mercoledì 18 novembre 2009

Politica italiota: l'ultimo atto della commedia

Qui di seguito una serie di articoli sugli ultimi sviluppi della politica italiana, con la crescente e irreversibile spaccatura nel Pdl la cui scissione è solo una questione di idonea tempistica e con un Berlusconi ormai con le spalle al muro e di fronte a scelte dai soli risvolti negativi per il suo futuro politico.

L'ultimo atto della commedia è iniziato.


La tentazione della scorciatoia
di Massimo Franco - Il Corriere della Sera - 18 Novembre 2009

La minaccia di elezioni anticipate co­mincia ad assumere contorni più corposi. Ed anche discutibili. Il modo in cui il presidente del Senato, Renato Schifani, ieri ha posto agli alleati l’aut aut fra compattezza della maggioranza ed interruzione della legislatura non può essere sottovalutato.

Il prestigio del suo ruolo impone di analizzare le parole seriamente, nonostante si inseriscano in uno sfondo di nervosismo e di confusione della maggioranza; e sembrino rivolte più all’interno del centrodestra che al Paese.

La prima osservazione è che l’iniziativa è stata presa mentre Giorgio Napolitano si trova in visita ufficiale in Turchia. Si sa che il potere di sciogliere le Camere spetta al presidente della Repubblica. Il fatto che la seconda carica istituzionale ipotizzi uno scenario così traumatico in sua assenza, fa pensare che lo scarto rifletta gli umori di palazzo Chigi; e finisca per alimentare il gelo fra premier e capo dello Stato. Schifani dà voce ai brontolii della «pancia» di un universo berlusconiano spaventato dalla piega che stanno prendendo le cose.

Di fronte alle spinte centrifughe nel centrodestra e alle ombre giudiziarie che si proiettano sul capo del governo, evidentemente cresce la tentazione della scorciatoia. Si tratta di un piano arrischiato. Ed è singolare che a evocarlo sia il presidente del Senato: tanto più che Gianfranco Fini aveva appena spiegato perché votare sarebbe un mezzo suicidio. La stessa Lega non vuole le elezioni anche se tecnicamente il federalismo fiscale sopravvivrebbe alla caduta del governo.

Per una maggioranza alla quale neppure due anni fa gli italiani hanno assegnato il diritto ed il dovere di governare, rispedire il Paese alle urne certificherebbe un fallimento. È vero che l’opposizione sta appena cominciando a riorganizzarsi, ma politicamente il voto anticipato equivarrebbe ad una manifestazione di impotenza.

Lo scontro fra una parte della maggioranza e della magistratura, alleata con pezzi di opposizione, è radicalizzato da pregiudizi reciproci che hanno un sapore rancido. Ma non può essere risolto dagli elettori: anche perché lo hanno già fatto nel 2008 consegnando palazzo Chigi a Berlusconi.

Adesso tocca al governo ed al Parlamento dare seguito agli impegni presi; e possibilmente anche ad un centrosinistra che fatica ad emanciparsi dalle pressioni più estremiste. Non c’è solo la riforma della giustizia in una fase di crisi che impone risposte, non paralisi.

È possibile che la fine della legislatura sia stata additata per indurre gli scettici del centrodestra, Fini in testa, ad abbandonare ogni esitazione e remora; e ad approvare quanto prima la legge sul «processo breve» che dovrebbe permettere a Berlusconi di affrontare in modo più tranquillo i suoi impegni di premier. Ma è legittimo dubitare che le parole di Schifani aiuteranno a rasserenare il clima. Per paradosso, rischiano di avvelenarlo ulteriormente.

Il risultato è di mostrare un Pdl caricaturale, in preda ad una specie di «sindrome dell’Unione»: un istinto autodistruttivo che nel caso della coalizione prodiana almeno era giustificato dall’assenza di una vera maggioranza e di un progetto comune.


La minaccia di fine impero

di Massimo Giannini - La Repubblica - 18 Novembre 2009

In una "normale" democrazia, bipolare e liberale, le parole di Renato Schifani suonerebbero come un'ovvietà. La maggioranza degli eletti è garante del patto programmatico sottoscritto con gli elettori attraverso il voto. Se quella garanzia salta, la parola torna al popolo sovrano. Nell'autocrazia berlusconiana, plebiscitaria e illiberale, questi concetti elementari diventano un'enormità.

