Lo sciopero generale indetto oggi in Grecia per protestare contro le misure anticrisi è ovviamente sfociato in duri scontri nell'area circostante il Parlamento ad Atene, dove purtroppo tre persone sono morte asfissiate nell'edificio che ospita la Marfin Egnatia Bank,  colpita da alcune molotov.In fiamme anche altri due edifici pubblici, uno appartenente alla prefettura di Atene e un altro che ospita un'agenzia del fisco.
Incidenti sono avvenuti anche a Corfù, Patrasso e Salonicco, mentre in tutta la Grecia sono rimasti chiusi uffici pubblici, ospedali, banche, negozi e i trasporti aerei, marittimi e ferroviari sono bloccati, con alcune eccezioni per Atene in modo da garantire la partecipazione alle proteste.
Una Grecia quindi completamente paralizzata mentre le Borse europee registrano un altro ribasso, dopo il pesantissimo tonfo di ieri. L'euro intanto scende al suo nuovo minimo da un anno contro il dollaro - sotto quota 1,29 - e il Portogallo si prende un'altra ramanzina da Moody's.
A gettare poi ulteriore benzina sul fuoco sono state oggi anche alcune dichiarazioni, come quella ad esempio del commissario Ue agli affari economici Olli Rehn, che ha candidamente ammesso che "La recessione in Grecia sarà peggiore del previsto sia per il 2010 sia per il 2011", aggiungendo pure che "Non sono previsti piani di aiuto per la Spagna". A Madrid già toccano ferro...
Oppure quella di Axel Weber, il presidente della Bundesbank, secondo cui "C'è la minaccia di gravi effetti di contagio per i paesi membri dell'Unione europea e un crescente ritorno negativo sui mercati dei capitali". Ma va???...
Ma a gettare vero panico nei mercati è stata oggi la cancelliera Angela Merkel che, dopo aver perso tempo prezioso nel dare il suo consenso al piano di aiuti alla Grecia, se n'è uscita con un'incredibile aria fritta come "E' in ballo e in gioco il futuro dell'intera Europa e della moneta unica, non soltanto la salvezza della Grecia". Ma Frau Merkel ci fa o ci è? Si è appena svegliata ora oppure non dorme da anni ormai?...
E dell'Italietta invece che si dice?
Beh...proprio oggi la Commissione Ue ha previsto un rapporto deficit/Pil al 5,3% anche nel 2010 (il governo italiano aveva invece indicato il 5%), motivandolo con ''una caduta dell'attività economica più marcata del previsto".
Per il 2011, a politiche invariate, Bruxelles prevede invece che il deficit ''si riduca leggermente'' attestandosi al 5%, contro il 3,9% stimato dal governo italiota.
"Tutto ok" anche sul fronte del debito pubblico italiano che, sempre secondo le previsioni della Commissione Ue, salirà nel 2010 al 118,2% dal 115,8% del 2009.
Nel 2011 arriverà invece al 118,9%, una previsione ben peggiore di quella del governo italiano che stimava di non superare quest'anno il 116,9%.
Peggio di noi soltanto la Grecia che si avvia verso il 130%. Ma se continuiamo così forse ce la faremo a vincere in volata...
In Grecia i cattivi protestano
di Marco Cedolin - http://marcocedolin.blogspot.com - 1 Maggio 2010
Le didascalie hanno lo scopo di orientare il pensiero degli italiani, proponendo una lettura della questione tanto semplice quanto rassicurante. Le dotte disquisizioni sono indispensabili per dimostrare che questa è la lettura giusta, in quanto suffragata dal pensiero di chi conosce e domina una materia per “cervelli fini” con la quale le persone “normali” non possono certo nutrire la presunzione di confrontarsi.
La Grecia viene così dipinta nell’immaginario collettivo come un paese vittima di una grave crisi finanziaria, imputabile ad una cattiva gestione del debito pubblico da parte della classe politica che ha permesso il dilagare della corruzione e dell’evasione fiscale, garantendo a larga parte dei cittadini facili guadagni e “privilegi” a pioggia.
Proprio a causa di questo baccanale collettivo costruito a debito, il paese si è trovato così di fronte alla prospettiva di un crack di proporzioni gigantesche, dal quale solamente “l’amica UE” potrebbe essere in grado di sottrarlo. Prospettiva che naturalmente in Italia mai potrebbe verificarsi, poiché i nostri conti sono solidi e la nostra classe politica dall’avvento della seconda Repubblica cammina sulla retta via.
I Paesi della UE, dall’alto della loro bonomia, ma anche per preservare intatta la salute dell’euro, si sono detti disposti a devolvere ai greci (a titolo di prestito) decine e decine di miliardi di euro nei prossimi tre anni, indispensabili per riportare a galla il loro equilibrio finanziario.
Ma come ogni “buona banca” si sono visti costretti a pretendere alcune garanzie a tutela del loro “investimento”.
Tali garanzie sono costituite naturalmente dall’assicurazione che il governo greco chiuda i rubinetti dei “privilegi” imponendo ai suoi cittadini una serie di riforme “lacrime e sangue” che ne ridimensionino l’opulenza e contribuiscano a risanare i conti pubblici.
La UE ed il governo greco, dopo una serie di trattative, hanno “finalmente” raggiunto un accordo di comune soddisfazione. Ma una parte (peraltro minoritaria) dei cittadini, costituita da facinorosi, anarchici e frange dell’estrema sinistra sta protestando con veemenza, arrivando a scontrarsi con la polizia, perché abituata egoisticamente alla “bella vita” non è disposta a perdere i privilegi acquisiti.
Una rappresentazione molto semplice, convincente, rassicurante, ma tanto visionaria quanto distante dalla realtà.
