estremamente grave, il giornalista non riporta alcuna citazione testuale: esige di essere creduto sulla parola.

Qualche giorno dopo (3 gennaio) sullo stesso quotidiano incalza Ernesto Galli della Loggia. Per la verità, egli non parla più di Ahmadinejad. Forse si deve esser reso conto dell’infortunio del suo collega. Dopo Israele l’Iran è il paese in Medio Oriente che ospita il maggior numero di ebrei (20 mila), ed essi non sembrano subire persecuzioni. In ogni caso, i palestinesi dei territori occupati potrebbero solo invidiare la sorte degli ebrei che vivono in Iran, i quali ultimi non solo non sono stati sterminati ma non devono neppure fronteggiare la minaccia del «trasferimento», che i sionisti più radicali progettano per gli arabi israeliani.

Ovviamente, Galli della Loggia sorvola su tutto ciò. Si limita a tacere su Ahmadinejad. In compenso rincara la dose su un altro punto essenziale: Hamas non si limita a esigere «lo sterminio degli ebrei» israeliani, come sostiene Ostellino. Occorre non fermarsi a metà strada nella denuncia delle malefatte dei barbari: «Hamas auspica l’eliminazione di tutti gli ebrei dalla faccia della terra» («Corriere della Sera» del 3 gennaio).

Anche in questo caso non viene apportato uno straccio di dimostrazione: il rigore scientifico è l’ultima delle preoccupazioni di Galli della Loggia, al quale però bisogna riconoscere il coraggio di sfidare il ridicolo: secondo la sua analisi, i «terroristi» palestinesi si propongono di liquidare la macchina bellica non solo di Israele ma anche degli Usa, in modo da portare a termine le infamie di cui l’editorialista del «Corriere della Sera» denuncia l’ampiezza planetaria.

Peraltro, chi è in grado di infliggere una disfatta decisiva alla solitaria superpotenza mondiale, oltre che a Israele, può ben aspirare al dominio mondiale. Insomma: è come se Galli della Loggia avesse finalmente portato alla luce I protocolli dei Savi dell’Islam!
E come a suo tempo I protocolli dei Savi di Sion, anche I protocolli dei Savi dell’Islam valgono ormai come verità acquisita e non bisognosa di alcuna dimostrazione.

Su «La Stampa» del 5 gennaio Enzo Bettiza chiarisce subito il reale significato dei bombardamenti massicci da Israele scatenati dal cielo, dal mare e dalla terra, col ricorso peraltro ad armi vietate dalle convenzioni internazionali, contro una popolazione sostanzialmente indifesa: «E’ una drastica e violentissima operazione di gendarmeria di un Paese minacciato di sterminio da una setta che ha giurato di estirparlo dalla faccia della terra».

Questa tesi, ossessivamente ripetuta, si colloca nell’ambito di una tradizione ben precisa. Tra Sette e Ottocento il mite abate Grégoire si batteva per l’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi: ecco che dai proprietari di schiavi è bollato quale leader dei «biancofagi», i neri barbari e smaniosi di pascersi della carne degli uomini bianchi. Qualche decennio più tardi qualcosa di simile avveniva negli Stati Uniti: gli abolizionisti, spesso di fede cristiana e di orientamento non-violento, esigevano «la completa distruzione dell’istituto della schiavitù»; essi erano prontamente accusati di voler sterminare la razza bianca.

Ancora a metà del Novecento, in Sudafrica i campioni dell’apartheid negavano i diritti politici ai neri, con l’argomento che l’eventuale governo nero avrebbe significato lo sterminio sistematico dei coloni bianchi e dei bianchi nel loro complesso. La leggenda nera in voga ai giorni nostri è particolarmente ridicola: più volte Hamas ha accennato alla possibilità di un compromesso, se Israele accettasse di ritornare ai confini del 1967.

Come tutti sanno o dovrebbero sapere, a rendere sempre più problematica e forse ormai impossibile la soluzione dei due Stati è l’espansione ininterrotta delle colonie israeliane nei territori occupati. E comunque, la sostituzione dell’odierno Israele quale «Stato degli ebrei» con uno Stato binazionale, che abbracci al tempo stesso ebrei e palestinesi garantendo loro eguaglianza di diritti, non comporterebbe in alcun modo lo sterminio degli ebrei, esattamente come la distruzione dello Stato razziale bianco prima nel sud degli Usa e poi in Sudafrica non ha certo significato l’annientamento dei bianchi.

