giovedì 19 novembre 2009

USA-Cina: l'inversione dei ruoli

Il viaggio del presidente Usa Barack Obama in Cina ha dimostrato ancora una volta come le speranze che aveva suscitato un anno fa la sua elezione alla Casa Bianca siano state completamente deluse.
La sua bella quanto scontata e inutile retorica si è ormai sbriciolata nell'aria, solo parole al vento.

Ma questo viaggio asiatico ha soprattutto decretato la fine della supremazia americana quale unica superpotenza globale e la consacrazione ufficiale della Cina come superpotenza in continua ascesa, capace di rispondere con un fermo NO alle richieste americane e di dettare l'agenda.

I ruoli tra Usa e Cina si stanno ormai invertendo.


Obama l'asiatico, che delusione
di Federico Rampini - La Repubblica - 19 Novembre 2009

L’America è delusa dal G2. Barack Obama è arrivato all’ultima tappa della tournée asiatica. A Seul oggi affronta da vicino la minaccia nucleare nordcoreana. Ma in patria si fa già un bilancio critico di questa tournée.

I giudizi sono impietosi. “La Cina è stata irremovibile – osserva il New York Times – Obama ha scoperto una superpotenza in ascesa che è ben decisa a dire no agli Stati Uniti”.

Ancora più duro il Washington Post: “Obama torna dalla Cina senza risultati sui dossier importanti, dal nucleare iraniano alla rivalutazione del renminbi. E’ poco per un presidente che fece campagna elettorale promettendo grandi cambiamenti nella diplomazia. L’unica cosa che è cambiata è il tono conciliante degli Stati Uniti”.

Obama ha concesso molto ai suoi interlocutori. Ha cominciato con l’inchino un po’ troppo ossequioso all’imperatore giapponese, erede della dinastia che porta la responsabilità storica dell’attacco su Pearl Harbor.

A Pechino, a differenza dei suoi predecessori, per non irritare i padroni di casa Obama non ha cercato di incontrare qualche dissidente perseguitato.

Non ha fatto il gesto di andare a messa, che George Bush fece per sollevare il tema della libertà religiosa.

La Casa Bianca stavolta non ha ottenuto neppure la diretta televisiva per il dialogo tra Obama e gli studenti di Shanghai. Ha dato fin troppo e in cambio di cosa?, si chiedono in America.


Dalle promesse alla realtà

di Vittorio Zucconi - La Repubblica - 16 Novembre 2009

"Avrebbe potuto prendere il toro dell'inquinamento globale per le corna a Copenaghen e invece lo ha scansato" fremono contro Obama gli ambientalisti del Wwf, aggiunti da ieri alla sempre più lunga lista internazionale dei delusi dal carismatico "profeta del cambiamento" che in 10 mesi di presidenza sembra avere cambiato poco.

La sua rinuncia a fare del vertice Onu in Danimarca sull'ambiente, in dicembre, la affermazione definitiva del nuovo corso americano sul clima, e la notizia che il presidente oggi occupato a parlare di vile moneta e di mercati con i cinesi, neppure si scomoderà a parteciparvi visto che nessun trattato concreto ne uscirà oltre i soliti "impegni politici" sta seminando lo sconforto tra coloro che avevano visto in lui l'attore di quella svolta ambientalista che George Bush aveva scaricato.

Se non è proprio lo sprezzante rifiuto del primo accordo di Kyoto che George "W" aveva pronunciato morto nel 2001 per rassicurare subito i poteri economici e industriali americani che lo avevano appoggiato, l'ammissione che anche questo nuovo tentativo di affrontare appunto "per le corna" il toro del degrado ambientale planetario è stato accantonato, sembra la "piccola Kyoto" di Barack Hussein Obama.

Ma una differenza fondamentale, anche se ancora non tradotta in azione politica e diplomatica internazionale, fra la ritirata di Kyoto ordinata da Bush e il "time out" di Copenhagen voluto da Obama esiste e può consolare i delusi del Wwf e gli ambientalisti che si attendevano dalla Danimarca molto più di un "accordo politico vincolante" come lo ha chiamato il premier danese Rasmussen, dove il sostantivo, "politico", svuota l'aggettivo "vincolante".

