lunedì 16 novembre 2009

Libano: governo di unità nazionale, e adesso?

Qui di seguito gli ultimi aggiornamenti sulla situazione politica libanese che sembra finalmente essersi sbloccata dallo stallo durato 5 mesi per riuscire a formare il nuovo governo di unità nazionale, esito obbligato dopo i risultati delle elezioni politiche del giugno scorso.

Rimangono comunque pesanti le incognite sul futuro del Paese, soprattutto in merito alle relazioni con Israele che sta solo aspettando il momento più propizio per vendicarsi della cocente sconfitta subita nell'estate 2006 nella guerra con le milizie di Hezbollah.


Un governo per il Libano
di Karim Fael - Peacereporter - 10 Novembre 2009

A quasi cinque mesi dalle elezioni e dal conferimento dell'incarico per formare un governo di unità nazionale, il primo ministro designato Saad Hariri sembra finalmente riuscito nell'impresa di mettere tutti (o quasi) d'accordo. Da lunedì 9 novembre, giornata di incontri serrati, il Libano ha un esecutivo.

Quindici i ministeri nelle mani della maggioranza, dieci, molti dei quali strategicamente fondamentali, sono andati all'opposizione guidata da Hezbollah e cinque sono stati invece nominati dal Presidente della Repubblica Michel Sleiman pescando da una lista di indipendenti.

Lunedì sera Hariri è stato ricevuto dal generale Sleiman nel palazzo presidenziale e dopo un'ora di colloqui per formalizzare definitivamente la squadra di governo, i due hanno raggiunto il presidente del parlamento Nabih Berri che in diretta televisiva ha dato lettura del decreto.

"Finalmente - ha detto Hariri nel corso di una conferenza stampa - il paese ha una guida condivisa e pronta a lavorare per servire gli interessi del Libano e dei libanesi. Riformare le istituzioni, rilanciare l'economia e risolvere il problema del debito pubblico in continua ed inesorabile crescita saranno le nostre priorità".

Non un accenno invece alla politica estera e ai rapporti con Israele, Siria e Iran anche se molti analisti hanno sottolineato quanto il nuovo esecutivo sia figlio più del bene placet di Damasco più che degli accordi interni tra le forze politiche libanesi.

Cinque come detto i ministri scelti dal Presidente Sleiman: Ziyad Baroud e Elias Murr rispettivamente agli Interni e alla Difesa (entrambi riconfermati), Mona Ofeish, Adnan Sayyed Hassan e Adnan Qassar Ministri di Stato (in rappresentanza di tre diverse confessioni, Greci Ortodossi, Sciiti e Sunniti).

Quindici quelli scelti dalla coalizione del 14 Marzo, tra cui Raya Haffar alle Finanze, Tareq Mitri all'Informazione, Ibrahim Najjar alla Giustizia e Ghazi Aridi ai Lavori Pubblici.
Dieci infine sono i ministeri andati all'opposizione.

Il movimento sciita, Amal, mantiene il suo feudo storico al Ministero degli Esteri che sarà guidato dal fedelissimo di Berri (e di Assad) Ali al Shami) e conquista anche quello della Salute, a Mohammad Jawad Khalifeh e dello Sport, assegnato a Ali Abdullah.

Il partito per il partito per le riforme e il cambiamento guidato dal generale Michel Aoun si ritrova numericamente a dominare la scena con ben cinque dicasteri chiave: Telecomunicazioni (Charbel Nahhas), Industria (Ibrahim Dedeyan), Energia (Jibran Bassil), Turismo (Fadi Abboud) oltre a un Ministero di Stato in rappresentanza dei Cristiano Maroniti.

Non deve ingannare invece il fatto che Hezbollah abbia deciso di mantenere un basso profilo "accontentandosi" di due poltrone: Hussein Hajj Hassan all'Agricoltura e Mohammad Fneish allo Sviluppo. Il decreto presidenziale che ha dato formalmente vita a questo governo di unità nazionale contiene infatti un paragrafo in cui esplicitamente si fa riferimento al movimento guidato da Hassan Nasrallah e al suo diritto fondamentale alla resistenza armata per difendere il paese dalla minaccia israeliana.


Sentenza storica per i diritti delle famiglie dei "desaparecidos"
di Claudio Accheri - www.osservatorioiraq.it - 12 Novembre 2009

Con una decisione senza precedenti, il Juge des Référés (il giudice libanese designato alle procedure d’urgenza) ha invitato il segretariato del Consiglio dei ministri a comunicare alla corte le conclusioni delle indagini sui “desaparecidos” della Guerra civile libanese, condotte nel 2000 da una commissione d’inchiesta ufficiale.

Lo stesso rapporto – mai pubblicato – sulle sparizioni avvenute durante il conflitto che ha sconvolto il Libano dal 1975 al 1990 sarà successivamente messo a disposizione delle famiglie delle vittime.

La decisione dei giudici libanesi rappresenta il primo vero passo avanti verso il riconoscimento dei diritti delle famiglie dei “desaparecidos”.

Ancora oggi, infatti, sono migliaia i libanesi che sperano scoprire cosa è successo ai propri cari nel corso della guerra civile iniziata oltre trenta anni fa.

Le organizzazioni umanitarie hanno invitato il segretariato del Consiglio dei ministri a rispettare l'ordine del giudice, rendendo pubbliche le copie della indagine del 2000.

