E una guerra come quella in Afghanistan, senza fine nè prospettive di vittoria, può solo contribuire ad aumentare nei soldati yankee il sentimento di frustrazione e inutilità che si traduce, una volta rientrati in patria, in (auto) emarginazione sociale e voglia di farla finita.
Al già cospicuo numero di soldati caduti in combattimento nella “guerra al terrore” inaugurata nell’autunno del 2001, le forze armate statunitensi devono aggiungere un’altra drammatica statistica che si sottrae spesso all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica.
A preoccupare i vertici politici e militari di Washington c’è, infatti, il numero sempre crescente di suicidi commessi dai reduci dei conflitti in Afghanistan e in Iraq.
Nonostante i ripetuti tentativi di negare il nesso tra il disagio che conduce a gesti estremi e i metodi di addestramento e le esperienze traumatiche vissute sul campo di battaglia, appare evidente come sia proprio lo sforzo bellico degli USA a produrre conseguenze devastanti sulla psiche di migliaia di giovani americani e sui destini delle loro famiglie.
Secondo le cifre ufficiali, a partire dall’invasione dell’Afghanistan fino all’estate del 2009, l’esercito americano ha perso 761 soldati in combattimento. Nello stesso periodo, il numero dei militari in servizio che si sono tolti la vita ammonta invece a 817.
Più nel dettaglio, come ha rivelato un recente articolo del settimanale Army Times basato sui dati del Dipartimento degli Affari per i Veterani, in media i reduci che tentano il suicidio ogni mese sono 950. Questo numero, peraltro, considera esclusivamente quei veterani che ricevono una qualche assistenza psicologica dallo stesso dipartimento governativo.
Ancora, il sette per cento dei tentativi di suicidio vanno a buon fine, mentre l’undici per cento di quanti non riescono e togliersi la vita la prima volta, riprovano nuovamente entro nove mesi. Complessivamente, sono 18 i reduci delle guerre americane che si suicidano ogni giorno.
A sottolineare la gravità della situazione e l’inutilità dello sforzo delle alte gerarchie dell’esercito per porre un freno a questa strage silenziosa, c’è poi il progressivo aumento del numero dei suicidi negli ultimi anni.
Il tasso di suicidi tra i militari dal 2001 al 2006 è addirittura raddoppiato, malgrado tra la popolazione civile sia rimasto invariato. Nel 2009, 160 militari in servizio attivo si sono tolti la vita, contro i 140 del 2008 e i 77 del 2003.
L’accesso alle cure del Dipartimento dei Veterani sembra avere una certa incidenza sul contenimento del numero dei suicidi. Anche tra di essi, però, lo scorso anno si sono registrati oltre 1.600 tentativi e la hotline dedicata, istituita dal Dipartimento, riceve qualcosa come dieci mila richieste di aiuto ogni mese.
Uno dei fattori scatenanti questo malessere diffuso è senza dubbio il ripetuto invio dei soldati nei teatri di guerra e il conseguente accorciamento del periodo di riposto (“dwell time”) di un esercito interamente composto da volontari.
Per la maggior parte della durata dei conflitti in Afghanistan e Iraq, la smobilitazione momentanea dei soldati impiegati al fronte è stata di un anno, mentre attualmente è stata estesa a poco meno di due anni.
Secondo gli psicologi, tuttavia, sarebbero necessari almeno tre anni per alleviare lo stress prodotto dal servizio in una zona di guerra. L’unica soluzione - a parte il ritiro di tutte le truppe - sarebbe dunque quella di aumentare ulteriormente il numero dei soldati inviati al fronte, una strada difficilmente percorribile vista l’impopolarità delle due guerre attualmente sostenute dagli Stati Uniti.
La risposta all’ondata di suicidi da parte della autorità militari e politiche si è finora limitata, nel migliore dei casi, all’impiego di una schiera di psicologi. In molti casi, però, si continua a fare ricorso soltanto a massicce prescrizioni di farmaci che stanno creando numerosissimi casi di dipendenza.