In realtà, coloro che idealmente agitano I protocolli dei savi dell’Islam mirano a trasformare le vittime in carnefici e i carnefici in vittime. Non meno grottesche e non meno strumentali sono le mitologie oggi in voga in relazione a Stalin e al movimento comunista nel suo complesso. Si prenda la tesi dell’«olocausto della fame» ovvero della «carestia terroristica» che l’Unione sovietica avrebbe imposto al popolo ucraino negli anni ’30.

A sostegno di questa tesi non c’è e non viene apportata alcuna prova. Ma non è neppure questo il punto essenziale. La leggenda nera diffusa in modo pianificato ai tempi di Reagan e nel momento culminante della guerra fredda serve a mettere in ombra il fatto che la «carestia terroristica» rimproverata a Stalin è da secoli messa in atto dall’Occidente liberale in particolare contro i popoli coloniali o che esso vorrebbe ridurre in condizioni coloniali o semicoloniali. E’ quello che ho cercato di dimostrare nel mio libro.

Subito dopo la grande rivoluzione nera che alla fine del Settecento a Santo Domingo/Haiti spezzava al tempo stesso le catene del dominio coloniale e dell’istituto della schiavitù, gli Stati Uniti rispondevano per bocca di Thomas Jefferson, dichiarando di voler ridurre all’inedia (starvation) il paese che aveva avuto la sfrontatezza di abolire la schiavitù. Questa medesima vicenda si è riproposta nel Novecento.

Già subito dopo l’ottobre 1917, Herbert Hoover, in quel momento alto esponente dell’amministrazione Wilson e più tardi presidente degli Usa, agitava in modo esplicito la minaccia della «fame assoluta» e della «morte per inedia» non solo contro la Russia sovietica ma contro tutti popoli inclini a lasciarsi contagiare dalla rivoluzione bolscevica. Agli inizi degli anni ’60 un collaboratore dell’amministrazione Kennedy, e cioè Walt W. Rostow, si vantava per il fatto che gli Stati Uniti erano rusciti a ritardare per «decine di anni» lo sviluppo economico della Repubblica Popolare Cinese!

E’ una politica che continua ancora oggi: è noto a tutti che l’imperalismo cerca di strangolare economicamente Cuba e possibilmente di ridurla alla condizione di Gaza, dove gli oppressori possono esercitare il loro potere di vita e di morte, prima ancora che coi bombardamenti terroristici, già col controllo delle risorse vitali.

Siamo così ritornati alla Palestina. Prima di subire l’orrore che sta subendo in questi giorni, il popolo di Gaza era stato colpito da una prolungata politica che cercava di affamarlo, assetarlo, privarlo della luce elettrica, delle medicine, di ridurlo ad una condizione di sfinimento e di disperazione. Tanto più che il governo di Tel Aviv si riservava il diritto di procedere come al solito, nonostante la «tregua», alle esecuzioni extragiudiziarie dei suoi nemici. E cioè, prima ancora di essere invasa da un esercito simile ad un gigantesco e sperimentato plotone di esecuzione, Gaza era già oggetto di una politica di aggressione e di guerra.

Sennonché, una concentrata potenza di fuoco multimediale è scatenata soprattutto in Occidente per annientare ogni resistenza critica alla tesi falsa e bugiarda, secondo cui Israele sarebbe in questi giorni impegnata in un’operazione di autodifesa: che nessuno osi mettere in dubbio l’autenticità dei «Protocolli dei Savi dell’Islam»!

E’ così che si costruiscono le leggende nere, quella che oggi suggella la tragedia del popolo palestinese (il popolo-martire per eccellenza dei giorni nostri), così come quelle che, dipingendo Stalin come un mostro e riducendo a storia criminale la vicenda iniziata con la rivoluzione d’Ottobre, intendono privare i popoli oppressi di ogni speranza o prospettiva di emancipazione.