Qualche giorno fa due elicotteristi italiani erano stati rimpatriati dall’Afghanistan perche’ “stressati”. Questa e’ stata la motivazione ufficiale dell’Esercito, ribadita anche dal ministro della Difesa La Russa.
Si e’ immediatamente scoperto pero’ che i due militari sono stati rimpatriati perche’ il 9 Luglio scorso, dopo che un convoglio italiano era stato attaccato con lanciarazzi e raffiche di kalashnikov mentre svolgeva un pattugliamento a circa 5 km a nordest di Herat, si erano rifiutati di sparare sui civili durante il conseguente scontro a fuoco. Si prevedono tempi duri in Italia per i due elicotteristi.
Ma ormai da piu’ di un anno il contingente italiano in Afghanistan partecipa attivamente ad azioni di guerra. I soldati dislocati a Kabul e Herat negli ultimi mesi hanno creato alcune basi avanzate a Surobi nella provincia di Kabul, nella valle di Musay e a Farah nella provincia occidentale di Herat. Farah è una zona di confine con le province meridionali dove i taleb fanno spesso incursioni.
E anche qui i nostri soldati sono dovuti intervenire per contrastare queste incursioni, sia con gli elicotteri d'attacco Mangusta, utilizzati più volte in soccorso delle truppe afghane, e sia con gli incursori che si sono imbattuti in gruppi di ribelli che sconfinavano per evitare gli attacchi delle truppe inglesi e australiane che nella zona di Helmand stanno conducendo le operazioni.
Intanto la violenza in Afghanistan continua a crescere e ha raggiunto il livello più alto dal 2001 con oltre 260 civili uccisi solo nel mese di luglio.
Tutto quindi procede per il meglio...
La verità su Shiwashan
di Angelo Miotto – Peacereporter – 1 Agosto 2008
Cosa sia accaduto il 9 luglio nei cieli afgani di Shiwashan, sette chilometri da Herat, da oggi non sarà più un mistero. Perché attraverso una fonte militare arrivano i dettagli di quella sera, i fatti come sono descritti da chi era lì e decise di non sparare, nonostante fosse aggredito da 'fuoco ostile', per la presenza di civili nelle case da dove partivano colpi di armi leggere.
Domenico Leggiero, responsabile del comparto Difesa dell'Osservatorio militare, è noto per le sue battaglie a favore dei militari affetti da patologie legate all'esposizione all'uranio impoverito in teatri di guerra. Leggiero è in grado di riportare la versione dei due piloti di elicottero, protagonisti della notte del 9 luglio, che dopo aver passato alcuni giorni all'ospedale militare romano del Celio, sono stati rispediti nella base del 7° Reggimento Aviazione ‘Vega’ dell’Esercito, a Rimini.
Erano due i Mangusta, in appoggio a un'operazione medevac (evacuazione medica), con un elicottero spagnolo che era intervenuto dopo un'imboscata in cui erano rimasti intrappolati due blindati italiani “Lince”. Le uniche notizie diffuse riguardavano il rifiuto di uno dei due Mangusta di aprire il fuoco, con il conseguente ricovero dei piloti per sindrome da stress post-traumatico.
Una lucida decisione. Secondo la versione dei protagonisti – riportata da Leggiero – quella sera l'intervento riguardò la copertura dell'elicottero medico che evacuò due soldati italiani. Ma dopo l'imboscata, avvenuta all’estrema periferia di Herat, e durante l’operazione di evacuazione medica dei nostri feriti – il tenente Gabriele Rame e l’aviere Francesco Manco – da un palazzo abitato della zona vennero esplosi numerosi colpi di armi leggere. Il timone di coda dell'eliambulanza venne 'sviolinato', graffiato, senza far danni. È proprio a quel punto che i due piloti italiani, ognuno alla cloche di un Mangusta, hanno valutato che rispondere al fuoco con i potenti cannoncini rotanti da 20 millimetri avrebbe significato distruggere l’edificio provocando sicuramente pesanti perdite tra i civili. Quindi hanno optato per una manovra di disimpegno e hanno fatto ritorno alla base. Il comando spagnolo non gradì. Di lì la lamentela con il comandante italiano ad Herat per la mancata copertura di fuoco da parte dei Mangusta. I due piloti, convocati dal comandante per chiarimenti, hanno spiegato di aver lucidamente preso la decisione di non rispondere al fuoco in accordo con le regole d’ingaggio di una missione ufficialmente di pace, non di guerra, che consentono di sparare se attaccati, ma solo se c’è la ragionevole certezza di non provocare vittime civili.
Contro i due piloti non è stata avviata alcuna procedura disciplinare: i comandi hanno preferito rimpatriarli e ricoverarli per alcuni giorni all’ospedale militare del Celio, dando in pasto alla stampa la storia dello stress.
Nessuno stress. La questione, come si evince dalle differenze con le versioni ufficiali diffuse fino a oggi, è quanto mai delicata. I due Mangusta, e non solo uno, optarono per la manovra di disimpegno senza aprire il fuoco. E non lo fecero degli equipaggi ‘stressati’, ma consapevoli di fare una precisa scelta, nonostante le raffiche dirette verso di loro. “La loro decisione – afferma Leggiero – è stata un atto di alto profilo etico e morale, che come pilota mi sento di condividere al cento per cento”.
Il secondo punto delicato riguarda direttamente la politica e la propaganda dello Stato Maggiore italiano. L'immagine dei due piloti circolata sui mezzi di informazione è quella di due traumatizzati, quindi colpiti da una sindrome che viene affiancata al fatto stesso di non aver voluto aprire il fuoco. Sono più o meno sottili accostamenti che sortiscono un effetto immediato nella ricezione di una notizia. Dai resoconti diretti, invece, la situazione appare ben diversa, con una scelta che poco ha a che spartire con il logoramento psico-fisico. Ma che risponde, invece, a una presa di coscienza nella difficile decisione di aprire o meno il fuoco su un palazzo abitato.
Per di più il nostro ordinamento militare, aggiungono le nostre fonti in ambito militare e giudiziario, non ha previsto figure di aiuto psicologico direttamente sul teatro di guerra.
Cosa succederà adesso ai due piloti, ormai rientrati alla base in Italia, passando per il Celio? L'unica certezza delle nostre fonti è che non li attende un roseo avvenire: in campo militare – ci dicono – queste scelte si pagano. E la vendetta è un piatto che, in quel mondo, viene servito freddo.