Il Bush dei primi quattro anni era ideologicamente scettico, se non proprio indifferente, all'ambientalismo, alla globalizzazione della risposta, alla cultura dell'"effetto serra" e del surriscaldamento della Terra provocato dall'attività umana che lui, e i suoi suggeritori politici, consideravano, appunto, come un'ideologia, non a caso incarnata dal rivale che aveva (forse) sconfitto alle elezioni del 2000, Al Gore.

Il problema, e l'atteggiamento di Obama, è tutt'altro. Ha la stessa radice di tutte le "delusioni" che la sua politica su Guantanamo, le guerre in Iraq e in Afghanistan, la sfida del terrorismo transnazionale, la riforma della sanità, le grandi questioni etiche e pratiche come l'aborto, le unioni fra persone dello stesso sesso, i "gay" nelle forze armate, stanno sollevando nel "movimento" che lo proiettò alla Casa Bianca. Obama vorrebbe, ma non riesce.
Bush non voleva e riuscì a non fare, che è sempre cosa assai più facile.

Il presidente in carica sta, giorno dopo giorno, scoprendo, o ammettendo dopo la scintillante retorica della sua campagna elettorale, quello che tutti i suoi predecessori avevano scoperto, che cioè tra il promettere e il mantenere esiste, anche per la persona che si definisce come "la più potente" del mondo, un abisso. E che questo abisso pratico appare tanto più largo e profondo quanto più grandi erano le speranze suscitate e le promesse fatte.

Si può essere, come non abbiamo ragione di dubitare che lui sia, convinti ambientalisti, ma questa convinzione non si traduce necessariamente in un trattato che imponga - come Copenhagen, molto più del vago accordo di Kyoto avrebbero fatto - alle nazioni sviluppate, alle nuove potenze emergenti come India, Cina o Brasile, all'Africa che insegue arrancando, alla parte dell'Asia ancora arretrata, di rispettare meccanismi severi e minuziosi di comportamento.

Si può, e sicuramente lui lo vorrebbe, cercare di ripulire le stalle di Guantanamo, di chiudere l'insensatezza irakena, di trovare la chiave del rompicapo afghano, di dare una copertura sanitaria agli esclusi per censo o per cattiva salute. Ma il "toro" delle opposizioni, degli interessi contrari, degli opportunismi politici, diciamo pure della realtà, non si lascia infilzare facilmente.

Dalla radicalità delle parole alla vischiosità delle cose sta il passaggio che Obama non riesce ancora a compiere, non essendo comunque lui mai stato quel rivoluzionario che soltanto la propaganda avversaria, e le farneticazione tele e radiofoniche di chi lo detesta anche per il colore della pelle senza naturalmente mai ammetterlo, dipingevano.

Per questo, come nel caso della "rivoluzione ambientale" interrotta con la rinuncia, per ora, al trattato di Copenhagen che non sarà abbandonato ma ripreso e spinto da lui, Obama tergiversa, negozia, media, attende, scansa il toro, nella speranza di fiaccarlo. Purtroppo per lui, il tempo passa, le amarezze aumentano, nuove elezioni incombono e il torero rischia di restare solo nell'arena delle delusioni.


Obamismo
di Pietro Ancona - http://medioevosociale-pietro.blogspot.com - 18 Novembre 2009

Obama si identifica sempre di più nel suo predecessore in tutte le questioni. In Cina ha fatto propaganda per i diritti civili ed umani (SIC!) istigando i giovani di Shangay a reclamarli. Ma, per quanto lo riguarda non ha revocato la Patriot Act nè fatto chiudere Guantanamo.

Ha fatto trasmettere il suo sermone in internet lodandone la libertà da interessato dal momento che internet e telefonini gli servono a fomentare rivolte nei paesi che gli Usa vogliono destabilizzare. Ha chiesto provocatoriamente ai cinesi di ricevere il Dalai Lama e si è rifiutato di riconoscere la sovranità della Cina sul Tibet.