Probabilmente è ancora presto per considerare il discorso del presidente del Senato come un "certificato di morte" del governo. Più verosimilmente quel testo riflette un male incurabile di questo centrodestra, ma non ancora la sua crisi finale. Va catalogato sotto la voce "minacce". Minacce alle istituzioni "nemiche": il capo dello Stato non si illuda, in caso di caduta di questo governo, di ripercorrere le orme di Scalfaro e di evitare le elezioni anticipate cercando altre maggioranze.

Minacce alle istituzioni "amiche": Gianfranco Fini non si illuda, la sua idea di una destra laica, istituzionale, repubblicana, cioè "alta" e "altra" rispetto a quella da bassa macelleria costituzionale incarnata dal Cavaliere, non avrà diritto di cittadinanza fuori dal berlusconismo.

Minacce alle opposizioni "interne": tutti coloro che, dentro la coalizione, sono tentati di seguire il presidente della Camera sui paletti alla legge-vergogna del processo breve, sulla bioetica, sull'immigrazione, magari anche sulla sfiducia a Cosentino, non avranno più un posto dove sedersi in Parlamento, in una quarta legislatura berlusconiana.

Minacce alle opposizioni "esterne": il Pd non coltivi ambizioni neo-proporzionaliste, in uno schieramento che aggreghi tutti, dall'Udc all'Idv, perché in una nuova campagna elettorale il premier asfalterebbe qualunque "Comitato di liberazione nazionale".

C'è tutto questo, nel monito che il Cavaliere ha lanciato per interposto Schifani. Ma sarebbe altrettanto sbagliato non leggere, in quelle parole, anche qualcosa di più serio e più grave. Per due ragioni. La prima ragione è tattica. Il ricatto delle elezioni anticipate, da tempo ventilato nei corridoi e adesso gridato dalla seconda carica dello Stato, rischia di non essere "un'arma fine di mondo", ma "una freccia spuntata".

Intanto perché, a dispetto delle sue certezze ufficiali, il premier non è più così sicuro di vincere le elezioni. E poi perché, in caso di scioglimento anticipato delle Camere, svanirebbe per lui qualunque possibilità di costruirsi l'ennesimo "scudo" legislativo contro i processi Mills e diritti tv Mediaset. E lui di quella "protezione" ha un bisogno vitale. Anche a costo di far ingoiare al Parlamento un'altra dose di "ghedinate". Anche a costo di far riesplodere un conflitto istituzionale con il Quirinale e con la Consulta.

La seconda ragione è strategica. Se dopo appena venti mesi dal clamoroso trionfo del 13 aprile 2008 questa maggioranza è chiamata ogni giorno ad interrogarsi sulla sua sopravvivenza e ad esorcizzare lo spettro delle elezioni anticipate, vuol dire che un destino sta per compiersi. Nell'avvertimento del presidente del Senato di oggi si sente un'eco sinistra di quello che lanciò l'allora presidente della Camera nell'autunno del 2007.

All'epoca Fausto Bertinotti definì Prodi, capo del governo unionista, "il più grande poeta morente", rubando la celebre definizione che Ennio Flaiano usò per Cardarelli. Per il Berlusconi attuale vale la stessa immagine. Anche il Cavaliere, ormai, appare come "il più grande poeta morente". Da mesi ha smesso di governare l'Italia. Da settimane mena solo fendenti contro alleati e avversari. Da giorni non riesce più neanche a parlare al Paese.

Sabato scorso il suo esegeta più fine, Giuliano Ferrara, si chiedeva sul Foglio: "L'avvenire del berlusconismo è forse alle nostre spalle?". La risposta è sì. Assisteremo ad altre scosse. Magari vedremo altri "predellini". Ma il Cavaliere, ormai, potrà solo sopravvivere a se stesso.


La linea del Quirinale "Presa di posizione di carattere politico"
di Marzio Breda - Il Corriere della Sera - 18 Novembre 2009

Il Colle: non esiste scioglimento automatico

Lo sforzo è quello di chiamarsi fuori. Di derubri­care la sortita di Renato Schifa­ni come una nuova tappa delle prove di forza incrociate che da settimane tormentano i vertici del centrodestra. Cioè solo co­me «una presa di posizione di carattere dichiaratamente poli­tico », tra le tante. E che comun­que «non intacca le prerogati­ve costituzionali del presidente della Repubblica».

