lunedì 3 maggio 2010

A tempo debito...

Qualche articolo sul fatto che la crisi economica globale non abbia proprio insegnato nulla, dal momento che coloro che l'hanno provocata proseguono indisturbati nel commettere gli stessi "errori".

Un accenno poi anche al mostruoso debito pubblico degli Usa, di cui ovviamente si parla pochissimo, che fa impallidire quello greco o italiano...


Un impero quasi insolvente
di Vladimiro Giacche' -http://antefatto.ilcannocchiale.it - 27 Aprile 2010

Il 5 maggio l’amministrazione comunale di un’importante città dell’Occidente resterà senza più soldi in cassa. Non si tratta di Atene, ma di Los Angeles. A Colorado Springs, già da qualche tempo donazioni private sono indispensabili per tenere aperti i parchi. Nel Maryland molti lavoratori pubblici saranno a breve messi in congedo per il secondo anno consecutivo. Sono tre esempi di un unico problema: l’insostenibilità del debito pubblico Usa.

Il debito del governo degli Stati Uniti è attualmente di circa 13.000 miliardi di dollari. Ancora più grave il fatto che il deficit di bilancio annuale del 2009 è stato di 1.400 miliardi di dollari (pari all’11,2% del prodotto interno lordo), superiore anche a quello che si ebbe nel 1942, in piena seconda guerra mondiale.

È in rosso sia il bilancio federale, che quello degli Stati dell’Unione (180 miliardi il loro deficit di bilancio 2010) e di moltissime municipalità. Vanno poi aggiunti i debiti delle agenzie pubbliche di mutui immobiliari Fannie Mae e Freddie Mac (5.000 miliardi) e soprattutto la necessità di finanziare nei prossimi anni prestazioni pensionistiche e sanitarie per qualcosa come 41.000 miliardi di dollari.

In ambito pensionistico, la crisi ha creato una vera e propria voragine. Basti pensare che i soli 3 fondi pensione dei dipendenti pubblici della California (che riguardano 2 milioni e mezzo di persone in tutto) hanno riportato tra il giugno 2008 e il giugno 2009 perdite per poco meno di 110 miliardi di dollari. Secondo una ricerca appena pubblicata dalla Stanford University lo squilibrio tra il patrimonio di questi 3 fondi e le prestazioni da erogare ammonta a 500 miliardi di dollari.

I buoni del Tesoro emessi dagli Usa (i T-Bond) sono passati da 3.410 miliardi di dollari del 2000 a 7.545 miliardi nel 2009. Quest’anno sono previsti almeno altri 2.000 miliardi di nuove emissioni. A queste cifre vanno aggiunte le emissioni statali e municipali. Le sole obbligazioni municipali in essere lo scorso anno ammontavano a 2.800 miliardi di dollari.

E va notato che queste obbligazioni rappresentano un ulteriore aggravio per il bilancio federale, che finanzia un terzo degli interessi pagati dalle municipalità agli obbligazionisti. A questi ritmi, entro dieci anni il governo federale degli Stati Uniti dovrà emettere 750 miliardi di obbligazioni all’anno soltanto per ripagare gli interessi sui titoli di Stato già in circolazione.

Con questa montagna di debito pubblico, è dubbio che gli Stati Uniti possano beneficiare ancora a lungo del rating elevato attuale (tripla A). Lo ha dichiarato la stessa agenzia di rating Moody’s, ipotizzando che in un prossimo futuro gli Usa (al pari della Gran Bretagna) potrebbero subire un abbassamento del loro merito di credito.

Qualche sinistro scricchiolio sul fronte degli acquirenti del debito Usa (per la metà collocato all’estero) si comincia già ad avvertire: a gennaio, per il terzo mese consecutivo, i cinesi hanno ridotto le loro posizioni in titoli di Stato Usa, e a marzo i gestori di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo, hanno escluso i T-Bonds dai loro nuovi acquisti.

Gli analisti di Morgan Stanley non escludono che quest’anno la domanda di titoli di Stato americani possa risultare inferiore all’offerta per 600 miliardi di dollari, con un conseguente forte rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato americani (ossia degli interessi che gli Usa devono pagare a chi acquista questi titoli).

