lunedì 23 novembre 2009

Quei missionari dei banchieri...

Alcuni articoli sul tragicomico afflato missionario dei banchieri, in ovvio e netto contrasto con le attività che svolgono e soprattutto finanziano.

Per esempio, basti pensare allo stridente contrasto tra ciò che dichiara il presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, in una lectio in Vaticano (leggi il relativo articolo qui di seguito, ndr) e il finanziamento della produzione di cluster bombs da parte della banca che presiede.

Ma questo è solo uno tra i centinaia di esempi che si possono citare per valutare quanto ridicoli - e tragici - siano certi discorsi pronunciati da coloro che sono i primi responsabili della crisi economica in corso e delle conseguenze che ne stanno derivando per miliardi di persone sparsi nel globo.


Goldman Sachs: nemico pubblico?
di Mario Braconi - Altrenotizie - 23 Novembre 2009

Goldman Sachs è la sola tra le banche d'affari sopravvissuta quasi indenne alla crisi finanziaria: pur non essendo la più grande del mondo (30.000 dipendenti, 11 volte di meno della Industrial and Commercial Bank of China), né quella con il bilancio più robusto (totale attività pari a circa 900 miliardi di dollari, contro i 2,4 del colosso britannico HSBC), è di gran lunga la più redditizia (222.000 dollari per addetto - la seconda in classifica, JP Morgan, arriva "appena" a 133.000). Simbolo quintessenziale del liberismo più spericolato, icona del mondo finanziario, conventicola infiltrata nelle stanze dei bottoni dell'universo mondo, c'è chi la chiama Goldmine Sachs ovvero Miniera d'oro - Sachs, chi Government Sachs, ovvero Governo - Sachs.

La banca d'affari fondata a New York nel 1869 da due ebrei bavaresi (Marcus Goldman e Samuel Sachs) è stata per quasi un secolo e mezzo oggetto di ammirazione quanto di odio: il giornalista freelance John Arlidge è riuscito a penetrare all'interno del quartier generale di Goldman Sachs, un edificio anonimo al numero 85 di Broad Street, a New York, e a raccontare la Goldman ai lettori del Sunday Times.

Arlidge intervista Lloyd Blankfein, CEO di Goldman Sachs, nato 54 anni fa nel Bronx da un postino e una receptionist, laureato ad Harvard con borsa di studio. Con una busta paga da 68 milioni di dollari (nel 2007), mezzo miliardo di dollari di azioni della sua banca nella sua custodia personale, un appartamento da 30 milioni di dollari a Central Park West e un buen retiro di 2.000 metri quadri negli Hamptons, Blankfein è uno di quelli che ha risalito la scala sociale a tre gradini alla volta.

Parla da iniziato (il che non è poi così strano, visto che è il capo supremo di un'organizzazione che assomiglia più ad una chiesa laica che ad una banca) e la sua autostima è apparentemente illimitata: "Noi (le banche) siamo importanti. Aiutiamo le aziende sostenendole nel processo di reperimento di capitali. Le società creano benessere. Questo crea posti di lavoro, che stimolano nuova crescita e nuovo benessere. Abbiamo una missione sociale". Più una professione di fede che una provocazione, pare.

La situazione patrimoniale di Goldman Sachs è molto diversa da quella delle concorrenti: innanzitutto ancora esiste, cosa che non può dirsi ad esempio di Lehman Brothers (lasciata fallire e poi suddivisa tra Nomura e Barclays), della Bear Stearns (acquistata per pochi dollari dalla JP Morgan grazie anche all'aiuto delle autorità pubbliche americane); inoltre, ha subito perdite accettabili (i mutui le sono costati 1,7 miliardi di dollari), cosa che le ha impedito di fare la fine di Citi (salvata con i soldi pubblici), o di Merrill Lynch (spinta a forza tra le braccia di Bank of America).

E poi, pur avendo incassato 10 miliardi di dollari dal TARP (Troubled Asset Relief Program - programma di recupero di attività di difficile liquidazione), li ha restituiti dal Governo con gli interessi (si dice di oltre il 20%). Cosa che peraltro consente alla Goldman di pagare tranquillamente bonus stellari ai suoi dipendenti anche in tempi di crisi e di grande quanto giustificata impopolarità per le banche: per quest'anno sono stati messi da parte a questo scopo 21 miliardi di dollari, pari ad un bonus medio di 700.000 dollari per ogni dipendente, dal CEO all'ultimo dei contabili.

Come ha fatto GS a passare indenne attraverso lo tsunami che ha sbaragliato tutte le sue concorrenti? Se lo si chiede ai suoi dirigenti, come ha fatto Arlidge, le risposte tenderanno all'autoincensamento. Secondo Liz Beshel, madre single quarantenne nonché tesoriera di gruppo (la più giovane nella lunga storia di Goldaman), si sono evitati i danni esplosivi sui subprime grazie ad una politica molto prudente di gestione del rischio.

Tutte le posizioni in essere, continua Beshel, sono valutate quotidianamente al loro valore di mercato; quando si è visto che il portafoglio dei mutui non stava producendo la performance desiderata per più di una settimana, "quella che in altre banche sarebbe stata considerata una differenza irrilevante, o addirittura un arrotondamento, scatenò in Goldman Sachs un processo di verifiche culminato con un meeting tra i suoi grandi capi", nel quale si decise di alleggerire la posizione della banca su quel mercato. Certo, vi furono comunque perdite rilevanti, ma stiamo parlando di poco meno di 2 miliardi di dollari (si consideri ad esempio che UBS in questo modo ne ha persi quasi 60).

L'infallibilità di Goldman Sachs è uno di quei miti così pervicacemente alimentati, che metterlo in dubbio sembra quasi un'eresia. Goldman ha una sua filosofia, basata su alcuni presupposti: innanzitutto, una patologica attrazione per il denaro. Dice un ex Goldman che la cultura della banca è "completamente ossessionata dal guadagno. Mi sentivo come un asino davanti alla più grossa e succulenta carota che avessi mai immaginato. Il denaro è il metro con cui si misura il tuo successo. Se non compri una casa o una barca più grande, significa che stai rimanendo indietro". In secondo luogo, Goldman alimenta nelle sue persone il culto dell'insicurezza.

Come dice Mr. Sherwood, capo dell'ufficio di Londra, "c'è un clima di costante e profonda paranoia in tutto quello che facciamo". Si dice che i candidati per un posto di lavoro in Goldman vengano sottoposti mediamente a venti colloqui prima di essere assunti, anche se si registrano casi limite in cui le selezioni si sono concluse solo dopo la trentesima intervista. Se ci fosse ancora qualche dubbio sull'osservanza “darwinista” del dipartimento Capitale Umano (non risorse umane, "capitale umano"), è bene sapere che la regola, in GS, è "cresci o te ne vai", non c'è spazio per le mezze tacche.