Insomma: nessuno pronun­cia la parola strappo, nello staff di Giorgio Napolitano in tra­sferta tra Ankara e Smirne. E, anche se, si osserva in Parla­mento, non si è mai visto che la seconda carica dello Stato mi­nacci il ricorso al voto anticipa­to esprimendosi come un lea­der politico più che come un uomo prestato alle istituzioni, non c’è verso di incassare com­menti diversi. Quasi che l’impe­gno della missione in Turchia (una tappa tra le più delicate nella diplomazia del Quirinale) sia così totalizzante che il bruta­le aut-aut pronunciato ieri dal­l’inquilino di Palazzo Madama possa essere relegato tra i flash di secondaria importanza nella rassegna-stampa aggiornata di ora in ora per il presidente.

Chiaro che non è così. Chiaro che per qualsiasi capo dello Sta­to, per natura geloso dei poteri affidatigli dalla Costituzione, sentire evocato di continuo lo spettro dello scioglimento del­le Camere, è una tracimazione della politica in una sfera che non le appartiene. Quella scel­ta, infatti, spetta a lui e a nes­sun altro. Restando forse la più importante tra le opzioni che gli competono.

E se uno come Napolitano, sempre rigoroso nel modo d’interpretare il pro­prio ruolo, non ritiene adesso necessario ricordarlo sovrappo­nendosi con qualche precisa­zione formale o informale al­l’intervento di Schifani, è sol­tanto per non farsi trascinare nelle polemiche (anche se già da tempo alcuni giornali fian­cheggiatori del premier lo indi­cano come parte di un complot­to assieme a Fini).

Se tace, dunque, non è certo perché, se davvero una simile ipotesi dovesse materializzarsi, si adatterebbe a ratificare deci­sioni prese da altri. Questo, al­meno, è quanto prevede la no­stra democrazia parlamentare. Per lui un sistema ancora «vali­do, anche se può essere miglio­rato », ha ripetuto ieri mattina ad Ankara, in un discorso al quale il presidente del Senato sembra quasi aver indiretta­mente replicato con il suo ri­chiamo al «corpo elettorale, giudice ultimo» della compat­tezza della maggioranza di go­verno.

Un ultimatum coerente con ciò che Berlusconi sostiene dal momento in cui è sceso in politica, come se esistesse l’isti­tuto dello scioglimento auto­matico delle Camere. Basta ri­pensare a quel che accadde nel 1994, quando Bossi ritirò la fi­ducia della Lega e fece cadere il primo esecutivo del Cavaliere. Sul Colle c’era Scalfaro, davanti al quale il premier dimissiona­rio si presentò pretendendo — a neanche otto mesi dal prece­dente voto — che fossero subi­to convocate nuove elezioni e giurando poi che il capo dello Stato gliele aveva promesse.

Fi­nì con l’indicare Dini come suo successore, salvo poi non dar­gli il consenso in aula e crean­do di fatto le condizioni per il ribaltone. Nessuno è in grado di dire se, in caso d’implosione della maggioranza, quello sce­nario potrebbe domani ripeter­si (anche se appare di difficile praticabilità la prospettiva di un cambio di maggioranza).

Ma la prassi suggerisce che Napolitano interpreterà come un dovere, al pari dei suoi pre­decessori, la necessità di accer­tare fino in fondo se il Parla­mento non sarà in grado di esprimere un nuovo governo. E che non si limiterà a un nota­rile certificato di estinzione di questa legislatura.


Ma il vero bersaglio è un altro
di Marcello Sorgi - La Stampa - 18 Novembre 2009

La crisi del centrodestra, che si trascinava da settimane, da ieri s’è di molto aggravata. Da politica che era, è diventata istituzionale, con il presidente del Senato che invoca le elezioni anticipate come antidoto al logoramento della maggioranza, e accusa, pur senza nominarlo, il presidente della Camera, di essere responsabile di questo stesso logoramento, che impedisce al governo di rispettare gli impegni assunti con gli elettori.

