Il debito del governo degli Stati Uniti è attualmente di circa 13.000 miliardi di dollari. Ancora più grave il fatto che il deficit di bilancio annuale del 2009 è stato di 1.400 miliardi di dollari (pari all’11,2% del prodotto interno lordo), superiore anche a quello che si ebbe nel 1942, in piena seconda guerra mondiale.
In ambito pensionistico, la crisi ha creato una vera e propria voragine. Basti pensare che i soli 3 fondi pensione dei dipendenti pubblici della California (che riguardano 2 milioni e mezzo di persone in tutto) hanno riportato tra il giugno 2008 e il giugno 2009 perdite per poco meno di 110 miliardi di dollari. Secondo una ricerca appena pubblicata dalla Stanford University lo squilibrio tra il patrimonio di questi 3 fondi e le prestazioni da erogare ammonta a 500 miliardi di dollari.
Con questa montagna di debito pubblico, è dubbio che gli Stati Uniti possano beneficiare ancora a lungo del rating elevato attuale (tripla A). Lo ha dichiarato la stessa agenzia di rating Moody’s, ipotizzando che in un prossimo futuro gli Usa (al pari della Gran Bretagna) potrebbero subire un abbassamento del loro merito di credito.
Sulla sostenibilità del debito pubblico incidono anche le prospettive dell’economia: che allo stato sono tutt’altro che brillanti, a dispetto di quanto si sente ripetere. La moderata crescita del pil degli ultimi trimestri è attribuibile per due terzi a programmi di stimolo governativi (in particolare agli incentivi per la rottamazione delle auto e ai sussidi per l’acquisto della prima casa): cioè è stata pagata con l’aumento del debito pubblico. Lo stesso vale per la crescita dell’occupazione a marzo, che ha beneficiato di 48.000 posti di lavoro pubblici part-time creati per il censimento.
I numeri visti sopra ci dicono che in questo scenario gli Stati Uniti sarebbero un bersaglio più che plausibile. Per dirla con lo storico Niall Ferguson, oggi “il debito Usa è un riparo sicuro allo stesso modo in cui era considerato un porto sicuro Pearl Harbour nel 1941”.
Tranquilli, l’incendio sta per essere spento! I cervelloni di Bce e Fmi stanno per inviare dei dirigenti in Grecia per studiare la situazione e Barack Obama ha chiamato Angela Merkel convenendo sulla necessità di un’azione veloce ed efficace. Traduzione dal burocratese: alla Bce si sono resi conto che il giochino tedesco sta sfuggendo di mano e cercano una soluzione rapida, la quale sarà sicuramente tardiva e insufficiente.
Due potenziali bancarottieri politici si chiamano per decidere le prossime mosse: non prendiamoci in giro. Le società di rating, in mano alle banche e all’establishment Usa, per due anni non si sono resi conti della crescita esponenziale del debito privato delle banche, la cosiddetta “leva” e ora, invece, sono diventate precisissime e puntualissime nel punire l’eccesso di debito degli Stati.
I quali, è vero, hanno truccato o gonfiato i conti ma non meritano di essere massacrati: vanno messi in riga, questo sì ma non per far fare soldi a chi sta scommettendo allo scoperto sul crollo e sulle oscillazioni delle piazze finanziarie. Appare infatti un po’ poco credibile che il declassamento del rating sul debito spagnolo effettuato l’altro giorno da S&P sia arrivato a mezz’ora dalla chiusura dell’indice Ibex, crollato poi del 3%.
Stanno volontariamente utilizzando la crisi per rifarsi dell’esposizione greca: le banche, i soggetti istituzionali, in questi giorni si stanno comportando in maniera alle soglie della delinquenzialità.
Fanno pagare ai contribuenti, attraverso i salvataggi di Fmi e Ue, la contabilità allegra di Grecia, Spagna e altri e nel frattempo fanno incetta di cds e utilizzano le società di rating, che controllano, per muovere i corsi azionari in modo a loro favorevole.