Sulla sostenibilità del debito pubblico incidono anche le prospettive dell’economia: che allo stato sono tutt’altro che brillanti, a dispetto di quanto si sente ripetere. La moderata crescita del pil degli ultimi trimestri è attribuibile per due terzi a programmi di stimolo governativi (in particolare agli incentivi per la rottamazione delle auto e ai sussidi per l’acquisto della prima casa): cioè è stata pagata con l’aumento del debito pubblico. Lo stesso vale per la crescita dell’occupazione a marzo, che ha beneficiato di 48.000 posti di lavoro pubblici part-time creati per il censimento.

In un contesto del genere la stessa crisi greca, che sinora ha indubbiamente avvantaggiato gli Stati Uniti (rafforzando il dollaro a scapito dell’euro), potrebbe rivelarsi micidiale in quanto potrebbe innescare una crisi più generale del debito sovrano.

Un effetto-domino che colpisse il debito pubblico degli stati avrebbe conseguenze drammatiche ed imprevedibili, perché colpirebbe i prestatori di ultima istanza che hanno salvato il sistema finanziario internazionale dal collasso.

Ma è uno scenario che non si può escludere: in fondo, come ha affermato recentemente l’analista Dylan Grice di Societé Générale, “i governi degli Stati più sviluppati sono insolventi secondo ogni ragionevole definizione”.

I numeri visti sopra ci dicono che in questo scenario gli Stati Uniti sarebbero un bersaglio più che plausibile. Per dirla con lo storico Niall Ferguson, oggi “il debito Usa è un riparo sicuro allo stesso modo in cui era considerato un porto sicuro Pearl Harbour nel 1941”.


E gli economisti sbagliano ancora
di Marcello Foa - Il Giornale - 30 Aprile 2010

Gli economisti? Bravissimi. Dopo. Prima, molto meno. Sbagliano, eccome se sbagliano. Ieri, tantissimo. Oggi, altrettanto.
È come se venisse proiettato lo stesso film, cambiano i Paesi e le situazioni: Wall Street nel 1987, l’Asia dieci anni dopo, i mutui subprime nel 2008, ora la Grecia e con ogni probabilità, Spagna e Portogallo.

Ma il finale è sempre lo stesso. Gli economisti elaborano tabelle, scenari, si consultano, producendo previsioni basate sul cosiddetto «consenso di mercato». Ma alla fine fanno cilecca.

E tu, risparmiatore, soffri. Vai in banca, chiedi spiegazioni al tuo gestore, lui si difende e allargando le braccia ricorda che non è l’unico a sbagliare, perché tutti hanno fatto le stesse scelte, seguendo gli stessi orientamenti suggeriti dai nomi, dai grandi nomi, che fanno tendenza. Ma l’ha detto Tizio... ma l’ha detto Caio... Chi poteva prevederlo... E il bello è che ha persino ragione.

D’accordo, l’economia non è una scienza esatta e la storia dimostra che tutti i grandi teorici del passato quando sono passati dalla teoria alla pratica si sono rivelati dei pessimi investitori, inclusi Einaudi e diversi premi Nobel, con le sole eccezioni di Ricardo e, in parte, di Keynes. Ovvero: non affidare i tuoi soldi a un professorone. Quasi certamente non ne farà buon uso. E infatti nessun premio Nobel è diventato miliardario.

Ma da loro, così come dai grandi esperti di finanza, ti aspetteresti un grado di attendibilità più elevato. E un po’ più di coraggio. Hanno diritto a delle attenuanti, d’accordo. I mercati di oggi sono molto complessi, la speculazione possiede una potenza di condizionamento che non ha precedenti nella storia e questo favorisce movimenti bruschi e repentini. Ma perché gli economisti sbagliano sempre tutti assieme?

Non tutti, a onor del vero. Ogni crisi ha il suo eroe, qualche analista o gestore che, andando controcorrente, è riuscito a vedere quel che gli altri nemmeno consideravano. Roubini, ad esempio, nel 2007 veniva deriso dai colleghi; eppure è stato uno dei pochissimi ad aver annunciato la crisi dei subprime. Anche oggi qualche voce libera si è alzata per tempo, pronosticando la bufera in Europa, come quella dello svizzero Hummler.

