lunedì 17 maggio 2010

Afghanistan: la Speranza è l'ultima a morire...

Oggi in Afghanistan due militari italiani sono stati uccisi e altri due gravemente feriti a causa di un attentato avvenuto nella zona vicino a Herat "sotto il controllo" del contingente italiano.

I militari erano a bordo di un blindato Lince posizionato nel nucleo di testa di una colonna composta da decine di automezzi di diverse nazionalità, partita da Herat e diretta a Bala Murghab, più a Nord. L'esplosione di un ordigno ha colpito in pieno il blindato.

Attualmente sono circa 2.800 i soldati italiani dispiegati in Afghanistan, ma da giugno ne arriveranno altri mille per soddisfare la richiesta del Segretario della Nato Anders Fogh Rasmussen, fatta su pressione degli USA.

Intanto tra circa un mese inizierà l'offensiva NATO a Kandahar e dintorni, denominata "Speranza". E si sa che "la speranza è l'ultima a morire"...


Campagna d'Afghanistan
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 17 Maggio 2010

Bala Murghab, luogo dell'agguato di oggi, è uno dei principali fronti italiani della guerra in Afghanistan, dove il nostro governo continua a mandare sempre più soldati, a uccidere e a morire per conto terzi

Il fronte settentrionale di Bala Murghab, dov'è avvenuto l'agguato di oggi, è il principale teatro di combattimento delle truppe italiane, assieme al fronte meridionale di Farah e a quello occidentale di Shindand e Zerkoh. Alpini, bersaglieri e paracadutisti sono impegnati da un anno in una lenta avanzata verso nord contro le forze talebane che controllano queste aride vallate a ridosso del confine turkmeno.

All'inizio dell'estate scorsa, tra maggio e giugno, le truppe italiane ottennero ''vittorie decisive'' in questo settore, combattendo lunghe battaglie (video) con l'impiego di artiglieria e aviazione, e uccidendo centinaia di guerriglieri afgani (una novantina solo nel corso della battaglia del 9 giugno 2009, che vide impegnati i paracadutisti del 183° reggimento Nembo della brigata Folgore).

Ciononostante - dopo una breve tregua raggiunta in occasione delle elezioni presidenziali dello scorso agosto - per tutto l'autunno e l'inverno i talebani di Bala Murghab hanno continuato a impegnare senza sosta le truppe italiane, con agguati come quelli di oggi, con imboscate ai loro convogli e attacchi ai loro avamposti, spesso seguiti da duri scontri a fuoco.

L'ultimo attacco è avvenuto tre settimane fa contro l'avamposto 'Columbus', dove oltre alle truppe italiane sono acquartierati anche soldati americani e afgani: 48 ore di razzi contro la base, a cui gli italiani hanno risposto con i mortai della 106esima compagnia del 2° reggimento alpini di Cuneo.

Questo è stato il 'battesimo del fuoco' per gli alpini della brigata Taurinense, che erano appena arrivati al fronte per dare il cambio alla brigata Sassari di fanteria meccanizzata.

L'impegno bellico dell'Italia in Afghanistan continua a crescere senza sosta, in termini di uomini e mezzi da combattimento inviati al fronte, e quindi anche di costi economici e, come si è visto oggi, umani.

Sta iniziando infatti il dispiegamento dei famosi rinforzi promessi da Berlusconi a Obama, che nel giro di alcuni mesi porterà le truppe italiane schierate sul fronte afgano dalle 3.300 attuali ad oltre 4mila.

Tra poche settimane verrà inviato un quarto 'battle group' formato da due compagnie di bersaglieri della brigata Garibaldi con cingolati Dardo e da una compagnia della brigata di fanteria corazzata Pinerolo dotata dei nuovi carri Freccia. Il dispiegamento verrà completato dopo l'estate con l'invio del reggimento lagunari Serenissima, forti dei loro mortai da 120 millimetri.

Tutto questo farà lievitare ad almeno 750 milioni di euro il costo annuo della missione di guerra italiana in Afghanistan, che ancora oggi il ministro degli Esteri Franco Frattini, si ostina a definire ''missione di pace''.