Il terzo pilastro è quello delle relazioni: per inveterata tradizione, gli ex Goldman Sachs occupano poltrone rilevanti in tutti i gangli del sistema economico, finanziario, politico e mediatico, negli USA come in Europa. Hanno alle spalle una carriera in Goldman Sachs, ad esempio, il segretario del tesoro di Clinton (Hank Paulson), l'attuale presidente e il precedente direttore della Federal Reserve di New York, il capo dello staff dell'attuale Segretario di Stato (Mark Patterson), il consigliere economico di Hillary Clinton, i capi di ieri e di oggi nel New York Stock Exchange (la Borsa di New York), e perfino il capo delle operazioni della SEC (la CONSOB americana). Anche Mario Draghi, attuale Governatore della Banca d'Italia, è un ex Goldman.

Ma per capire veramente che cosa è Goldman Sachs, è necessario allontanarsi dall'ortodossia dei dogmi che essa stessa ammannisce alle folle. Innanzitutto, uno dei punti di forza della banca è quello di essere contemporaneamente advisor (consulente, non di rado dei Governi) e trader (operatore di mercato).

Ciò significa che con una mano fa consulenza ai clienti in grosse operazioni e con l'altra prende posizione su mercati (azioni, obbligazioni, materie prime) sui quali si muove da maestra grazie alla sua esperienza di advisor. Ovviamente, qualsiasi Goldmanite ribatterà citando la mitica regola secondo cui i due bracci del business della banca sono separati da rigorose "muraglie cinesi"; si dice che, se un banchiere d'affari di Goldman entra nella sala operativa della sua stessa banca, verrà immediatamente interrogato dai suoi capi.

A costo di sembrare qualunquisti, questo idilliaco quadretto mostra la corda quando si tenti di rispondere alla domanda: qualora un grosso affare con ritorni da capogiro renda necessario non dico saltare, ma semplicemente anche solo sbirciare dall'altra parte della "muraglia", il tipico uomo (o donna) Goldman - praticamente un tossico del denaro - saprà resistere alla tentazione?

Inoltre, quella che viene spudoratamente spacciata per sagacia nell'interpretazione delle tendenze dei mercati è in realtà la capacità di pompare certi settori per specularvi sopra, salvo poi abbandonarli repentinamente a missione compiuta.

Non sono pochi gli analisti che attribuiscono a Goldman Sachs un ruolo essenziale nella creazione di bolle speculative (è stato così per la febbre delle dot.com, per il boom delle materie prime, e poi del mercato immobiliare) dalle quali la banca ha beneficiato con collocamenti azionari e trading sul debito - salvo poi tirarsi indietro subito dopo aver portato a casa il profitto - circa un minuto prima che tutto andasse in malora.

Un altro caso interessante è quello che ruota attorno al destino della AIG (American Investment Group), venditrice dei celebri credit default swaps, assicurazioni sul rischio di fallimento dei prenditori di fondi. Risulta che quando l'AIG, ormai decotta, fu rilevata dal Tesoro e dalla Fed, la prima, inspiegabile mossa del nuovo proprietario pubblico della compagnia assicurativa fu quella di liquidare il 100% del valore dei CDS alle banche che a suo tempo li avevano comprati, questo quando da mesi ormai AIG stava negoziando per pagare solo il 60% del loro valore facciale.

Una differenza che vale 13 miliardi di dollari in più passati direttamente dalle tasche dei contribuenti ai forzieri dei clienti di AIG (tutte le principali banche, tra cui anche Goldman Sachs). Stranamente, al timone della Federal Reserve ai tempi c'era Henri Paulson (ex boss della Goldman Sachs); stranamente Paulson, che pure aveva giurato di non farlo, ha incontrato i suoi ex colleghi del board di Goldman Sachs ad un "evento sociale" a Mosca (un luogo dove ci potrebbero essere problemi di giurisdizione); ancor più stranamente, proprio mentre Paulson lavorava al salvataggio di AIG, i tabulati telefonici provano che, in soli sei giorni, egli si sia sentito ben 24 volte con Blankfein, il nuovo CEO di Goldman Sachs.

Eppure Goldman ha avuto l'arroganza di sostenere pubblicamente che, se pure AIG fosse andata in bancarotta, la banca non sarebbe affondata, dato che era protetta da una combinazione di cassa e di garanzie. Peccato che David Viniar, CFO di GS, si sia rifiutato di rendere note le controparti di questi fantasmatiche operazioni di copertura, cosa che rende "ridicola", nonché controproducente, la sua prova muscolare. Sembra dunque che il vero volto di Goldman Sachs assomigli molto più a quello dipinto dai molti cospirazionisti che alle fattezze rassicuranti che ci propongono i suoi capi.


Société Genéralé dice ai propri clienti come prepararsi ad un possibile "crollo globale"
di Ambrose Evans-Pritchard - www.telegraph.co.uk - 18 Novembre 2009
Traduzione a cura di Jjules per www.comedonchisciotte.org

In un rapporto intitolato “Worst-case debt scenario”, il team di gestione degli asset della banca ha dichiarato che nell’ultimo anno i pacchetti di salvataggio statali hanno solamente trasferito i debiti privati sulle spalle ormai incurvate degli stati, creando una nuova serie di problemi.

Il debito complessivo, come percentuale del PIL, è ancora eccessivamente elevato in quasi tutte le economie ricche (il 350% negli Stati Uniti). Deve essere ridotto, nei prossimi anni, con il lavoraccio necessario di “diminuzione della leva.”
“Finora nessuno può dire con certezza se siamo effettivamente scampati dalla prospettiva di un crollo economico globale”, sostiene il rapporto di 68 pagine, curato dal responsabile degli asset Daniel Fermon. E’ una valutazione dei danni, non una previsione.

Nello scenario della banca francese chiamato “Situazione dell’Orso” (il risultato più pessimista tra i tre possibili), il dollaro scivolerebbe ulteriormente e i capitali globali sperimenterebbero di nuovo i minimi di marzo. I prezzi dell’immobiliare precipiterebbero un’altra volta. Il petrolio scenderebbe a 50 dollari al barile nel 2010.

I governi hanno già sparato le loro cartucce fiscali. Anche senza nuove spese, il debito pubblico esploderebbe entro due anni al 105% del PIL nel Regno Unito, al 125% negli Stati Uniti e nell’Eurozona e al 270% in Giappone. Il debito degli stati nel mondo raggiungerebbe i 45.000 miliardi di dollari, un aumento di due volte e mezzo in dieci anni.
(Le cifre riguardanti il Regno Unito sembrano basse perché il debito è partito da una base bassa. Ferman sostiene che il Regno Unito potrebbe convergere con l’Europa al 130% del PIL entro il 2015 nel risultato più pessimista).

Il peso del debito è superiore a quello susseguente alla Seconda Guerra Mondiale, quando i livelli nominali apparivano molto simili. L’invecchiamento delle popolazioni renderà più difficile l’erosione del debito attraverso la crescita. “Gli elevati debiti pubblici appaiono del tutto insostenibili nel lungo termine. Per il debito governativo abbiamo quasi raggiunto un punto di non ritorno”, viene detto. Il debito inflazionistico potrebbe essere visto da alcuni governi come il male minore.