Le cause della crisi finanziaria greca, oltre che derivare dalla corruzione e dall’evasione fiscale ad alti livelli, allignano in tutta una serie di speculazioni finanziarie internazionali studiate con tutta probabilità proprio allo scopo di condurre la Grecia sull’orlo di un baratro dal quale potrà salvarsi solamente “svendendo” quella sovranità limitata che ancora conservano i paesi della UE.
La sorte della Grecia sarà entro breve tempo seguita da tutti gli altri Paesi, ad iniziare dal Portogallo, dalla Spagna e dall’Italia, poiché il progetto messo in essere (per uno strano scherzo del destino) proprio all’indomani della ratifica del Trattato di Lisbona prevede l’annientamento dell’attuale sovranità limitata degli stati membri ed il trasferimento dell’intera sovranità nelle mani di una confraternita di organismi privati quali BCE, FMI, Banca Mondiale ecc.
Il denaro che verrà devoluto alla Grecia proviene dalla finanza pubblica e pertanto il finanziamento peserà sulle tasche dei contribuenti dei singoli stati. Tale denaro non sarà destinato ad offrire vantaggi ai cittadini greci ma entrerà in una partita di giro dove sarà utilizzato unicamente per coprire le voragini create dalla speculazione finanziaria.
Le garanzie imposte alla Grecia non sono state dettate dagli stati europei che offriranno il denaro, ma dalla confraternita privata di cui sopra. Confraternita che negli anni a venire si è arrogata il diritto di sovrintendere all’operato del governo greco (di fatto sostituendolo) imponendo tempi e modi delle riforme che dovrebbero iniziare la prossima settimana.
Le riforme lacrime e sangue non andranno a colpire i privilegi di un popolo opulento abituato a vivere nello sfarzo, ma metteranno alla fame cittadini con i salari fra i più bassi in Europa (insieme ad Italia e Portogallo) che già oggi vivono in condizione di estrema precarietà a causa della grave crisi economica e della disoccupazione.
Quella che viene dipinta (ed imposta) come un’operazione di risanamento dei conti pubblici, consiste semplicemente in un aumento indiscriminato della tassazione e nel taglio dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori.
Aumento dell’IVA e della tassazione su molti prodotti, riduzione dell’assistenza sanitaria e pensionistica, tagli degli stipendi, ferie e tredicesime, licenziamento di una cospicua parte dei dipendenti pubblici.
I “cattivi” che protestano e stanno creando disordini nelle principali città greche non sono solamente uno sparuto manipolo di facinorosi, anarchici e professionisti della protesta che non vogliono fare i “giusti sacrifici”.
Sono quella parte di cittadini che ha iniziato a prendere coscienza della realtà, realizzando la natura della strada senza ritorno sulla quale la Grecia (paese pilota in Europa) verrà costretto a camminare a partire dalla prossima settimana.
Una strada che in tempi brevi diverrà molto affollata, dal momento che dopo il successo dell’esperimento, gli altri paesi (compresa l’Italia) seguiranno a ruota, condividendo il regalo dello stesso futuro “lacrime e sangue”.
Predatori
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 30 Aprile 2010
Cosa si nasconde dietro la crisi che ha colpito la Grecia e che minaccia di contagiare altri paesi europei?
Dietro l'attuale crisi del debito che ha colpito la Grecia (e che sta contagiando anche Portogallo, Spagna, Irlanda e, molti temono, anche l'Italia) non c'è solo la nota frode di bilancio commessa dai governanti ateniesi in combutta con le principali banche americane, in particolare la Goldman Sachs di Lloyd Blankfein e la JP Morgan Chase di Jamie Dimon.
Su tutto incombe infatti il sospetto, o meglio, la certezza di una spregiudicata operazione speculativa orchestrata dalla cupola finanziaria di Wall Street per lucrare sull'indebolimento dell'euro. Questo è lo scenario su cui sta timidamente indagando il dipartimento della Giustizia Usa.
Sotto scrutinio ci sono le colossali e contemporanee movimentazioni   di fondi speculativi Usa (che scommettono sul futuro deprezzamento della   valuta europea) registrati subito dopo la famosa cena tenutasi l'8   febbraio a Manhattan tra i finanzieri che quei fondi amministrano:   George Soros (Soros Fund), John Paulson (Paulson & Co.),   Steven Cohen (Sac), David Einhorn (Greenlight),   Donald Morgan (Brigade) e Andy Monness (Monness Crespi   Hardt & Co.).
A garantire il successo di questa operazione speculativa ci ha pensato il loro potente socio Harold 'Terry' McGraw III, che - attraverso il braccio armato della sua McGraw-Hill, ovvero l'agenzia di rating Standard & Poor's - ha declassato i titoli di Stato greci, portoghesi e spagnoli innescando la 'necessaria' crisi dell'euro.
Ma forse c'è di più, e di peggio. Sono sempre di più gli economisti e   i politici europei che in questo attacco all'euro vedono non un   semplice mezzo speculativo, ma un fine politico.
Il sospetto è che le   lobby finanziarie d'oltreoceano mirino ad abbattere il valore della   moneta unica europea fino a portarla alla parità con il dollaro, allo   scopo di salvaguardare la sempre più traballante egemonia globale della   valuta statunitense.
Affossare l'euro, o quantomeno ridimensionarlo,  per  tenere a galla il malandato biglietto verde, altrimenti destinato a   tramontare come valuta di riferimento mondiale.
Altri ancora pensano che portare sull'orlo della bancarotta gli Stati europei più deboli (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna: i cosiddetti Pigs, o Piigs, se si comprende anche l'Italia) potrebbe dare impulso al mai tramontato progetto franco-tedesco di un'Europa a due velocità, con le 'zavorre' relegate a un ruolo marginale.
C'è infine chi va anche  oltre queste interpretazioni, giudicando  l'aggressione all'euro non  come una sciovinistica manovra statunitense  per sabotare la concorrenza  economica del Vecchio Continente, bensì  come una macchinazione  dell'élite politica ed economica transnazionale  (quindi anche europea)  tesa a giustificare il potenziamento delle  istituzioni globali, a  partire dal Fondo Monetario Internazionale.
