martedì 3 novembre 2009

Update italiota

Qui di seguito un collage di articoli sulle ultime belle novità italiote...


Ciò che si sa di Stefano Cucchi
di Rosa Ana De Santis - Altrenotizie - 3 Novembre 2009

La storia di Stefano Cucchi comincia quando finisce la sua libertà. Sta fumando uno spinello con un suo amico. Subisce un controllo e una perquisizione, gli trovano 18 grammi di hashish, qualche pasticca. Viene fermato e arrestato. E’ sano. Sta bene. Cammina sulle sue gambe. Viene trasferito in una caserma dei carabinieri. Alla famiglia vengono riconsegnate le chiavi della macchina e gli viene detto che trattasi di fermo a soluzione rapida, più una operazione di routine che altro.

Questa sarà la prima delle tre comunicazioni che la famiglia riceverà dalle istituzioni. La seconda li avviserà della detenzione ospedaliera e dell’impossibilità di vederlo senza l’autorizzazione del magistrato; la terza della morte di Stefano. Dev’essere così che va, in un paese dove in 11 mesi sono morte 62 persone in carcere, dove le celle scoppiano, gli istituti somigliano a cayenne e i processi sono bloccati, ma dove si dice che l’emergenza giustizia sono i magistrati “rossi”.

Parlare di questa morte significa, prima di tutto, guardare la morte di Stefano. Le foto che circolano su internet e sulla carta stampata rappresentano uno scomodo imbarazzo, oltre che un significativo ostacolo a tutti i tentativi di chiudere il caso con la teoria dell’accidentalità, del caso fortuito o del decesso naturale. Gli ultimi giorni di vita del giovane detenuto sono scanditi tra carcere e ospedale ed è in questa ricostruzione temporale che sta il centro delle responsabilità e delle colpe.

Le diverse istituzioni chiamate in causa e il luogo in cui Stefano è stato condannato a morte. Le foto di Stefano sono la sola risorsa che ha potuto, finora, disinnescare l’omertà consueta. Come ha scritto Adriano Sofri su La Repubblica, “nessuno è tenuto a guardarle. Ma nessuno è autorizzato a parlare di questa morte senza guardarle”.

Sarà il magistrato a stabilire quali, tra le figure che si sono occupate di Stefano, ha responsabilità dirette o indirette nella sua tragica fine. Stefano ha 31 anni, è epilettico e pesa circa 44 chili, diranno poi. Potrà essere dimostrato un caso di malagiustizia o di malasanità, ma un fatto è certo. Stefano viene arrestato sano e viene ricoverato al Pertini in condizioni gravi. Ha subito colpi durissimi al volto e alla schiena. Perché?

Fino al processo è ancora in piedi, per quanto il volto sia segnato dai colpi ricevuti. Ma nessuno, né i carabinieri che lo accompagnano all’udienza per direttissima, né l’avvocato d’ufficio, né il giudice stesso, che pure ordina di visitarlo, chiedono ragione di quei segni sul viso. Solo il padre, che ha tempo unicamente per abbracciarlo, senza sapere che sarà per l’ultima volta, nota le percosse. Viene ordinata la custodia cautelare perché, si dice, senza fissa dimora. Non è vero, la dimora ce l’ha ed è quella dei genitori, dove i carabinieri hanno citofonato per avvisarli dell’arresto.

Sarà il medico del carcere che, nonostante (almeno così dicono) Stefano rifiuti il ricovero, stabilisce che la sua condizione fisica vada accertata in un reparto ospedaliero, ritenendo quel corpo martoriato incompatibile con il regime carcerario. La domanda è semplice: in che condizioni Stefano giunge in carcere dopo il processo? Le stesse in cui versava in aula o sono ulteriormente peggiorate?

Dopo la lettura della sentenza, che confermava il fermo e ordinava il suo trasferimento in carcere, Stefano aveva dato in escandescenze, prendendo a calci una sedia dell’aula del tribunale. Dal tribunale viene condotto in carcere tramite la polizia penitenziaria. All’arrivo nell’istituto di pena, però, il medico competente stabilisce il suo immediato trasferimento in ospedale per accertamenti diagnostici.