Stavolta l’abituale soavità del senatore Schifani non è bastata ad addolcire la sostanza, durissima, del suo intervento, e la sorpresa generale con cui è stato accolto. Infatti, anche se come tutto finisce di tanto in tanto nel frullatore del dibattito politico quotidiano, la materia dello scioglimento delle Camere è di stretta competenza del Capo dello Stato ed è solitamente tabù per i presidenti delle Assemblee.

Ai quali tocca semmai maggiore prudenza, legata alla necessità di rappresentare la volontà di tutti i parlamentari, e non solo delle maggioranze che li hanno eletti, quando il momento di decidere la fine della legislatura si presenta veramente. La Costituzione (articolo 88) stabilisce che il Presidente della Repubblica decreti lo scioglimento, «sentiti i presidenti delle Camere»: ed è ovvio che il loro convincimento vada espresso solo tra i muri del Quirinale...

Ecco perché l’iniziativa di Schifani, oltre a costituire una novità assoluta, è del tutto irrituale. Che negli ultimi anni, e nell’epoca del maggioritario, i ruoli dei presidenti delle Camere abbiano subito una drastica trasformazione, non ci sono dubbi. E altrettanto, che Fini abbia spesso esorbitato, muovendosi in modo assai personale e non riuscendo a spogliarsi del suo abito di leader politico, come avrebbe richiesto il fatto di ricoprire la terza carica dello Stato. Ma proprio per questo, ci si sarebbe aspettato dalla seconda carica un di più di compostezza, di riservatezza istituzionale, di silenzio, da contrapporre al confuso vociare in cui il presidente della Camera s’era fatto risucchiare.

Non c’è neppure bisogno di ricordare che, sebbene formalmente sullo stesso piano, il presidente del Senato siede in realtà su un gradino un filino più alto del suo dirimpettaio di Montecitorio. E’ a lui, infatti, che tocca il delicato compito di supplenza in caso di assenza o di impedimento del Capo dello Stato.

Ed è ancora a lui - anche se non c’è nulla che lo imponga - che il Quirinale si rivolge per primo in caso di crisi, se si richiede un mandato esplorativo o un ulteriore tentativo di chiarimento. Inoltre, non è dato al presidente del Senato (e neppure a quello della Camera per la verità) esprimere valutazioni politiche che non derivino da dirette e formali constatazioni dell’andamento dei lavori parlamentari.

E insomma, quando Schifani parla di mancanza di compattezza della maggioranza, viene da chiedersi in base a cosa lo faccia, dal momento che in Senato il governo ha potuto fin qui procedere abbastanza tranquillamente, superando difficoltà e incognite che si presentano normalmente nella vita parlamentare, e portando lo stesso presidente a esprimere, anche di recente, il proprio compiacimento.

Schifani, poi, s’è dichiarato insoddisfatto della scarsa produttività di riforme da parte del Parlamento. Ma non è in Senato che per la prima volta s’è verificata la convergenza tra maggioranza e opposizione sul federalismo fiscale? E non è il Senato che è stato scelto, dopo la caduta del lodo Alfano - nell’ora più difficile dei rapporti tra politica e giustizia, e tra governo e magistratura -, per avviare il percorso del disegno di legge sul «processo breve»?

Davvero non si capisce cosa abbia spinto Schifani a un così brusco cambio di rotta. Stando a voci mediocri che circolavano nei corridoi parlamentari, l’uscita della seconda carica dello Stato sarebbe dovuta a un diktat di Berlusconi: che tace, non potendo parlare in prima persona, per non certificare la dissoluzione della sua maggioranza. Insinuazioni che hanno dell’incredibile, conoscendo il geloso attaccamento del presidente del Senato alla propria autonomia.

No, c’è da scommetterci: dietro Schifani c’è solo Schifani. E se ha deciso di rompere la corteccia istituzionale che lo ha vincolato finora, e compiere un gesto così grave, non è stato certo solo per lanciare un avvertimento al suo irrequieto vicino di Montecitorio. C’è dell’altro e c’è di più: rompendo il riserbo sulle elezioni anticipate, Schifani ha alzato la mira su Napolitano.