Fino ad ora il governo di Beirut ha reso noto solo un breve riassunto del rapporto, di circa tre pagine, che spiega i lavori effettuati della commissione di inchiesta e accenna vagamente ai luoghi delle sepolture e ai dati sensibili riferiti alle sparizioni.

Fra i gruppi della società civile che spingono per la pubblicazione e lo sviluppo di una analisi chiarificatrice vi sono l’International Center for Transitional Justice, Human Rights Watch, Amnesty International, la Federazione internazionale per i diritti umani e la Federazione euro-mediterranea contro le sparizioni forzate.

I gruppi umanitari hanno rilasciato una dichiarazione comune in cui si afferma che "si sta aprendo la strada che potrebbe finalmente svelare il destino dei propri cari scomparsi".

La decisione preliminare del Juge des Référés nasce da una causa avanzata il 29 aprile 2009 da due ong libanesi, il Comitato delle famiglie dei rapiti e scomparsi in Libano (Cfkdl) e il Sostegno dei libanesi detenuti e in esilio (Solide).

Il procedimento aveva l’obiettivo di individuare e proteggere le tre fosse comuni menzionate nella sintesi dell’inchiesta pubblicata nel luglio 2000.

Secondo i movimenti umanitari "la segreteria Consiglio dei ministri dovrebbe conformarsi all’ordine del tribunale e mostrare alle famiglie che lo Stato è pronto a porre fine alla lunga ricerca di informazioni sui propri parenti scomparsi".

I risultati della commissione del 2000

La Commissione di indagine, istituita nel 2000 dal governo per fare luce sulle sparizioni avvenute tra il 1975 e il 1990, ricevette in pochissimo tempo 2.046 domande presentate dalle famiglie delle vittime.

Nella “sintesi della relazione” si concluse che "i corpi furono seppelliti in vari luoghi a Beirut, nella zona del Monte Libano, nel Nord, nella Bekaa e nel Sud, e alcuni di essi furono sepolti in fosse comuni".

Nel testo furono citate espressamente tre sepolture: il cimitero di San Demetrio ad Achrafieh, il cimitero dei Martiri nel parco dei pini di Beirut e il Cimitero degli inglesi a Tahwita, mentre altri sarebbero stati gettati in mare.

Dopo la presentazione della prima sintesi si concluse che tutti gli scomparsi, assenti da più di quattro anni, dovevano essere considerati deceduti, e le famiglie interessate erano incaricate di registrare presso le autorità giudiziarie la morte dei propri parenti, mentre non fu adottata nessuna misura precauzionale per proteggere i siti delle fosse comuni.

Secondo alcune stime si pensa che il numero di vittime, scomparse nel Libano durante i disordini della guerra civile, raggiunga le 17 mila persone.

Il Libano ha firmato, ma non ancora ratificato, la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone scomparse (Convention for the Protection of All Persons from Enforced Disappearance).

L'articolo 18 della Convenzione prevede il rilascio di tutte le informazioni relative alle persone scomparse ai familiari, e a coloro che dimostrino un interesse legittimo a questa conoscenza.



Libano, alla prova l’autorità di Hariri
di Cecile Hennion - Le Monde - 11 Novembre 2009
Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq

Beirut - Ci sono voluti cinque mesi al primo ministro libanese, Saad Hariri, per venire a capo dei tanti ostacoli e divergenze politiche che hanno intralciato la formazione del suo governo. Mentre molti in Libano non osavano più sperarlo, le interminabili consultazioni sulla ripartizione, tra maggioranza e opposizione, degli incarichi ministeriali hanno finalmente ottenuto un esito.

È con sollievo che il Paese ha accolto, martedì 10 novembre, l’annuncio del primo ministro. "Finalmente il governo di unità nazionale è nato. Apriamo una nuova pagina - ha dichiarato in maniera solenne Saad Hariri - Questo governo rispecchia il Libano attuale. Agli occhi di qualcuno, può sembrare riflettere le differenze confessionali e politiche, ma noi dobbiamo provare al mondo interno che esso è, per i libanesi, l’immagine veritiera dell’intesa nazionale".

Riavvicinamento tra Siria e Arabia saudita

Il principale ostacolo era stato eliminato il 6 novembre scorso, quando i leader dell’opposizione avevano dichiarato di avere accettato l’ultima proposta di Hariri. Riuniti in un luogo tenuto segreto a causa della presenza di Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah su cui Israele ha messo una taglia, avevano detto di essersi messi "d'accordo sulla formazione di un governo di unità nazionale".

Questo accordo ha beneficiato anche del recente riavvicinamento tra Siria e Arabia saudita, due Paesi considerati influenti nel Paese dei cedri e che sostengono rispettivamente l’opposizione e la maggioranza libanese.

Secondo il quotidiano panarabo Al-Safir, i contatti tra le due potenze regionali rivali si sono moltiplicati di recente, ciascuna chiedendo all’altra di utilizzare la propria influenza per mettere termine alle querelle politiche libanesi e tentare di fermare una crisi arrivata a minacciare la stabilità del Paese.

L'annuncio della formazione del governo ha anche fatto seguito alla visita, il 4 novembre, del ministro degli Esteri siriano Walid Moallem in Iran, altro "sponsor" regionale del Libano in virtù della sua stretta relazione con Hezbollah. In tale occasione, l’Iran e la Siria hanno sottolineato la necessità per il Libano di di arrivare a una soluzione "il più rapidamente possibile".

Nel 2008, gli ostacoli politici e la paralisi istituzionale libanese erano degenerate in dei combattimenti armati a Beirut e in diverse altre città, causando un centinaio di morti.

