sabato 21 novembre 2009

FAO: un'organizzazione da eliminare

Qui di seguito alcuni articoli sull'ennesimo fallimentare vertice di un'organizzazione che dovrebbe essere smantellata al più presto: la FAO.

D'altronde basta leggere quanto ha dichiarato alla fine del vertice lo stesso direttore generale della FAO, Jacques Diouf "Con mio rammarico, devo constatare che questa dichiarazione non contiene né gli obiettivi quantificati né scadenze precise che avrebbero permesso di meglio seguire la loro realizzazione".

Perciò a quando la chiusura di questo elefantiaco organismo che serve solo a riempire le tasche di chi lavora al suo interno?


Aboliamo la FAO

di Nicolò - Svolte Epocali - 17 Novembre 2009

Ieri mattina il direttore generale della FAO (l'organizzazione deputata ad affamare i poveri) Jaques Diouf, ha ufficialmente aperto il vertice sulla "sicurezza alimentare". Per chiunque ogni giorno passi almeno otto ore a guadagnarsi la sua "sicurezza alimentare", sarebbe già sufficiente trovarsi davanti a questo ossimoro per voltare pagina e non dare troppo peso alle parole dell'ennesimo parassita al soldo di un'agenzia globalista. Ci sono però varie contraddizioni interessanti meritevoli di approfondimento.

Nel discorso di apertura è stata richiesta con fermezza la necessità di passare dalle promesse alle azioni concrete, perchè "Un miliardo di persone soffre la fame, vale a dire uno ogni gruppo di sei nel mondo, 105 milioni in più rispetto al 2008. Cinque bambini muoiono di fame ogni 30 secondi".

Evitando di addentrarsi in statistiche discutibili, a conclusione del discorso uno si aspetterebbe che il direttore generale ammettesse, numeri alla mano, il totale fallimento della sua agenzia, e dopo 15 anni di "onorevole" servizio... decidesse di rassegnare le proprie dimissioni per manifesta incapacità nell'affrontare il problema. Al contrario è stato richiesto esplicitamente di aumentare i finanziamenti alla FAO. Non solo, è anche stato richiesto un accordo globale legalmente vincolante sui cambiamenti climatici e la sicurezza alimentare.

In sostanza più soldi delle tasse di ognuno di noi in programmi di sviluppo che mirino a sfamare... chi? Numeri alla mano viene il dubbio che questi finanziamenti servano più che altro a saziare le fameliche delegazioni giunte a Roma. Nel biennio 2008-09 la FAO ha speso 784 milioni di euro. Una buona fetta di questa torta, diciamo la metà, non è finita nella pancia dei bambini sotto i 5 anni che rischiano di morire per malnutrizione, sempre presenti nelle locandine dell'agenzia, bensì nella gestione della struttura stessa.

A dirlo non è un sito di controinformazione o un think tank al servizio delle sporche multinazionali guidate dall'avido uomo bianco, bensì la commissione Christoffersen, un comitato di valutazione esterna a cui è stato commissionato dalle Nazioni Unite un rapporto (470 pagine) sulla FAO. Per la sicurezza alimentare, tema al centro della conferenza che è partita oggi a Roma, è previsto uno stanziamento di 59 milioni di euro, per l’ufficio del caritatevole Diouf, 41,5 milioni di euro. Cifre che nemmeno De Benedetti o Romiti si sognerebbero.

Complessivamente, le voci del bilancio Fao strettamente alimentari, in cui compare la parola cibo, «food», sono tre, per un totale di 90 milioni di euro di finanziamenti, circa il 15% del bilancio generale. Un'organizzazione leviatanica, la cui burocrazia succhia tutti i finanziamenti. Il colmo per un'organizzazione che fa proprio il motto "Ricchezza e benessere hanno valore se largamente e equamente distribuiti". Un concetto che oltre ad essere contraddetto dal bilancio stesso dell'agenzia, non ha nemmeno fondamento a livello economico.

La ricchezza non è una torta per cui, se un individuo ne incamera di più, allora automaticamente l'altro ne otterrà di meno. Questo concetto molto probabilmente sarebbe valido se dal cielo piovessero in continuazione beni di consumo e di produzione. Ma, al contrario, rimanendo fedeli alla metafora, quella torta qualcuno, dopo aver sviluppato le giuste conoscenze, deve averla preparata e infornata.