Il premier: verrebbe voglia di dimettersi
di Francesco Verderami - Il Corriere della Sera - 18 Novembre 2009

«Verrebbe voglia di dimettersi», e ieri mentre lo diceva Berlusconi si svestiva del sorriso con cui aveva appe­na salutato Erdogan per indos­sare una smorfia di disgusto. Era imbarazzato per quei rumo­ri di protesta saliti dalla strada che avevano accompagnato il pranzo a palazzo Chigi con il primo ministro turco, per quel­la voce amplificata dal megafo­no che si era accomodata a tavo­la tra loro, e che lui aveva rico­nosciuto: la voce di Di Pietro.

Il «senso di vergogna» che ha confidato di provare era un mi­sto di indignazione per l’ospita­lità violata e per veder «messa quotidianamente alla berlina l’immagine del presidente del Consiglio». In quella scena che il Cavalie­re ha visto rappresentata l’azio­ne di accerchiamento di cui si sente vittima. «Non basta il con­senso popolare», ha commenta­to. È vero che in altre stagioni aveva già sfidato quel sistema ritenuto «ostile».

Oggi però è al­le prese con il tornante più diffi­cile della sua carriera politica, imprenditoriale e soprattutto personale. Non ci sono più alle­ati e tanto meno amici, se ha scelto l’isolamento è anche per verificare come agiranno gli av­versari.

Il silenzio del premier è riem­pito dalle parole altrui, e nella maggioranza si assiste a un’esca­lation dello scontro, quasi fosse un’anticipazione di quanto acca­drà «dopo» Berlusconi. Chissà se è anche questo che il premier vuole dimostrare, è certo che da ieri si è superato persino il limi­te del conflitto istituzionale.

Per­ché ormai i presidenti delle Ca­mere hanno assunto un ruolo politico: l’ha fatto prima Fini, ora lo fa Schifani, che in aperto ed evidente contrasto con il col­lega di Montecitorio ricorda co­me senza una maggioranza com­patta è necessario tornare al cor­po elettorale. Il nodo era e resta lo scudo giudiziario per il Cavaliere, at­torno a questo nel Pdl si è aper­to un braccio di ferro dalle con­seguenze al momento inimma­ginabili, se il problema non ve­nisse risolto.

Ma a forza di gioca­re al rilancio tutti hanno smarri­to il controllo della situazione che ora rischia di diventare in­governabile. Le comunicazioni ai vertici sono interrotte, resta Gianni Letta a far da tramite. E ieri sera il telefono del sot­tosegretario alla presiden­za è squillato di continuo.

Per­ché Berlusconi non poteva non sapere cosa avrebbe detto nel pomeriggio il presidente del Se­nato, un’esternazione che Fini ha interpretato come una sfida. E il titolare della Camera vuole capire cosa intende davvero fa­re il premier: «Se non vuole le elezioni si può aggiustare tutto, altrimenti si sfascia tutto».

Ci sarà un motivo se Letta si è affannato a spiegare ai suoi in­terlocutori che «Berlusconi non vuole il voto anticipato», frase però dalla doppia interpre­tazione: non voler andare alle urne potrebbe anche significa­re che il premier ne farebbe a meno, ma che non le esclude. Fosse il braccio destro del Cava­liere a dover decidere, lui le escluderebbe: «Il voto sarebbe un errore. Eppoi c’e il Quirinale che lo impedirebbe».

Proprio per questo Fini ritiene quella minaccia un’arma scarica, a me­no che la Lega non si schie­rasse con il premier. Matteo­li, una vita a fare il pompie­re anche dentro An, teme disastri: «La ripresina do­po la crisi economica de­ve indurre tutti al senso di re­sponsabilità. Il voto sarebbe un dramma per il Paese. Così co­me sarebbe drammatico se al premier non fosse consentito di governare. Perciò sulla giusti­zia va trovata una soluzione po­litica ».

Manca la voce di Bossi, che ha convocato per venerdì un vertice del partito. Un solo pun­to all’ordine del giorno: «Comu­nicazioni del segretario». Il Car­roccio non mostra le sue carte, e ieri Maroni al Tg1 le ha voluta­mente tenute coperte. «Noi sia­mo impegnati a fare le rifor­me... », ha esordito il ministro dell’Interno, «... ma le riforme che vogliamo, richiedono una maggioranza coesa». Nulla og­gi è più certo dell’incertezza.