Ancora oggi, il timore di una riedizione di questo scenario catastrofico è vivo nell’animo delle persone. In seguito agli accordi firmati a Doha, in Qatar, dopo quei sanguinosi scontri, le elezioni politiche del giugno 2009 dovevano aprire la strada alla riconciliazione palestinese.

Ma le trattative senza fine per la costituzione del governo, inframmezzate da insulti e minacce, hanno messo in luce quello che in molti sospettavano, vale a dire che le profonde divisioni non potevano cicatrizzarsi solo in virtù di un passaggio alle urne.

Formidabile mezzo di pressione

Questo lungo periodo di ritardo ha inoltre indebolito l’autorità e ha arrecato un duro colpo all’immagine di Saad Hariri, proprio mentre il giovane politico ha l’oneroso compito di riprendere la strada tracciata dal padre, l’ex primo ministro Rafiq Hariri, assassinato a Beirut il 14 febbraio 2005. La statura del presidente della Repubblica, Michel Suleiman, che era stato investito dalla comunità internazionale come arbitro delle dispute libanesi, ha patito allo stesso modo di questi cinque mesi di polemiche.

La fiducia dei libanesi in un futuro sereno ne è stata significativamente consumata.
Perché, se anche è stato formato il governo, resta ancora da governare il Paese. I rischi di vedere riaffiorare le divergenze restano. "Guidare questo governo sarà un’altra tappa della via crucis di Saad Hariri", prevede Marwan Hamade, deputato della maggioranza, lui stesso vittima di un tentativo di omicidio nel dicembre 2004.

Secondo una caratteristica tutta libanese, la composizione del governo non riflette il risultato delle elezioni. In un Paese in cui il sentimento di appartenenza confessionale continua a prevalere sulla dimensione di identità nazionale, la maggioranza elettorale non pesa molto se non è affiancata dalla maggioranza delle comunità.

Malgrado la sua vittoria alle elezioni politiche, il Movimento del “14 marzo” guidato da Saad Hariri è stato costretto a lasciare dieci dei trenta ministeri all’opposizione, che rappresenta insieme la comunità sciita e la maggioranza dei cristiani maroniti. Comunità che era impossibile ignorare, e che dispongono di un mezzo di pressione formidabile: l'arsenale militare di Hezbollah, più potente e più efficace dell’esercito regolare libanese.


Nasrallah: la questione dell'arsenale Hezbollah dovrà attendere
da www.osservatorioiraq.it - 12 Novembre 2009

A pochi giorni dalla formazione del nuovo governo di unità nazionale libanese, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è intervenuto per ribadire il sostegno “sincero” del proprio movimento, ma anche per invitare l’esecutivo a non affrontare subito le grandi questioni nazionali, e in particolare quella degli armamenti del movimento sciita.

"Faremo tutto il possibile per garantire la riuscita di questo governo", ha detto Nasrallah in occasione delle celebrazioni della giornata dei martiri di Hezbollah, precisando tuttavia che il nuovo governo dovrà "pazientare prima di mettere all’ordine del giorno le grandi questioni, per non correre il rischio di passare da una crisi all’altra".

Il riferimento evidente è all’arsenale detenuto da Hezbollah, che già in passato ha rappresentato il principale elemento di contrasto tra la maggioranza filoccidentale, capeggiata dall’attuale premier Saad Hariri, e l’opposizione, legata a Siria e Iran e guidata dallo stesso movimento sciita.

Di volta in volta, il movimento di Nasrallah ha difeso il proprio arsenale, affermando che esso è necessario per proteggere il Libano da un eventuale attacco israeliano, com’è avvenuto nell’estate del 2006.

Proprio Israele nelle ultime ore è tornato sulla questione degli armamenti di Hezbollah. Il capo di Stato maggiore di Tel Aviv, il generale Gaby Ashkenazi, si è detto preoccupato per il fatto che il movimento libanese possiede "decine di migliaia di razzi" in grado di raggiungere le grandi città dello Stato ebraico.


Libano: prove tecniche di conflitto
di Dagoberto Bellucci - www.ariannaeditrice.it - 10 Novembre 2009

Il Libano infine ha il suo governo di unità nazionale: dopo cinque mesi di contrattazioni dalla vittoria che il 7 giugno scorso decretò la maggioranza al fronte filo-occidentale dei partiti del 14 marzo il paese dei cedri cerca di voltare pagina con la dichiarazione che ieri a Beirut ha confermato un accordo tra le fazioni politiche.

Ad annunciare la formazione del nuovo esecutivo, presieduto per la prima volta dal giovane Sa'ad Hariri in qualità di premier e leader della Corrente Futura, è stato nella giornata di lunedì 9 novembre il segretario generale del parlamento, Suhayl Bawji, il quale ha comunicato dal palazzo presidenziale di Ba'abda l'accordo per la formazione del governo che vedrà partecipare anche i partiti dell'opposizione nazionale.

Dopo cinque mesi di estenuanti tira e molla sul toto-ministri e negoziati infiniti tra maggioranza e opposizione nasce infine quello che, sulla carta, sarà un governo di stabilità destinato a durare nel tempo.

Sono diverse le motivazioni che spingono gli osservatori della stampa libanese e araba a dirsi soddisfatti dell'accordo raggiunto a cominciare dal premier in pectore, quel Sa'ad Hariri appena 40enne, riconosciuto infine come il legittimo leader del raggruppamento filo-occidentale del cosiddetto fronte di Bristol che riprende virtualmente il passaggio delle consegne dal padre, assassinato nel giorno di San Valentino di quattro anni fa, dopo la parentesi Siniora.