Non fatevi ingannare dai titoli degli istituti che crollano: le banche, ormai, fanno solo investment banking e quindi hanno un portafoglio di investimenti da portare avanti, i loro bilanci se li fanno mettere a posto dagli Stati - vedi la Germania - e poi fanno profitti sul mercato drogato del debito e delle certificazioni ad personam delle società di rating.
La Grecia, infatti, è di fatto già insolvente e una ristrutturazione del debito, seria, sarà presto necessaria: un default porterebbe con sé, infatti, un duplice effetto. Perdite pesantissime per le istituzioni finanziarie che detengono titoli di debito greco e rischio di contagio, di fatto già partito, verso Portogallo, Spagna, Irlanda e in ultima istanza, Italia in un perverso effetto domino.
Il problema sostanziale è che un peggioramento del debito e quindi un’ulteriore avversione dei mercati porterà con sé, inevitabilmente, il crollo del valore degli assets a livello globale: fatto, questo, che potrebbe contemplare un calo della crescita, almeno negli Stati Uniti, attorno al 2% in base a calcoli compiuti da Nouriel Roubini.
La Grecia, nei fatti, è oggettivamente la punta dell’iceberg, però i crolli generalizzati poco si accoppiano con la sostanziale tenuta dell’euro sul mercato dei cambi: c’è qualcosa di strutturale ed eterodiretto in quanto sta accadendo, in molti stanno beneficiando del cosiddetto incendio in atto e le sole parole di Olli Rehn, Commissario agli affari economici e monetari dell’Ue, non possono essere sufficienti a spiegare questa discrasia in atto.
D’altronde se il destino della Grecia dipendesse dalle banche europee, sarebbero guai seri. Mentre i governi cercano l’accordo su come salvare il salvabile, gli istituti di credito la loro decisione strategica l’hanno infatti già presa: fuggire da Atene. A gambe levate. Stando ai dati della Banca internazionale dei regolamenti, negli ultimi tre mesi del 2009 le banche europee hanno infatti mediamente ridotto l’esposizione sulla Grecia del 29%: dopo lo scoppio in ottobre della crisi, hanno “scaricato” sul mercato 79 miliardi di dollari di debiti targati Atene.
Insomma, le banche sapevano o almeno avevano intuito il rischio, i capoccioni di Bce e Ue no: confortante essere governati da gente del genere.
Questo cosa comporta? Questa fuga ha causato l’impennata dei rendimenti su livelli insostenibili, tanto che ora la Grecia non riesce più a rifinanziare (dunque a rimborsare) i suoi debiti. Fin che questo resta un problema greco non succede nulla, almeno a livello di contagio ma se la stessa fuga contagiasse altri Paesi come Portogallo e Spagna sarebbe un gran brutto segnale.
E sta accadendo, almeno a giudicare dall’impennata dei rendimenti: la fuga da Madrid e Lisbona è già in atto. Anche perché da quando la Bce ha ridotto le sue operazioni di rifinanziamento, le speculazioni con i titoli di Stato (il cosiddetto carry trade) sono diventate meno convenienti.
Ecco, allora, il perché del forte di rischio di contagio: quest’anno gli Stati dovranno emettere tantissimi titoli di Stato, visto che Deutsche Bank stima che il fabbisogno di liquidità di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna sfiori, nell’intero 2010, i 900 miliardi di dollari.
Riusciranno a ottenerlo? È questa, oggi, la domanda da porsi. E il grande rischio che ci sta di fronte. La Borsa di Atene, ieri, è schizzata al +8% dopo il formale ok di Berlino al salvataggio: follia. La stessa che pervade da due anni almeno le azioni di soggetti istituzionali e regolatori, altro che speculazione ed hedge funds, le vere locuste sono le stesse persone che millantano di cercare soluzioni ai presunti danni del libero mercato.
P.S. Le banche spagnole e italiane sono quelle maggiormente esposte verso la cosiddetta “Europa periferica”, mentre la maggiore esposizione delle banche francesi a livello periferico è proprio verso l’Italia: basta un singolo cortocircuito bancario, un errore di intervento e saranno guai davvero, ma davvero seri. L’ultimo outlook di Citi sul debito sovrano, in tal senso, è agghiacciante.