Creare panico per poi  invocare, come unica soluzione, come ancora di  salvezza, un nuovo ordine  economico mondiale dominato da organismi  sovranazionali tecnocratici.
Scenari che, secondo i sostenitori di questa tesi, saranno al centro delle prossime riunioni annuali a porte chiuse delle più potenti lobby globaliste: dalla Commissione Trilaterale (7-9 maggio a Dublino) al Bilderberg Group (3-6 giugno a Sitges, Barcellona).
A prescindere dalle diverse interpretazioni di quanto sta accadendo, una cosa è certa: a pagare il conto degli imbrogli dei politici europei e delle speculazioni dei predatori finanziari americani saranno le masse popolari. Per ora quelle greche, domani si vedrà.
Crisi greca, rischio europeo
di Luca Galassi - Peacereporter - 28 Aprile 2010
Anche Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia versano in difficoltà: l'intervista ad Alessandro Santoro, docente della Bicocca
I prossimi potrebbero essere Spagna, Irlanda e Italia. Il nostro Paese non è ancora uscito dalla zona a rischio, e con un debito pubblico sei volte superiore a quello greco non è affatto esente da una 'sindrome greca'.
Abbiamo chiesto ad Alessandro Santoro, docente di Scienza delle Finanze presso l'Università degli studi Milano-Bicocca, se dietro le resistenze ad aiutare la Grecia vi siano interessi nascosti o manovre speculative, e se anche l'Italia corre il rischio di bancarotta.
"Il fatto che le agenzie di rating abbiano dimostrato più e più  volte, anche di recente,  di non essere generalmente molto affidabili  anche perché legate a doppio filo a società che hanno interessi precisi  nei mercati finanziari, quindi caratterizzate da un forte conflitto di  interessi, è un dato indiscutibile.
Oggi molte agenzie di rating non sono più legate come in passato ad alcune banche di affari, dato che quelle banche di affari sono fallite. Nel caso specifico non so fino a che punto si possa parlare di speculazione, perché quando la situazione di un Paese peggiora drasticamente come nel caso greco, e come in altri casi, vedi molti Paesi europei negli ultimi due anni, è abbastanza evidente che chi ha prestato soldi a questi Paesi reagisca".
Non era prevedibile una situazione di questo tipo?
In realtà che la Grecia fosse il Paese che versava in condizioni di  finanza pubblica tra le peggiori in Europa, era noto da molto tempo. Il  problema è stato che anche la situazione di tutti gli altri Paesi è  peggiorata.
Tutti hanno sforato i limiti del patto di stabilità, per  esempio la Gran Bretagna ha aumentato di 20 punti percentuali il  rapporto debito-Pil. La Grecia partiva da posizioni già molto critiche,  con un debito pubblico superiore al 120 per cento del Pil, con problemi  nel contenimento della spesa, con enormi problemi di evasione fiscale e  di economia sommersa.
La Grecia è l'unico Paese che abbia una quota di  ricchezza sommersa superiore all'Italia. Questi fattori hanno fatto sì  che la situazione greca fosse la prima ad evidenziarsi. Forse poteva  essere previsto, ma in una certa misura si è scoperto che 'truccavano' i  conti.
Anche questo è un segreto di Pulcinella, però, dato che tutti i Paesi truccano i conti. Lo abbiamo fatto noi alla fine degli anni '90 anche se non lo abbiamo mai ammesso, utilizzando una serie di contratti finanziari che fanno sparire delle poste di debito e le rinviano nel futuro quando il debito già c'è.
Ci sono rischi per altri Paesi?
Certamente. E' la terza fase della crisi, che gli economisti più  avvertiti, come Rubini, avevano ampiamente previsto. A livello globale  c'è stato un grosso intervento degli Stati, per salvare le banche, per  salvare i posti di lavoro, per sostenere il ciclo economico. Quella  crisi si è trasferita tutta sui bilanci pubblici, la crisi non è finita,  si gioca a un livello diverso, ovvero sull'affidabilità degli Stati.
Molti Paesi hanno faticato moltissimo a stare a galla, anche a causa delle condizioni già precarie delle loro finanze pubbliche. Vedi l'Italia: i conti presentati nel 2009 presentano una situazione di finanza pubblica come quella dell'inizio degli anni '90. Ci siamo mangiati diciotto anni di politiche di risanamento. Tutti questi Paesi, Italia, Spagna, Portogallo, hanno anche enormi problemi di economia sommersa e debito pubblico.
Perché la Germania ha questo atteggiamento nei confronti della Grecia?
Per un fatto di credibilità, innanzitutto. Ogni volta che si pensa a  un intervento di soccorso o di una singola istituzione finanziaria in  difficoltà o di un singolo Paese si pongono i problemi che gli  economisti definiscono di azzardo morale.
In pratica si rischia di  creare un precedente, e vi è l'idea che le politiche fiscali dei Paesi  possano essere poco responsabili perché tanto sono nell'euro allora  verranno aiutate dagli alti Paesi. La Germania, sapendo che ci sono  tanti altri Paesi in difficoltà vuole evitare questo. Vuole evitare  interventi che inevitabilmente si riverbererebbero sull'intero sistema.
Altro elemento è quello culturale. Per la Germania l'abbandono del marco per l'adozione dell'euro è stata una sofferenza enorme. Tutto ciò che può indebolire l'euro contribuisce a questa situazione di disagio che forse ancora adesso è vissuta in Germania. E forse non è del tutto peregrina l'ipotesi che qualcuno abbia interesse a cavalcare la crisi per avviare il progetto di Europa a due o tre velocità che molti hanno in mente da anni.
Anche l'Italia è in pericolo?