Se così fosse, l’oro salirebbe “sempre più in alto”, l’unico rifugio sicuro dalla moneta a corso forzoso. Il debito privato si trova anch’esso in una situazione rovinosa. Anche se il tasso di risparmio americano si stabilizzasse al 7%, e venisse utilizzato tutto per ripagare il debito, occorrerebbero comunque nove anni alle famiglie per ridurre il rapporto debito/reddito ai livelli di sicurezza degli anni Ottanta.

La banca ha affermato che la crisi attuale mostra delle “affascinanti similitudini” con il Giappone del Decennio Perduto (o dei due decenni), ma con una grossa differenza: il Giappone è riuscito a cavarsela esportando in una forte economia globale e permettendo la svalutazione dello yen. Per la metà del mondo non è possibile portare avanti contemporaneamente questa strategia.

SocGen consiglia ai ribassisti di vendere i dollari e di andare “short” sui titoli ciclici come tecnologia, automobili e viaggi per evitare di rimanere intrappolati nella “intrinseca spirale deflazionistica.” I mercati emergenti non verrebbero risparmiati. Paradossalmente, hanno un’influenza sulla crescita degli Stati Uniti maggiore della stessa Wall Street. I prodotti agricoli reggerebbero bene, zucchero in testa. Fermon ha detto che le obbligazioni spazzatura (“junk bond”) perderebbero solo nel 2010 il 31% del loro valore.

Tuttavia, le obbligazioni sovrane genererebbero dei “profitti turbo” che imiterebbero la lenta ma continua discesa dei rendimenti che si è vista in Giappone quando la crisi ha toccato il fondo. Ad un certo punto il rendimento dei Buoni del Tesoro giapponesi a 10 anni è sceso allo 0,40%. La Fed conterrebbe i rendimenti acquistando altre obbligazioni. La Banca Centrale Europea farebbe ancora meno, per ragioni politiche.

La tesi di SocGen di acquistare obbligazioni sovrane è controversa. Un certo numero di fondi dubitano del fatto che lo scenario giapponese si possa ripetere, non ultimo il fatto che Tokyo stessa possa trovarsi all’apice di una crisi aggravata dal debito.

Fermon ha detto che il suo rapporto ha elettrizzato i clienti su entrambe le sponde dell’Atlantico. “Tutti vogliono sapere quale sarà l’impatto. Molti hedge fund e molti banchieri sono preoccupati.”


Il futuro delle banche
di Marco Da Buscareta - www.clarissa.it - 22 Novembre 2009

Novembre 2009. Se un commentatore dovesse procedere ad una sintesi estrema su quanto è stato fatto dopo la crisi finanziaria del 2008, al fine di prevenire il ripetersi di simili eventi, probabilmente scriverebbe: nulla.

Durante questo periodo si è riunito il G8, varie volte il G20, fiumi di parole sono state riversate dai media, inchiostro a profusione: nulla. Tutti hanno la loro medicina, tutti sono favorevoli ad una "immediata" revisione delle regole sulla finanza mondiale. Tutti vogliono cambiare tutto. Di fatto il niente.

E questo non è un fatto circoscritto all'Italia, o ad un'altra nazione europea, o agli Stati Uniti, o ad altri paesi. Il virus della passività è presente in ogni angolo del mondo a qualsiasi latitudine e longitudine. Si dice che il problema è globale e che occorre una risposta globale. Ma se non esiste uno stato globale, qualche stato dovrà pur alzare la testa dalla sabbia e iniziare a fare. Sul serio.

Credo che questa apparente ignavia, che si vuole far passare per "complessità del problema", in realtà possa essere usata come il corretto misuratore della potenza che la finanza è in grado di esercitare.

Non è da dietrologi, o da amanti della cospirazione, affermare che oggi la finanza rende succube l'economia e la società. Quello che doveva e dovrebbe essere lo strumento attraverso il quale le attività economiche potevano essere facilitate nel loro svolgersi ed evolversi si è trasformato nel loro dominatore. Da mezzo a fine. Da controllato a controllore.

Questa è la finanza oggi. Un sistema che non conferisce valore aggiunto alla produzione di ricchezza, invece ne determina una redistribuzione a livello sociale che risulta indipendente dal contributo fornito dai singoli lavoratori.

Chi guadagna in questa kermesse è lo speculatore, che dispone di capitale finanziario e di competenze finanziarie tali da permettergli di lucrare senza produrre. In tal modo, spesso, oltre che defraudare del giusto guadagno chi effettivamente ha prodotto, la finanza distrugge ricchezza nel momento in cui, vittima della sua stessa avidità e delle sue incoerenze, determina situazioni di crisi che tutti ben conosciamo.

Al centro di questo discorso è il sistema bancario. Durante gli anni '90, nel mondo industrializzato si è proceduto ad una gigantesca deregolamentazione a causa della quale le banche hanno modificato radicalmente il loro modo di essere e di operare.

Ma torniamo indietro di qualche anno per capire meglio quello che è successo.
Dopo la crisi del '29, anch'essa nata da un eccesso di debiti e dalla euforia di Borsa, era stato compreso che le banche, nel sistema capitalistico, non potevano essere lasciate libere di fare ciò che volevano perché erano troppo importanti e condizionavano la stabilità dell'intera economia.

Un loro eventuale tracollo avrebbe comportato un effetto domino su famiglie e aziende tale da far regredire di decenni l'economia del paese colpito. Compresa la lezione, tutti i paesi industrializzati hanno elaborato normative stringenti con il dichiarato scopo di evitare il ripetersi di tali catastrofi.

Negli Stati Uniti veniva approvata la legge bancaria Steagall Glass che prevedeva la netta separazione tra banche commerciali e banche d'affari. In Italia la legge elaborata da Donato Menichella nel 1936 oltre a stabilire una analoga separazione, poneva dei limiti altrettanto stretti tra attività bancarie a breve e quella a medio lungo termine.

In Italia alle banche commerciali era proibito detenere quote di partecipazione (ancora meno di controllo) nelle aziende non bancarie, era proibito qualunque attività di trading su titoli e valute. Le uniche operazioni consentite erano quelle effettuate per conto della clientela.

Nel 1993 venne approvato il decreto legislativo nr. 385 che ha rivoluzionato l'intima struttura del sistema bancario: dalla regolamentazione stringente si passava alla "banca universale" che disponeva di enormi margini di azione.

Questa cambiamento ha coinciso (e qui un po' di dietrologia non guasterebbe) con la stagione delle privatizzazioni. In altre parole, fin tanto che le banche erano pubbliche, erano regolamentate ed erano scarsamente redditizie. Con la deregolamentazione e le privatizzazioni, le banche sono divenute delle autentiche galline dalle uova d'oro a vantaggio dei privati che ne avevano assunto il controllo.

Negli ultimi anni in particolare, le banche (italiane ed estere) hanno inanellato continui record di redditività. Il ROE (la redditività sul capitale investito) di alcune di queste ha superato il 20% annuo, il doppio o il triplo della redditività conseguita dalle attività manifatturiere o altre non bancarie. Un vero bengodi, interrotto almeno per qualche tempo dalla crisi finanziaria del 2008.