Ma alla fine nulla cambia. Passata la crisi torna tutto come prima. E la maggior parte degli economisti riprende a muoversi in gregge. Perché? Sono modesti? In teoria è possibile, ma in realtà improbabile; da qualche anno le facoltà di economia e finanza drenano alcune delle menti più brillanti, attratte da stipendi stratosferici.

Qualcuno li considera alla stregua di meteorologi o di cartomanti. Ne ha il diritto. Ma non serve a capire come va il mondo.

Perché questo è il punto. Com’è possibile che in una società liberale come la nostra prevalga, tra gli economisti, il pensiero unico? Perché sono così facilmente condizionabili? Domande a cui è difficile rispondere, ma che vanno analizzate in un contesto più ampio.

Quello a cui assistiamo non è il semplice fallimento degli economisti in genere, ma di un sistema, che pur scosso da crisi incredibili è ancora incapace di correggere le sue storture.

Prendiamo le agenzie di rating, che danno i voti a chi emette titoli di Stato e obbligazioni. Sono finanziate dalle società che poi sono chiamate a giudicare, hanno commesso errori colossali, mantenendo doppie e «triple A» a compagnie come Enron e Lehman Brothers fino al giorno del fallimento, l’anno scorso sono emersi intrecci finanziari sconcertanti, connivenze eclatanti. Venivano giudicate inattendibili e manipolabili.

È passato un anno e mezzo dalla crisi dei subprime. E nulla è cambiato. Avevano promesso riforme, non ci sono state. Moody’s e Standard & Poor’s non hanno più credibilità. Dovrebbero essere ignorate.

Eppure continuano a condizionare i mercati. Le bufere sulla Grecia e negli ultimi giorni su Portogallo e Spagna si sono alzate quando loro hanno abbassato i rating. Manco fosse un giudizio divino. Quella degli economisti, oracoli bislacchi, non è l’unica anomalia di questa strana epoca.


Cosa accadra' se crollano anche Portogallo e Spagna?
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 30 Aprile 2010

Tranquilli, l’incendio sta per essere spento! I cervelloni di Bce e Fmi stanno per inviare dei dirigenti in Grecia per studiare la situazione e Barack Obama ha chiamato Angela Merkel convenendo sulla necessità di un’azione veloce ed efficace. Traduzione dal burocratese: alla Bce si sono resi conto che il giochino tedesco sta sfuggendo di mano e cercano una soluzione rapida, la quale sarà sicuramente tardiva e insufficiente.


Due potenziali bancarottieri politici si chiamano per decidere le prossime mosse: non prendiamoci in giro. Le società di rating, in mano alle banche e all’establishment Usa, per due anni non si sono resi conti della crescita esponenziale del debito privato delle banche, la cosiddetta “leva” e ora, invece, sono diventate precisissime e puntualissime nel punire l’eccesso di debito degli Stati.


I quali, è vero, hanno truccato o gonfiato i conti ma non meritano di essere massacrati: vanno messi in riga, questo sì ma non per far fare soldi a chi sta scommettendo allo scoperto sul crollo e sulle oscillazioni delle piazze finanziarie. Appare infatti un po’ poco credibile che il declassamento del rating sul debito spagnolo effettuato l’altro giorno da S&P sia arrivato a mezz’ora dalla chiusura dell’indice Ibex, crollato poi del 3%.


Stanno volontariamente utilizzando la crisi per rifarsi dell’esposizione greca: le banche, i soggetti istituzionali, in questi giorni si stanno comportando in maniera alle soglie della delinquenzialità.


Fanno pagare ai contribuenti, attraverso i salvataggi di Fmi e Ue, la contabilità allegra di Grecia, Spagna e altri e nel frattempo fanno incetta di cds e utilizzano le società di rating, che controllano, per muovere i corsi azionari in modo a loro favorevole.


