Un narco-Stato in mano alla criminalità organizzata e sotto tutela internazionale, soprattutto yankee.
Kosovo, la risposta più attesa
di Christian Elia - Peacereporter - 10 Maggio 2010
Rinvenuti in una fossa comune in Serbia 250 cadaveri albanesi uccisi nel 1999
Sono almeno 250 le vittime sepolte nella fossa comune rinvenuta oggi nel vilaggio di Rudnica, a sud di Raska, in Serbia, a pochi chilometri dal confine con il Kosovo. Sarebbero tutti albanesi, uccisi e sepolti durante il conflitto nella provinicia serba a maggioranza albanese nel 1999.
L'uffcio del pubblico ministero che indaga sulla vicenda a Belgrado ha confermato la notizia.
"Faremo il possibile per estrarre tutti i corpi e riconsegnarli alle famiglie nel minor tempo possibile", ha dichiarato Bruno Vekaric, portavoce dell'ufficio serbo che indaga sui crimini di guerra.
La fossa comune è stata individuata grazie al contributo degli uomini della missione Ue che opera in Kosovo e, secondo Vekaric, "rappresenta la prova che la Serbia intende stabilire la verità su tutti i crimini di guerra avvenuti, indipendentemente dalla nazionalità degli assassini o delle vittime".
Durante il conflitto, nel 1999, centinaia di albanesi furono trasportati in Serbia, uccisi e sepolti in fosse comuni. Quella di Raska, secondo la tv pubblica serba, è la sesta ad essere rinvenuta dal 2000, anno della caduta di Slobodan Milosevic, presidente serbo all'epoca del conflitto e morto in carcere all'Aja nel 2006.
Il rinvenimento di oggi non ha un grande valore solo per le famiglie che, dopo undici anni, potranno finalmente avere i resti dei loro cari scomparsi durante il conflitto. La sensazione, rispetto agli ultimi mesi, è quella che una nuova stagione del dialogo si sta inaugurando tra la magistratura serba e quella albanese. Gli scavi a Rudnica, infatti, arrivano dopo due anni di voci attorno a una costruzione che secondo alcuni testimoni dell'epoca venne eretta sul luogo della fossa comune alla fine della guerra.
Adesso si scava davvero, però. Dal 2001 in poi sono stati almeno 800 i cadaveri albanesi rinvenuti in varie zone della Serbia, ma tutto si era poi fermato. Con il costante avvicinamento della Serbia e dell'Albania nell'orbita euroatlantica, sia Belgrado che Tirana sono sottopresisone per chiuderele tensioni tra di loro, passo fondamentale per la distenione futura tra Kosovo e Serbia.
In quest'ottica si può leggere l'arresto, avvenuto a Kukes in Albania il 6 maggio scorso, di Sabit Geci. L'uomo è un ex miliziano dell'Uck, ritenuto un elemento chiave all'epoca della guerra nella rete che ha rapito ed eliminato cittadini serbi. I servizi di sicurezza di Tirana, in questi undici anni, hanno sempre saputo dove si trovasse Geci, ma solo adesso lo arrestano.
Vekaric, a margine della conferenza stampa sulla fossa comune di Rudnica, ha aggiunto: "Speriamo, inoltre, che questo sia il modo migliore per inaugurare una stagione del dialogo e per dare una risposta alle circa 500 famiglie serbe che aspettano una risposta".
Questa risposta potrebbe essere quella della cosidetta Casa Gialla, l'abitazione della famiglia Katuci, nel nord del'Albania. L'ex procuratore del tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia Carla Del Ponte è convinta che vi siano stati detenuti serbi, durante e dopo la guerra, ai quali sono stati espiantati organi finiti poi nel traffico internazionale. Le loro famiglie, come quelle di tuti i desaparecidos, meritano una risposta.
I clan dell'attuale e dell'ex premier coinvolti in omicidi. Il traffico di organi e di droga. L'Onu sapeva e ha insabbiato. Lo dimostrano alcuni documenti ora ritrovati
Pristina
Il 2 giugno per la prima volta il Kosovo invierà un suo rappresentante alla conferenza Ue-Balcani di Sarajevo, e le cancellerie occidentali sono pronte ad accoglierlo in vista dell'obiettivo finale: l'ingresso di Pristina nell'Unione europea. Quello che gli ambasciatori faranno finta di non sapere è che dopo i bombardamenti del 1999 le Nazioni Unite hanno affidato l'intero Stato alla mafia.