Perché? Cos’è successo nel tragitto tra il tribunale e il carcere o, comunque, da quando Stefano è scomparso dalla vista del giudice fino a quando è ricomparso alla vista del medico? Forse la polizia penitenziaria potrebbe spiegarlo, se non fosse indaffarata a raccontare scuse. Potrebbe aiutare a chiarire se non occupasse il suo tempo a dire che il suo comportamento è irreprensibile.

La posizione dei sanitari dell’ospedale Pertini è tragicomica. Dapprima riferiscono di non essersi resi conto dei segni sul viso perché Stefano ha il lenzuolo che gli copre il volto. Quindi, a sentir ciò, viene ricoverato in base ad una diagnosi immaginaria, visto che non è possibile sapere cos’ha il paziente-detenuto. Successivamente, Stefano viene sottoposto ad una radiografia che conferma le fratture e ad un esame dell’emocromo, che non farebbe pensare ad emorragie interne. Sempre con il volto coperto?

Nel Paese che fa le veglie per la vita di Eluana, nel Parlamento che tutela la vita delle persone in stato vegetativo cronico a colpi di alimentazione e idratazione forzata, si può lasciar morire un ragazzo come Stefano? I familiari di Stefano, e tutti coloro che non amano bersi tutto quello che i colpevoli raccontano per definirsi innocenti, sanno solo due cose: sanno che Stefano è stato sano finché libero e che da quando è divenuto detenuto ha cominciato a morire per percosse per poi finirla per arresto cardiaco.

Sanno che, come Federico Aldovrandi e come troppi altri, sono stati uccisi dalla ferocia questurina di chi si sente legittimato ad imitare il ventennio fascista grazie al clima politico imperante. Tutti coloro che non amano bersi tutto quello che i colpevoli raccontano per definirsi innocenti, chiedono che i colpevoli paghino. Questa volta, per la prima volta, finalmente paghino.


Stefano Cucchi
di Administrator - www.pressante.com - 31 Ottobre 2009

L'unica certezza è il corpo martoriato di un giovane di 31 anni. Si chiamava Stefano Cucchi e la sua morte misteriosa è diventata di dominio pubblico dopo che la famiglia ha deciso di divulgare le foto del cadavere (immagini sconsigliate a persone suscettibili). "Vogliamo capire che cosa è successo" chiede una madre che dopo avere visto il figlio uscire di casa in buone condizioni di salute, si è vista riconsegnare un corpo irriconoscibile.

Oggi la procura di Roma ha deciso di procedere per il reato di "omicidio preterintenzionale" (che prevede la reclusione da dieci a diciotto anni), al momento a carico di ignoti. Il pm Vincenzo Barba vuole vederci chiaro e sta indagando per capire se il ragazzo 31enne sia stato effettivamente vittima di un pestaggio. Nell'attesa delle conclusioni della consulenza del medico legale, il magistrato proseguirà le audizioni. Altro tassello di un'inchiesta avviata di iniziativa dalla Procura, nonostante l'assenza di una denuncia e un primo certificato di morte che attestava come questa fosse avvenuta per "presunta morte naturale".

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha telefonato al procuratore della Repubblica di Roma Giovanni Ferrara per dare "pieno sostegno alle indagini e celerità nell'accertamento della verità e dei colpevoli" e per esprimere "vicinanza alla famiglia Cucchi". Alfano ha voluto ribadire "fiducia nell'operato della Polizia Penitenziaria che, ogni giorno, svolge i suoi delicati compiti con abnegazione e in contesti difficili. Auspico - ha concluso il ministro - che l'autorità giudiziaria accerti, in tempi brevi, la verità dei fatti".

Ma la decisione del pm Barba non è piaciuta al legale della famiglia Cucchi: "Si procede a carico di ignoti ma credo che coloro che l'hanno avuto in custodia o in cura non sono ignoti. Mi aspetto indagati, mi aspetto che queste persone vengano a dare una spiegazione".