Ma già in questi ultimi mesi le banche hanno ricominciato a macinare utili e a riprendere le vecchie abitudini. Il vizio di fare speculazione è riemerso ancora più forte di prima. Negli Stati Uniti le prime 25 banche, che dispongono complessivamente di attivi per 7.600 miliardi di dollari, hanno assunto rischi in derivati pari a 203.000 miliardi di dollari.

Circa 30.000 miliardi in più rispetto alla stagione pre crisi. In altri termini per ogni dollaro di attivo di bilancio le banche hanno fatto scommesse per 26 dollari. Ancora più preoccupante è la tendenza seguita dagli istituti di credito: operare sempre più nelle attività speculative e più lucrose (fin quando va bene) a detrimento delle operazioni di credito. Con inevitabili conseguenze negative sulle aziende e l'intera economia reale.

Alla luce di quanto accaduto nell'ultimo anno, alcune personalità di spicco della finanza internazionale hanno invocato profonde ed effettive modifiche del quadro normativo inerenti la struttura e l'operatività del sistema bancario. Paul Volcker (ex governatore della Federal Reserve), Mervin King (attuale governatore della Banca d'Inghilterra) chiedono il ritorno alla separazione tra banche commerciali e banche d'investimento. George Soros è favorevole a maggiori controlli e vincoli verso le grandi banche, quelle per intenderci che "non possono fallire".

Malgrado il carisma e la stima goduta a livello internazionale dai proponenti vi è stato un fuoco di sbarramento contro inutili e "antistoriche" leggi superate dall'evoluzione dei mercati.

Ecco alcune delle obiezioni opposte. La separazione tra attività di credito (vera attività della banca) e quelle di trading e d'investimento, definita sprezzantemente "spezzatino", determinerebbe una minore "efficienza" dei mercati. Un maggiore controllo da parte degli enti preposti limiterebbe la libertà d'impresa.

La cosa che lascia allibiti è la spudorata semplicità con la quale vengono ammessi e difesi macroscopici errori commessi negli anni che hanno preceduto la crisi finanziaria del 2008 da banche e banchieri. In sintesi intellettuali, economisti, giornalisti con singolari capacità sofistiche vogliono far credere al cittadino che "cose di questo genere" possono capitare. Che sono degli incidenti di percorso dei quali si deve approfittare per mettere a punto il sistema.

Credo che i milioni di lavoratori che hanno perso il proprio lavoro abbiano idee abbastanza diverse da questo capzioso ottimismo di facciata.

Ogni persona di buon senso dispone della risposta. Perché poi, in realtà, le cose sono molto più semplici di quello che si vuol far ritenere.
Vediamo di riflettere su di esse in modo ordinato.
Prima di tutto le banche non possono essere "grandissime". Ciò per un motivo strettamente economico: la dimensione va a scapito della concorrenza (vera).

La banca deve fare la banca. In altre parole basta con operazioni speculative; il trading su valute e titoli non deve rientrare nell'attività propria di una banca. A questo riguardo una maggiore attenzione alla tassazione degli scambi (solo quelli con finalità speculativa e non altri di matrice commerciale) potrebbe aiutare a smorzare il clima da "sala corse" che si è aperto nel corso degli ultimi anni.

La banca, riacquisendo la sua funzione specialistica, dovrebbe essere estranea anche alle attività di bancassicurazione e gestione del risparmio (fondi comuni di investimento e prodotti affini). Tali attività dovrebbero essere svolte da altri operatori, distinti dalla banca, non solo sotto il profilo giuridico ma anche organizzativo.

In altre parole se il risparmiatore vuole porre i suoi soldi in un conto corrente, libretto a risparmio, certificato di deposito, pronti contro termine, obbligazione bancaria si rivolgerà alla banca.

Ugualmente se intenderà investire i suoi risparmi in titoli (azionari, obbligazionari, ecc.) avvalendosi del servizio di mediazione dell'istituto di credito. Qualora volesse concedere un mandato a gestire le proprie risorse a operatori qualificati (fondi comuni di investimento e simili) ricorrerà alla rete di promotori che operano in tutti i paesi industrializzati.

Obama come Tremonti (solo per citarne alcuni) sanno che solo attraverso profonde e incisive riforme finanziarie si può assicurare un futuro all'economia mondiale e dare speranze ai cittadini.
Ma il duello è impari perché la politica è divenuta un soggetto "controllato" che non è in grado di rompere l'accerchiamento.

Al momento si sentono parole vuote, impegni stonati, dove gli attori della politica affrontano parzialmente e riduttivamente i problemi connessi alla finanza con frasi che tendono ad essere di effetto ma senza alcuna utilità.

Si pensi a quanto si è parlato dei bonus ai banchieri o della stessa legge "Tobin Tax" che potrebbe avere una sua effettiva valenza solo in un contesto di riforma complessiva.

Intanto ai cittadini si consiglia di scegliere con prudenza, orientandosi verso prodotti semplici e chiari e fidandosi solo di persone che per anni hanno dimostrato di meritare la loro stima.



Banche italiane e assegni strani
di Roberto Scorcella - www.ilribelle.com - Novembre 2009 / Anno 2 Numero 14

Non solo i grandi colossi del credito hanno avuto (e hanno) condotte quanto meno criminali. Stavolta molto di strano c’è anche da “noi”.
Ecco la storia di Unicredit e Nazareno Gabrielli

Una società ceduta dopo regolare visura dei libri contabili. A cessione effettuata, assegni stellari addebitati sul conto corrente. Firmati dalla precedente proprietà. 50 lavoratori per la strada. E una causa in corso.

Un'azienda sull'orlo del fallimento di questi tempi non è una novità. Particolarmente inquietante, ma anche questa purtroppo inizia a diventare una consuetudine, il fatto che a spingerla verso il baratro sia stata una banca.

La vicenda riguarda un marchio che a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta è stato una griffe rinomata, sui livelli di Gucci e Cartier, con negozi in ogni parte del mondo e capi ricercatissimi. Stiamo parlando della Nazareno Gabrielli, azienda del maceratese fondata nel 1907 dall'uomo che le ha dato il nome.

Per entrare nella vicenda bisogna capire che cosa è stata la Nazareno Gabrielli. Specializzata nel pellettiero, sotto la direzione del manager David Passini sceglie negli anni Ottanta di introdurre il design in ogni prodotto e buttarsi a capofitto in una politica di marchio con una netta predilezione verso il settore femminile.

La scelta è vincente e gli anni Novanta vedono la Nazareno Gabrielli sfiorare un fatturato di 130 miliardi con circa 600 dipendenti. Gli effetti di qualche operazione finanziaria azzardata, portano verso una parabola discendente e a un declino inesorabile. Passini vende nel 1999 l'azienda a Angelo Corona, manager abruzzese che due anni prima aveva rilevato il 100 % della fiorentina Pineider, dopo che Diego Della Valle aveva rinunciato all'opzione per rilevare i due stabilimenti della Gabrielli.

Nel 2005 il marchio viene rilevato da un giovane torinese rampante, Filippo Tarocco, amministratore delegato di Key Group. "La società" dichiara Tarocco ai giornali dopo l'acquisizione della Gabrielli "intende sviluppare un piano di rilancio triennale, con al centro un forte sviluppo internazionale del marchio, che sarà riposizionato all'interno del segmento alto del mercato. Prevista a tale scopo anche la prossima apertura di 30 negozi monomarca in Italia e all'estero.