Non fatevi ingannare dai titoli degli istituti che crollano: le banche, ormai, fanno solo investment banking e quindi hanno un portafoglio di investimenti da portare avanti, i loro bilanci se li fanno mettere a posto dagli Stati - vedi la Germania - e poi fanno profitti sul mercato drogato del debito e delle certificazioni ad personam delle società di rating.


La Grecia, infatti, è di fatto già insolvente e una ristrutturazione del debito, seria, sarà presto necessaria: un default porterebbe con sé, infatti, un duplice effetto. Perdite pesantissime per le istituzioni finanziarie che detengono titoli di debito greco e rischio di contagio, di fatto già partito, verso Portogallo, Spagna, Irlanda e in ultima istanza, Italia in un perverso effetto domino.


Il problema sostanziale è che un peggioramento del debito e quindi un’ulteriore avversione dei mercati porterà con sé, inevitabilmente, il crollo del valore degli assets a livello globale: fatto, questo, che potrebbe contemplare un calo della crescita, almeno negli Stati Uniti, attorno al 2% in base a calcoli compiuti da Nouriel Roubini.


La Grecia, nei fatti, è oggettivamente la punta dell’iceberg, però i crolli generalizzati poco si accoppiano con la sostanziale tenuta dell’euro sul mercato dei cambi: c’è qualcosa di strutturale ed eterodiretto in quanto sta accadendo, in molti stanno beneficiando del cosiddetto incendio in atto e le sole parole di Olli Rehn, Commissario agli affari economici e monetari dell’Ue, non possono essere sufficienti a spiegare questa discrasia in atto.


D’altronde se il destino della Grecia dipendesse dalle banche europee, sarebbero guai seri. Mentre i governi cercano l’accordo su come salvare il salvabile, gli istituti di credito la loro decisione strategica l’hanno infatti già presa: fuggire da Atene. A gambe levate. Stando ai dati della Banca internazionale dei regolamenti, negli ultimi tre mesi del 2009 le banche europee hanno infatti mediamente ridotto l’esposizione sulla Grecia del 29%: dopo lo scoppio in ottobre della crisi, hanno “scaricato” sul mercato 79 miliardi di dollari di debiti targati Atene.


Insomma, le banche sapevano o almeno avevano intuito il rischio, i capoccioni di Bce e Ue no: confortante essere governati da gente del genere.


Questo cosa comporta? Questa fuga ha causato l’impennata dei rendimenti su livelli insostenibili, tanto che ora la Grecia non riesce più a rifinanziare (dunque a rimborsare) i suoi debiti. Fin che questo resta un problema greco non succede nulla, almeno a livello di contagio ma se la stessa fuga contagiasse altri Paesi come Portogallo e Spagna sarebbe un gran brutto segnale.


E sta accadendo, almeno a giudicare dall’impennata dei rendimenti: la fuga da Madrid e Lisbona è già in atto. Anche perché da quando la Bce ha ridotto le sue operazioni di rifinanziamento, le speculazioni con i titoli di Stato (il cosiddetto carry trade) sono diventate meno convenienti.


Ecco, allora, il perché del forte di rischio di contagio: quest’anno gli Stati dovranno emettere tantissimi titoli di Stato, visto che Deutsche Bank stima che il fabbisogno di liquidità di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna sfiori, nell’intero 2010, i 900 miliardi di dollari.


Riusciranno a ottenerlo? È questa, oggi, la domanda da porsi. E il grande rischio che ci sta di fronte. La Borsa di Atene, ieri, è schizzata al +8% dopo il formale ok di Berlino al salvataggio: follia. La stessa che pervade da due anni almeno le azioni di soggetti istituzionali e regolatori, altro che speculazione ed hedge funds, le vere locuste sono le stesse persone che millantano di cercare soluzioni ai presunti danni del libero mercato.


P.S. Le banche spagnole e italiane sono quelle maggiormente esposte verso la cosiddetta “Europa periferica”, mentre la maggiore esposizione delle banche francesi a livello periferico è proprio verso l’Italia: basta un singolo cortocircuito bancario, un errore di intervento e saranno guai davvero, ma davvero seri. L’ultimo outlook di Citi sul debito sovrano, in tal senso, è agghiacciante.