Noi dobbiamo alla riconosciuta abilità mediatica del nostro ministro  il fatto di non essere nell'occhio del ciclone. Io sono stato contrario  allo scudo fiscale. Detto questo, è ovvio che quello è stato un elemento  determinante nel contenimento della situazione italiana. Una situazione  che rimane pessima.
Il 2008 si è chiuso molto peggio di quanto aveva  previsto il governo. Una cosa che non dice nessuno è che i conti  italiani presentati a gennaio all'Unione Europea sono stati smentiti due  mesi dopo dai conti che l'Istat ha presentato, e che sono quelli  ufficiali.
Per cui adesso la Ruef, la relazione unificata sull'economia e la finanza pubblica dovrà spiegare come fare a recuperare i soldi che pensavano ci fossero e non ci sono e soprattutto modificare le previsioni sul 2010 che già ci davano un rapporto debito-Pil al 117 percento e che secondo alcuni calcoli andrà al 119 percento. La Grecia è al 125, non è che sia molto lontana da noi..
Atene non è ancora salva e per l'Italia nuovi pericolo dall'Ue
da www.sussidiario.net - 5 Maggio 2010
Domenica  l’Unione europea ha deciso un massiccio intervento in favore della  Grecia. Atene in cambio si impegnerà a ridurre il proprio debito  attraverso un piano sulla cui attuazione vigileranno gli esperti del  Fondo monetario internazionale ed europei. L’allarme non sembra però  rientrato: i mercati non si sono ancora ripresi e l’euro perde ancora  terreno nei confronti del dollaro. Il mondo finanziario sembra non  credere all’impegno greco e di conseguenza teme un contagio agli altri  paesi europei, in primis Portogallo e Spagna. Abbiamo parlato della  situazione con Domenico Delli Gatti, docente di Economia Politica ed  Economia Monetaria all’Università Cattolica di Milano. Professore, innanzitutto un suo  giudizio sul piano varato dall’Ue. Era giusto intervenire in aiuto della  Grecia? Certamente, su questo non ho dubbi,  anche se una minoranza di economisti ritiene che non fosse necessario.  Penso che sarebbe stato più opportuno intervenire molto prima, perché è  evidente che la situazione sui mercati finanziari è peggiorata a causa  della mancanza di un piano credibile, cosa che ha comportato  l’incremento esponenziale degli aiuti necessari. Se si fosse intervenuti  per tempo, la somma da stanziare sarebbe stata inferiore ai 110-120  miliardi di adesso. Come mai secondo lei l’Europa è  arrivata così tardi a decidere un intervento? Mi sembra che negli ultimi due mesi sia  mancata una forte leadership europea, soprattutto da parte della  Germania. Personalmente ho sentito molto la mancanza di un personaggio  come Helmut Kohl che in passato ha avuto molto più coraggio di quello  mostrato da Angela Merkel in termini europeistici. Da questo punto di  vista, Italia e Francia hanno mostrato una capacità di leadership  maggiore. Grazie al loro impegno, unito a quello del Fondo monetario  internazionale e degli Stati Uniti, è stato possibile far decidere al  cancelliere tedesco di muoversi nella direzione di un aiuto alla Grecia. I mercati non sembrano però aver  reagito positivamente a questo piano. Secondo lei sarà efficace? Ho un dubbio su questo. Non tanto perché  non siano rilevanti le misure messe sul tappeto, ma per il rischio che  una cura così drastica per la Grecia possa avere effetti negativi sulla  sua crescita. Questo potrebbe portare a un rapporto deficit/Pil che non  scende come si spera. Penso comunque che i tecnici abbiano fatto i conti  in modo opportuno tenendo conto anche di questo. Dopo questo intervento la Grecia  corre ancora il rischio di fallire?
Questo  pericolo c’è sempre. Senza il piano di intervento la Grecia non sarebbe  stata in grado, secondo il suo ministro delle Finanze, nemmeno di  rimborsare il debito per il 2010. Non dimentichiamo che il rapporto  debito/Pil della Grecia è al 120% e si prevede in crescita al 150% nel  giro di pochi anni. Questo vuol dire che c’è sempre il rischio che la  Grecia non abbia modo di rinnovare il proprio debito a tassi di mercato  ragionevoli. La spada di Damocle di un possibile default non è affatto  esclusa in futuro. Perché si è arrivati a questa  situazione? Il governo di Karamanlis aveva fornito  cifre ufficiali secondo cui il rapporto deficit/Pil per il 2009 era  sotto il 4%. Il dato è stato poi rivisto al 6%, finché, a seguito della  vittoria elettorale di ottobre, il nuovo esecutivo di Papandreou è  andato a spulciare i conti del governo precedente (come avviene in quasi  tutto il mondo). Ha scoperto quindi che il rapporto deficit/Pil era in  realtà molto più alto, ben oltre il 12%. A questo punto si è creato un  problema di credibilità, dato che era la seconda volta che un governo  greco ammetteva di aver truccato i conti. Quando era successo la prima volta? Nel 2003. La Grecia per entrare  nell’Unione monetaria europea aveva dichiarato di avere un rapporto  deficit/Pil inferiore al 3% (condizione necessaria per rispettare i  criteri di Maastricht), ma poi si è scoperto che il dato in realtà si  aggirava intorno al 4%. Ora, dato questo precedente, è chiaro che sui  mercati finanziari si è scatenato il panico con massicce vendite dei  titoli greci, perché tutti si domandavano se la realtà dei conti  pubblici non fosse ancora peggiore rispetto a quanto dichiarato. È  curioso però notare che non è soltanto la Grecia ad avere una situazione  drammatica dei conti nell’area euro. L’Irlanda per esempio ha un  rapporto deficit/Pil simile a quello di Atene, mentre Spagna e  Portogallo sono messi leggermente meglio. Fuori dall’area euro, Gran  Bretagna e Stati Uniti viaggiano intorno al 12%. Lei ha appena accennato all’Irlanda, a  cui però non sono stati dati gli stessi aiuti della Grecia. Come mai  questa differenza?  