In sintesi quindi la discrepanza di risorse alimentari dipende dalle capacità produttiva di un Paese. Prendere alle nazioni ricche per dare a quelle povere sarebbe null'altro che un placebo, una ricetta fragile che non andrebbe a incidere sulla spina dorsale dell'economia che è, per definizione, il settore privato.

Anzi, il settore privato dei paesi del terzo mondo oltre a dover fronteggiare i propri limiti, si troverebbe anche in concorrenza con le merci regalate alla popolazione dalla FAO, senza essere in grado di svilupparsi. A sostegno di quest'ultima affermazione c'è un recente studio del Centre For The New Europe, che ritiene che circa 6600 persone al giorno perdano la vita a causa dei dazi e della politica agricola europea. Altre vittime della follia statalista e della pianificazione centrale.

Oggi sostenere la FAO significa dare carta bianca a una collezione di privilegi scandalosi che crescono alle spalle di chi muore di fame, affondando le proprie radici nella tragedia altrui, con il solo risultato di dilapidare denaro pubblico. A che serve continuare a dargli soldi e contributi? La fame del mondo resta uguale a prima. In compenso è stata saziata, in modo dignitoso, la fame dei delegati.


Fao, il vertice delle assenze
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 16 Novembre 2009

Sarà che il G2 è più interessante, sarà che con la fame nel mondo la propaganda non funziona, sarà soprattutto che dovrebbero andare a spiegare perché i soldi promessi non sono stati dati, sarà che solo uno deve presenziare per evitare di recarsi in un tribunale a Milano, ma il fatto è che i rappresentanti dei potenti d’occidente sono rimasti a casa. Niente summit sulla fame: il vertice Fao di Roma si svolge quindi alla presenza delle vittime e in assenza dei carnefici.

Per carità, nessuno stupore per le assenze, funziona così. Quando devono annunciare generosità i politici si presentano a favor di telecamera in mondovisione; quando devono spiegare cosa hanno fatto, un viceministro con delega serve alla bisogna. Evitiamo, per carità di patria, anche le previste lacrime di coccodrillo che definiranno il summit “un’occasione persa”, un “appuntamento mancato” e via con le amenità a mezzo stampa.

Una delle più frequenti e ipocrite riguarda quella della presunta mega burocrazia della FAO. La scusa dei ricchi è che non pagano quello che dovrebbero anche per non ingrassare la burocrazia della FAO. Ma quanto costa questo “mostro”?

Complessivamente, 280 milioni di Euro all’anno: quanto una media impresa italiana. Il lavoro di centinaia di persone in tre quarti del pianeta costa, appunto, come una media impresa italiana. E’ questo lo scandalo? Certo, ci saranno anche nella FAO sprechi e spese inutili, ma davvero volete che sia questo il problema? Sarà intanto giusto ricordare che in seno alla FAO gli emolumenti dei funzionari del Nord sono dieci volte superiori a quelli del Sud. Così, per combattere gli sprechi…

Sono stati promessi interventi percentuali sui rispettivi PIL da tutti i paesi ricchi. Nessuno, Italia in testa (guarda caso) li ha mantenuti. A Roma si evidenzia invece una cosa: la distanza abissale tra la realtà di un Occidente che decide, scientemente, di perpetrare il genocidio per fame di quei due miliardi di persone che risultano ospiti sgraditi al tavolo delle risorse, destinate esclusivamente al nord del mondo. Numerosissime sono le balle confezionate dai governi del Nord per tentare di sottrarsi alle responsabilità storiche del genocidio alimentare. Vogliamo provare ad elencarne qualcuna? Cominciamo dalle risorse procapite?

Si chiede al sud del mondo di produrre maggior cibo attraverso l’agricoltura. Bene, buon proposito. Peccato però che per produrre alimenti servano braccia e tecnologie; le prime abbondano ma non mangiano, anche perché la terra non viene sfruttata, visto che le tecnologie necessarie vengono vendute a prezzi inarrivabili.

Succede poi che, anche nei casi dove la produzione agricola riesce a raggiungere livelli soddisfacenti, sia per il fabbisogno interno che per l’esportazione, con i cui proventi si potrebbe affrontare il problema in chiave sistemica e non episodica, il Nord ricco impone, tramite il WTO, l’abbassamento drastico del valore dei prodotti sul mercato internazionale e l’ulteriore innalzamento del know-out per produrli.