Nel frattempo i familiari non si danno pace. Vogliono capire come mai sia morto in carcere dopo l'arresto dei carabinieri che lo hanno sorpreso con una ventina di grammi di droga. Vogliono una spiegazione a quelle fratture alla spina dorsale, al coccige, alla mandibola, a quei lividi sul volto e su tutto il corpo. Per questo hanno deciso di divulgare le foto, mostrando il corpo dopo l'autopsia.

Una scelta difficile, fatta per un unico motivo: di fronte a quelle immagini la giustizia non potrà girare la testa, dovrà dire la verità. "Fino all'ultima goccia di sangue, fino all'ultima goccia di vita io e mia moglie ci batteremo perché si faccia chiarezza su mio figlio" giura Giovanni Cucchi, padre di Stefano, in un'intervista sul blog di Beppe Grillo. E la madre di Federico Aldrovandi chiede "chiarezza al più presto".

D'altronde, dopo la diffusione delle foto, la vicenda è esplosa in tutta la sua gravità. "Non ho strumenti per dire come sono andate le cose, ma sono certo del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione" ha detto il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Parole che indispettiscono il segretario del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, Donato Capece: "Il ministro ha perso una buona occasione per tacere. Ha detto che non ha elementi per dire come andarono i fatti però sostiene che l'intervento dei carabinieri è stato corretto. Su quale basi lo dice? Chi sarebbe stato scorretto, allora?".

Morte Cucchi, restano i misteri. L'accusa è di omicidio preterintenzionale



"Un detenuto non si picchia in sezione". Audio schock dal carcere di Teramo
di Giuseppe Caporale - La Repubblica - 3 Ottobre 2009

"Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto...". Parole dal carcere di Castrogno a Teramo, parole registrate all'interno di uno degli uffici degli agenti di polizia penitenziaria. Frasi spaventose impresse in un nastro. Ora questo audio è nelle mani della Procura della Repubblica di Teramo che ha aperto un'inchiesta sulla vicenda. Sono parole che raccontano di un "pestaggio" ai danni di un detenuto, quasi come fosse la "prassi", un episodio che rientra nella "normalità" della gestione del penitenziario. Un concitato dialogo tra il comandante delle guardie del penitenziario, Giuseppe Luzi e un agente che svelerebbe un gravissimo retroscena all'interno di un carcere già alle prese con carenze di organico e difficoltà strutturali.

ASCOLTA L'AUDIO

Il nastro è stato recapitato al giornale locale La Città di Teramo, ed è scoppiata la bufera. Il plico era accompagnato da una lettera anonima.

In merito alla vicenda la deputata Radicale-Pd Rita Bernardini, membro della commissione Giustizia, ha presentato un'interrogazione al ministro Alfano.

La deputata chiede al ministro Alfano se ritenga di dover accertare "se questi corrispondano al vero e di promuovere un'indagine nel carcere di Castrogno di Teramo per verificare le responsabilità non solo del pestaggio di cui si parla nella registrazione, ma anche se la brutalità dei maltrattamenti e delle percosse sia prassi usata dalla Polizia Penitenziaria nell'istituto".
Proprio questa mattina la Bernardini ed il segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, hanno fatto una visita al carcere.

E proprio con la Bernardini, (lo riferisce il sito del "Centro") il comandante delle guardie ha ammesso: "Una di quelle voci è mia. Ma non mi riferivo a un pestaggio Ero mosso dalla rabbia e forse ho usato termini forti. In realtà c'era stato solo un richiamo degli agenti ai detenuti dopo un'aggressione da parte di questi ultimi alle guardie".

Intanto la Uil chiede chiarezza e verità anche a tutela della professionalità e dell'impegno quotidiano della polizia penitenziaria di Teramo.

"Noi possiamo solo affermare - sottolinea la segreteria regionale - che la violenza gratuita non appartiene alla cultura dei poliziotti penitenziari in servizio a Teramo che, invece, pur tra mille difficoltà hanno più volte operato con senso del dovere, abnegazione e professionalità. Ciò non toglie che la verità vada ricercata con determinazione e in tempi brevi. Noi vogliamo contribuire a questa ricerca impedendo, nel contempo, che si celebrino processi sommari, intempestivi e impropri".