Tra gli obiettivi c'è la salvaguardia dell'occupazione e delle competenze del settore della pelletteria, come pure la garanzia della presenza di un sito industriale a Tolentino". Dopo due anni, nel 2007, Tarocco, con la Gabrielli sull'orlo del fallimento, venderà il marchio. Nel frattempo, però, malgrado tutto si realizza come esperto di economia aziendale scrivendo un libro: "Basilea 2. Nuovi scenari del rapporto banca-impresa".

Uno dei capitoli riguarda il rapporto fra banche e imprese. Che evidentemente conosce molto bene, visto quello che succederà qualche mese dopo l'acquisizione del marchio Nazareno Gabrielli da parte dei nuovi proprietari, due imprenditori milanesi: Paolo Badile e Michele Spagna.

Il passaggio di consegne ufficiale della proprietà di quella che ora si chiama Pelletterie 1907 da Tarocco a Badile e Spagna avviene il 4 ottobre 2007. Quanto successo nei giorni successivi lo racconta lo stesso Badile. “Penso sia opportuno partire dalle date. La nuova società si è formalmente insediata il 4 ottobre 2007. Abbiamo trattato con la precedente proprietà, preso visione dei bilanci e delle esposizioni nei confronti degli istituti di credito fino ad arrivare alla acquisizione della Nazareno Gabrielli. Magicamente, e per la nostra gestione drammaticamente, nell’estratto conto di Unicredit di fine ottobre 2007 ci siamo visti addebitare settantadue assegni per quasi un milione e trecentomila euro. Questi assegni erano stati emessi fra l’aprile e il giugno 2007 dalla precedente gestione e regolarmente pagati da Unicredit alla data dell’incasso.

Una somma tanto rilevante, però, è rimasta sospesa per così dire… nell’etere per circa sei mesi fino a ricomparire improvvisamente non appena noi ci siamo insediati. Per essere ancora più precisi, tutti i settantadue assegni ci sono stati addebitati con la medesima data: 22 ottobre 2007. Curioso, no? Soldi letteralmente scomparsi per così tanto tempo di cui nulla sapevamo e che hanno provocato il dissesto finanziario di Pelletterie 1907.

Infatti, a seguito dell’addebito sul conto di una cifra così cospicua, Pelletterie 1907 è entrata nella Centrale Rischi di Banca d’Italia in quanto ha sconfinato dagli affidamenti concessi per oltre un milione di euro. Una cosa simile non l’ho mai vista né sentita in tutta la mia vita. Oggi un risparmiatore che deve pagare un assegno, se entro due giorni dalla data dell’incasso non ha i fondi sul conto, il titolo viene protestato. Ho sempre creduto che gli istituti di credito potessero in qualche modo aiutare privati e aziende, confidando nella buona fede e nella buona gestione del denaro loro affidato. Questa vicenda, al contrario, mi ha aperto gli occhi su come realmente funziona il sistema”.

E quando chiediamo a Badile chi abbia incassato quegli assegni la risposta è semplicemente disarmante. "I soldi sono finiti a diversi soggetti. Una parte ai fornitori, una parte è stata invece incassata da società collegate alla precedente gestione”.

Evidentemente Tarocco aveva proprio studiato bene il capitolo del rapporto banche-imprese. Ma le dolenti note devono ancora arrivare. Entrare nella Centrale Rischi di Banca d'Italia oggi per un'azienda vuol dire aver chiuso con il credito. La stessa cosa che capita ai privati che non pagano la rata dell'aspirapolvere e si ritrovano nelle black list come il famigerato Crif: credito precluso per almeno un decennio, sempre che la plutocrazia bancaria sia benevola nei suoi confronti.

E a Pelletterie 1907 cosa è successo dopo essere stata inserita nella Centrale Rischi? “Alcune banche" spiega Badile "ci hanno bloccato l’utilizzo delle linee di credito in essere e negato la possibilità di ricorrere a linee di credito aggiuntive.

Inoltre, mi sono state chieste ulteriori garanzie personali per linee di credito già esistenti, peraltro stranamente concesse per importi rilevanti alla precedente gestione senza alcun tipo di garanzia. Un’azienda di pelletteria che lavora in un settore “stagionale” come quello del fashion deve obbligatoriamente ricorrere al finanziamento bancario per finanziare un ciclo produttivo che si chiuderà con l’incasso del cliente dopo oltre un anno.

Questo comportamento di Unicredit ha fatto sì che gli aumenti di capitale versati su Pelletterie 1907, circa tre milioni e mezzo di euro, non siano stati utilizzati in maniera efficiente per poter ristrutturare il debito dell'azienda, ma per finanziare il corrente ovvero la produzione e per pagare oltre tre mesi di decine di stipendi arretrati, eredità della precedente gestione. Da qui, quindi, si è innescato un effetto domino con il sistema bancario che, con il tempo, ha portato prima alla crisi di liquidità e poi alla situazione attuale”.

Insomma, piani di rilancio e di investimento azzerati ancor prima di cominciare, carenza di liquidità, ritardi nei pagamenti degli stipendi e a luglio 2009 un'istanza di fallimento promossa dai dipendenti e pendente al Tribunale di Macerata. Con il rischio che un marchio ultracentenario, segno della storia e della laboriosità di un intero territorio, finisca magari nelle mani di qualche cinese facoltoso per quattro denari. Intanto i 50 dipendenti della Gabrielli sono tutti a casa. E per loro non sembrano esserci prospettive, soprattutto nell'eventualità che l'azienda venga dichiarata fallita.

Pelletterie 1907 si è rivolta al Tribunale civile di Milano chiedendo il rigetto dei decreti ingiuntivi di pagamento emessi da Unicredit ad aprile 2009, sostenendo il dolo negoziale con richiesta di risarcimento dei danni finanziari e d'immagine. Il Tribunale, dopo una prima udienza ha aperto un giudizio di merito per una valutazione tecnica. Prima, però, c'è stato un tentativo di accordo? “Certamente.

Ci siamo seduti a un tavolo” dice Badile "e ho dovuto accettare fidejussioni personali per oltre 5 milioni di euro, oltre a un piano di rientro assolutamente insostenibile per un’azienda in evidente difficoltà finanziaria”. Unicredit, dal canto suo, chiarisce la propria posizione affermando che "gli assegni non furono addebitati alla data del loro ricevimento in quanto la procedura non prevede addebiti in assenza di provvista".

Furono perciò "allocati a sospesi in attesa che si verificassero alcuni eventi prospettati dall'azienda (aumento di capitale e incasso crediti), in considerazione dei quali la banca aveva deciso di accordarle la sua fiducia". Ma gli assegni, in assenza di provvista, non finiscono nelle mani di un notaio per poi essere eventualmente protestati?

Perlomeno questa è la regola applicata con i poveri cristi. Qui, invece, si tiene 1 milione e 300mila euro allocato chissà dove in attesa che si verifichino eventi aleatori prospettati da un'azienda in crisi! Dove saranno finiti tutti quei soldi fra il maggio e la fine di ottobre del 2007? Mistero.

