La crisi che verra' di Joseph Halevi - Il Manifesto - 2 Gennaio 2009
Il mondo alla vigilia di un anno di crisi. Quale ripresa, se tutti vogliono il rilancio della domanda ma nessuno - nè in Usa nè in Europa - è disposto ad aumentare i salari? Regina dello scacchiere, la Cina, ancora zona di produzione a basso costo Quali prospettive si aprono per il sistema eonomico negli Stati Uniti e nei paesi ed aree più significative? Tutti vogliono il rilancio della domanda, stavolta reale, nessuno però contempla l'abbandono della deflazione salariale.
A Washington il Senato aveva bocciato i sussidi alle aziende automobilistiche Usa perchè queste si erano accordate con i sindacati per la riduzione dei salari ai livelli delle filiali delle aziende giapponesi e coreane a partire dal 2011 invece che dal 2009! La valanga di soldi catapultata, di fatto gratuitamente, verso le banche dal 2007 non ha rilanciato il credito. I soldi finiscono in titoli garantiti e in conti presso le banche centrali. Il perchè è ovvio: la bolla creditizia è scoppiata per via della sparizione dei valori dei titoli collaterali usati sia come garanzia che come indici di lucro futuro. Dietro di essi vi erano famiglie e persone insolventi, senza redditi sufficienti. Alla base di tale insufficienza sta la deflazione salariale.La facile concessione di crediti ha simultaneamente agito da palliativo e da amplificatore della deflazione salariale, permettendo di mantenere un livello di spesa non raggiungibile con il solo salario, mentre il conseguente indebitamento riduce ulteriormente il salario reale attraverso il peso del servizio del debito.
Negli Stati Uniti gli aiuti finanziari decisi pochi giorni fa in favore degli hedge fund hanno come obiettivo il rilancio del credito alle famiglie, le quali, nell'attuale recessione, non hanno alcuna speranza in una ripresa dei salari. Ma ciò significa riproporre esattamente lo stesso meccanismo in condizioni ove le famiglie hanno minori disponibilità. Le prospettive di ripresa negli Usa sono alquanto problematiche. Dipenderanno dalla dimensione e natura della spesa pubblica. Questa sarà determinata solo parzialmente da Obama, ma dalle esigenze che verranno accampate dalle nuove concentrazioni capitalistiche.
Il salvataggio pubblico di banche ed affini e le operazioni di fusione patrocinate dal governo, hanno creato dei mastodonti finanziari deboli economicamente, in quanto ancora pieni di cartacce derivate senza appurabile valore, ma influentissimi nelle decisioni economiche del governo per via dellea loro dimensione. Il resto del mondo nell'ultimo venticinquennio ha poggiato sugli Usa per chiudere il proprio circuito macroeconomico diventando così creditore netto verso Washington.
Nell'eurozona la deflazione salariale è diventata sia il perno del compromesso tra i vari capitalismi continentali che lo strumento per la lotta neomercantilistica all'interno dell'Ue. La deflazione dei salari soddisfa gli interessi microeconomici di tutte le imprese che vedono il salario come un costo. Contemporaneamente ciascun paese mira ad una deflazione salariale maggiore della media per esportare in Europa. La dinamica europea dipende però dalle esportazioni nette extraeuropee e dalla spesa pubblica visto che gli investimenti sono a loro volta molto dipendenti dalle esportazioni e da spese esogene alle decisioni di impresa.
La crisi della Germania, colpita dalla crisi Usa, acuisce, bloccando la dinamica intraeuropea, la calamità macroeonomica costituita dalla deflazione salariale. Inoltre la rivalutazione dell'euro rispetto al dollaro allontana la possibilità di trovare la via d'uscita nei mercati extraeuropei. In Giappone la ripresa economica è stata tirata dalla crescita e l'espansione globale delle proprie multinazionali nipponiche ha permesso il rimpatrio di grandi profitti.