Ma, soprattutto, farà inevitabilmente aumentare la probabilità di nuove perdite tra i nostri soldati, mandati a combattere, a uccidere e a morire dai nostri governanti non per difendere il nostro Paese, ''per tenere lontano il terrorismo dalle nostre case'', come ribadito oggi dal ministro della Difesa Ignazio La Russa, ma semplicemente per salvaguardare l'alleanza (sarebbe meglio dire la sudditanza) nei confronti dell'alleato americano.


Una guerra in dubbio
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 14 Maggio 2010

Cittadini Usa sempre più contrari alla guerra in Afghanistan. Il dissenso aumenta anche al Congresso. Dubbi al Pentagono sulla strategia di McChrystal. Persa la battaglia ''per il cuore e le menti'' degli afgani

''In Afghanistan ci aspettano mesi di duri combattimenti'' ha dichiarato l'altro ieri il premio Nobel per la pace Barack Obama, mentre spediva al Congresso americano la richiesta di un nuovo finanziamento da 33 miliardi di dollari per pagare le spese dei rinforzi mandati al fronte.

L'escalation dell'impegno militare Usa nella guerra in Afghanistan - costata finora ai contribuenti 350 miliardi di dollari - suscita sempre maggiori perplessità e malcontento non solo tra i cittadini americani (secondo gli ultimi sondaggi, i contrari sono saliti al 56 per cento) ma anche tra i loro rappresentanti che siedono al Campidoglio e perfino tra i vertici delle forze armate.

Negli ultimi mesi, negli Stati Uniti, le proteste popolari contro la guerra si sono moltiplicate: non più solo grandi cortei nelle grandi città, come quelli dello scorso 7 ottobre, ma decine di sit-in organizzati in contemporanea nelle città di ogni Stato davanti ai locali uffici dei singoli parlamentari.

Una protesta capillare che, a quanto apre, sta dando i suoi effetti. Sarà forse perché questo è un anno elettorale (a novembre si vota per il rinnovo del Senato e di parte della Camera), sta di fatto che molti politici stanno riconsiderando le proprie posizioni sulla guerra.

Il primo segnale è arrivato lo scorso 10 marzo, quando ben 65 membri della Camera hanno votato una mozione presentata da un rappresentante democratico dell'Ohio, Dennis Kucinich, in cui si chiedeva l'immediato ritiro delle truppe statunitensi dall'Afghanistan.

La scontata bocciatura della mozione è stata preceduta da un lungo dibattito, senza precedenti, sui costi economici e umani, sulla reale utilità e perfino sulla legalità della prosecuzione della campagna bellica statunitense contro i talebani.

Crescono i dubbi anche in ambiente militare: non tanto sulla guerra di per sé, quanto su come la sta conducendo il generale Stanley McChrystal.

Alla vigilia della grande offensiva militare nella provincia di Kandahar, che dovrebbe iniziare a giugno e proseguire fino a dicembre, all'interno del Pentagono aumenta lo scetticismo sui risultati concreti prodotti dalla strategia militare dal comandante delle truppe Usa in Afghanistan.

Strategia testata dall'offensiva di Marjah dello scorso febbraio, che McChrystal ha rivenduto ai media Usa come un grande successo, ma che ora molti generali descrivono per quello che è: un fallimento totale.

Pochi giorni fa, uno di loro spiegava al Washington Post che i distretti dati per bonificati e riconquistati in seguito all'offensiva sono in realtà ancora sotto controllo dei talebani, ribadendo dei dati di fatto denunciati anche nell'ultimo rapporto del Pentagono sulla guerra afgana, dove si ammette che i talebani si sono "reinfiltrati nelle aree che erano state conquistate".

A McChrystal viene rimproverata anche la scelta tattica del ricorso sistematico dei raid notturni delle forze speciali, che producono più vittime civili di quelle risparmiate dalla diminuzione dei bombardamenti aerei, seminando odio e risentimento tra la popolazione.

Più ancora che tra i cittadini, i politici e i militari americani, è tra la popolazione afgana che monta l'opposizione alla guerra. Nonostante i proclami, la ''battaglia per i cuori e le menti'' degli afgani sembra ormai data per persa, come dimostra la scelta di sferrare la nuova offensiva antitalebana a Kandahar nonostante il 94 per cento della popolazione della provincia (secondo un recente sondaggio commissionato dallo stesso comando Usa) si sia detto contrario all'operazione e a favore di negoziati con i talebani pur di porre fine alle sofferenze e ai problemi causati dalla guerra.