Provate a pensare se i cinesi gli chiedessero di ricevere il capo del mormoni e se questo rivendicasse la secessione dell'Utah dagli Stati Uniti. Finge di continuare a credere alla centrale Alqaeda ed all'ineffabile Bin Laden e fa bombardare villaggi massacrando famiglie inermi e provocando lo sfollamento di migliaia di persone che poi vanno a perdersi ed a morire di stenti in spaventosi campi profughi.

L'altro giorno, non so come, tg3 ci mostrò uno sfollato in uno dei questi campi che cercava di vendere la figlioletta per pagare il medico al fratello morente. Ha fatto macchina indietro a tutta forza sulla questione del clima che era stata il suo cavallo di battaglia. "dobbiamo salvare il pianeta " diceva nelle assemblee e tante anime belle sempre pronte a credere in qualcuno sono diventati obamiane e lo hanno ravvisato come San Michele Arcangelo che trafigge il drago malvagio dell'inquinamento!!

In quanto ai suoi connazionali . dopo aver promesso l'assistenza sanitaria come diritto di tutti o non solo di coloro che hanno i soldi per pagarsela ha partorito un mostriciattolo, una vera presa in giro, un documento di duemila pagina con le quali si inventa una assicurazione pubblica che non intaccherà gli asociali interessi del business delle compagnie private che artigliano il 17% del reddito nazionale.

Si accinge inoltre a mandare altri trenta o quarantamila soldati in Afghanistan in aggiunta ai trecentomila tra soldati e contractors di stanza tra Afghanistan ed Irak. Gli USA hanno venticinque milioni di veterani in gran parte mutilati, pazzi, spesso suicidi per le atrocità che hanno vissuto ed alle quali sono stati costretti da un esercito che non ha niente da invidiare ai nazisti delle SS. Molti di loro si trasferiscono in Messico perchè la pensione è tanto miserabile da non consentire di vivere negli USA.

Non si è posto il problema dei suicidi e delle diserzioni dei soldati americani nè dei bambini deformi che nascono a Falluja bombardata al fosforo dal suo predecessore. Ora si accinge a processare cinque "terroristi" dopo averli tenuti e torturati per otto anni a Guantanamo. Con arroganza ha dichiarato che chiederà per loro la pena di morte e sta preparando l'opinione pubblica ad assistere il patibolo come ha fatto il suo predecessore con Sadam Hussein impiccato in presa diretta tv mondovisione.

La sua linea non è la pace ma la sottomissione del mondo al suo modello ideologico e religioso. Migliaia e migliaia di esperti, di militari e specializzati lavorano ai progetti di destabilizzazione o di annichilimento dei Paesi non anjcora presidiati da almeno una base militare USA.

Non tollera nell'estremismo fondamentalistico della sua "missione" politica nessuna civiltà diversa dalla sua.Non ha esitato a distruggere quanto restava della civiltà assiro-babilonese e del patrimonio che ci tra lasciato.

Su Babilonia il manto cementizio di diecine di centimetri di un eliporto dei marines copre le vestigia di seimila anni e che è quasi certo non rivedremo mai più come non rivedremo quanto è stato rubato dal museo di Bagdad.


In Cina anche gli studenti "veri" sono col regime
di Federico Rampini - La Repubblica - 18 Novembre 2009

Che gli studenti ammessi al dibattito con Obama a Shanghai fossero a maggioranza iscritti al partito quella mattina dentro il museo della tecnologia lo avevamo notato subito: esibivano lo stemma del partito all’occhiello.

Ora viene fuori (vedi la notizia sul nostro sito) che alcuni di loro erano non solo iscritti ma dirigenti del partito. Un pubblico ben selezionato, indottrinato e ideologizzato, per evitare domande scomode al presidente americano (l’unica domanda sulla censura infatti Obama se l’è pescata dal sito dell’Ambasciata Usa).

Ma gli studenti “veri” in Cina sono poi tanto diversi da quel campione selezionato dal regime? No, la maggioranza dei giovani universitari cinesi sono nazionalisti, e tendono a respingere le critiche sui diritti umani quando vengono dall’Occidente.

Me lo insegna la mia esperienza di cinque anni in Cina, durante i quali ho anche insegnato occasionalmente come visiting professor proprio a Shanghai, alla SHUFE (Shanghai University of Finance and Economics).