E in serata Berlusconi prende le distanze
di Ugo Magri - La Stampa - 18 Novembre 2009

Smentita di Palazzo Chigi, ma tutti danno per certo l’ordine del premier

Tutti, nel giro che conta, danno per certa la telefonata del Sommo Capo. Il quale avrebbe ordinato personalmente a Schifani di intimidire Fini con la minaccia di elezioni anticipate, a seguito delle quali il leader di An resterebbe senza più poltrona, così impara. E il presidente del Senato si sarebbe messo a disposizione con zelo...

Questa la ricostruzione più in voga, seguita a ruota dall’altra che estende il messaggio ai giudici, guai se da Palermo qualche pentito lanciasse accuse infamanti sul premier, o se a Milano si riaprisse il vaso di Pandora delle tangenti: l’ultima parola tornerebbe al popolo.

Palazzo Chigi però smentisce, e lo fa nella maniera più perentoria. Bonaiuti giudica addirittura «offensivo che qualcuno possa immaginare un input di Berlusconi alla seconda carica dello Stato». Se davvero è stato lui l’ispiratore, ma il suo portavoce giura di no, sta di fatto che il Cavaliere innesta la retromarcia. Al massimo si è trattato di un ballon d’essais.

E comunque, un diretto testimone della vicenda è pronto a giurare che l’attacco lancia in resta di Schifani contro Fini nasce per davvero dai mediocri rapporti tra i due: il presidente del Senato se l’è concepito da solo durante il viaggio in aereo da Palermo a Roma. Anzi, una prima stesura della dichiarazione strombazzata più tardi dal suo ufficio stampa era perfino più veemente, molto poco istituzionale, per cui è stata riveduta e corretta già prima di mettere le ruote a terra.

Quale che sia la verità vera, l’immagine al Paese è di una maggioranza in piena crisi epilettica. Il solo fatto di evocare elezioni anticipate costituisce un regalo politico a Bersani, incredulo di tanta buonasorte. Anche qui, non è un caso che il solito Bonaiuti tenti di gettare acqua sul fuoco, «alle elezioni il presidente del Consiglio non pensa affatto, sono tutte ipotesi legittime ma prive di fondamento...».

Si diffonde la «sindrome del bordello», definizione popolaresca di Verdini, coordinatore nazionale Pdl. Tutti vanno a ruota libera, e ne nasce un vociare sgraziato. Il lungo silenzio di Berlusconi alimenta gli equivoci: in mancanza di direttive chiare, chiunque si sente legittimato a interpretare il «verbo». Parli con i falchi, e ti danno per certo che «Silvio ha deciso, o Fini piega la testa oppure si vota a marzo». Bussi dalle colombe, e scuotono la testa, «Berlusconi non è così matto, le elezioni sono un rischio mortale, lui lo sa bene».

Aggiungono che «Fini fa rima con Dini», anche nel ‘94 il Cavaliere aveva chiesto di andare alle urne ma non c’era riuscito perché l’ultima parola spetta sempre al Quirinale, Napolitano non dà maggiori garanzie di Scalfaro. Né funzionerebbero gesti estremi, come le dimissioni in massa dei deputati di centrodestra cui qualche «pasdaran» vagheggia come al martirio.

Il Cavaliere ancora non ha deciso. Chi parla con lui riferisce giudizi terribili sull’ex-amico Gianfranco, la rottura sembra irrimediabile, quantomeno sul piano personale. Berlusconi non sopporta che Fini tenga «il piede in due staffe, ha voluto l’incarico istituzionale di prestigio ma adesso pretende di dettare legge nel partito, o l’una o l’altra cosa». Circolano leggende sull’umor nero del premier che la notte non dorme, assediato dagli incubi familiari (il divorzio, i figli, le liti sul patrimonio) e dunque si sveglia irascibile come mai i fedelissimi l’avevano visto in passato.

Ieri aveva la testa tutta presa dagli incontri internazionali, in fondo trattare coi capi di Stato è l’attività che più lo appaga. Oggi tornerà sulla terra, vedrà i proconsoli, studierà i dossier, sviscererà i sondaggi. Se desse retta ai famosi consulenti americani, non avrebbe dubbi: al voto, al voto. Le elezioni sarebbero una pura formalità, già vinte in partenza, questo gli dicono dall’altra sponda dell’Oceano.