Il risultato è ovvio: decine di milioni di persone e miliardi di ore di lavoro rendono briciole di reddito al sud ed eccedenze favolose per il Nord. E se il Sud cerca linee di credito agevolate per finanziare l’acquisto delle tecnologie necessarie, già carissime, interviene il colpo di grazia sotto le spoglie della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che impongono politiche di “aggiustamento strutturale” per ottenere miserie con interessi usurai.

All’Africa o all’Asia vengono destinate armi e guerre. Sistema efficace per imbandire le tavole e le gioiellerie delle grandi avenue e, nello stesso tempo, ridurre i commensali che non devono trovare posto a tavola. La ricapitalizzazione del Nord passa, come sempre è passata, dall’estrazione di materie prime e risorse dal sud.

Le risorse di cui dispone il Sud vengono strappate, dalle viscere della terra fino alla biosfera. Il fatto è che la crisi di sistema del capitalismo liberista ha nella sua genesi la necessità di depredare, non quella di condividere.

L’equilibrio necessario tra il Nord opulento ed il Sud affamato prevederebbe ripensamenti (questi sì strutturali) dell’ideologia della crescita infinita in un pianeta dalle risorse che infinite non sono. Avrebbe bisogno di ripensare la ripartizione delle risorse e l’equilibrio dei consumi, la fine dello spreco - principale veicolo delle speculazioni - e una lettura globale della contraddizione tra sviluppo e ambiente.

Nulla di tutto ciò è nemmeno vagamente presente nell’agenda dei grandi e dei meno grandi. Un conto é comandare, un altro é governare. In fondo non pagano nemmeno i più piccoli, ma solo i più poveri. Nell’anno in cui la spesa militare statunitense si presenta come la più alta della storia, ci sembra doveroso un pensiero per le vittime inserite nella relativa previsione di bilancio.


Per combattere la fame servono scelte politiche
di Roberto Zavaglia - www.lineaquotidiano.it - 20 Novembre 2009

Il mondo sarà pure sempre più globalizzato, ma fatica a darsi delle regole globali nei settori dove invece sarebbero indispensabili. Ne abbiamo avuto, nei giorni scorsi, una duplice conferma con il sostanziale fallimento del vertice Fao di Roma e con quello, annunciato, della prossima Conferenza di Copenaghen sul clima.

A proposito di quest’ultimo appuntamento, i presidenti di Stati Uniti e Cina hanno prima fatto sapere che sarà praticamente impossibile sancire un trattato vincolante, ma poi si sono corretti dicendo che entrambi mirano a un’intesa dagli “effetti operativi immediati”, senza fornire ulteriori dettagli.

Secondo gli esperti, sarà comunque difficile che, nella capitale danese si riesca a stabilire delle nuove regole sulle emissioni di gas inquinanti perché la distanza tra le parti è ancora grande. L’accordo, probabilmente, verrà rimandato alla Conferenza di Bonn, a metà del 2010, o a quella, ancora più lontana, che si terrà a Città del Messico.

A causa dei tempi di ratifica degli Stati, c’è il rischio di un vuoto normativo sulle emissioni globali poiché il Protocollo di Kyoto scade nel 2012. Intanto, la maggioranza degli scienziati continua ad avvertire che il riscaldamento della terra procede a un ritmo superiore alle previsioni. Le due questioni, quella della fame e quella del clima, sono connesse. Si calcola che il riscaldamento climatico ridurrà tra il 15% e il 30% i rendimenti dei terreni agricoli nell’africa subsahariana.

La miseria di alcune vaste porzioni del pianeta, già di dimensioni tragiche, è destinata ad aumentare, se si confermeranno le tendenze attuali, a causa della crescita demografica che dovrebbe portare la popolazione della Terra a raggiungere, nel 2050, la cifra di 9 miliardi e 300 milioni di persone. La fame non è però una catastrofe naturale. La sua abnorme diffusione è causata anche dalle norme internazionali che regolano l’odierno modello di sviluppo.

Il presidente della Fao, Jacques Diouf, ha dichiarato che servirebbero 44 miliardi di dollari per cancellarla dalla faccia della Terra: una cifra largamente inferiore ai 356 miliardi di dollari investiti, nel 2007, per il sostegno all’agricoltura nei Paesi Ocse e ai 1.340 miliardi impiegati, nello stesso anno, per le spese militari nel mondo. Il vertice di Roma si è però chiuso senza decidere alcuno stanziamento, con una dichiarazione finale che parla di una generica volontà di sradicare il flagello della fame il “prima possibile”.