Le prove sono in una stanza al primo piano della procura di Pristina tra decine di faldoni con un elastico legato attorno e la scritta "closed". Sono le indagini archiviate dai magistrati Onu l'8 dicembre 2008, ventiquattro ore prima di lasciare il Kosovo nelle mani degli europei.
Nel marzo del 2009 un funzionario dell'Eulex, la missione europea che amministra il Paese, entra nella stanza e si mette a curiosare tra i fascicoli. Nelle sue mani finisce il caso hpq 215/2002, o meglio uno stralcio di quel processo che vede come unico imputato Ramush Haradinaj, l'ex premier del Kosovo e attuale leader del partito AAK. È accusato di aver assalito insieme alle sue milizie la casa di un clan rivale a colpi di Kalashnikov.
«Le prove contenute nel fascicolo sono schiaccianti», rivela il funzionario, «ci sono foto, testimonianze, bossoli e persino le tracce del sangue degli aggressori». Il 26 settembre del 2002 quel faldone è stato spedito dai giudici Onu di Pec alla Procura di Decani e lì dimenticato per sette anni. «Le Nazioni Unite », aggiunge il funzionario, «hanno insabbiato i processi contro i politici e passato solo 35 faldoni ai giudici europei». Le prove del lavoro di copertura dei crimini da parte dell'Onu sono pubblicate nel libro "Lupi nella nebbia".
Ci sono i rapporti di intelligence nei quali si spiega che Haradinaj è il principale trafficante di eroina del Paese, il suo ruolo nell'omicidio di testimoni scomodi o di poliziotti che indagavano sui suoi affari, e soprattutto le prove che le Nazioni Uniti erano perfettamente a conoscenza di aver affidato il Kosovo nella mani di una delle più feroci costole della mafia albanese.
Le indagini insabbiate non riguardano solo Haradinaj. Un'inchiesta coinvolge Lufti Dervishi, fedelissimo del premier Hashim Thaqi. Nel 2005 gli inquirenti Onu hanno la possibilità di interrompere un traffico di organi da centinaia di milioni di dollari: documenti riservati provano che i finanzieri dell'Onu avevano scoperto eccesive forniture di sangue ad alcune cliniche private che operavano a Pristina, in particolare alla Medicus dove Dervishi lavorava come primario. I rapporti sottolineano «l'alto numero di richieste di sangue indirizzato al Centro per le trasfusioni », la necessità di realizzare dei controlli.
L'ombra del traffico di organi stava su quei documenti che chiedevano alle Nazioni Unite di proseguire le indagini. «Invece ci siamo arrivati per puro caso», spiega il procuratore europeo Francesco Mandoi: «Un cittadino turco a cui era stato asportato un rene è svenuto all'aeroporto di Pristina e ci ha rilasciato una confessione ».
Le manette scattano oltre che per Dervishi, anche per altre due persone e la clinica viene chiusa. Si innesca un terremoto politico e giudiziario. «Dalle nostre indagini il traffico è accertato in almeno cinque casi», aggiunge Mandoi. «Ne stiamo verificando altri 25. In Kosovo arrivano centinaia di disgraziati da paesi come Turchia o Kazakhstan, pronti a farsi espiantare i propri organi per poche migliaia di euro. A pagare sono ricchi uomini e donne occidentali. Avviene tutto a Pristina, con la complicità dei politici locali. Dervishi è uomo di Thaqi».
In Kosovo non c'è uomo in posizione chiave che non risponda ai clan. Un legame quasi familistico, eredità dell'Uck, l'esercito di liberazione. Durante la guerra questi uomini svolgevano attività criminali per finanziare la resistenza, adesso operano per conto degli ex capi, consolidano il potere, finanziano le campagne elettorali, comprano o uccidono avversari.
Anche il sindaco di Skenderaj Sami Lustaku è un uomo di Thaqi. Secondo un rapporto Osce è «membro dell'organizzazione terroristica AKSK e coinvolto in numerose attività criminali».