Il tasso di espansione della Cina calerà notevolmente colpendo le esportazioni nipponiche. La Cina manterrà però la sua posizione di esportatrice netta, sempre più a scapito del Giappone. E'possibile dunque che si apra una nuova fase in cui la posizione dei conti esteri nipponici sarà assai problematica. L'eventualità del fenomeno deve essere collegata anche alle perdite subite dalle multinazionali nipponiche per via della crisi negli Usa ed in Europa. Ne discende un probabile calo nel rimpatrio dei profitti.
Il Giappone può quindi entrare in un periodo di recessione con perdite nella bilancia dei pagamenti. Prolungata nel tempo, tale situazione potrebbe determinare un cambiamento profondo negli assetti capitalistici del paese con delocalizzazioni anche massicce verso la Cina.
Terminiamo la rassegna con la Cina, che aumenterà il proprio peso nell'economia mondiale senza però sfuggire alla crisi. Il governo di Pechino cercherà di arginarla per non bloccare lo sviluppo. Ma le zone più esposte alle esportazioni specialmente nei prodotti la cui produzione mondiale è altamente localizzata in Cina, verranno ulteriormente colpite. Continueranno anche le delocalizzazioni verso la Cina come nell'ipotesi summenzionata del Giappone.
Attualmente, secondo le corrispondenze dagli Usa della Bbc, locali aziende di macchine utensili in crisi, si stanno spostando in Cina per usufruire dei minori costi salariali ed esportare la loro produzione verso gli Usa. Nella sostanza la Cina subirà l'effetto negativo del calo della domanda nei paesi maturi, mantre continuerà a funzionare da zona di produzione a basso costo salariale per molti settori dell'economia mondiale.
La deflazione sta gia' colpendo duro
a cura di http://georgewashington2.blogspot.com/ - 16 Dicembre 2008
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da ALCENERO
Coloro che ancora non credono che siamo in deflazione dovrebbero leggere quanto segue:- Bloomberg scrive: "In seguito a un rapporto del governo di oggi, gli economisti hanno detto che il costo della vita negli Usa è caduto a novembre probabilmente più di quanto non fosse mai successo prima, dato che il valore del petrolio è crollato e i negozianti hanno tagliato i prezzi per dare una spinta alle vendite prima delle vacanze. I prezzi al consumo sono probabilmente caduti dell'1,3% lo scorso mese, la maggiore caduta da quando sono iniziate le statistiche nel 1947..."-
La famosa società di consulenza finanziaria Agora Financial dice: "esclusi i riaggiustamenti l'indice dei prezzi al consumo è sceso dell'1,9%, la più grande diminuzione dal 1932". - I prezzi di produzione Usa sono scesi del 2,2% novembre, molto più di quanto previsto.- Barclays riferisce che i prezzi base dei metalli sono scesi almeno altrettanto velocemente che durante la Grande Depressione. - La velocità del denaro sta rallentando, nonostante le massicce iniezioni di contante da parte della Fed.
Anche se la Fed ha iniettato migliaia di miliardi nell'economia le banche stanno accumulando piuttosto che prestando, perciò quel denaro non ha rallentato la distruzione del credito e della ricchezza. La deflazione ha già colpito duro. Naturalmente è probabile che dopo verrà una iperinflazione. Vedete anche qui.
Nota: Per vedere i grafici provenienti da Fed, GaveKal e John Mauldin, vai qui.
Dai saldi alla decrescita. Qualche riflessione
di Carlo Gambescia - http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/ - 2 Gennaio 2009
Sembra che da oggi, 2 gennaio 2009, il destino dell’economia italiana e mondiale sia legato, come non mai, ai saldi. Non è un battuta, basta sfogliare i giornali (come qui: http://seidimoda.repubblica.it/dettaglio/Previsioni:-top-o-flop/55705 ).
In effetti, e per dirla rozzamente, un sistema che si regge sui consumi, come quello capitalistico, ha necessità che la gente consumi. Il “volano” dell’economia è nei consumi: più si consuma, più si produce; più le imprese vendono, più crescono profitti e salari. Tuttavia l’ago della bilancia sembra pendere in favore dei profitti (e secondo il vecchio Marx da sempre...).