Anche il notevole sovraffollamento è causa di forti tensioni. L'istituto potrebbe contenere al massimo 250 detenuti, ne ospita circa 400. Un solo agente per sezione deve sorvegliare, nei turni notturni, anche più di 100 detenuti; un flusso di traduzioni che determina l'esaurimento di tutte le risorse disponibili.


La verità a rate
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 3 Novembre 2009

Piero Marrazzo, governatore dimissionario del Lazio, è un cocainomane. Lo ammette, nel suo secondo interrogatorio, correggendo quel che ha detto nel primo. La cocaina sul tavolo, ripresa in segreto dal cellulare di carabinieri furfanti, era sua.

L'aveva comprata e non è vero che quella polvere bianca era stata sistemata dai militari che si erano introdotti nell'appartamento con la forza. Un altro frammento di verità. Un'altra ammissione. Viene da chiedersi: ci sono altre confessioni? Marrazzo ha davvero e finalmente detto tutto? Perché a tornare indietro con la memoria, del governatore si ricordano soltanto omissioni, mezze verità, frottole. Più o meno dieci giorni fa - è già nota la notizia dei carabinieri ricattatori, dell'esistenza di un video compromettente - Marrazzo si presenta davanti alle telecamere per dire che è tutta "una bufala", che "il video non esiste" e, se esiste, "è manipolato".

Una "verità" che regge per poche ore. Il video c'è, lo ritrae con un viado, dinanzi al tavolo con cocaina e denaro. Nuova versione. È vero, ero in quell'appartamento con Natalì (il viado), ma non c'era droga. La droga ce l'hanno messa quelle canaglie dei carabinieri per rovinarlo, per estorcergli del denaro. È il 22 novembre. In quelle ore appare chiaro, come osserva Repubblica, che sono necessarie e improrogabili le dimissioni del governatore e non per le sue debolezze private, ma per quel suo comportamento di chi non dice e sembra non voler dire quel che è accaduto.

Riprendiamo qualche argomento di allora. "Il governatore del Lazio non ha detto di essere stato ricattato né tantomeno ha denunciato l'estorsione, come avrebbe dovuto fare. Non ha detto di aver firmato assegni - ai carabinieri che lo minacciavano - per evitare che scoppiasse uno scandalo. Ora che lo scandalo è esploso, non dice che cosa è accaduto e non sembra disposto ad ammettere le sue responsabilità. Marrazzo sembra non comprendere che gli scandali sono lotte per il potere proprio perché mettono in gioco la reputazione personale di chi governa e la fiducia di chi è governato. Quanto è affidabile oggi il governatore? Si può avere fiducia in lui? Marrazzo si protegge da ogni interrogativo agitando le ragioni della privacy.

Come se questa formula magica - la mia privacy - potesse evitargli quella che, altrove, chiamano "valutazione di vulnerabilità": quanto le sue decisioni possono essere libere dalle pressioni o dai ricatti ai quali lo espone la sua scapestrata vita privata? Nel pasticcio in cui si è cacciato, il governatore ha solo una strada davanti a sé. Obbligata ed esclusiva: assumersi la responsabilità della verità. Non c'è e non può essercene un'altra, meno che mai il farfuglio di mezze verità e menzogne intere che Marrazzo ha sfoggiato".

Siamo, più o meno, ancora a questo punto. Purtroppo. Il governatore sostiene di non aver nemmeno compreso di essere vittima di un ricatto. Giovedì scorso, ha raccontato - in via privata - qualcosa in più: quei due carabinieri mi hanno sbattuto contro un muro; mi hanno costretto a calare i pantaloni; poi mi hanno portato via il denaro, ho pensato a una rapina; sì, ho firmato gli assegni, ma poi li ho fatti bloccare dalla banca, quelli non si sono fatti più vivi, così non ho più pensato alla "cosa".

Se quel che si sa a quest'ora è corretto, è una ricostruzione che ha molte, troppe smagliature. Nel video, anche se confusamente, si ascolta Marrazzo implorare i carabinieri di "non rovinarlo", promette loro denaro e favori. Ora che accade, secondo il governatore? Quelli arraffano 5.000 euro in contati dal tavolo (denaro per la cocaina e per il sesso) e tre assegni per 20 mila euro (che non incasseranno mai) e vanno via senza farsi più vedere e sentire.