E’ anche l’esperienza che facemmo quando la fiaccola delle Olimpiadi fu accolta a Parigi, Londra e San Francisco con proteste in favore del Tibet. La controreazione in Cina fu molto accesa e vide schierati in prima linea proprio i giovani.

Sul Tibet perfino dei miei giovani ex-studenti cinesi che hanno borse di studio presso delle università americane, sposano al 100% la visione del governo di Pechino che addita il Dalai Lama come un criminale.

Dietro il consenso studentesco verso il regime (che naturalmente non esclude le critiche né le eccezioni) c’è un fenomeno sociale tipico della Cina di oggi, che la rende molto diversa da quella del 1989.

La lezione principale che i dirigenti comunisti trassero dalla protesta di Piazza Tienanmen, fu che per la stabilità del loro potere occorreva evitare in futuro di trovarsi contro le élite più istruite del paese.

Da allora è iniziata una grande opera di cooptazione dei giovani universitari. Fino al 1989 il partito comunista cinese era ancora essenzialmente fatto di operai e contadini, oggi il gruppo sociale più rappresentato fra i suoi iscritti (che sono 75 milioni) è quello della gioventù universitaria.

Inoltre il regime è stato generoso di opportunità economiche e di carriera per ricercatori, docenti, scienziati. E’ riuscito perfino a incoraggiare un flusso di ritorno dei cervelli dall’estero. A patto naturalmente che non siano dissidenti. Questa gigantesca cooptazione delle élite fa sì che oggi il mondo delle università è uno degli ambienti dove il consenso verso il governo è più elevato.


Benvenuto, compagno Maobama
di Pepe Escobar - www.atimes.com - 17 Novembre 2009
Tradotto da Manuela Vittorelli, Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica.

Caro compagno Maobama,

È un grande onore riceverla qui nella capitale settentrionale del Regno di Mezzo e vederla rendere omaggio al cuore del mondo multipolare del XXI secolo.

Ci scusi se ci discosteremo per un po' dalle sottili regole della diplomazia, ma visto che ammiriamo la sua integrità, la sua onestà e le sue magnifiche doti intellettuali ci permetta di rivolgerci a lei con una certa franchezza.

Innanzitutto, le nostre congratulazioni per il successo sul mercato cinese de Il coraggio della speranza, che ha già venduto 140.000 copie. Ma ci scusi se non potremo crogiolarci nell'ardore delle folle stupefatte e infuse di “coraggio della speranza” come a Berlino, in Ghana, al Cairo, a Londra o a Parigi.

Di certo Sasha e Malia sarebbero entusiaste se lei riuscisse a comprare a Houhai per pochi poveri yuan una maglietta commemorativa del compagno Maobama. La casacca e il berretto grigioverdi della Rivoluzione Culturale le donerebbero moltissimo.

Siamo d'altronde molto lieti che lei si sia appena definito “il primo presidente americano del Pacifico”, vantando perfino un fratellastro che risiede nella nostra prosperosissima zona economica speciale, lo Shenzhen.

Notiamo un'interessante convergenza tra “Pacifico” e la nostra dottrina dell'heping jueqi, “ascesa pacifica”. In fondo siamo tutti pacifisti; se conosce la nostra dottrina saprà che spiega chiaramente perché la Cina non rappresenti una “minaccia” per gli Stati Uniti. Dopo tutto, la nostra spesa militare è inferiore del 20% alla vostra, e molto più bassa di quelle di Giappone, India e Russia messi insieme.

Per quanto riguarda la nostra vena pacifista, il Presidente Hu Jintao – con il quale ha avuto una serie di approfondite discussioni – l'ha evidenziata molto chiaramente già durante l'amministrazione del suo predecessore George W. Bush, annunciano i suoi “quattro no” (no all'egemonia; no alla politica della forza; no alla politica dei bocchi; no a una corsa agli armamenti) e i suoi “quattro sì” (sì alla costruzione della fiducia; si all'attenuazione delle difficoltà; sì allo sviluppo della cooperazione; sì a evitare lo scontro).