Altri motivi per ritenere che l'accordo fra le fazioni libanesi stavolta potrebbe reggere sono i segnali rassicuranti e l'avallo arrivato da tutto il fronte dell'opposizione: da Hizb'Allah - che avrà due ministeri nel nuovo esecutivo - al partito della Corrente Patriottica Libera del Gen. Michel Aoun il quale ha consegnato ad Hariri infine i nominativi dei ministri designati dai partiti filo-siriani.

"Apriamo una nuova pagina nella storia del paese, una pagina di cooperazione che dovrà essere un auspicio per tutto il Libano ed i libanesi ad andare avanti con fiducia" ha commentato Aoun - leader cristiano-maronita ed ex premier durante l'ultimo periodo del conflitto civile - attualmente principale alleato del Partito di Dio sciita filo-iraniano.

Al suo partito, la formazione 'orange' che ha marciato compatta al fianco di Hizb'Allah durante le oceaniche manifestazioni di protesta che occuparono il centro della capitale Beirut nel dicembre 2006, finiranno un ministero di Stato ed il portafoglio sul Turismo e sull'Industria.

Anche Hizb'Allah vede riconosciuto il suo peso politico: alla formazione di Sayyed Hassan Nasrallah dovrebbero andare il portafoglio per l'Agricoltura e quello per la Riforma amministrativa.

E' la terza volta nella sua storia che il partito sciita entra in un esecutivo dopo la partecipazione a quello presieduto da Siniora (dal giugno 2005 al novembre 2006) e dopo la partecipazione allo scorso esecutivo nato dopo i disordini che colpirono la capitale Beirut e le montagne dello Chuf druso messi a soqquadro dai militanti sciiti come risposta ad una strage commessa dai milizani delle Forze Libanesi di Samir Geagea.

Il nuovo esecutivo sarà composta da 30 ministri di cui 15 alla maggioranza filo-occidentale (sostenuta da Stati Uniti e Arabia Saudita), 10 all'opposizione (vicina a Iran e Siria) e cinque infine saranno quelli di nomina presidenziale direttamente designati dal Capo dello Stato Gen. Michel Souleiman.

Una formula che permetterà una suddivisione dei poteri equa: nessuna delle due fazioni potrà disporre infatti di diritto di veto e sarà delegato al Presidente della Repubblica il compito di garantire la normale attività del governo che si appresta a prendere i voti e la fiducia dell'assemblea nazionale.

In attesa di conoscere i nominativi del nuovo governo libanese il paese dei cedri tira un sospiro di sollievo. La situazione rimane carica di tensione per le indiscrezioni che dalla stampa estera sono arrivate in concomitanza con l'annuncio della formazione dell'esecutivo Hariri e che vedrebbero l'entità sionista pronta a lanciare un attacco contro il Libano da quì alla prossima primavera come ha sottolineato "Observer" quotidiano britannico le cui rivelazioni sono immediatamente rimbalzate su tutta la stampa araba.

Niente di nuovo nè di particolarmente rilevante se pensiamo che oramai sono tre anni abbondanti che il paese dei cedri vive sotto il quotidiano e continuo rischio di una riapertura delle ostilità fra la Resistenza Islamica e i sionisti dopo la tregua concordata tra le parti, il Libano e le Nazioni Unite ed entrata in vigore il 14 agosto 2006 al termine di 33 giorni di pesanti bombardamenti che rasero al suolo le principali infrastrutture del paese causando oltre 1400 vittime e 3500 feriti in maggioranza civili.

Secondo quanto riferisce "Observer" il Partito di Dio si starebbe preparando ad un nuovo tipo di guerra, diverso da quello che venne condotto all'epoca, e all'uso di nuovi dispositivi missilistici capaci di contrastare una eventuale offensiva israeliana.

Hizb'Allah, come riferisce il quotidiano britannico, sembrerebbe convinto che l'entità criminale sionista abbia intenzione di lanciare un attacco contro le loro postazioni e contro il Libano prima di scatenare un offensiva contro le installazioni nucleari iraniane.

A questo proposito Hizb'Allah starebbe rinforzando le postazioni difensive a nord del fiume Litani mentre si segnalerebbe un riarmo generale in vista di un conflitto che potrebbe essere scatenato dai sionisti per penetrare in profondità all'interno del paese.

Che la milizia sciita si stia preparando a una guerra diversa, più basata a difendere il settore a nord del Litani (un tempo spartiacque della famosa fascia di sicurezza istituita da "Israele" alla fine degli anni Ottanta), viene confermato da Andrew Exum, esperto militare: “Sembra che stiano rinforzando i villaggi per il prossimo round di combattimenti mentre stanno muovendo le loro posizioni fisse più a nord rispetto all'Unifil, così da proteggere l’approccio a Beirut e la valle della Bekaa”.

Dall'altro lato della barricata, sempre secondo quanto riferisce "Observer", anche i sionisti si starebbero preparando ad un conflitto molto diverso dal precedente: l'esperienza dell'estate 2006 è stata devastante per il morale delle truppe e per l'opinione pubblica israeliana uscita a pezzi da un'aggressione scatenata dal premier Ehud Olmert e dai suoi collaboratori nella certezza di fare piazza pulita in poche ore di Hizb'Allah.