Seguiamo ora i carabinieri. Sono convinti di fare un po' di grana vendendo il video girato segretamente. Quanto? 40/50 mila euro da spillare nell'industria editoriale degli scandali. E perché non chiederli a Marrazzo, senza complicarsi tanto la vita o affidare il proprio destino professionale a gente che non conoscono?
Questo per i carabinieri: più che canaglie appaiono degli idioti degni di un film di Joel ed Ethan Coen.

Marrazzo non è da meno. Subisce un'aggressione, lo sorprendono con il naso incipriato in casa di un viado e pensa di essersela cavata con 5.000 euro e la furbata degli assegni firmati e poi bloccati.

E tuttavia, ammettiamo per un attimo che le cose stiano così, che cosa pensa, dice e fa Marrazzo quando il 19 ottobre gli telefona Berlusconi? Che cosa gli dice il capo del governo? È vero, che gli consiglia di rivolgersi ad Alfonso Signorini e - come riferisce lo staff del governatore a Esterino Montino (oggi governatore vicario) - aggiunge: "Rivolgiti a Giampaolo Angelucci, ti libererà dai guai".

In quel momento, chiunque, al posto di Marrazzo, avrebbe capito che la sua carriera politica era al capolinea. Come può pensare un governatore di continuare il suo lavoro correttamente dopo che deve la salvezza al maggior imprenditore della sanità? Come è evidente, ci sono ancora angoli di questo affaire da chiarire. Marrazzo deve fare la sua parte. Oggi, come ieri, gli si chiede di assumersi la responsabilità della verità. Al di là dell'inchiesta giudiziaria, al di là delle sue avventatezze private, lo deve a se stesso e a chi ha avuto fiducia in lui.


Il Silvio furioso
di Giovanni Gnazzi - Altrenotizie - 30 Ottobre 2009

Urlava al telefono Papi, nella trasmissione condotta da Floris. L’amico di Noemi era furibondo per la condanna reiterata all’avvocato Mills, costretto a mentire per salvare il premier. Si è definito un perseguitato, anzi una vittima, né più né meno. L’uomo che presiede il governo ed ha in affitto la maggioranza dei parlamentari, controlla i servizi segreti, l’economia, la maggior parte dell’informazione e il mercato pubblicitario che ne determina l’esistenza o la fine, si considera una vittima.

Sfugge, a Papi, il senso delle parole, quasi come quello della decenza. Un caso così grande di conflitto d’interessi e una commistione così spaventosa tra i suoi affari privati e quelli pubblici, in quale altro paese sarebbe stata possibile? Nei confronti della magistratura l’equazione, alla fine, non è poi difficile: se i giudici lo assolvono sono magistrati, se lo condannano sono comunisti.

E sì che la magistratura comunista l’ha appena salvato dal dolore più grande: quello di dover pagare per quello che ha fatto. Succede infatti che, a differenza dei comuni mortali italiani, che vedono l’immediata esecuzione della sentenza civile in caso di condanna e, normalmente, si vedono rigettare l’stanza di sospensiva in attesa dei successivi pronunciamenti (della serie: intanto paghi, poi, eventualmente, recuperi), nel suo caso l’iter consueto si ribalta. L’azienda del Premier, infatti, ha ottenuto la sospensione del pagamento dovuto alla Cir di De Benedetti in attesa dei gradi successivi di giudizio. Tradotto: De Benedetti non verrà risarcito per anni e anni.

Il magistrato Giacomo De Deodato, presidente della II Corte D’Appello che ha deciso la sospensiva, non è comunista, ovvio. Se proprio si vogliono cercare simpatie politiche nel suo curriculum non se ne trovano; nell’albero genealogico si trova invece il fratello, Giovanni, deputato di Forza Italia dal 1996 al 2006. Due fratelli, però, come sanno Silvio e Paolo, non fanno un’accusa e tanto meno una prova, solo una constatazione in punta di penna. Ma, ad eccezione di Deodato de di chi lo ha assolto in altri processi, gli altri magistrati sono comunisti.