La differenza sostanziale è di  credibilità delle statistiche di finanza pubblica tra i due paesi.  L’Irlanda è stata più trasparente, ha avuto un grossissimo problema di  sistema finanziario che ha comportato il salvataggio massiccio delle  banche. Non bisogna poi dimenticare che il rapporto debito/Pil irlandese  è più basso di quello greco. D’altro canto le misure che Unione Europea  e Fmi imporranno ad Atene (in una sorta di commissariamento della  finanza pubblica) sembrano molto più drastiche di quelle che  autonomamente ha messo in campo Dublino. Esiste secondo lei il rischio di  contagio del rischio default ad altri paesi dell’eurozona? Certamente,  e lo abbiamo anche visto. Quando le agenzie di rating hanno declassato  Spagna e Portogallo, i rendimenti dei loro titoli di Stato sono  aumentati in maniera drammatica. Figuriamoci cosa potrebbe accadere nel  caso la situazione dovesse peggiorare. Nessuno può dirsi francamente  fuori dal mirino della speculazione. Peraltro giustificata nel caso  specifico, perché sappiamo da sempre che in un’unione monetaria le  differenze tra i tassi sui titoli del debito pubblico sono spiegate solo  per il rischio sovrano. L’Italia corre rischi? L’Italia è tra i paesi “virtuosi”, cioè  quelli che sono riusciti a mantenere, nonostante una grave recessione,  un rapporto deficit/Pil contenuto intorno al 5%. Abbiamo poi un deficit  primario migliore della Germania. Fino a pochi anni fa avevamo  addirittura un avanzo primario e speriamo di riaverlo presto. Questa  situazione non dovrebbe portarci a correre rischi enormi. Il problema è  che i mercati valutano la probabilità di insolvenza guardando lo stock  di debito accumulato da un paese e il nostro è intorno al 120% del Pil e  negli ultimi anni è salito dopo un calo che continuava da prima  dell’ingresso nell’euro. Secondo lei è giusto che l’Italia  intervenga in aiuto della Grecia con 5,5 miliardi di euro? Assolutamente. Se il disegno dell’Unione  monetaria deve essere mantenuto è necessario immaginare anche forme di  solidarietà. Non dimentichiamo poi che i fondi sono prestati a un tasso  d’interesse del 5%, un saggio più alto di quello che l’Italia deve  pagare per finanziare il proprio debito. In teoria, quindi, se tutto va  bene, il nostro Paese potrà guadagnare qualcosa da questa operazione. Secondo lei l’euro sopravviverà a  questa crisi? Penso che se dovesse esserci  un’improvvisa insolvenza della Grecia, allora i problemi sarebbero molto  rilevanti, e nessuno sarebbe in grado di disegnare scenari ragionevoli.  Non dimentichiamo che non abbiamo nessun meccanismo istituzionale che  preveda le modalità con cui un paese possa uscire dall’euro. Certamente  non è impossibile che avvenga, ma lo ritengo molto improbabile. Se il  piano messo in campo si dimostrerà credibile, nel giro di due o tre anni  le cose torneranno in ordine. E se non dovesse accadere? L’alternativa ragionevole sarebbe una  ristrutturazione del debito greco. E potrebbe avvenire attraverso un  rescheduling, cioè un riscadenzamento del debito. I creditori della  Grecia dovrebbe quindi accontentarsi di avere gli stessi soldi, ma in un  arco temporale più lungo rispetto a quello originariamente pattuito.  Questo sarebbe meno doloroso di una ristrutturazione tout court, dove i  debiti sarebbe rimborsati solo parzialmente. Queste opzioni vanno  comunque messe in campo prima di un crollo totale della Grecia, perché  il rischio sarebbe quello che Atene decida di non rimborsare più nemmeno  un euro. Qualcuno ipotizza la nascita di una  doppia moneta europea, una per i paesi più solidi e l’altra per quelli  più deboli, dato che l’Europa viaggia ormai a due velocità. Lei che cosa  ne pensa? L’Europa  procede a velocità diverse (più di due) nonostante l’unione monetaria e  c’è chi vede l’eventualità della nascita di un euro del Nord (Neuro) e  di un euro del Sud (Sudo). Certo, queste due aeree monetarie sarebbero  più uniformi a livello macroeconomico e si potrebbe pensare che il Sudo  si svaluti massicciamente nei confronti del Neuro, un po’ come succedeva  con la lira italiana nei confronti del marco tedesco negli anni ’90.  Questo potrebbe permettere ai paesi del Sudo di crescere più rapidamente  di quanto non avvenga con l’euro. Mi sembra però uno scenario  improbabile. E poi non sarebbe una soluzione conveniente per la  Germania. Perché? Perché è il paese che ha più interesse a  tenere l’euro così com’è, dato che è stato quello che ha messo a frutto  meglio l’impossibilità di svalutare una volta che l’unione monetaria è  stata realizzata. Gli esportatori tedeschi possono ora sfruttare al  massimo i vantaggi che hanno in termini di costo del lavoro e  produttività. Avere paesi come Italia e Spagna fuori dall’euro  annullerebbe questo vantaggio. L’euro è nato però a immagine e  somiglianza del Marco tedesco. Tutto questo ha ancora senso? L’unione monetaria è frutto di un grande  compromesso di altissimo livello costruito sull’asse franco-tedesco per  merito dei politici più che degli economisti. Da un lato la Germania  rinunciava al Marco, dall’altro otteneva che l’euro nascesse nelle  condizioni più simili al Marco. Per questo la Banca centrale europea ha  un assetto prossimo alla Bundesbank (anche si vi sono rappresentanti dei  singoli paesi), per questo si è impedito che i singoli paesi avessero  politiche fiscali incontrollate (attraverso il patto di stabilità di  crescita) in modo da non avere comportamenti lassisti, per questo esiste  la clausola del Trattato di Maastricht (bail-out clause) che evita il  salvataggio di una nazione. Essendo un compromesso, ogni paese vi vede  dei vantaggi e degli svantaggi. Per l’Italia quali sono gli svantaggi  e i vantaggi? E quali contano di più? Lo svantaggio più evidente è che non  possiamo più svalutare la nostra moneta per favorire le esportazioni e  non è un caso che dal 2000 la nostra crescita è prossima allo zero.  