Gli aiuti ai Paesi poveri sono necessari, ma sarebbe finalmente il momento di ridiscuterne la natura e l’uso, avviando una riflessione sugli errori del passato. La giovane economista dello Zambia Dambisa Moyo ha suscitato vivaci polemiche con un libro nel quale sostiene che un trilione di dollari di aiuti, in trent’anni, è servito solo a foraggiare le corrotte dirigenze dei paesi africani.

Inoltre, questo approccio ha creato una mentalità di dipendenza che certo non favorisce uno sviluppo autonomo. Secondo Dambisa Moyo, bisognerebbe destinare i finanziamenti direttamente alla popolazione, permettendo agli africani di avviare iniziative economiche che creino occupazione.

Qualsiasi somma verrà impiegata non sarà, comunque, sufficiente se non verranno corrette le storture che condizionano il commercio internazionale dei prodotti agricoli. Come dicevamo, alla base della crescita della fame nel mondo ci sono le regole stabilite dalle organizzazioni internazionali che governano l’economia mondiale. In un artico su “Le Monde diplomatique”, l’economista Jacques Berthelot ha ricostruito le tappe essenziali del percorso normativo che ha causato la rovina dell’agricoltura nel Terzo Mondo.

Dopo che negli anni Ottanta il Fondo monetario internazionale aveva imposto ai Paesi in via di sviluppo la liberalizzazione degli scambi, sfruttando l’arma dei debiti da essi contratti, si giunse, nel 1994, all’Accordo sull’agricoltura (Asa) nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio. I Paesi poveri si sono così trovati ad affrontare la concorrenza della produzione agricola di Usa ed Europa, in una competizione enormemente squilibrata già in partenza.

Il fatto paradossale è che statunitensi ed europei, grazie alla complicità del Wto, continuano a proteggere le proprie produzioni agricole, barando sulla quantità di sostegni che vi destinano. I Paesi “ricchi”, inoltre, si difendono dall’importazione agricola, applicando diritti di dogana molto più alti di quelli del Terzo Mondo.

Per esempio, il diritto medio sui cereali della Ue si attesta al 50%, mentre quello dell’Unione economica e monetaria dell’Africa dell’Ovest è fermo al 5%. Nel suo articolo, Berthelot cita il caso del Kenya che, contrariamente alla tendenza generale, ha aumentato il diritto doganale sul latte in polvere dal 25% al 60%, diventando un esportatore di prodotti lattieri e incrementando considerevolmente il consumo interno.

Simili esempi smascherano la retorica dell’aiuto internazionale al Terzo Mondo, che procede di pari passo con l’imposizione della liberalizzazione dei prezzi e dell’apertura dei mercati nelle stesse nazioni. E’ chiaro che gli Stati con gravi carenze strutturali non dovrebbero, in alcuni settori essenziali, aprirsi alla concorrenza internazionale.

La sola via allo sradicamento della fame nel mondo è quella della “sovranità alimentare” dei Paesi poveri. La rappresentazione liberale di una globalizzazione economica che, alla fine, porterebbe benefici a tutti, grazie all’aumento del commercio internazionale, non solo è falsa, ma è anche lo strumento ideologico dello sfruttamento dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo.

Servirebbe, dunque, un altro modello di sviluppo che solo la decisione politica può imporre agli appetiti del “libero” mercato. La politica, oggi, è però considerata solo un intralcio all’economia, un ambito della società il cui peso residuale può essere tollerato a patto che non ostacoli la crescita del mercato.

In un saggio fondamentale, apparso sulla rivista “Trasgressioni”, Alain de Benoist ha spiegato che questo esito ulteriore del liberalismo si chiama “governance”. Questa parola, di uso relativamente recente, che adesso è sulla bocca di tutti i politici di qualsiasi schieramento e dei grandi imprenditori, come un mantra per la risoluzione di ogni problema, prescrive che le questioni pubbliche debbano essere affrontate con i criteri della gestione aziendale.

Flessibilità, integrazione, efficacia sono le parole chiave della governance, per la quale non esistono scelte di valore (politico), ma solo modi più efficienti per raggiungere i risultati (economici) che vengono identificati, sempre e comunque, con il bene comune. I teorici liberali non si accontentano più della mano invisibile del mercato, ma pretendono che lo Stato regoli, in ogni ambito, la società sulle richieste del mercato. Il trionfo di questa ideologia si paga anche, ogni sei secondi, con la morte per fame di un bambino.