Una delle vicende più sconcertanti è stata portata alla luce da un articolo del New York Times, nel quale venivano descritte le condizioni in cui versavano i reduci ospedalizzati presso una struttura dell’esercito a Fort Carson, nel Colorado. Qui, come in altre strutture, i soldati venivano praticamente lasciati a loro stessi, trattati a psicofarmaci e liberi di accedere ad alcool e sostanze stupefacenti.
Se la connessione tra lo svolgimento del servizio in situazioni di fortissimo stress in zone di guerra e l’alto tasso di suicidi appare sufficientemente chiaro, non così sembra ai comandanti militari. In una audizione al Senato a marzo, infatti, il responsabile della sanità per l’esercito americano, generale Eric Schoomaker, aveva attribuito il fenomeno in gran parte alle precedenti situazioni familiari problematiche dei soldati stessi.
Situazioni che effettivamente ricorrono molto spesso nei casi di suicidi, ma quasi sempre create proprio dall’impatto psicologico dovuto allo svolgimento del servizio in una zona di guerra.
Le difficoltà dei vertici militari a riconoscere pubblicamente le ragioni di una tale situazione traspaiono anche da molte altre dichiarazioni ufficiali. Tra di esse, quelle del numero uno dell’esercito, generale George Casey, di fronte ad una commissione della Camera dei Rappresentanti, e del Segretario dell’Esercito, John McHugh, al Senato.
Il primo non riusciva a capacitarsi del fallimento dei provvedimenti messi in atto per prevenire il dilagare dei suicidi, mentre il secondo faticava a comprendere le ragioni di questi gesti disperati.
Per entrambi, c’è da credere, i motivi vanno infatti ricercati in una condizione “patologica” precedente all’arruolamento piuttosto che nelle condizioni estreme in cui i soldati vengono addestrati ed impiegati sul campo.
Proprio le tecniche di addestramento sono state prese in considerazione da uno psicologo dell’Università del Texas ed ex ufficiale dell’aeronautica americana. Secondo il professor Craig Bryan, i militari si troverebbero cioè vittime di una situazione senza via d’uscita.
“Addestriamo i nostri combattenti all’uso controllato della violenza e dell’aggressività, a reprimere qualsiasi reazione emozionale troppo forte di fronte alle avversità, a sopportare il dolore fisico ed emotivo e a superare la paura delle ferite e della morte”, ha affermato Bryan in un’intervista a Time.
Queste cosiddette qualità, mentre risultano necessarie in combattimento, “sono associate al rischio di suicidio. Esse non possono essere rimosse senza avere conseguenze negative sulle capacità dei nostri militari in guerra”.
Il suicidio, in sostanza, per i militari non sarebbe altro che un inevitabile inconveniente del loro stesso mestiere. L’esperienza della guerra, inoltre, contribuisce a diminuire la paura della morte. E il facile accesso alle armi può risultare fatale.
Per quanto sia la più drammatica, il suicidio non è l’unica conseguenza negativa che attende i veterani dell’Iraq e dell’Afghanistan una volta rimpatriati. Per molti di essi, il trauma della guerra si traduce in enormi difficoltà di reinserimento nella società civile.
Tra i reduci americani, ad esempio, la percentuale di disoccupati è di circa il 50% superiore a quella ufficiale. Centinaia di migliaia sono anche i senza tetto costretti a vivere per strada.
Queste, in definitiva, sono le conseguenze nascoste che gli strati più deboli della società sono costretti a pagare e che si nascondono dietro la retorica di una guerra “giusta”, combattuta per la democrazia e contro la minaccia terroristica in paesi lontani.