Alla fine dopo oltre un mese di cannoneggiamenti a tappeto del Libano le truppe israeliane furono costrette ad un mesto ritiro contrassegnato da pesantissime perdite in uomini e mezzi e dall'umiliazione di aver sbagliato tutti i calcoli in merito alla reattività e alla combattività del nemico.

La prossima avventura in terra libanese, che comunque prima o dopo ci sarà perchè "Israele" non dimentica gli smacchi subiti e da tre anni abbondanti medita vendetta, dovrebbe vedere l'I.D.F. ('tsahal' = l'esercito d'occupazione sionista) maggiormente impegnato in scontri terrestri.

Gli strateghi militari ed i vertici della Difesa di Tel Aviv starebbero valutando infatti l'ipotesi di una riedizione dell'operazione "Pace in Galilea" che nell'estate 1982 portò i carri armati dalla stella di Davide alla capitale Beirut in meno di una settimana.

Proprio l'esperienza fallimentare del conflitto di tre anni or sono, quando i razzi katiusha e le mine anti-carro della Resistenza intrappolarono e causarono la distruzione di almeno 24 tank israeliani compresi i moderni Merkava di ultima generazione orgoglio e vanto dell'esercito sionista, avrebbe spinto i generali israeliani a valutare l'opzione terrestre cercando di limitare i bombardamenti aerei controproducenti per combattere un nemico invisibile.

Nessuno sembra comunque evitare di 'segnare' una qualche data sul calendario per l'inizio delle prossime ostilità: da questo momento a metà primavera ogni
momento potrebbe essere quello giusto perchè "Israele" lanci la sua nuova aggressione.

Il comandante hezbollah intervistato dal giornale inglese ha affermato: “Ci aspettiamo che attacchino presto, se non questo inverno la prossima primavera, quando il terreno non sarà troppo soffice per i loro mezzi cingolati”.
In attesa noi rientriamo nel paese dei cedri perchè l'atmosfera inizia a 'surriscaldarsi'.



Lebanon connection
di Alessandro Iacobellis - www.ariannaeditrice.it - 13 Novembre 2009

Strani intrecci agitano il Libano, reduce dalla formazione (a quattro mesi dalle elezioni) di un governo di unità nazionale, con l’accordo tra il blocco occidentalista di Hariri e l’opposizione nazionalista guidata da Hezbollah e dal generale Aoun. Ultimo caso, in ordine di tempo, quello del mercantile “Francop”, intercettato dagli israeliani in acque internazionali al largo di Cipro e carico d’armi.

Ovviamente il colpevole è stato subito trovato senza esitazione alcuna dai media nostrani, come sempre devoti alla versione israeliana: armi dell’Iran per Hezbollah. Nessun’altra versione è razionale, nemmeno immaginabile.

Proviamo ad immaginarla noi, allora.
Misteriosi gruppi terroristi agiscono nel Paese dei Cedri ormai da diversi anni e sembrano essersi materializzati dal nulla.

La galassia di queste organizzazioni è molto frastagliata e confusa, tanto da renderne difficile tracciarne un quadro completo. Il minimo comun denominatore è la loro matrice religiosa estremista sunnita e l’ispirazione dichiarata ad Al Qaida. Salafiti, insomma, il cui obiettivo è contrastare (possibilmente con le armi) tutto ciò che è considerato nemico dell’ortodossia: gli sciiti per primi. Hezbollah e i suoi alleati, quindi.

Già solo questo primo particolare rende l’idea del pericolo esplosivo rappresentato da questi movimenti in un contesto già storicamente frammentato e diviso da rivalità etniche e religiose come il Libano, dove la guerra civile è stata per decenni una costante. Sulla carta tutte queste organizzazioni dichiarano prioritaria la lotta armata ad Israele, ma c’è da notare come in realtà con Israele non abbiano mai avuto ostilità dirette.

Si sospetta soltanto che ci siano loro dietro ad alcuni sporadici lanci di razzi (mai rivendicati) sulla Galilea dal sud del Libano; atti che non hanno alcun risultato né militare né tanto meno politico, tranne che quello di alzare la tensione nei confronti di Hezbollah e del suo arsenale, di cui si torna ciclicamente a chiedere il disarmo. In poche parole, provocazioni.

Il più noto di questi gruppi è salito alla ribalta internazionale nel 2007, pochi mesi dopo la fine del sanguinoso conflitto estivo che aveva visto contrapporsi le forze di Hezbollah ad Israele, con la storica vittoria del Partito di Dio.

E’ in questo periodo che in uno dei principali campi profughi palestinesi del Paese, Nahr Al Bared, alcuni miliziani integralisti lanciano la loro sfida all’esercito regolare libanese. Il gruppo, denominato Fatah al Islam, ha al suo vertice Shaker al Abssi, un veterano di lungo corso della guerriglia palestinese.

Un passato da seguace di Arafat nella laica Fatah, Abssi (che addirittura negli anni ’80 visitò Cuba e combatté in Nicaragua con i sandinisti) si trasferisce poi in Libano dove aderisce al gruppo dissidente Fatah-Intifada. Da militante in organizzazioni di stretta ispirazione socialista, subisce una strana e sospetta metamorfosi: si riscopre misteriosamente estremista islamico. Come e perché una tale evoluzione sia stata possibile, rimane un mistero.

Tant’è: il suo gruppo instaura un regime di terrore fra gli stessi profughi palestinesi, rivolge le armi contro il suo stesso popolo, ingaggia ripetuti scontri a fuoco con le milizie rivali, si distingue per atti di criminalità comune nell’area di Tripoli (soprattutto rapine a mano armata).