Il 14 novembre del 2005, alla presenza di tre poliziotti, il sindaco-soldato minaccia di morte un giudice che sta eseguendo lo sfratto di due locali. Il rapporto è un atto d'accusa durissimo verso le Nazioni Unite.
Svela che Lustaku viene avvertito dagli investigatori di essere intercettato, denuncia che un commissario Onu blocca una perquisizione nella casa di Lushtaku per il rischio di «destabilizzare il Kosovo» e per paura di trovare le prove del coinvolgimento di Lushtaku in altri crimini.
Il documento sottolinea come questo «metterebbe ufficiali di alto livello dell'Onu in una brutta posizione ». «La questione che solleva più preoccupazioni», si legge, «è il fatto che l'interferenza con il lavoro dei giudici da parte di funzionari delle Nazioni Unite non è un caso isolato, piuttosto sembra essere una pratica utilizzata da lungo tempo».
E cita altri due casi in cui ordini di perquisizione non sono mai stati eseguiti e in cui indagini per crimini anche più gravi rispetto a quelli imputati a Lushtaku sono state «seriamente impedite dai vertici dell'Onu ».
Il documento OSCE punta l'indice contro l'ex numero due delle Nazioni Unite Steven Schook, attuale consigliere politico di Haradinaj. Secondo il rapporto, nel 2006 Schook decide che tutte le indagini che possono «destabilizzare» il Kosovo devono avere la sua autorizzazione.
Non è finita. Gli investigatori europei in questi giorni stanno ascoltando le confessioni di Nazim Bllaca, un agente dei servizi segreti del premier Thaqi che si è autoaccusato dell'omicidio di 17 oppositori politici. Non dovrebbe essere complicato intuire per conto di chi ha operato il killer Bllaca.
Sarà più difficile trovare qualche ambasciatore interessato ad ascoltare la storia dei dieci anni di amministrazione Onu. Gli anni in cui trafficanti, assassini e mafiosi si sono presi il Kosovo.
Pizza Unmik
di Marjola Rukaj - www.balcanicaucaso.org - 10 Maggio 2010
Internazionali e locali in Kosovo: due mondi paralleli che faticano a comunicare, per l'esistenza di stereotipi e pregiudizi reciproci. Sul tema, il drammaturgo kosovaro Jeton Neziraj ha dato vita ad una corrispondenza con la collega tedesca Kathrin Röggla, ora raccolta sotto il titolo di “Pizza Unmik”
Jeton Neziraj (1977), direttore artistico del Teatro Nazionale di Pristina, è uno dei drammaturghi oggi più attivi in Kosovo. Sensibile alla realtà contemporanea, ha spesso posto al centro del suo lavoro i rapporti tra kosovari albanesi, kosovari serbi e i funzionari internazionali presenti in Kosovo. Proprio sulla percezione dei funzionari internazionali, nel corso dell'ultimo anno, Neziraj ha dato vita ad una corrispondenza con la drammaturga tedesca Kathrin Röggla, sfociata poi in un progetto comune.
Intitolato “Pizza Unmik”, il lavoro è stato presentato alla Fiera del Libro di Lipsia, dove è stato accolto con notevole interesse dal pubblico e dalla stampa tedesca, e a breve verrà adattato in forma teatrale. “Pizza Unmik” descrive lo sfaccettato e non sempre facile rapporto tra chi vive in Kosovo e gli internazionali, le cui vite sembrano spesso svolgersi in mondi paralleli, che faticano a comunicare per l'esistenza di stereotipi e pregiudizi reciproci.
Come nasce “Pizza Unmik”?
“Pizza Unmik” è il titolo della corrispondenza che ho avuto con la drammaturga tedesca Kathrin Röggla. Prende spunto dalle distinzioni tra i locali e gli internazionali in Kosovo. In una delle lettere spiegavo alla mia collega tedesca che i numerosi internazionali che vivono e lavorano in Kosovo frequentano bar e ristoranti diversi da quelli che frequentano i kosovari, e che lì tutto viene chiamato in maniera diversa. Ad esempio un tipo di pizza che per i kosovari si chiama “Pizza Pristina”, nei locali degli internazionali diventa “Pizza Unmik”. Il titolo è piaciuto al Goethe Institut, che ci ha sostenuto, e abbiamo pensato di sceglierlo per il nostro progetto.