E con particolare gravità nelle situazioni di crisi economica. E per una semplice ragione: tutti rischiano di tirare la cinghia, ma chi è alto ha un potere contrattuale maggiore nei riguardi della politica (come istituzione). O se si vuole più forza per influire a proprio vantaggio sulla ripartizione profitti-salari.
E si tratta di una questione sociologica e non solo economica.Di regola, nella società post-1945, l'idea stessa di crisi economica è sempre stata percepita dai diversi gruppi sociali come potenzialmente riduttrice del proprio stile di vita, inevitabilmente collegato, in una società dei consumi, al crescente possesso di denaro. Di qui la strenua difesa della propria condizione sociale. Se c’è una caratteristica che distingue la società attuale, questa è data dalla angoscia di perdere ciò che si possiede. Si teme di perdere, come non mai, quel poco o tanto che si possieda. E lo si vuole difendere strenuamente. E a maggior ragione in una crisi molto seria come quella attuale.
Ovviamente la difesa è collegata alla propria posizione nella scala sociale. E quanto più si è in alto, tanto più ci si difende meglio. Dando per scontato il non intervento della politica in ambito redistributivo, come continua a dettare, pur con qualche timido ripensamento, l’ideologia neo-liberista.Ora, in un quadro del genere, dove i salari si riducono e i profitti restano comunque sempre consistenti, imporre alla gente di consumare, approfittando dei saldi, è offensivo e ridicolo.
Che fare allora? Tre possibilità.
Uno. Intervenire politicamente sulla ripartizione profitti-salari, con occhio attento anche alle rendite sociali (spesso frutto di speculazioni finanziarie e immobiliari). Tenendo però presente che in una situazione di crisi, come l’attuale, la “torta da dividere” tende comunque “oggettivamente” a divenire più piccola. Di qui perciò la necessità "sviluppista" di produrre di più, ma sempre in un quadro oligopolistico.
Due. Ridurre i consumi e ritmi produttivi puntando sulla modificazione del tenore di vita di tutti. E dunque utilizzando la crisi come volano di una decrescita economica generalizzata. Ma come convincere gli oligopolisti a cambiare strada ? Si tratta di un antico quesito: si può insegnare all'uomo ad essere libero, se ogni uomo a un'idea diversa della libertà? Certo, lo si può, favorendo la libertà formale. A che prezzo però? Quello di trascurare la libertà sostanziale...
Tre. Conciliare crescita produttiva dei beni collettivi (scuola, università, cultura sanità, trasporti, edilizia pubblica, energie alternative) e “decrescita” degli stili di vita consumistici. Ferma restando la necessità di introdurre una più equa ripartizione profitti-salari.
Naturalmente le tre soluzioni impongono maggiore attivismo governativo. O se si preferisce crescente interventismo pubblico. Con il rischio però, soprattutto nel caso di scelta "decrescista" (seconda e terza possibilità), di scatenare perverse dinamiche di tipo autoritario.
Perché, per dirla brutalmente, il vero nodo della questione è nella difficoltà di introdurre la sobrietà individuale per legge collettiva. E principalmente di come persuadere gli oligopolisti a tornare sui propri passi.
Certo, in linea teorica, si può preparare il terreno puntando sull’auto-educazione e sull’auto-organizzazione sociale. Due forme di “azionismo sociale” che però richiedono tempi lunghi. E in modo particolare al cospetto di un’economia capitalistica, che dal punto di vista della temporalità sociale (per dirne solo una...), si regge in chiave programmatica e previsionale su rendiconti economici, finanziari e patrimoniali di tipo mensile, trimestrale, semestrale e annuale…
Di qui, anche per chi sia in buona fede, il rischio del leninismo: quello di affrettare i processi sociali ricorrendo soltanto all'uso della forza...