Addirittura progetterebbe di colpire anche fuori dal Libano, in Europa: due membri sono sospettati di essere dietro ai falliti attentati del 31 luglio 2006 su treni regionali tedeschi. Ci vorranno quasi quattro mesi alle forze armate libanesi (certamente non uno degli eserciti meglio equipaggiati del Vicino Oriente) per avere ragione dei miliziani.

A costo di numerose vittime (circa 170) tra le proprie fila, decine tra la popolazione civile di Nahr Al Bared e la completa distruzione del campo, con conseguente disastro umanitario per i rifugiati. Il gruppo uscirà sconfitto, anche se non totalmente smantellato.

I suoi militanti compiono nei mesi successivi diversi atti terroristici in territorio libanese e siriano, compreso l’omicidio di Francois el Hajj, generale dell’esercito che aveva guidato l’assedio di Nahr Al Bared, e un attacco ad una pattuglia del contingente Unifil nel sud del Paese (uccisi sei soldati spagnoli).

Nel settembre 2008, 17 civili rimangono uccisi dall’esplosione di un’autobomba vicino all’Aeroporto internazionale di Damasco, in prossimità di un mausoleo sciita. Abssi, dato in un primo momento per morto nella battaglia di Nahr Al Bared, era in realtà scappato clandestinamente in Siria (altro Paese che farebbe comodo destabilizzare…) dove però verrà individuato e neutralizzato (non è chiaro se arrestato o ucciso) dalle forze di sicurezza.

I siriani dimostrano quindi la loro determinazione ed efficacia nella lotta al terrorismo (con grande scorno di Usa, Israele e neo-cons vari a cui fa comodo accusare Damasco di essere un regime canaglia).

La tattica di coinvolgere la Siria baathista come presunto mandante del terrorismo in Libano risale al 14 febbraio 2005, quando il premier Rafiq Hariri viene ucciso da un’autobomba nel pieno centro di Beirut insieme ad altre 22 persone, dando il via a una serie di proteste popolari anti-siriane che i media embedded ribattezzarono entusiasticamente Rivoluzione dei Cedri.

Furono settimane di fuoco per Bashar Assad, che seppe gestire la situazione con abilità: presa di distanza e condanna dell’atto terroristico, ritiro del contingente militare dal Libano e collaborazione con l’inchiesta internazionale che, col tempo, finirà per ridimensionare le accuse a Damasco.

La galassia dei qaedisti libanesi non si esaurisce al gruppo di Abssi: in un altro campo profughi palestinese (Ain al Hilwe) hanno la loro base le milizie di Jund al Sham e Osbat al Ansar, di cui alcuni membri nel gennaio del 2000 avevano tentato il colpo di mano, occupando militarmente diversi villaggi nel nord del Libano. L’intento di creare un mini-emirato islamico nella zona montagnosa di Dinniyeh (a est di Tripoli) fu represso dall’esercito libanese dopo intensi combattimenti.

Jund al Sham balza invece agli onori delle cronache nell’estate del 2004, quando con un’autobomba a Beirut uccide un membro di Hezbollah. Insomma, la loro prima azione è un attacco alla Resistenza libanese: a chi giova?

Già, perché questa panoramica di gruppuscoli misteriosi, spuntati fuori dal nulla ma con ingenti capacità militari e fondi economici a disposizione, fa proprio chiedere: cui prodest?
Qualche ipotesi ci sarebbe, ma non è di quelle che di solito arrivano sui nostri media addomesticati.

Secondo il giornalista investigativo Seymour Hersh, infatti, alla base della proliferazione di questi gruppi ci sarebbe un accordo segreto fra Usa e Arabia Saudita, al fine di limitare Hezbollah e contrastare indirettamente l’Iran e la sua influenza in Libano. In un’intervista rilasciata nel 2007, Hersh si addentra nei particolari: la nascita di Fatah al Islam sarebbe stata decisa a tavolino da Dick Cheney, Elliot Abrams (consigliere per la Sicurezza Nazionale di Washington), e il principe saudita Bandar Bin Sultan.

Quest’ultimo è un personaggio discusso, in passato al centro di diverse accuse per corruzione e affari illeciti, oltre ad essere stato ambasciatore negli Usa per ben ventidue anni, dal 1983 al 2005. Noto per essere uno dei più strenui oppositori dell’Iran all’interno della casa reale saudita e fervente anti-sciita, Sultan è bene introdotto negli ambienti repubblicani statunitensi.

La tesi di Hersh è corroborata da un altro esperto: Franklin Lamb, ricercatore presso l’università americana di Beirut, arriva a sostenere che l’allora segretario di Stato David Welch abbia agito come vero e proprio agente di collegamento tra i sauditi e il clan-Hariri, per creare una sorta di “Stay Behind sunnita” in Libano.

Gruppi che sarebbero serviti a controbilanciare l’influenza di Hezbollah e la supremazia delle sue milizie nel Paese. Così sarebbe nata quindi Fatah al Islam; parte della strategia di accerchiamento dell’Iran e di contenimento del mondo sciita da parte di Usa, Paesi arabi sunniti e Israele, tutti insieme appassionatamente contro Teheran.
Altro capitolo di questa intricata vicenda è l’assassinio del responsabile dell’ala militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, ucciso con un atto terroristico il 12 febbraio 2008, nel pieno centro di Damasco.