Così, mentre il presidente del consiglio a Tripoli cerca di ottenere da Gheddafi ossigeno (denaro fresco) per finanziare Unicredit in difficoltà e il ministro Tremonti da mesi suona una tremebonda carica contro le banche che non finanziano le imprese, cinquanta persone si trovano per strada, senza più un lavoro, senza più uno stipendio, senza più una prospettiva anche e soprattutto per un comportamento quantomeno anomalo di un istituto di credito che paga assegni senza copertura finanziaria sulla base di "promesse".

E c'è da riflettere perchè se questo è capitato a una piccola azienda come Pelletterie 1907, si può immaginare cosa possa succedere quando il discorso si allarga verso le grandi industrie. Ma in tempi di plutocrazia non c'è da aspettarsi altro che storie come questa.


Il commercio delle cluster bombs è finanziato dalle più grandi banche mondiali
di Nick Mathiason - www.guardian.co.uk - 29 Ottobre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Angelo

Il commercio mortale delle bombe a grappolo è finanziato dalle più grandi banche mondiali che hanno prestato o concordato il finanziamento per un valore di 20 miliardi di dollari (12.5 miliardi di sterline [12.6 miliardi di euro, ndt]) ad imprese che producono le controverse armi, nonostante i crescenti sforzi internazionali per bandirle.

La HSBC [uno dei più grandi istituti di credito del mondo con sede a Londra,ndt], guidata dal prete ordinato Anglicano Stephen Green, ha fatto profitti più di ogni altro istituto con compagnie che producono bombe a grappolo.

La banca britannica, con sede nell'importante distretto finanziario londinese Canary Wharf, ha guadagnato un totale di 657.3 milioni di sterline in parcelle stipulando obbligazioni e offerte di titoli per la Textron, che realizza munizioni a grappolo descritte dall'azienda statunitense come "quelle che lasciano un campo di battaglia pulito".

Gli attivisti affermano che le armi mortali possono esplodere anni dopo i combattimenti, uccidendo o mutilando gente innocente.

La HSBC oggi dovrà vedersela con proteste davanti la sua sede centrale a Londra [29 ottobre 2009, ndt]. La Goldman Sanchs, la Bank of America, la JP Morgan e la banca con sede in Gran Bretagna Barclays sono state menzionate fra le peggiori banche in un dettagliato rapporto di 126 pagine realizzato dai gruppi di attivisti olandese e belga IKV Pax Christi e Netwerk Vlaanderen.

La Goldman Sachs, la banca statunitense che ha fatto 3.19 miliardi di sterline di profitti in appena tre mesi, ha guadanato 588.82 milioni di dollari per servizi bancari e ha prestato 250 milioni di dollari alla Alliant Techsystems e alla Textron.

Delle banche menzionate solo la Barclays era disposta a replicare. Questa ha detto: "Il gruppo Barclays fornisce servizi finanziari al settore della difesa all'interno di una specifica e circoscritta linea di condotta. E' nostra politica non finanziare il commercio in armi nucleari, chimiche, biologiche o altre armi di distruzione di massa.

"La nostra politica proibisce esplicitamente anche di finanziare il commercio di mine terestri, bombe a grappolo o qualunque altro armamento designato per essere usato come uno strumento di tortura." Un portavoce ha aggiunto che la Barclays ha stanziato soldi per la Textron, che realizza bombe a grappolo, ma che l'azienda statunitense era un produttore di armi diversificate fra loro.

Lo scorso dicembre 90 nazioni, inclusa la Gran Bretagna, si sono impegnate a mettere al bando le bombe a grappolo entro il prossimo anno. Ma gli Stati Uniti non erano una di quelle. Fino ad ora 23 nazioni hanno ratificato la convezione. La Gran Bretagna deve ancora farlo, ma il ministero degli esteri ha confermato che farebbe parte del programma legislativo del governo prima delle prossime elezioni.

Un portavoce del ministero degli esteri ha detto che è stato disposto ordine del più stretto controllo sull'esportazione di bombe a grappolo, il quale si estende alle banche che forniscono soldi ai produttori. Il governo era consapevole che l'ordine di controllo non stava funzionando e "sta lavorando su questo".

Esther Vandenbroucke, della Netwerk Vlaanderen e uno degli autori del rapporto, ha detto: "La responsabilità di bandire le munizioni a grappolo è un responsabilità comune. Richiede coraggio, e richiede uno sforzo. Siamo a distanza di pochi mesi dall'entrata in vigore di un trattato internazionale ed è tempo che gli stati firmatari della Convenzione sulle Munizioni a Grappolo agiscano nei confronti degli stati non firmatari e delle istituzioni finanziarie."

Lo scorso dicembre, il fondo pensionistico del governo della Nuova Zelanda ha venduto azioni della Lockheed Martin a causa del suo legame con la costruzione delle bombe a grappolo. Simili azioni sono state intraprese dai governi irlandese e olandese.

Milioni di persone saranno in pericolo a causa di fino a dieci milioni di bombe a grappolo che non sono ancora esplose, cosa che è causa di un danno economico e sociale alle collettività in più di 20 nazioni nelle prossime decadi, hanno avvertito gli attivisti. La grande maggioranza di perdite di vite umane a causa delle bombe a grappolo avvengono mentre le vittime stanno portando avanti le loro vite quotidiane.

Lunedi, ad un libanese di 20 ani gli è stata amputata la gamba dopo che una bomba a grappolo è esplosa ad Houla un villaggio del sud del Libano. Una fonte del servizio di sicurezza ha detto che stava raccogliendo legna nel suo villaggio di confine quando è avvenuta l'esplosione.

L'esercito Israeliano ha fatto un uso intensivo delle bombe a grappolo durante la guerra nel sud del Libano tre anni fa. Le bombe a grappolo sono state usate più recentemente sia dai georgiani che dai russi nella controversia sull'Ossezia del Sud. Sono state usate anche nelle invasioni dell'Iraq e dell'Afghanistan.


Banche a prova di bomba
di Luca Rasponi - Peacereporter - 2 Novembre 2009

Centotrentotto banche di tutto il mondo finanziano la produzione di cluster bombs. La denuncia è dell'associazione Cluster Munition Coalition, che unisce oltre 200 Ong da tutto il pianeta contro le bombe a grappolo. Tra gli istituti di credito segnalati nel rapporto Worldwide investments in cluster munitions: a shared responsability, c'è anche Intesa Sanpaolo.

"Nel luglio 2007" - recita la relazione - "Lockheed Martin (industria bellica americana tra i principali produttori al mondo di bombe a grappolo, ndr) ha rinnovato la sua attuale apertura di credito rotativo (cioè un prestito) di 1,5 miliardi di dollari fino a luglio 2012. Intesa Sanpaolo ha contribuito con 52,5 milioni di dollari al cartello delle 31 banche" erogatrici del prestito.