Abbiamo notato che ha anche scelto di definirci un “partner essenziale” nonché un “competitore”. Sì, siamo molto competitivi. Sta praticamente nel DNA, quando si è stati una grande potenza mondiale per 18 degli ultimi 20 secoli. Se la dottrina della “rassicurazione strategica” elaborata dai vostri think tank significa rispettare anche il nostro spirito competitivo oltre ai nostri usi e principî, di certo per noi non ci sono problemi.

A proposito, siamo estremamente lieti che sabato scorso abbia scelto Tokyo, in Giappone, per rassicurarci sul fatto che “gli Stati Uniti non vogliono contenere la Cina”. Ma ci chiedevamo se i suoi generali – che praticano avidamente la dottrina del dominio ad ampio spettro – la stessero ascoltando.

Caro compagno, ci sono alcune cose che dobbiamo chiarire subito. Non intendiamo piegarci alle pressioni degli Stati Uniti sulla nostra politica monetaria. Ascolti Liu Mingkang, presidente della Commissione cinese di controllo sulle banche. Nel corso di una conferenza svoltasi qui ha Pechino ha appena spiegato che un dollaro molto debole e tassi di interesse americani molto bassi stanno creando “rischi inevitabili per la ripresa dell'economia globale, soprattutto delle economie emergenti”, e questo “ha un grave impatto sui prezzi degli asset globali e incoraggia la speculazione sui mercati azionari e su quelli immobiliari”.

Temiamo che, più che rappresentare soluzione, voi facciate parte del problema. Se le capitasse di incontrare delle persone normali, per le strade di Pechino – oh, le scoccianti regole dei servizi di sicurezza – le chiederebbero perché la Cina debba ascoltare i predicozzi americani quando gli Stati Uniti stampano dollari come pazzi e si aspettano che la Cina gli regga il gioco.

Per quando riguarda la nostra parte del mondo, speriamo che abbia l'occasione di apprezzare la ragionevolezza dei nostri principî economici, dimostrata dalla crescita della produzione industriale, delle vendite al dettaglio e degli investimenti in capitale fisso e da una deflazione moderata, come esposto da Sheng Laiyun, portavoce dell'Ente Nazionale di Statistica.

Nel 2009 la nostra economia crescerà dell'8%. Perché? Perché abbiamo trascorso gli ultimi 11 mesi a lavorare 24 ore al giorno, investendo produttivamente nella nostra economia, perfezionando la nostra politica monetaria e lanciando provvedimenti fiscali per sostenere alcuni settori industriali. Prevediamo un boom dei consumi fino al prossimo capodanno cinese, il 14 febbraio 2010. Dunque la nostra priorità è continuare a crescere; poi potremo pensare a svalutare lo yuan.

Caro compagno, siamo certi che si meraviglierebbe della potenza dei nostri tre maggiori settori industriali. È un peccato che non abbia avuto il tempo di visitare il Delta del Fiume delle Perle, la fabbrica del mondo, il nostro centro manifatturiero regno di infinite catene di montaggio.

Avrebbe anche potuto dare un'occhiata al Delta dello Yang-Tze – cuore della nostra industria ad alto impiego di capitale e della produzione di automobili, di semiconduttori e di computer. E se solo avesse avuto il tempo di farsi un giro a Zhongguancun, fuori Pechino: la nostra Silicon Valley.

Una semplice occhiata a uno dei nostri quattro enormi complessi info-tecnologici, pieni di piccole imprese e di giovani industriosi, motivati e dall'eccellente formazione, le farebbe capire come la tecnologia sia diventata il nuovo oppio della Cina (senza guerra annessa, come quella impostaci dall'Impero Britannico nell'Ottocento).

Ci fa sognare un tempo in cui le innovazioni tecnologiche nasceranno in Cina per poi diffondersi nel mondo. Sì, avremo anche una forza lavoro a buon mercato, ma gran parte di noi ha una forza lavoro straordinariamente motivata, regolamentata da buoni criteri sanitari e scolastici, dotata di un'immensa disciplina e pronta a lavorare senza sosta per il raggiungimento degli obiettivi produttivi.

Caro compagno, passiamo a questioni più controverse. A proposito di quella vostra piccola guerra in Afghanistan. Ormai vi sarete accorti che è stata la Cina a vincere la “guerra al terrore”. E ciò spiega ampiamente perché la Cina sia ora molto più influente degli Stati Uniti in Asia Orientale e in molte altre parti del mondo.