Un attentato che nessuno ha mai rivendicato, ma di cui certamente a Washington, Tel Aviv, Riyadh e Il Cairo saranno stati tutto fuorché dispiaciuti.
Ma avremo modo di parlarne ancora, perché la destabilizzazione del Vicino Oriente è purtroppo lungi dall’essere conclusa. E riguarda anche noi italiani, che in Libano (non dimentichiamolo) continuiamo a mantenere 2500 soldati.


Venti di guerra in Medio Oriente

di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 10 Novembre 2009

L’allarme è stato lanciato dal Generale Amos Yadlin, capo dell’Agaf HaModiin (Aman), l’intelligence militare israeliana: il braccio armato di Hamas avrebbe a disposizione un numero imprecisato di razzi di fabbricazione iraniana con un raggio d’azione di 37 miglia (60 chilometri), capaci quindi di raggiungere la periferia di Tel Aviv.

Nel corso di un dibattito a porte chiuse, Yadlin ha riferito alla Commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset che il primo novembre i miliziani del gruppo islamico palestinese hanno compiuto con successo il test di un missile identificato come Silkworm C-802, lanciato sul Mediterraneo dalla costa occidentale della Striscia di Gaza.

Anche se l’Aman non ha precisato da chi sarebbe stato fornito il missile, la notizia, diffusa il 3 novembre scorso dalla stampa israeliana, confermerebbe i sospetti espressi nei mesi scorsi dai servizi segreti ebraici sulle intenzioni di Teheran di continuare ad armare il Medio Oriente, e in particolare Hamas ed Hezbollah.

Secondo le informazioni in possesso, i militanti islamici sarebbero ora in grado di colpire le aree urbane che sorgono a sud della capitale israeliana, Hulon e Bat-Yam, la città di Rishon-Letzion, l’aeroporto internazionale Ben-Gurion e i principali collegamenti stradali che da Tel Aviv raggiungono Gerusalemme e molte alte località dell’entroterra.

Evoluzione del modello da esportazione del missile cinese Ying-Ji-802 (YJ-82), il Silkworm C-802 è lo stesso razzo con cui Hezbollah, il 15 luglio 2006, ha colpito e danneggiare seriamente (nell’attacco morirono quattro militari) la INS Hanit, una corvetta classe Saar 5 della Heil HaYam HaYisraeli, la Marina Militare israeliana.

A causa delle innumerevoli modifiche tecniche apportate, oggi non è abbastanza chiaro quante versioni ne esistano e quale sistema d’arma sia nelle mani Hamas: il primo YJ-8 (C-801), presentato nel 1989 dalla China Haiying Electromechanical Technology Academy (Cheta), pesava 815 chilogrammi ed aveva un range di 42 chilometri, 80 per il modello YJ-81 (C-801A).

L’ultimo modello (YJ-82, indicato dalla NATO con il codice CSS-N-8 Saccade) è mosso da un motore turbo-jet, monta una testata da 165 chilogrammi e alla velocità massima di 0.9 mach (1102 km/h) raggiunge una distanza di 120 chilometri.

Per le sue caratteristiche tecniche e per il sofisticato sistema anti-jamming è difficilmente intercettabile e nel 98% dei casi riesce a centrare l’obbiettivo; nella sua versione da esportazione (C-802), lo Ying-Ji-802 è utilizzato dalle marine militari di Algeria, Bangladesh, Indonesia, Iran (più di cinquanta quelli dislocati sull’isola di Qeshm), Pakistan, Tailandia ed in Libano dai miliziani del movimento sciita Hezbollah.

L’intelligence israeliana sospetta che il missile lanciato nei giorni scorsi dal braccio armato di Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam, sia stato contrabbandato da Hezbollah e che gli istruttori siano militanti del gruppo sciita libanese. Il segnale è comunque chiaro: armare il movimento islamico palestinese per interrompere il blocco navale imposto da Gerusalemme sulle acque prospicienti la Striscia di Gaza; una strategia già applicata con successo nel paese dei cedri dove, grazie ai missili iraniani, Hezbollah è risuscito a trasformare la costa libanese in una vera e propria roccaforte, la più difesa costa del Mediterraneo.

A Gerusalemme sono inoltre preoccupati del fatto che, oltre all’area urbana di Tel Aviv, i palestinesi sono ora in grado di colpire le strutture militari e i porti, soprattutto quello di Ashdod, oltre che un numero non precisato di obiettivi strategicamente importanti come depositi carburanti e munizioni, centrali elettriche e nodi vitali per le telecomunicazioni. Nel 1987 l’Iran usò proprio questo tipo di missili per bombardare le istallazioni petrolifere in Kuwait.

In relazione al contrabbando di armi verso Gaza, alla fine di ottobre il sito israeliano Debka aveva parlato del coinvolgimento della Forza al Quds, l’unità speciale dei Guardiani della rivoluzione iraniana che all’estero organizza, addestra, finanzia ed equipaggia i movimenti islamici legati al terrorismo internazionale.

Secondo l’intelligence dello Stato ebraico i miliziani del Generale Qassem Suleimani starebbero cercando di far arrivare nella Striscia di Gaza i missili di superficie Fajr-5, razzi che hanno una gittata di 75 chilometri e possono quindi arrivare a colpire l’area settentrionale della capitale israeliana.

Smontati in 8-10 sezioni e portati clandestinamente fino ai porti del Sudan, i vettori arriverebbe ai campi di addestramento palestinesi che sorgono al confine con l’Egitto per poi raggiungere clandestinamente i Territori controllati da Hamas attraverso il Canale di Suez, il Sinai e i tunnel sotterranei di Rafah.