Gli aiuti occidentali ci stanno rovinando
di Dambisa Moyo - Roberto Giovannini - La Stampa - 17 Novembre 2009

Nata in Zambia 28 anni fa, questa brillante economista con un dottorato a Oxford, un passaggio alla Banca Mondiale e alla Goldman Sachs tra Londra e New York, ha scritto l`anno scorso un libro sull`Africa e l`Occidente e il fallimento della politica degli aiuti internazionali - Dead Aid, sottotitolo «Why Aid is Not Working and How There is Another Way for Africa» - che ha sollevato una tempesta di polemiche. Le bordate sono arrivate soprattutto da sinistra e dal mondo liberal.

Lei parte da una banale constatazione:il trilione di dollari di aiuti in 30 anni non ha portato sviluppo autonomo e non ha cancellato la povertà, ma ha foraggiato élite politiche corrotte e creato una mentalità di dipendenza.

Dunque, meglio abolire gli aiuti ai governi, limitandoli alle popolazioni; meglio puntare sugli investimenti diretti, che creano occupazione; meglio, soprattutto, rovesciare l`approccio pietistico (simboleggiato da Bono e Angelina Jolie) che vede nei «poveri africani» degli «oggetti» di aiuto, passivi simboli del senso di colpa dell`Occidente opulento.

Dove ha sbagliato l`Occidente?

«Basta esaminare cosa ha funzionato e cosa no. Se si guarda alla Cina, all`India, al Sudafrica, negli ultimi 30 anni lì si è verificato un successo: basato non certo sugli aiuti, ma sul commercio, sugli investimenti, sulla crescita dei mercati di capitali, sullo sviluppo del credito, sul sostegno al risparmio e all`afflusso delle rimesse degli emigrati. Un modello completamente diverso dall`Africa, che dimostra che c`è una via maestra per crescere e ridurre la povertà».

Qualcuno l`accusa di offrire un alibi a chi vuole tagliare gli aiuti. Altri obiettano che senza spazzare via le corrotte élite politiche africane la via virtuosa allo sviluppo resterà un`utopia.

«Non ho mai detto che l`Occidente debba abbandonare l`Africa; dico solo che dovrebbe sviluppare commercio e investimenti, e non continuare su una strada sbagliata e fallimentare. E poi, è proprio la politica degli aiuti ad alimentare una leadership politica africana tanto orribile. Se non si cambia, non avremo mai leader politici di qualità. Le persone serie, di valore, i tanti giovani africani preparati e intelligenti, non sono interessati a impegnarsi in politica, che è un gioco fasullo basato su questa cultura dell`elemosina fondata sul senso di colpa del mondo ricco che rafforza i politici corrotti».

Per qualcuno la Cina sta assumendo in Africa un profilo di potenza neocoloniale ma a suo giudizio è un`opportunità.

«Certo, anche i cinesi in alcuni casi sostengono dittatori e politici corrotti, ma in ultima analisi la Cina con i suoi investimenti sta portando sviluppo e migliorando il tenore di vita, che è un prerequisito - attraverso la nascita di una classe media della democrazia e del buon governo. Sappiamo che la Cina sta giocando una sua partita politica, ma per l`Africa è una vera chance di cambiamento. L`Occidente, invece, pare molto più interessato alla sopravvivenza delle dinastie politiche sue clienti».

È in corso una crisi planetaria, pare complicato trovare risorse per l`Africa.

«Un flusso limitato di aiuti dovrà esserci sempre, come sostegno temporaneo e per le emergenze, ma prima o poi vi renderete conto che noi africani siamo come tutti gli altri: ci servono posti di lavoro. Come generarli? Ad esempio, comprendendo che l`Africa è un imponente e giovanissimo mercato, con il 60% della popolazione con meno di 24 anni».

Ma c`è una burocrazia soffocante, continue tangenti...

«Ma è normalìssìmo, dato il contesto economico. Non c`è lavoro, e se ne hai uno non ti pagano per 6-8 mesi, un anno. Se in Italia i dipendenti pubblici non ricevessero lo stipendio da un anno, tutti chiederebbero tangenti! Sarà così, finché non si rimette in moto un processo di sviluppo virtuoso. Negli anni`60, nell`Africa che si affacciava all`indipendenza, c`era fierezza, dignità, avevamo leader con grandi idee. Oggi c`è una pletora di piccoli capetti che vanno ai vertici internazionali a mendicare aiuti e non hanno mai una proposta. Una mentalità che purtroppo si è diffusa in tutta la società».

Molti commentatori liberal hanno duramente criticato le sue proposte. Come si spiega questo atteggiamento?