La furia dell’uomo che si è fatto da se, ma rifatto da chirurghi amici, si è scatenata a seguito della conferma di condanna per l’avvocato Mills; condanna che, se venisse confermata dall’istanza superiore di giudizio, porterebbe ad identica sorte anche Papi, con inevitabili riflessi e ricadute sulla sua permanenza a Palazzo Chigi.

L’anomalia, dice lui, non è Berlusconi, ma la magistratura. Il giudice che ha condannato Mills, Flavio Lapertosa, è certamente un comunista, a detta di Papi. Che poi sia lo stesso giudice Flavio Lapertosa che assolse Berlusconi nel processo SME-Ariosto, indica certamente la diffusione pericolosa dei casi di omonimia, un'abile strumentazione della sinistra, immaginiamo.

Ora, il fatto che Berlusconi sia stato oggetto di molteplici iniziative giudiziarie è fatto noto. Ma nessuna di queste ha avuto origine da reati commessi nella sua vita politica. Tutte, invece, hanno affrontato Berlusconi nella dose di reati connessi alla sua attività imprenditoriale, dalle origini dei suoi affari a poco prima della sua discesa in politica.

Semmai, la questione dovrebbe essere posta diversamente: qual’é l’imprenditore che più di lui ha violato così continuativamente il codice penale italiano? E chi si è potuto permettere d’insultare e calunniare magistrati, giornalisti, politici ed imprenditori utilizzando le aziende editoriali di famiglia?

I processi che l’hanno visto protagonista - il Lodo SME, quello Mondadori, All Iberian ed altri - lo hanno visto imputato o co-imputato di reati quali corruzione della Guardia di Finanza, dei giudici e dei testimoni, frode fiscale, falso in bilancio ed esportazione illecita di capitali. Chi mai in Italia sarebbe rimasto a piede libero con queste accuse? Chi mai avrebbe ottenuto la riduzione dei tempi di prescrizione per i processi che lo riguardavano? E chi mai, attraverso leggi ad personam, sarebbe riuscito ad evitare le condanne? E dunque qual’é l’anomalia italiana?


Internet, navigatori spiati per 7 anni. Registrata ogni visita a qualunque sito
di Vittorio Zambardino - La Repubblica - 7 Ottobre 2009

La privacy? Dice un dirigente dell'autorità garante: "Chiunque tra il 2001 e l'inizio del 2008 abbia usato la rete internet deve sapere che tre tra i maggiori fornitori di accesso del paese (Telecom Italia, Vodafone e H3g) tre compagnie di telecomunicazione, hanno registrato tutto il traffico di quegli anni. Non tutti lo facevano con la stessa profondità, e lo abbiamo specificato nei nostri provvedimenti del 17 gennaio 2008.

Non è nemmeno detto che lo abbiano fatto in modo continuo dal primo all'ultimo giorno. Però quella raccolta di dati avveniva e il pretesto era che bisognava tenersi pronti per rispondere alle richieste dell'autorità giudiziaria. Il punto è che raccogliere i dati personali in quel modo e con quella rozzezza espone gli stessi investigatori ad errori e valutazioni sbagliate".

Insomma, cari utenti di internet di quegli anni, siete avvertiti: da qualche parte esisteva (e "dovrebbe" non esistere più) un complesso sistema di grossi hard disk sui quali c'erano gli indirizzi (URL) di tutte le nostre pagine internet visitate. "Tutte, ma proprio tutte". Più le password che immettevate per entrare nella vostra mail, i codici di accesso alla banca (se il sistema non era protetto) e anche sì la password di quel sito un po' scollacciato che ogni tanto allieta una vostra serata un po' uggiosa. Per non parlare di chat e messaggi posta. Tutto era "captivato" e tutto era leggibile.

Ora, dal gennaio del 2008 non lo è più (e sì che resistenze da parte di magistratura e apparati di polizia, perché si continuasse con la rete a strascico, ce ne sono state). Non solo: in Italia è stato anche adottato il sistema dello "Ip univoco" che rappresenta un passo avanti in materia - in Inghilterra, dopo gli attentati del 2005, è successo qualcosa di simile e su scala più ampia.