Che nel vicino Medio Oriente qualche cosa bolla in pentola lo provano anche i fatti accaduti tra il 3 e il 4 novembre scorso a largo di Cipro, fatti che secondo il Servizio di sicurezza generale per gli affari interni (Shin Bet) dimostrano come Teheran sia fermamente intenzionata ad armare non solo Hamas ma anche le milizie Hezbollah.

Nel quadro dell’operazione “Four Species”, durante un’ispezione a bordo del cargo “Francop”, avvenuta a circa 100 miglia dalla costa dello Stato ebraico, i commandos della Flottiglia 13, unità speciale israeliana, hanno trovato un carico di 500 tonnellate di armi, un quantitativo 10 volte superiore a quello scoperto nel gennaio 2002 sulla Karin A.

Sulla nave, battente bandiera dell’Antigua, sono stati rinvenuti 9 mila proiettili da mortaio, 3 mila munizioni d’artiglieria, 2 mila razzi da 122 e 107 millimetri, 600 mila proiettili 7.62 per fucili d’assalto AK47 e 20 mila granate a frammentazione. Un vero arsenale che per le autorità di Gerusalemme si va ad aggiungere a quello che da mesi alimenta il gruppo armato libanese.

In questo caso le armi sarebbero arrivate nel porto egiziano di Damietta (Dumyat) a bordo della Iranian Visea, nave di proprietà della Iran Shipping Lines (IRISL): il carico, imbarcato a Bandar Abbas (Stretto di Hormuz) o a Bandar Imam Khomeini (Golfo Persico), è salpato il 14 ottobre per il Mediterraneo; dopo aver fatto tappa a Jabel Ali (Dubai), il 26 ottobre la Visea avrebbe raggiunto il porto egiziano e, dopo aver scaricato i container, sarebbe ripartita per Felixtowe, 60 chilomentri a nord di Londra, ed Amburgo.

In Egitto il carico è rimasto fino al 1°novembre, giorno in cui viene caricato sul Francop, nave mercantile di proprietà della compagnia tedesca Francop Schiffahrts GmbH & Co, che al momento della scoperta delle armi dichiarerà di non essere stata a conoscenza del materiale trasportato.

Intercettato il 4 novembre, il cargo, abitualmente utilizzato per il trasporto di alimentari tra il Damietta, Limassol (Cipro), Beirut (Libano) e Latakia (Siria), viene scortato nel porto israeliano di Ashdod e sottoposto a nuove ispezioni. Riprenderà il mare il giorno successivo.

Tornando al missile lanciato dalle coste palestinesi, Hamas nega ogni cosa e considera le accuse del Generale Amos Yadlin una “macchinazione” per creare nell’opinione pubblica un allarme generalizzato, un tentativo malriuscito per depistare l’attenzione della comunità internazionale dalle 575 pagine che compongono il rapporto Goldstone sull’operazione “Piombo Fuso” a Gaza.

Due giorni dopo la notizia sul lancio del missile palestinese, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite avrebbe infatti votato una risoluzione di condanna contro le forze armate israeliane, accusate di aver compiuto crimini di guerra contro i civili che abitano la Striscia, e contro i miliziani di Hamas, colpevoli di aver puntato i loro razzi contro la popolazione ebraica del Neghev.

Approvata a maggioranza (114 Paesi a favore, 18 contrari e 44 astenuti), la risoluzione non ha comunque scalfito le posizioni di Israele, che ha anzi ribattuto affermando che il rapporto Goldstone è un tentativo arabo di infangare la reputazione dei capi militari ebraici ed ha invitato l’Onu a concentrare la sua attenzione sulle violazioni iraniane alle risoluzioni 1747 e 1701 del Consiglio di Sicurezza.

II 6 novembre 2009 il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato: “Durante l’Operazione Piombo Fuso, Israele ha dato prova di alto livello morale e anche in futuro intende difendere la popolazione dalla minaccia dei razzi in possesso dei suoi vicini; Israele respinge la risoluzione dell'Assemblea Generale dell'Onu che è completamente avulsa dalla realtà che Israele deve affrontare sul terreno”.

L'operazione militare Piombo Fuso ha avuto inizio il 27 dicembre del 2008; l’invasione via terra della Striscia di Gaza è partita il 3 gennaio 2009; la guerra si è conclusa il 18 gennaio; sono morti 1203 palestinesi di cui 410 bambini; migliaia i feriti, molti con dei quali in modo irreversibile; 5300 le persone che hanno subito l’amputazione di un arto; 13 gli israeliani che hanno perso la vita, quasi 200 i feriti.

Il 7 novembre il leader di Hamas, Khaled Meshaal, ha invitato il presidente palestinese Mahmoud Abbas a interrompere ogni tentativo di compromesso con Israele e gli ha proposto di mettere fine alle divisioni tra i palestinesi: “il compromesso con Israele, nato con gli accordi di Oslo del 1993, ha fallito nel tentativo di bloccare l’espansione degli insediamenti israeliani e non ha sostenuto i palestinesi nello stabilire un loro stato indipendente nelle terre occupate dagli ebrei con la guerra del 1967; qualunque leader palestinese creda realmente nel diritto al ritorno, deve sapere che l’unico modo per farlo non è attraverso i negoziati, ma con la lotta santa, la resistenza e l'unità nazionale”.