Capirà che finché il Pentagono è tutto impegnato in Asia Occidentale dobbiamo stare molto attenti. Seguiamo attentamente le strategie elaborare dai vostri think tank. Ci diverte soprattutto la strategia del nostro vecchio amico Henry Kissinger, che propone di integrare la Cina in un nuovo ordine mondiale imperniato sull'asse statunitense: in fin dei conti, questo equivale ancora all'egemonia americana.

Ci sono altri e ben più preoccupanti aspetti insiti nell'accerchiamento della Cina da parte di un sistema di basi militari e da un'alleanza militare strategica controllata dagli Stati Uniti: di fatto, una nuova guerra fredda. Non possiamo rispettare questa strategia, giacché può solo portare alla frammentazione dell'Asia e del Sud del mondo.

Stia certo che siamo in grado di gestire da soli sia la Corea del Nord che l'Iran, armoniosamente e senza scontri. E per tornare all'Afghanistan, riteniamo che la migliore soluzione dovrebbe essere individuata nell'ambito dell'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), della quale siamo cofondatori insieme alla Russia. Questo è un problema asiatico – in termini sia di narcotraffico che di fondamentalismo religioso – che andrebbe dibattuto e risolto nella cerchia delle potenze asiatiche.

Caro compagno, si sarà forse accorto che il Consenso di Washington è in tutto e per tutto morto. Ciò che è emerso è quello che potremmo chiamare Consenso di Pechino. La Cina ha dimostrato al Sud del mondo che “esiste un'alternativa”, una “terza via” fatta di sviluppo economico indipendente e di integrazione nell'ordine mondiale.

Abbiamo dimostrato che, diversamente dal pacchetto a “taglia unica” del Consenso di Washington, lo sviluppo economico deve essere “locale” in ogni caso. Il nostro amato Piccolo Timoniere Deng Xiaoping l'avrebbe chiamato “sviluppo con caratteristiche locali”.

Abbiamo dimostrato che gli Stati in via di sviluppo del Sud del mondo devono unirsi, e non per sostenere l'unilateralismo statunitense ma per organizzare un nuovo ordine mondiale basato sull'indipendenza economica e al contempo rispettoso delle differenze politiche e culturali.

Abbiamo intrapreso la nostra yellow BRIC road e non ci siamo solo noi, Brasile, Russia, India e Cina; ci sono anche tutti gli altri Stati del Sud del mondo. Tuttavia siamo consapevoli che il ricco Nord tenterà sempre di cooptare certi paesi del Sud per ostacolare un cambiamento gerarchico in cui il mondo possa credere, e che è, come forse già sa, incarnato dalla Cina.

Avrà anche capito perché la Cina abbia costantemente battuto le istituzioni economiche e finanziarie controllate dal Nord. Dopo tutto, offriamo ai paesi del Sud del mondo contratti migliori per accedere alle loro risorse naturali. Ci siamo impegnati in vasti e complessi progetti di costruzione delle infrastrutture che finiscono sempre per costare meno della metà rispetto ai prezzi applicati dai paesi del Nord. I nostri prestiti sono finalizzati più attentamente; non sono soggetti a fraintendimenti politici; e non portano con sé tariffe esorbitanti per le consulenze.

Avrà capito che i principali paesi produttori di petrolio hanno dirottato le loro risorse in eccesso verso il Sud. Paesi ricchi di petrolio dell'Asia Occidentale hanno cominciato a investire pesantemente nell'Asia Orientale e Meridionale un po' del surplus che avrebbero normalmente destinato all'Europa e agli Stati Uniti.

Si sarà accorto, compagno, che la contro-rivoluzione monetarista è morta. Dunque la questione ora non è se l'Asia e il Sud del mondo continueranno a usare il dollaro statunitense come valuta di scambio – questo, ovviamente, continuerà per anni. La questione a lungo termine è se continueranno ad affidare i surplus delle loro partite correnti a istituzioni controllate dal Nord, o se lavoreranno piuttosto per l'emancipazione del Sud. I suoi istinti egalitari potranno simpatizzare con quest'ultima soluzione, ma siamo certi che la classe dirigente degli Stati Uniti la contrasterà con le unghie e con i denti.