D’altra parte abbiamo tassi d’interesse più bassi (che aiutano anche  rispetto al debito pubblico), inflazione moderata e prezzi delle  importazioni contenuti. Direi che i vantaggi sono ancora più degli  svantaggi. Il piano varato dall’Ue per la Grecia  prevede che il prestito venga erogato dagli stati, mentre adesso buona  parte del debito greco è nelle mani delle banche. Questo passaggio  banche-stati è da considerarsi positivo? Come accennava, attualmente il debito  greco è in mano per la maggioranza a banche francesi e tedesche. In caso  di default, queste dovrebbero rivedere al ribasso il valore di mercato  dei propri asset, un po’ come quanto avvenuto con i titoli tossici. Se  le banche fossero di rilevanza sistemica, le conseguenze andrebbero  oltre i confini nazionali e i governi dovrebbero intervenire in loro  aiuto, come è già successo nella recente crisi. I fondi stanziati adesso  dovrebbero servire a far fronte al debito regresso, quindi quello in  mano alle banche. Questo per i governi sarebbe un vantaggio. In molti, tra cui il governatore di  Bankitalia Mario Draghi, chiedono di rivedere il Patto di stabilità e i  controlli sui debiti sovrani. È una tappa obbligata? Mi  sembra inevitabile andare a mettere mano all’intera architettura,  specie per quel che riguarda la politica fiscale. Non è chiarissimo  quale strada occorrerà seguire. Per qualcuno basterebbe stringere le  viti sui criteri di finanza pubblica, rendendo più restrittivo il Patto  di stabilità e crescita, e unificare la politica fiscale. Attualmente  infatti questo strumento è lasciato in mano agli stati ed è un bene,  perché così essi possono usarlo in caso di shock assimetrico. Cosa intende dire? Se un singolo paese viene colpito da una  recessione, la Bce non interviene perché si tratta di un problema di un  singolo e non dell’intera comunità, quindi a quel paese non resta che  intervenire con la politica fiscale espansiva. Se però si centralizza la  politica fiscale, oltre a quella monetaria, un paese si ritrova  impossibilitato a farlo e quindi diventa più vulnerabile. Occorre  pertanto non riscrivere il patto di stabilità in modo troppo restrittivo  come qualcuno ha ipotizzato. A quale ipotesi si riferisce? Ho letto recentemente un articolo di  Hans Werner Sinn su The Wall Street Journal in cui sostiene che se un  paese ha un rapporto debito/Pil relativamente basso, allora dovrebbe  essere autorizzato ad avere un rapporto deficit/Pil relativamente alto.  Per questo menzionava il caso della Danimarca, che ha un rapporto  debito/Pil del 30% e alla quale dovrebbe essere consentito di arrivare  ad avere un rapporto deficit/Pil del 6%. Tutto questo è accompagnato da  una formula matematica, che se applicata all’Italia, che ha un rapporto  debito/Pil del 120%, dovrebbe costringerci ad avere sistematicamente un  avanzo di bilancio. Come potremmo mai ottenerlo? L’Italia, così come gli altri paesi che  hanno problemi di debito pubblico elevato, dovrebbe mettere in atto una  politica fiscale restrittiva di enormi proporzioni, con grossi rischi  per quanto riguarda la capacità di crescita. Credo che questa proposta  non andrà in porto, ma occorre fare attenzione a simili iniziative  estreme che possono essere pericolose.
La crisi  economica della Grecia  rappresenta l’occasione per interrogarsi sul  significato attuale  dell’identità e dell’unità europea. La Grecia era un tempo  considerata, con i Balcani, la porta dell’Europa,  anzi fu proprio in  Grecia che il concetto di Europa vide la luce. In  seguito a svariate  vicende storiche di cui gli altri paesi europei non  sono certo  estranei, la Grecia e i Balcani vengono considerati oggi come  un’area  marginale, quasi al di fuori del continente europeo. Anche per  questo i  problemi economici di questo paese sono percepiti in maniera   distaccata e non vengono sentiti come propri dagli altri stati europei. Nel tempo, Europa e  Balcani sono diventati, da sinonimi di fatto,  termini culturalmente  antitetici. Con il primo a significare ogni virtù  morale e civile, il  secondo a evocare un rompicapo di etnie irrequiete e  solipsiste,  destinate a combattersi in guerre infinite per le quali poi  chiameranno  a pagare il conto gli europei “veri”: l’Europe  européenne  cara ad alcuni intellettuali francesi, ben distinta  dalla Turquie  d’Europe, ossia dai Balcani – Grecia inclusa –  marchiati dalla  plurisecolare dominazione ottomana.  