Qualcosa non quadra. Ma il 3 dicembre 2008 ad Oslo non è stata firmata, anche dall'Italia, una Convenzione che bandisce le cluster bombs? Vero. Però il nostro Paese è solo tra i firmatari del trattato, che non è stato ancora ratificato dal Parlamento. E se sono più di 100 le nazioni ad aver firmato la Convenzione di Oslo, le ratifiche sono ferme a 23.

Beffardamente vicine alla soglia minima di 30, necessaria a rendere il trattato operativo (e dunque vincolante per i Paesi membri). Quindi Intesa Sanpaolo non è obbligata da alcun tipo di regola internazionale a sospendere il prestito erogato a Lockheed Martin. Ma le cose non sono così semplici.

Codice etico. Intesa Sanpaolo rinnova il prestito a Lockheed Martin nel maggio-giugno 2007, come riscontrato dal sito altraeconomia.it in un documento della Security and Exchange Commission, l'organismo che controlla le società Usa quotate in Borsa.

L'operazione precede solo di qualche settimana la scelta di Intesa Sanpaolo di integrare il proprio Codice etico con una weapon policy che "prevede la sospensione della partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d'arma". Perché la vicinanza di due decisioni così contrastanti tra loro?

L'eccezione. Il rapporto Cmc sostiene che per migliorare la propria posizione, Intesa Sanpaolo "non dovrebbe tollerare eccezioni, ponendo fine a tutti i contatti con i produttori di bombe a grappolo, a meno di obblighi legali". Eccezioni? Sì, perché "l'attuale policy non riguarda [...] le operazioni inziate prima della sua pubblicazione ufficiale".

Ecco quindi svelato il mistero: il prestito a Lockheed Martin continua ad essere erogato perché l'accordo è stato concluso prima dell'approvazione della weapon policy. Che in effetti è arrivata qualche settimana dopo la firma del rinnovo.

Spiegazioni. Una fonte interna ad Intesa Sanpaolo assicura che contratti come quello con Lockheed Martin hanno tempi di realizzazione di diversi mesi. Per cui la vicinanza tra rinnovo e weapon policy è solo una coincidenza: il controllo sulla concreta applicazione della policy è tuttora in corso di affinamento.

Il contratto con il colosso Usa della difesa, poi, è in syndication, cioè in comune con altre 30 banche. Cosa che complica eventuali exit strategies. Da ultimo, l'investimento di Intesa Sanpaolo a favore di Lockheed Martin è non finalizzato. Ma l'azienda statunitense produce quasi esclusivamente armi.

La fetta più grossa. Il rapporto Cmc sostiene che "Intesa Sanpaolo deve escludere i produttori di bombe a grappolo dai suoi asset management e dalle attività d'investimento. Non solo dai prestiti". Cosa significa? Significa che sì, il prestito a Lockheed Martin è un'eccezione. Ma significa anche che il gruppo bancario finanzia indirettamente le aziende produttrici di armi, acquistandone le azioni. E lo fa tramite fondi comuni con altre banche italiane.

Lo rivela uno studio che stanno realizzando il mensile di finanza etica Valori e l'Istituto di Ricerca Economica e Sociale (Ires) della Toscana: buona parte delle banche italiane, con l'eccezione di Banca Etica, possiedono titoli azionari di aziende produttrici di "armi controverse" (cluster bombs, mine antiuomo, ordigni nucleari).

La classifica stilata dagli studiosi consegna il poco invidiabile primato negli investimenti di questo genere a Unicredit, che precede Bnp Paribas e, appunto, Intesa Sanpaolo. Da soli questi tre gruppi bancari, che distaccano ampiamente tutti gli altri, investono circa 480 milioni di euro in armamenti. Mezzo miliardo di euro: è la cifra che separa l'Italia da una reale adesione alla Convenzione di Oslo.


La ricetta di Bazoli per una vera democrazia economica
di Antonio Quaglio - www.ilsussidiario.net - 23 Novembre 2009

Il presidente di Intesa Sanpaolo ha tenuto a settembre una lectio in Vaticano. L'intervento di Antonio Quaglio, caporedattore centrale de Il Sole 24 Ore ne analizza i passaggi principali e la grande portata per il mondo finanzario.

La crisi globale non è stata un incidente tecnico - grave ma rimediabile nella sfera circoscritta dell'economia - ma l'implosione di un capitalismo anti-umano, che può degenerare ulteriormente del dispotismo. E non è affatto finita, la Grande Crisi, anzi: sta cominciando ora. Di più: sarebbe un errore impedire che la crisi prenda forma nelle vite e nelle coscienze scosse delle persone e in una nuova percezione del "bene (o del male) comune" nel cuore profondo delle società.

Sarebbe contro gli interessi veri di una ripresa (ricostruzione) dell'economia impedire la maturazione di una "crisis" vera, di un autentico discernimento culturale (e quindi etico-politico) del collasso dei mercati finanziari e della più grave recessione del dopoguerra.

I G20 riuniti in permanenza, le terapie puramente economiciste di matrice tecnocratica, la corsa alla ri-regolazione tout court, non approderanno a nulla senza una critica radicale (e dall'interno) della cultura liberale dominante nell'ultimo quarto di secolo: senza una rielaborazione di categorie come “democrazia economica” o “meritocrazia”.

E mai come in questo momento assume valore di alta sussidiarietà il pensiero-annuncio cattolico in un mondo disorientato: perché questo è il significato ultimo della Caritas in veritate, l'enciclica con cui Papa Benedetto XVI ha voluto tenere accesa la fiaccola della Centesimus annus di Giovanni Paolo II, ma anche l'illuminante Populorum progressio, punto fermo della dottrina sociale firmato da Paolo VI all'indomani del Concilio.

Ed è da qui, dalle tre grandi encicliche sociali contemporanee lette assieme, che ha tratto ispirazione Giovanni Bazoli: banchiere, giurista, intellettuale cattolico sempre d'eccellenza, sempre di frontiera. È stato suo (già nella primavera 2007, a crisi non ancora deflagrata) l'allarme - accolto da più di una polemica - sulla riduzione delle banche a semplici "money making machines", esposte a rischi tanto più alti quanto minore era via via la loro sensibilità strategica per gli interessi generali dell'economia..

A settembre, il presidente di Intesa Sanpaolo è stato invitato dalla Santa Sede a tenere una "lectio" ai vescovi neo-ordinati nel mondo. Quelle riflessioni sugli sbocchi della crisi economico-finanziaria, riordinate, hanno visto la luce significativamente sulle pagine domenicali di Avvenire (il quotidiano della Chiesa italiana) e all'indomani della visita di Benedetto XVI a Brescia: un omaggio dichiarato alla memoria di Papa Montini, al cui magistero personale Bazoli si è formato. È un testo denso, che merita una lettura integrale, che certamente è destinato ad aprire un dibattito: su almeno tre questioni, ad avviso di chi scrive questi brevi appunti.

La prima è la "sapientia" dei cattolici e della Chiesa nell'allargare lo sguardo della ragione sulla realtà economico-sociale. La Caritas in veritate, nel pensiero di Bazoli, produce la massima autorevolezza perché la Chiesa è da oltre un secolo un'osservatrice acuta, instancabile, culturalmente attrezzata. La tutela del lavoro, il primato della persona rispetto alla produzione, l'obiettivo tendenziale di ridurre le diseguaglianze economiche sono principi vivi nel magistero fin dai tempi del confronto con la cultura marxiana e con le strutture del collettivismo sovietico.