Però Berlusconi vuol sentire cosa ne pensa la sua guru in materia, Alessandra Ghisleri. Gli hanno detto che il Pd cresce, lui vuol sapere come stanno le cose. Con Bersani in ascesa, le urne sarebbero una roulette. E poi gli interessa capire quanto vale Fini agli occhi degli elettori: due o tre punti percentuali secondo certe stime, meglio accertarsi bene prima di compiere gesti politici irreparabili.


L'ira di Fini: io e Silvio due cose distinte
di F. Martini e G. Ruotolo - La Stampa - 18 Novembre 2009

E’ giornata piena di convegni, una di quelle giornate nelle quali un presidente della Camera finisce per parlare di tutto, dei problemi del Togo, del «bipolarismo muscolare» e del «linguaggio dei segni». Passando da un microfono all’altro, Gianfranco Fini si cimenta sull’universo mondo, ma significativamente si tiene lontano dai temi di stretta attualità politica proprio nel giorno dell’esternazione del suo “collega” Renato Schifani. Eppure, nei colloqui informali con diverse personalità, Fini, ha parlato dei suoi rapporti personali e politici con Silvio Berlusconi. Al riguardo ha scandito più volte una frase importante: «Oramai siamo cose diverse».

Dove possa portare questa diversità, Fini non lo dice, ma chi ha parlato informalmente con lui ha ricavato la netta impressione che non voglia mollare. Tanto è vero che quando gli hanno letto le esternazioni di Schifani, il presidente della Camera ha fatto questo ragionamento: Berlusconi vuole vedere come reagisco, ma sia chiaro che la minaccia di elezioni anticipate non mi fa paura.

E la reazione non si è fatta aspettare. Carmelo Briguglio, della squadra “stretta” di Fini, ha fatto diffondere una nota di agenzia: «Spero che qualche consigliere più avveduto faccia riflettere il presidente del Consiglio sui rischi di quello che sarebbe un vero azzardo, ovvero le elezioni anticipate. Ammesso che si facciano e si facciano fare, si possono sempre perdere».

Italo Bocchino, che con Fini parla minuto per minuto, ostenta sicurezza: «Il presidente Schifani ha espresso il pensiero unico di Silvio Berlusconi. Noi non capiamo le ragioni perché si sventoli lo spauracchio delle elezioni anticipate. Non le coltiviamo ma deve essere chiaro che non ci fanno paura. E’ insopportabile questo modo di procedere: non si discute, non si ragiona, non si cerca la mediazione. Si va avanti a ultimatum». I fedelissimi del premier pensavano che la sortita del presidente del Senato placasse gli spiriti focosi della «minoranza» dei finiani, anzi li «raggelasse».

E invece anche ieri è andato in scena il ritrovato «orgoglio» di quella destra che, per dirla con Fabio Granata, «era anticomunista quando c’era il comunismo, e non lo è certo oggi che il comunismo è morto», «era ed è sempre sensibile al tema della legalità, che è la precondizione per la politica». Si spinge oltre Granata: «La nostra è una storia fatta anche di opposizione».

Più passa il tempo e più aumentano i fronti dello scontro interno al Pdl. Prima il caso Cosentino, poi il «processo breve», adesso i temi sensibili del «biotestamento»: la presentazione alla Camera di emendamenti finiani ha fatto gridare allo scandalo i fedelissimi di Berlusconi. A loro risponde Fabio Granata: «Tutti hanno sempre rivendicato la libertà di coscienza. Qualcuno se l’è rimangiata?». E poi gli altri temi di scontro sono l’immigrazione e la cittadinanza.

Tiene banco la questione Cosentino, che oggi si difenderà nella Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera. Ma lo scontro vero ci sarà sulle sue dimissioni da sottosegretario e sulla sua candidatura alla Regione Campania: «Noi - dice Bocchino - voteremo per le sue dimissioni dal governo. Cosentino non può essere candidato alle regionali». C’è il rischio molto concreto che se questa mina vagante non viene disinnescata dal presidente del Consiglio, potrebbe determinarsi una maggioranza molto scandalosa: finiani, Udc, Pd, Idv.