Paura e speranza a Kandahar
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 11 Maggio 2010

L'operazione 'Speranza' spaventa la popolazione di Kandahar e rischia di produrre gli stessi effetti negativi dell'offensiva di Marjah

Ventitremila soldati - statunitensi, canadesi e afgani - si stanno preparando all'operazione Omaid (Speranza, in lingua dari), con la quale le forze alleate puntano a riconquistare i distretti rurali che circondano la città di Kandahar, in particolare le roccaforti talebane di Zhari, Panjwai e Arghandab, e a 'mettere in sicurezza' lo stesso capoluogo, dove verrà dispiegata una brigata dell'esercito Usa (3.500 uomini) e 7 mila poliziotti afgani.

L'offensiva dovrebbe scattare tra un mese, ma le forze speciali Usa stanno già conducendo operazioni mirate volte a eliminare i comandanti locali della guerriglia e a interrompere le linee di rifornimento talebane.

Gli insorti, dal canto loro, si preparano all'attacco facendo fuori esponenti chiave delle forze di sicurezza afgane e informatori al servizio della Nato, minando strade e ponti e facendo affluire centinaia di combattenti dalle province vicine.

La popolazione locale vive in un clima di angosciosa attesa. ''Non sappiamo se questa operazione sarà un bene per noi'', dice alla Reuters un negoziante del bazar centrale di Kandahar: ''Quel che è certo è che tanta gente innocente verrò uccisa e ferita, o dovrà abbandonare la propria casa''.

Una certezza condivisa dalla Croce Rossa Internazionale, che per questo ha potenziato di cento posti letto la ricettività dell'ospedale cittadino, il Mirwais Hospital: l'unico rimasto operativo nella regione meridionale dopo la chiusura dell'ospedale dell'ospedale di Emergency a Lashkargah.

La paura più grande paura degli abitanti di Kandahar è che i combattimenti non si limitino ai sobborghi rurali e che la guerra entri in città assieme alle truppe Usa e ai talebani in fuga dalla loro avanzata.

L'ipotesi di una guerriglia urbana spaventa anche i soldati alleati, ma i comandi Nato non la escludono. Certo è che ''più soldati stranieri in città porteranno più attentati e più vittime civili'': ne è convinta la popolazione locale, ma anche i responsabili delle Nazione Unite, che per precauzione hanno evacuato dalla città tutto il personale straniero e blindato le proprie sedi locali.

Secondo un anziano capo pashtun della zona, Haji Abdul Haq, intervistato dal Guardian, ''la nostra gente non vuole la guerra, vuole solo vivere in pace e in sicurezza e non gli importa se a darle questo sono gli stranieri o i talebani''.

Il problema di queste grandi offensive alleate contro i talebani sta tutto qui: se sono le truppe straniere a portare la guerra, la battaglia per 'conquistare il cuore e le menti' della popolazione è persa in partenza, perché la gente percepisce gli stranieri, non i talebani, come causa di tutti i loro guai. A Kandahar con l'operazione Omaid rischia di ripetersi, su più vasta scala, quanto accaduto a Marjah, in Helmand, con l'operazione Moshtarak.

Secondo un sondaggio condotto a marzo su centinaia di residenti di Marjah dai ricercatori del noto think thank International Council on Security and Development (Icos, ex Senlis Council), il 61 per cento degli intervistati ha dichiarato di avere oggi un'opinione sulla Nato peggiore rispetto a prima dell'offensiva, il 71 per cento vuole il ritiro dei militari stranieri, e il 95 per cento sostiene che adesso i talebani stanno reclutando più giovani locali di prima.

Una reazione, spiega il rapporto Icos, frutto delle sofferenze patite dalla popolazione di Marjah per colpa delle truppe straniere: almeno 200 civili uccisi dalle bombe alleate (la stessa cifra riportata a febbraio da PeaceReporter), migliaia di feriti e circa 30 mila sfollati.