Ed è l'approccio anticipatore sul piano storico-umano globale della Populorum progressio ad autorizzare successivamente poi Giovanni Paolo II a riconoscere (ma in misura non esclusiva) il ruolo del mercato e della concorrenza come strumenti di libertà e di sviluppo della persona. Ed è oggi quell'apertura puntale a consentire a Benedetto XVI una critica un capitalismo che non serve più l'uomo ma arriva perfino a minacciarlo.

Della recente enciclica Bazoli segnale cinque spunti-chiave: a) la denuncia dei limiti di un'economia globale totalmente asservita all'imperativo dell'incremento del profitto; b) l'affermazione che l'impresa deve soddisfare gli interessi non solo degli azionisti e dei manager, ma di tutti gli "stakeholder", nei portatori dei più diversi interessi nella comunità circostante; c) la richiesta ferma che i canoni della giustizia siano sempre affermati nel processo economico e che «un'economia pienamente umana» dia vita a«una forma concreta e profonda di democrazia economica»; d) l'auspicio di uno sviluppo realmente sostenibile dall'ambiente e delle sue risorse nello spazio e nel tempo; e) il rilancio di un'umanità fatta di «diritti e doveri» e non solo di interessi.

Secondo il banchiere, è una griglia interpretativa perfettamente funzionale a una crisi globale di cui sarebbe sbagliato focalizzare solo le dimensioni finanziarie: gli eccessi speculativi di un capitalismo autoreferenziale e i guasti di una deregulation indiscriminata e accelerata.

Invece - ed è il secondo punto di merito con cui certamente Bazoli metterà a rumore gli ambienti scientifici ed economici - alla base della crisi c'è un nesso pericoloso: la finalizzazione dell'attività economica all'obiettivo assorbente ed esclusivo del profitto può condurre «a un'alterazione della dialettica democratica, derivante dal controllo che i poteri economici possono esercitare nei gangli più delicati della formazione della volontà politica e quindi nella crescita corale della società civile».

L'equazione capitalismo/democrazia - secondo il Professore - è dunque in discussione: anzi è "la" discussione, per quanto impegnativa e per molti versi scomoda. Ma nessuna exit strategy può essere tale se concepita come ridotto cruciverba di regole: è invece nel labirinto pseudo-razionale delle formule che la finanza derivata ha preso forza distruttiva.

Si chiede dunque l'autore se «il compito di perseguire l'uguaglianza - che rappresenta, come appena detto, il fine ultimo e la stessa ragion d'essere della democrazia - spetti esclusivamente alla sfera politica o anche a quella economica. E, conseguentemente, se le regole riguardanti l'attività economica debbano servire solo ad assicurare la libertà, la concorrenza e l'efficienza, o anche a soddisfare le ragioni dell'equità e della giustizia».

È intorno a questo cruciale quesito che si impone dunque «un profondo ripensamento del sistema economico di mercato. Appartiene alla migliore scuola di pensiero liberale la posizione di chi propugna il principio dell'uguaglianza dei "punti di partenza", ossia la legittimità di interventi pubblici volti a perseguire tale uguaglianza, considerata come il necessario presupposto per un corretto dispiegarsi della competizione economica e della logica di mercato».

Tuttavia, la visione liberale dominante, «anche se afferma comunemente che vanno rispettati i principi di solidarietà e di sussidiarietà, ammettendo anche l'idea di una "democrazia economica", in realtà esclude che l'equità e l'uguaglianza rientrino tra gli obiettivi dell'attività economica, essendo questa rivolta a realizzare il profitto, con l'unico limite rappresentato dal rispetto dei vincoli posti dalle regole».

Bazoli è invece convinto che «l'economia abbia indubbiamente come fine primario quello della creazione della ricchezza e del miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, ma debba farsi carico anche delle ragioni dell'equità e dell'uguaglianza. Questo è il Rubicone da attraversare».

E la grande sfida da affrontare - sottolinea ancora Bazoli in quello che si rivela un terza, forte “provocazione” intellettuale - è allora il superamento della supposta neutralità dell'economia. «Alla base del sistema capitalistico che ha dominato la scena negli ultimi decenni - scrive - si trova l'assunto teorico che ogni uomo, quando opera come "homo oeconomicus", è legittimato, nello spazio di libertà riconosciutogli dalle norme giuridiche, a perseguire obiettivi egoistici (ossia il massimo guadagno e profitto); mentre deve perseguire l'interesse generale solo quando agisce come cittadino e concorre, come tale, alla formazione di quelle norme.

Questa tesi ammette come normale una dicotomia tra "homo oeconomicus" e "homo politicus" che risulta in evidente contraddizione con l'inscindibilità della persona umana e la necessaria coerenza e continuità della sua ispirazione morale, che non può venir meno nel momento dell'agire economico. L'integralità dell'uomo rappresenta il nucleo primario su cui deve fondarsi una nuova concezione del rapporto tra economia e società». E la critica della meritocrazia - cioè di uno dei "mantra" del super-capitalismo semi-fallito - è un terreno sul quale Bazoli ha voluto misurarsi concretamente da subito.

«Il capitalismo, com'è ampiamente noto, trova il suo “humus” originario nella Riforma protestante, nell'idea della ricchezza come grazia, ossia nell'idea che i doni e i talenti naturali riconosciuti agli uomini e la loro fortuna, il loro successo temporale, siano un segno della benedizione divina, un premio. Ma è forse giunto il momento di chiedersi se sia giusto che il sistema economico di mercato continui a ispirarsi prevalentemente a questo ethos di stampo calvinista e weberiano».

E un'altra pseudo-certezza viene posta sul banco degli imputati culturali della Grane Crisi: «Nessuno può dubitare che la meritocrazia sia un principio da valorizzare in ogni organizzazione sociale e che la concorrenza sia una procedura utile e insostituibile al fine di selezionare le persone e le produzioni migliori. È proprio su questi punti, tuttavia, che mi pare necessario aprire una nuova e spregiudicata riflessione.

Siamo certi che una concezione etica dell'economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici? Non è forse vero che un sistema improntato a questa logica comporta ineluttabilmente una radicalizzazione, anziché una mitigazione, delle disuguaglianze economiche e sociali? E non è altresì vero che proprio un sistema fondato su questi presupposti ha consentito le degenerazioni del supercapitalismo?».

La conclusione di Bazoli è ad un tempo una riposta e una domanda: come sempre nella sensibilità cattolica, come sempre in un discorso scientifico compiuto: «Il diritto di far valere i propri talenti deve dunque accompagnarsi inscindibilmente, anche in ambito economico, a inderogabili doveri di solidarietà: intesi in modo peculiare come doveri di rispetto, di tutela e di valorizzazione dei soggetti più deboli e svantaggiati. E questo è un principio che deve ispirare sia la definizione delle regole sia i comportamenti dei singoli operatori».