«Pensano che l`Africa non ce la possa fare. Vogliono «avere cura» degli africani, e sentirsi in colpa per loro. In fondo gli fa comodo pensare che non siamo eguali, che abbiamo bisogno di loro, che ci serve un`elemosina e non posti di lavoro. Nessuno pensa che in Cina e in India ci sono più poveri che in tutta l`Africa. Ma avete mai visto uno spot con un bambino cinese povero e affamato? Mai. Perché i cinesi sono rispettati e sì fanno rispettare. L`Africa per qualcuno è solo la terra della guerra, della malattia, della corruzione, della povertà. A una certa opinione liberal va benissimo così».


Usa, la crisi che affama
di Luca Galassi - Peacereporter - 17 Novembre 2009

La crisi ha portato recessione, fallimenti, disoccupazione. E fame. Uno studio ha dimostrato che oltre il 16 percento della popolazione statunitense è denutrita. Lo scorso anno circa 50 milioni di persone, tra le quali almeno un bambino ogni quattro, ha faticato per avere cibo a sufficienza.

Nel momento più duro della crisi le analisi economiche si sono concentrate solamente sulla crescita della disoccupazione e gli effetti della recessione. Il dipartimento dell'Agricoltura americano, invece, ha recentemente stilato un primo ritratto dettagliato delle difficoltà alimentari degli americani.

Il notevole incremento delle persone che non possono permettersi abbastanza cibo e in alcuni casi arrivano a soffrire la fame ha colpito perfino chi lavora nelle associazioni per la lotta contro la povertà, abituati alle lunghe file nelle strutture delle organizzazioni umanitarie che distribuiscono cibo alle persone bisognose. Il presidente Barack Obama ha definito lo studio 'inquietante', promettendo azioni concrete per l'eradicazione dello spettro della povertà.

Una della aree più colpite dalle conseguenze alimentari della crisi è quella del distretto di Washington: qui si stima che negli ultimi tre anni, intorno al 12,4 percento delle famiglie abbia avuto problemi nel comprare alimenti. Nel Maryland, la percentuale è del 9,6, in Virginia dell'8,6.

Il Segretario del Dipartimento dell'Agricoltura, Tom Vilsack, ha attribuito la difficoltà nell'accesso al cibo principalmente all'aumento della disoccupazione, che ha superato il 10 percento della popolazione, e all'esistenza di vaste fasce di sotto-occupati. Vilsack ha annunciato che i numero delle person in difficoltà è destinato a crescere quest'anno, e che non si ha alcuna certezza dell'efficacia delle misure che l'amministrazione Obama intraprenderà per combattere il problema e stimolare l'economia.

In merito al quadro economico statunitense, il presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti, Ben Bernanke, ha offerto un quadro non incoraggiante della ripresa economica, indebolita anche da un credito bancario ancora scarso e dalle difficoltà del mercato immobiliare.

I suoi commenti segnano una svolta dopo mesi di rassicurazioni sull'efficacia della politica dei bassi tassi di interesse e dei programmi di stimolo varati dal governo. Il leader della Fed ha ammesso che la situazione del mercato del lavoro e dei prestiti induce a prevedere un'espansione meno solida di quanto si potesse sperare.

Il livello dell'inflazione è tale da consentire di mantenere il costo del denaro eccezionalmente basso per un periodo prolungato, anche se ciò potrebbe comportare il rischio di bolle speculative. Contrariamente alle sue abitudini, Bernanke ha espresso commenti anche sulla debolezza del dollaro, argomento di solito lasciato al dipartimento del Tesoro, sottolineando che la banca centrale sta monitorando attentamente l'andamento dei cambi. Un dollaro troppo debole, infatti, potrebbe provocare una spinta inflazionistica, e la caduta del biglietto verde ha già contribuito al rincaro delle materie prime.

Il ritorno a una piena occupazione, ossia a un tasso di disoccupazione compreso tra il cinque e il sei per cento, è distante anni. Attualmente la percentuale è del 10,2 per cento, la più elevata dalla recessione del 1982 e al di sopra delle stime di qualche mese fa. Si prospetta la possibilità di una ripresa senza occupazione. La crisi del lavoro colpisce soprattutto gli uomini nei primi anni di servizio: in questa fascia la quota dei disoccupati è passata dal quattro al dieci per cento. Altra categoria duramente colpita è quella dei giovani afroamericani: tra loro il tasso di disoccupazione ha superato il 30 per cento.