La strage dei reduci suicidi
di Paolo Maccioni - E Polis - 28 Aprile 2010
Ogni giorno negli Usa diciotto veterani, perlopiù reduci di guerra, si suicidano. Lo riferisce «Army Times», settimanale di militari diffuso fra gli operatori delle forze armate negli Stati Uniti. Ogni giorno sono in trenta a tentare il suicidio, diciotto dei quali, appunto, ci riescono.
Degli altri dodici, meno di cinque ricevono assistenza da Veterans Affairs, considerato uno dei migliori programmi sanitari del paese.
Quelli dei reduci rappresentano oltre un quinto dei 30mila suicidi annuali degli Usa. Valori in crescita dovuti ovviamente alle prolungate guerre in Iraq e Afghanistan e all’alto numero di veterani che tornano in patria con disordini da stress post-traumatico, depressione ed altri disturbi mentali.
A monte del suicidio la difficoltà a ritornare alla vita di tutti i giorni, aggravata nelle fasce etniche svantaggiate. Circa il 56% dei veterani senzatetto sono afroamericani o ispanici benché costituiscano il 28% della popolazione Usa, rispettivamente il 13 e 15 %.
Secondo l’Associated Press un homeless su quattro negli Usa è un reduce di guerra. E non è un problema solo dei più anziani, ma riguarda anche molti giovani rientrati dell’Iraq e dell’Afghanistan, sia uomini che donne.
«Quando si pensa ai reduci di guerra senzatetto non viene in mente una donna ispanica con figli» osserva Paul Rieckhoff, fondatore e direttore di “Veterani americani d’Iraq e Afghanistan”. «Tuttavia la nuova generazione di veterani è sempre più rappresentata da donne.»
Donne e minoranze etniche: ecco su chi grava la guerra in patria.
Il pantano afgano
di Michele Paris - Altrenotizie - 4 Maggio 2010
A conferma del progressivo deteriorarsi della situazione in Afghanistan per le truppe della NATO, è giunto la settimana scorsa un dettagliato rapporto del Pentagono commissionato dal Congresso americano.
In 150 pagine, sono stati gli stessi analisti del Dipartimento della Difesa a mettere impietosamente in evidenza la crescente espansione dell’influenza talebana nel paese e la scarsa fiducia della popolazione civile nel governo-fantoccio del presidente Hamid Karzai.
Lo studio del Pentagono, nonostante lasci comprensibilmente intravedere qualche spiraglio per le forze alleate occidentali, contraddice in maniera lampante la retorica dei vertici militari e politici statunitensi sull’efficacia di uno sforzo militare che ha dato il via a nuove sanguinose operazioni negli ultimi mesi dopo l’aumento di truppe voluto da Obama.
Una volta perfezionata la strategia della Casa Bianca entro il prossimo mese di agosto, saranno infatti circa 30 mila i soldati che raggiungeranno l’Afghanistan, portando a centomila il totale degli americani impiegati.
La valutazione interna arriva in seguito all’offensiva lanciata dagli USA nella provincia meridionale di Helmand e alla vigilia di una nuova e più imponente operazione attorno alla città di Kandahar, vera e propria capitale spirituale dei Talebani.
Secondo il Pentagono, la prima iniziativa ha ottenuto qualche risultato positivo, anche se gli insorti avrebbero immediatamente infiltrato loro uomini nelle strutture locali, persuadendo gran parte della popolazione a non collaborare con il governo afgano e l’esercito occupante.
Proprio nelle regioni meridionali del paese, i talebani godono di un vasto supporto tra la popolazione, tanto che il rapporto ammette che qui il movimento di resistenza difficilmente potrà essere sconfitto del tutto.
Piuttosto, nella migliore delle ipotesi, sembra ci si dovrà accontentare di contenerlo nel lungo periodo, per evitare che minacci l’esistenza stessa del governo Karzai. Significativamente, tra i 121 distretti afgani più importanti al fine della stabilizzazione del paese, in ben 92 la popolazione risulta complessivamente ben disposta verso i Talebani.