Domanda: ma quelle informazioni sono poi state davvero distrutte? Questo non lo sa nessuno, ma il funzionario dice che non ha motivo di ritenere che non lo siano state. E il problema della traccia e della completa tracciabilità elettronica delle nostre vite resta, ma non è detto che sia irrisolvibile.

L'ingegner Cosimo Comella è il dirigente dell'Autorità per la protezione dei dati personali che ha detto queste ed altre cose al seminario organizzato a Roma dal "Pasion", un progetto sulla protezione dei dati finanziato dall'Unione europea proprio nella sede dell'Autorità, con la presenza sia dell'attuale (Francesco Pizzetti) che del primo presidente (Stefano Rodotà). Comella ragiona che il pubblico e i media si indignano o si allarmano per questioni anche superficiali: "Non mi spiego perché il nostro provvedimento del 2008 che mise fine a quella situazione fu sostanzialmente ignorato dai giornali". Ma qui si apre un capitolo assai grosso: la sensibilità di ognuno di noi al tema "protezione dei dati", non privacy, come prega di dire il presidente Pizzetti.

Perché siamo forse un paese rassegnato: non solo al traffico, all'evasione fiscale e all'esistenza della mafia. Ma anche all'idea che contro la violazione delle nostre vite non si può fare niente. Risulta da un'indagine di opinione mostrata al workshop. Così guardiamo con rassegnazione al fatto che le aziende, ormai in modo dichiarato, facciano indagini attraverso Google sulle persone che presentano una domanda di assunzione. Lo fanno, non è un mistero. "E' ormai diventato quasi inutile avere un curriculum" dice il garante Pizzetti, "Quella è solo la nostra versione della nostra vita, poi sarà messa al vaglio di motori e social netwiork".

Noi italiani siamo rassegnati all'idea che internet sia intercettata e studiata in un modo che ci indignerebbe per qualsiasi altro mezzo. Eppure succede ben altro che l'intercettazione malandrina. E accettiamo in modo supino che la politica pensi e legiferi alla rete senza rendersi conto di cosa sta maneggiando. Pizzetti e Rodotà si esprimono in modo diverso, ma le loro analisi portano esattamente a questo punto: che governi e parlamenti ricorrono a controlli e censure sempre più approfonditi e indiscriminati perché di fatto non conoscono l'oggetto di cui parlano.

Si può far qualcosa per impedire che un datore di lavoro ci studi su Google e scopra che dieci anni fa, dopo una festa di laurea, ci siamo fatti uno spinello? Non si può fare molto. E se la misura - sostiene Rodotà - è solo l'autocensura, ne deriva un danno devastante della libertà personale e di espressione. Perché se sappiamo di essere spiati cambiano anche i nostri pensieri".

Invece si può fare molto perché la nostra posta non sia spiata, perché le nostre "pagine viste" non siano spiate da chi non deve, perché il nostro comportamento non diventi solo e soltanto il grano che viene macinato nei mulini del "marketing comportamentale" sul quale vengono investiti milioni di dollari ed euro ogni anno.

Si può fare qualcosa e una delle risposte è nel lavoro dei crittografi. La crittografia è una branca della matematica coltivata da pochi, che viene chiamata in causa solo quando si parla di cose militari. Ma che potrebbe - è l'argomento di Giuseppe Bianchi, matematico e crittografo all'università Roma 2, che lavora in vari progetti Ue - trovare soluzioni concrete ed efficaci: possiamo avere uno "pseudonimo" registrato, che permetta di "mostrare al vigile la patente senza dire il proprio nome".

Si può pensare a messaggi di posta che dopo un certo periodo si autodistruggano scomparendo dalla disponibilità di spioni e ficcanaso. Si può pensare a sistemi che controllino chi scarica abusivamente contenuti coperti da copyright senza frugare nell'attività online della persona. Serve una politica avvertita e colta. E un'opinione pubblica che non dica: "Non c'è niente da fare".