Accade così che i cittadini  dell’odierna Repubblica Ellenica, che non  cessano di proclamarsi eredi  di coloro che inventarono il magico nome  “Europa”, occupino nelle mappe  mentali degli europei che contano  (tedeschi innanzitutto) un angolo  alquanto periferico. Quasi  extraeuropeo. Molto balcanico. […] Il  caso greco è un eccellente rivelatore della disunione dell’Unione   Europea. Dei pregiudizi – o postgiudizi, a seconda dei punti di vista –   che continuano a segnare i rapporti fra i popoli e i paesi che la   compongono. Come in qualsiasi crisi, nessuna esclusa, la nostra Unione   si divide. È accaduto in (non) risposta alla crisi prima finanziaria,   poi economica e sempre più sociale, tracimata da Wall Street verso il   resto del mondo nell’estate-autunno 2008. Ancor più in queste settimane   di eccitata discordia intorno a come impedire che il malato greco   diffonda il suo morbo ad altri pazienti, dal Portogallo alla Spagna   all’Irlanda o financo all’Italia (i famigerati “Piigs”). Dieci anni  dopo il suo lancio, l’euro affronta un incerto futuro  all’insegna  dell’epidemia che potrebbe diffondersi dal fallimento di  Atene. Default  da impedire, o almeno rinviare, con un pacchetto di aiuti  intorno al  quale si affannano gli altri Stati dell’Eurozona e il Fondo  monetario  internazionale – un’umiliazione per gli europeisti doc. Eppure,  malgrado il dramma ellenico in pieno corso, nessuno intende  affrontare  il problema alla radice: una moneta senza Stato non è mai  esistita, e  per ottime ragioni. La disomogeneità anche  geopolitico-culturale  dell’area economica e monetaria su cui l’euro  insiste è destinata prima  o poi a riprodurre gravi crisi, che alla lunga  potrebbero mettere in  discussione l’esistenza stessa della divisa  partorita a Maastricht. Si  pensi inoltre alla latitudine di manovra che  hanno oggi la Banca  centrale britannica piuttosto che quella americana,  abilitate a battere  moneta per finanziare i rispettivi deficit statali,  rischiando una  prossima inflazione, ciò che alla Banca centrale europea è   espressamente impedito. Peggio: la crisi greca tocca un’economia che  non ha serie prospettive di  crescita. I mercati lo sanno benissimo,  così mettendo a repentaglio le  risorse europee e internazionali che  saranno devolute a impedire il  collasso dei conti pubblici di Atene. Uno scenario che i critici  dell’euro, a cominciare dai vertici della Bundesbank,  avevano  prefigurato già negli anni novanta. Senza però convincere i  leader  politici, Kohl   in testa, che scommettevano sulla “moneta unica” in base ai loro   criteri, non propriamente tecnici. Se cancellerie e mercati avessero  la memoria lunga, ricorderebbero poi  come la Grecia moderna non sia  nuova alla tutela finanziaria delle  potenze continentali. Fin dalla sua  nascita come Stato nazionale,  favorita dalle infusioni di denari  britannici e non solo dai sacrifici  eroici di Lord Byron (1821) o Santorre   di Santarosa (1825). A coronare il senso della tutela esterna, il   primo monarca della Grecia redenta dalla presa ottomana era il bavarese   Ottone di Wittelsbach. E nel 1898, dopo la disastrosa sconfitta subìta   l’anno prima per mano turca – che seguiva la bancarotta annunciata in   Parlamento il 10 dicembre 1893 dal primo ministro Charìlaos Trikoupis   con le celebri parole «Purtroppo, siamo falliti» – s’installarono ad   Atene i messi della Commissione internazionale di controllo. Austria,   Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Russia assoggettavano così alla   loro sorveglianza le finanze pubbliche greche. Ancora una volta i  denari stranieri significavano influenza straniera.  Peraltro, sia pur  ridenominato, il controllo esterno sulla Grecia sarà  formalmente  abolito solo nel 1978, tre anni prima dell’ingresso di Atene  nella  Comunità Europea, ventitré prima dell’ammissione fra gli eletti   dell’euro. Oggi i tedeschi e altri europei “virtuosi” chiedono  misure draconiane  alla Grecia, sull’onda di opinioni pubbliche più che  mai attente al  particulare. Frau Merkel sarà rigida, come lamentano non  solo i greci,  ma è difficile pretendere da un leader democratico dei  nostri tempi di  trascurare il sentimento dei quattro quinti dei suoi  elettori,  indisponibili a sborsare un soldo per Atene.  Viene solo da  chiedersi, in questo contesto, che cosa significhi oggi la  parola  “Europa”. Se significa qualcosa.
 In principio Europa erano i Balcani. O meglio, ciò che noi chiamiamo   oggi Penisola Balcanica. Nella mitologia degli antichi popoli che   solcavano l’Egeo, “Europa” era infatti il nome delle terre a occidente   del Bosforo, “Asia” di quelle a oriente.
               
Da GIPSI a PIIGS
di Carlo Bertani - http://carlobertani.blogspot.com/ - 2 Maggio 2010
Solo un breve spostamento di lettere, un anagramma. Tanto basta al gran  calderone mediatico/bancario per mandare all’inferno 200 milioni di  persone che vivevano normalmente, prima che qualcuno – forse dopo  qualche bicchierino di più – s’immaginasse un bel continente tutto  uguale, da colorare con la stessa matita, così i bambini delle  elementari non sbordavano più i confini e le maestre era contente.
200  milioni di persone che abitavano ed abitano le nazioni fra le più  antiche della Terra, quelle che hanno creato addirittura le parole, il  verbo, i termini che oggi servono per condannarli.
Sapete cosa  significano οìκος (oikos) e νόμος (nomos), signori  della city di Londra?
Stanno a significare il “governo della casa”,  quel concetto in sé   semplice che significava – per ampliamento alla città, poi allo Stato –  “economia”, ossia come ripartire le ricchezze, ove convogliarle,  risparmiarle, impiegarle per migliorare le condizioni di vita delle  popolazioni. Per farle vivere meglio, non peggio.
Già, le  “popolazioni”. Ve n’è mai importato qualcosa?
Ve ne siete  fregati, ve ne siete sbattuti allegramente mentre correvate dietro ai  vostri penosi sogni di gloria, ai vostri arzigogoli istituzionali che  avrebbero condotto un continente, nato quasi tremila anni fa con enormi  differenze climatiche, culturali, linguistiche, religiose…all’uniformità  generata da…una moneta!