Tema di scontro continua ad essere il «processo breve». I finiani sollevano un distinguo: «Noi abbiamo sottoscritto l’accordo politico sul testo, e lo voteremo. Però vorremmo che non si prestasse a rilievi di incostituzionalità e non abbiamo ancora capito l’entità della copertura finanziaria».


La terza festa
di Furio Lo Forte - www.lavocedellevoci.it - 17 Novembre 2009

Qual era, quella fatidica serata del 26 aprile 2009, nel locale di Casoria dove si festeggiava il compleanno di Noemi Letizia, il terzo “argomento” del quale era stato chiamato a discutere il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi?

Pur dopo mesi di polveroni mediatici, l'assoluto silenzio - né una lettera, un fax e nemmeno una mail di smentita - seguito alle rivelazioni di giugno della Voce (riprese poi dall'Unità e da Micromega), sui reali motivi di quella strana “discesa di Casoria”, suona ormai come una definitiva conferma. Berlusconi fu costretto ad andare “a trattare” con quella parte del suo elettorato campano che non ragiona con le chiacchiere. E che non bisogna assolutamente “fare arrabbiare”.

Tre, secondo alcune attendibili ricostruzioni, i piatti forti di quella sera. In primis, la conferma dell'appoggio incondizionato a Luigi Cesaro, il candidato del Pdl alla Provincia di Napoli che si accingeva a vincere le elezioni del 7 giugno, benché cominciasse a trapelare la notizia delle indagini della Dda a suo carico scaturite dalle pesanti rivelazioni di un pentito del settore rifiuti del calibro di Gaetano Vassallo.

Secondo punto doveva essere quel “maledetto” inceneritore di Acerra: da poco entrato in funzione, avrebbe sottratto alle “imprese” finora sul campo (con gli effetti che abbiamo avuto tutti sotto gli occhi) business da centinaia di milioni di euro l'anno.

Sia detto per inciso: inaugurato in pompa magna il 25 marzo personalmente da Berlusconi, l'impianto da allora funziona con una sola linea su 3 e fino al 31 agosto aveva inghiottito in tutto appena 1.290 tonnellate di rifiuti, contro le 2.000 al giorno previste.

Terza, non meno scottante questione, le nomination per la corsa al vertice della Regione. Con una serie di scalmanati “fan” gia' in pista per sostenere le sorti di Nicola Cosentino. Un candidato, anche lui come l'amico Cesaro, al centro delle rivelazioni di pentiti e indagato dall'antimafia partenopea, oltre che imparentato con un uomo dei clan. Tutti dettagli che non avevano impedito al premier di insediare Cosentino nella posizione chiave di sottosegretario all'Economia. Vuoi vedere che possano causargli qualche mal di pancia proprio ora, che sono in gioco le sorti della Campania?

Tra i più fedeli ed antichi supporter del sottosegretario c'è lui, Salvatore Capacchione. E della circostanza si trovano tracce anche nell'ambito del processo in corso all'undicesima sezione penale del Tribunale di Napoli (vedi l'inchiesta "Sistema Fallimentare"). Piu' volte Capacchione parla al telefono dell'amico Nicola con un avvocato di sua fiducia, Roberto Landolfi (co-imputato con Capacchione e definito dagli investigatori come personaggio «direttamente coinvolto nelle prassi corruttive per far conseguire al sodalizio indebiti vantaggi»). A proposito del business immobiliare nella zona di Ponticelli, al centro delle accuse nelle aule di dibattimento, Landolfi riferisce a Capacchione che «Nicola non vuole essere lasciato fuori dall'affare, chiede un ritorno in termini di posti di lavoro».

Qualche nuvola sembra profilarsi all'orizzonte quando Landolfi riceve una telefonata e ne racconta il contenuto a Capacchione. A chiamarlo era stato Pasquale Vitale, un burocrate di Via XX settembre, il quale gli aveva riferito che «Nicola è contrariato per un articolo scritto da tua sorella Rosaria».

Resta solido, comunque, il legame fra i tre. Ne fa fede un'altra telefonata in cui Salvatore chiede a Landolfi un appuntamento con Cosentino «per un abbraccio». «La prossima settimana - lo rassicura l'amico avvocato - ti prometto che andiamo tutti e tre a mangiarci una cosa insieme».