Com'è nata la corrispondenza con Kathrin Röggla sugli internazionali in Kosovo?
La corrispondenza è nata nell'ambito di Hotel Pristina, un progetto del Büro für kulturelle Angelegenheite di Berlino, in collaborazione con il Qendra Multimedia di Pristina, e con il sostegno del Goethe Institut di Belgrado. Il tema della corrispondenza ruotava intorno al ruolo delle ONG internazionali e delle missioni internazionali in Kosovo. Abbiamo voluto indagare sul loro modo di vivere e sul loro rapporto con la cultura locale, sul modo in cui questi due mondi convivono. Di fatto, sul campo si registra la coesistenza di due mondi paralleli. Ne abbiamo parlato spesso, non senza cinismo.
Di solito di ONG internazionali si parla e si discute in termini completamente diversi, che hanno per lo più a che fare con l'impatto sulla società nella quale operano e sull'ammirevole lavoro che svolgono. In seguito i “mercenari sociali” delle ONG - come li definisce la Röggla - scrivono libri e brochure sui paesi in cui hanno lavorato, di solito dai toni patetici, in cui vengono descritte le condizioni e la miseria del paese, degli abitanti locali, e i loro difetti. Di solito, però, il punto di vista dei locali è totalmente assente...
Come vengono percepiti gli internazionali da parte dei kosovari?
E' difficile rispondere brevemente a questa domanda. Nella mia corrispondenza con la Röggla ho elencato alcuni degli epiteti e descrizioni ciniche che si sono ormai consolidati come stereotipi dei kosovari sugli internazionali. Ad esempio si dice che gli internazionali mangiano troppo, che guadagnano tantissimo, che frequentano prostitute, che sono omosessuali, che per loro serbi e albanesi sono indistintamente vittime e criminali, che bevono birre con grandi boccali, che fanno sesso con le loro interpreti locali, che sono spie, che lavorano per l'interesse della Serbia, che ti possono procurare un visto in quattro e quattro otto, che sono falliti che non riescono a trovare lavoro nel proprio paese, che amano mangiare insalate e verdure come le mucche, che causano incidenti stradali senza sentirsi responsabili davanti a nessuno, che trovano imperfetto tutto ciò che è locale, che trattano i kosovari come se fossero una tribù delle giungle africane. Su di loro circolano numerose barzellette, spesso stilisticamente molto colorite.
E come vengono percepiti i kosovari da parte degli internazionali?
Penso che anche loro abbiano degli stereotipi cinici sui kosovari. Però sarebbe meglio rivolgere questa domanda a loro. Non si può non notare come spesso vengano in Kosovo convinti che si troveranno di fronte ad un paese al collasso e gente incolta e incivile.
Come si sono creati questi due mondi paralleli?Inizialmente i kosovari vedevano negli internazionali i loro salvatori, con un approccio quasi messianico...
Indubbiamente, all'indomani del conflitto, c'era enorme rispetto per il lavoro degli internazionali. E' normale: il Kosovo era all'epoca una società distrutta e si aveva bisogno di sostegno per ricostruire tutto, sia in senso economico che psicologico. L'entusiasmo dei kosovari era anche conseguenza dell'aiuto della NATO al Kosovo durante il conflitto. Col passare del tempo, però, la gente ha notato che proprio la missione dell'Unmik sembrava rendere più difficile lo sviluppo. I kosovari hanno iniziato a sentirsi infastiditi da questi tutor internazionali, pagati circa 20 volte più dei locali, spesso per svolgere lo stesso lavoro.
Molti internazionali hanno iniziato ad abusare dell'accoglienza dei kosovari con il loro comportamento: le jeep bianche che guidano con arroganza gli uomini dell'Unmik sono diventate sinonimo di colonizzazione agli occhi dei kosovari. All'Unmik sono stati assegnati i migliori edifici: Pristina si è trasformata in una città fantasma, con le sedi dell'Unmik recintate da grossi blocchi di cemento, o filo spinato, ermetiche ed inaccessibili ai comuni cittadini.
I mondi paralleli non sono una novità in Kosovo... Quanto incide sulla percezione reciproca tra kosovari e internazionali la lunga esistenza della società parallela durante il regime di Milošević?