Questi ultimi, oltre a mostrare un livello di sofisticazione sempre maggiore nel condurre le proprie operazioni di guerriglia, non si limitano ad intimidire le popolazioni locali. Bensì, i governatori-ombra da loro designati, contribuiscono a garantire un certo grado di giustizia e qualche servizio sociale in aree dove il governo centrale è pressoché totalmente assente.
Sfruttando la frustrazione diffusa tra la gente comune, i Talebani trovano inoltre terreno fertile per reclutare forze nuove nella loro battaglia contro gli occupanti. A ciò vanno aggiunte le accuse - quasi sempre fondate - rivolte verso la corruzione dilagante tra i rappresentanti delle istituzioni locali e del governo di Kabul. Accuse che vengono propagate in maniera massiccia grazie a efficaci campagne di informazione e propaganda.
In risposta, almeno in parte, all’aumento del contingente NATO in Afghanistan, tra febbraio 2009 e marzo 2010 il livello di violenza è aumentato poi addirittura dell’87%. Da parte americana, come se non bastasse, ci si attendono ulteriori passi avanti da parte dei ribelli nell’impiego dei cosiddetti “Ordigni esplosivi improvvisati” (IED) nei prossimi mesi. I Talebani hanno d’altra parte facile accesso ad armi ed esplosivi vari, così da potersi assicurare “efficaci mezzi” di sussistenza per le loro operazioni militari.
Un punto molto controverso del rapporto del Pentagono riguarda invece il numero di decessi causati dalle forze occupanti. Secondo gli americani, le vittime civili afgane sarebbero diminuite nell’ultimo anno, mentre la maggior parte di esse avverrebbe perché i Talebani utilizzano i civili stessi come scudi umani.
Secondo alcuni media americani, tuttavia, i primi mesi del 2010 avrebbero fatto segnare un drammatico aumento delle vittime civili causate dai militari americani e dai loro alleati. Esse sarebbero state 87 durante i primi tre mesi del 2010, contro le 29 dello scorso anno durante lo stesso periodo di tempo.
Alla luce delle recenti rivelazioni sui ripetuti tentativi di insabbiamento delle stragi compiute dalle forze NATO ai danni di civili - donne e bambini compresi - c’è da ritenere peraltro che tali cifre siano abbondantemente sottostimate. La questione risulta di cruciale importanza, poiché la morte di civili innocenti si traduce in ulteriore avversione nei confronti degli americani e in sostegno per gli insorti.
Tanto più che all’indomani della nomina a comandante delle forze alleate in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, lo scorso anno aveva individuato nel contenimento del numero delle vittime civili l’obiettivo prioritario per costruire un rapporto di fiducia con la popolazione locale.
Mentre i vertici militari alleati promettono che a breve ci saranno inevitabilmente altre numerose vittime nelle operazioni a Kandahar, suscitando così nuove ostilità verso gli americani, il Pentagono si aspetta progressi da parte dei Talebani anche in aree del paese dove nel recente passato la loro presenza era stata relativamente modesta.
Si tratta delle province dell’Afghanistan settentrionale e occidentale, dove la strategia dei ribelli sarà mirata a ridurre la partecipazione alle elezioni per il rinnovo del parlamento previste per il prossimo settembre.
A completare una valutazione decisamente più negativa rispetto alle analisi del recente passato, il Dipartimento della Difesa americano ha infine lanciato segnali poco incoraggianti anche per quanto riguarda le prospettive delle forze di sicurezza afgane.
L’addestramento dell’esercito e della polizia locali rappresentano un momento fondamentale per procedere con un eventuale ritiro delle truppe della NATO, come chiedono da tempo gli elettori occidentali ai loro governi.
Gli sforzi per la creazione di un esercito nazionale efficiente hanno prodotto però progressi molto modesti nell’ultimo anno, rendendo tuttora indispensabile la presenza nel paese delle forze NATO ai fini della sopravvivenza stessa del fragile e screditato governo Karzai.