Un pezzo di metallo o di carta che travalica  monti e mari, un nuovo Dio da adorare, al quale tutto sacrificare:  famiglie, terre, case, vite, figli, sogni, tempo, vita ma…vi rendete  conto, almeno, della vostra follia?
I grandi filosofi greci  v’avrebbero riso in faccia e v’avrebbero confinati in una commedia – ma  di quelle per il popolino – di qualche autore minore, di quelli che non  sono nemmeno giunti a noi. Chi? Aristofane? Ma per favore…
A voi è  bastato creare un acronimo…e che ci vuole? Anche noi possiamo  crearli…non ci credete?
Con Gran Bretagna, USA, Australia, Singapore,  Taiwan ed Israele possiamo creare i GUASTI. Con Malta, Albania,  Lettonia ed Estonia il MALE. Con Polonia, Arabia Saudita, Colombia,  Canada ed Olanda il PACCO. Ci volete sfidare? La fantasia non ci manca.
Solo  degli stolti potevano immaginare che bastasse una moneta per dichiarare  “fatto” un continente: ho provato con il vostro metodo ad affermare  “quest’orto, avrà una sola zappa” e poi mi sono fermato. Solo erbacce.  Credetemi: non funziona.
Una vera costruzione europea doveva  partire dalla politica, non dall’economia: bisognava armonizzare il  continente rispettando tutte le sue componenti. Difficile, eh?
Certo  che lo è ma, un passo alla volta, forse qualcosa di buono sarebbe nato.
Invece,  ai grandi appuntamenti politici internazionali – vogliamo ricordare le  guerre in Oriente, la questione palestinese e tutta la politica  internazionale – si è sempre andati “tutti insieme, in ordine sparso”.  Oh, non sono parole mie: di Solana, quello che doveva essere il Ministro  degli Esteri europeo. Segno che il fallimento era già in atto.
Di  fallimento in fallimento – bocciate le varie costituzioni, dichiarate  “vomitevoli” dove hanno avuto il coraggio di proporle – vi siete dovuti  inventare un sordido trattato.
Lo avete fatto a Lisbona, il più lontano  possibile, poi l’avete scritto in modo incomprensibile, lo applicate  soltanto per i passi che sono favorevoli alle caste economiche mentre,  per una giustizia equa in tutto il continente, dovremo aspettare le  calende greche. Eh, ‘sti greci, sempre a mezzo a rompere le scatole…
Adesso,  aspettiamo la certificazione del vostro fallimento: speriamo che  v’accontentiate di portare i “libri in tribunale”, senza tristi ed  inutili epiloghi. Non scocciateci oltre.
Non continuate su questa  strada – rendetevene conto – perché sarà del tutto inutile chiedere il  sangue ai greci, poi agli spagnoli, agli italiani…non funzionerà.  Perché?
Poiché il sistema di riferimento che ci proponete –  l’economia “fulgida e moderna”, quella del terzo millennio – è già  fallita nella culla: chi ha creato la bella pensata di trasformare  l’economia in un piatto di poker? Chi ha inventato la parola subprime?  Chi ha giocato sulla pelle della povera gente, vendendo e rivendendo  come al Monopoli certificati di credito fasulli?
Ci spiace: il poker  non è roba nostra, al massimo lo scopone, che ha moltissime varianti  nell’area mediterranea. Al più, ci giochiamo un caffé o un bianco:  l’abitudine di giocarsi la casa l’avete portata voi, e i più grulli ci  sono cascati.
Ma, a sentire lontane campane, non sembra che dalle  vostre parti le cose stiano andando tanto bene: addirittura, pare che  il “banco” – ossia gli USA, il gran capo dei GUASTI – stia andando in  bancarotta. Perché, allora, prendersela con i poveri greci?
Quando ci  fu da “soccorrere” il grande baro di Washington – “Piano Paulson”,  ricordate? – la BCE tirò fuori una sequela di miliardi da far paura per  salvare le banche…ma…chi aveva creato il “buco”? Un pescatore greco? Un  operaio italiano? Un contadino portoghese? Qui, mi sa che i maiali sono  altri, e forse avremmo anche qualcosa da insegnarvi.
Forse, dovremmo  tornare indietro e riconsiderare le nostre scale di valori: ad iniziare  dal denaro e dalla ripartizione della ricchezza. Tornare a parlare di  cose “comuni” e non “private”, l’aggettivo che è diventato il vostro  credo e che ci sta conducendo alla rovina.
Il governatore della  Louisiana, Bobby Jindal, ha dichiarato: “La macchia nera di petrolio  non solo minaccia le nostre zone paludose e la nostra industria ittica,  ma anche il nostro stile di vita”.
Ebbene, cari signori della  BCE, del FMI e del chicazzonesò di qualche altro consesso d’autorevoli  “esperti”, “economisti”, “analisti” eccetera eccetera…la nostra marea  nera siete voi, con le vostre richieste usurarie, con quei trucchi da  bari mediante i quali ci avete turlupinati. Andateci voi, all’inferno,  invece di “rovinare il nostro stile di vita”: globalizzatevi l’asso di  bastoni, ma dove dico io.
Perciò, vi rimbalziamo con gran gioia  lo schifoso epiteto che ci avete incollato addosso – perché le regole  truffaldine del gioco sono le vostre, non le nostre – e preferiamo il  più gentile GIPSI.
Se non altro, ci ricorda visi gentili ed abiti  colorati, calderai e piccole maghe che leggevano la mano: gente che ha  percorso la nostra Europa per secoli inseguendo dei sogni.
Per noi,  scusateci, sono cose che hanno ancora valore: come raccontava De André  in Khorakhamè, certe frasi non sono da tutti – meno che mai dei  maghi di Wall Street – e preferiamo ascoltare “chi sa di  raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”.
Andate  cordialmente all’inferno, nessuno si volterà per salutarvi.