C'è un'enorme differenza tra i mondi paralleli di allora e quelli di oggi. Ma ci sono anche punti in comune. I serbi allora, e gli internazionali oggi, costituiscono una minoranza che governa la maggioranza, cioè gli albanesi. Ma le circostanze sono completamente diverse. Oggi la gente si sente libera e in molti non si curano della presenza degli internazionali. Col passare del tempo, poi, la presenza degli internazionali sta diventando sempre meno visibile.
Molti funzionari dell'Unmik presenti in questi anni in Kosovo sono arrivati da paesi in via di sviluppo. Questo fattore ha influito in qualche modo sulla percezione della missione da parte dei kosovari?
In effetti buona parte del personale Unmik arriva da paesi dell'Asia o dell'Africa che, per molti versi, sono molto più arretrati del Kosovo… Questo ha contribuito sin dall'inizio ad aumentare lo scetticismo e a porre in cattiva luce la credibilità dell’Unmik agli occhi dei kosovari. Faccio un esempio: per un certo periodo la carica di ministro della Cultura nell’ambito dell’Unmik è stato svolto per da un funzionario proveniente da un paese nel quale non esiste alcun ministero della Cultura.
L'arrivo della missione europea Eulex, che ha rimpiazzato di fatto la missione Unmik, ha cambiato la situazione?
Con l'arrivo di Eulex alcune cose sono effettivamente cambiate: questo anche perché la missione è molto più ridotta numericamente rispetto ad Unmik e ha un ruolo meno attivo nell'amministrazione del Kosovo. Nonostante il rispetto che i kosovari nutrono nei confronti dell'Unione europea, però, penso che la maggior parte si sentano stanchi di queste missioni, mentre non si registrano cambiamenti in positivo nella vita di tutti i giorni.
Sotto alcuni aspetti, la nuova missione non è poi molto diversa da quella Unmik. I nuovi arrivati guidano jeep azzurre invece che bianche, ma continuano indisturbati a non rispettare i limiti di velocità. Questo è estremamente irritante perché dà l’impressione che vogliano mostrare con prepotenza la loro superiorità nei confronti degli “imperfetti” kosovari. Inoltre, una parte significativa dello staff di Eulex è stato reclutato all'interno delle fila di Unmik...
Il movimento Vetëvendosje di Albin Kurti, intanto, negli ultimi tempi sembra godere di una crescita di consensi. L'esistenza dei due mondi paralleli incide su questo rafforzamento?
Vetëvendosje mobilita soprattutto i giovani, che sono stanchi del pessimo modo di funzionare delle istituzioni kosovare. Senza dubbio si tratta di un movimento in crescita. Albin Kurti pone dei quesiti fondamentali per il futuro di questo paese, che riguardano tutti noi. Il suo bersaglio principale è da sempre l'Unmik e il suo ruolo in Kosovo: un ruolo da sempre pieno di contraddizioni. Kurti rimane la persona forse più critica e più coraggiosa del Kosovo di oggi. Pone domande sul futuro del Kosovo che rappresentano una sfida per tutti noi, non solo per i funzionari dell'Unmik e delle altre organizzazioni internazionali presenti in Kosovo.
Ma gli internazionali avranno sicuramente portato qualcosa di positivo al Kosovo...
Assolutamente sì. Le cose positive sono tante. Subito dopo la guerra hanno messo ordine e hanno creato le istituzioni base del governo. Sono stati molto attivi e hanno contribuito in molti sensi al processo di democratizzazione e al rispetto dei diritti umani, ad esempio monitorando e organizzando le elezioni. Con la loro presenza hanno poi creato molti posti di lavoro. Su questo non c'è alcun dubbio, e i cittadini kosovari ne sono consapevoli. Hanno anche contribuito ad uno scambio culturale che altrimenti in Kosovo non sarebbe stato possibile.
Cosa rimarrà in Kosovo quando gli internazionali lasceranno il paese?
Rimarranno molte cose: la polvere delle jeep bianche, i ristoranti da loro frequentati vuoti, molti giovani disoccupati... ma soprattutto rimarrà uno Stato, nella creazione del quale gli internazionali, nel bene e nel male, hanno giocato un ruolo indiscutibilmente centrale.