Ci scusi per quella che può essere vista come impertinenza, compagno. Naturalmente – seguendo la lezione del grande maestro Lao Tzu – siamo anche consapevoli delle nostre mancanze. Sappiamo bene che per un quarto della nostra popolazione di 1,3 miliardi di persone sarebbe un suicidio adottare il sistema di produzione e consumo noto come stile di vita americano.

Sappiamo che dobbiamo fare di più per proteggere l'ambiente. Il nostro Piano Quinquennale 2006-2010, per esempio, ha posto come obiettivo una riduzione del 20% del consumo di energia, e la nostra politica industriale ha chiuso quasi 400 sottosettori industriali e ne ha limitati altri 190. Sappiamo bene cosa si rischia se, entro il 2025, non meno di 300 milioni di contadini si trasferiranno nelle nostre città, dove le auto, comprese le vostre Buicks americane, già fanno apparire piccolo il numero di biciclette.

Capiamo anche quante distorsioni siano implicite nella nostra cieca riproduzione del modello di sviluppo occidentale. Per farle un esempio, quando i nostri visitatori vanno al mega-centro commerciale The Place, nel distretto finanziario centrale di Pechino, e guardano il più grande schermo sospeso del mondo – che trasmette immagini generate al computer – si lamentano dello spreco di energia che comporta. È una droga per la quale non abbiamo ancora trovato la cura. Non ne abbiamo mai abbastanza di centri commerciali, e di concessionarie di SUV, di Hummer e di Ferrari a Jinbao Dajie, la strada dello shopping.

Siamo ben consapevoli delle centinaia di scioperi e dei diffusi disordini sociali che si verificano ogni mese e che coinvolgono soprattutto la nuova classe lavoratrice cinese – i giovani migranti interni – che costituisce la spina dorsale della nostra invidiabile industria di esportazione. Negli Stati Uniti non ci crederete, ma naturalmente in Cina esiste un movimento dei lavoratori – non uno, ma molti, spontanei e relativamente poco articolati, estremamente attivi praticamente in tutte le città del paese.

Noi vi prestiamo attenzione, e facciamo il nostro meglio per occuparci delle loro vertenze. Il Presidente Mao metteva sempre in guardia contro il luan – il caos – e niente ci preoccupa più della rivolta sociale nelle aree urbane e rurali. Ecco perché abbiamo mutato la nostra politica, tentanto di correggere le ineguaglianze derivanti dallo sviluppo e varando nuove leggi che offrono maggiori diritti ai lavoratori.

Nello stesso tempo, ricordiamo sempre come le riforme del compagno Deng Xiaoping dovettero occuparsi innanzitutto e soprattutto del settore agricolo. Per questo oggi il Presidente Hu si concentra tanto sullo sviluppo dell'istruzione, della prevenzione sanitaria e dell'assistenza sociale nelle campagne. Ecco come vediamo lo sviluppo di una “società armoniosa”.

Riassumendo, compagno Maobama. Speriamo davvero che lei apprezzi la favolosa anatra alla pechinese in compagnia del compagno Hu Jintao, e che conduca con lui un franco scambio di vedute. E, a proposito, se ha bisogno di un corso accelerato sulla politica cinese, non perda tempo ad ascoltare i suoi think tank: spedisca un diplomatico in un negozio di DVD a comprare una copia (pirata) della Città proibita di Zhang Yimou, con Chow Yun-fat e la nostra splendida Gong Li.

Sta tutto lì: il culto della segretezza e della dissimulazione; la logica e la crudeltà dei clan rivali; il senso di tragedia politica; e come, in Cina, la ragion di Stato abbia la meglio su tutto. Certo, in fin dei conti possiamo essere una società violenta, ma è una violenza interiorizzata. Il luan del Presidente Mao è la nostra più profonda paura; temiamo soprattutto il male che possiamo infliggere a noi stessi. Se riusciremo a controllare noi stessi potremo essere un vero Regno di Mezzo, tra cielo e Terra. “Potenza superglobale” è solo senno di poi.

Comunque, come disse il compagno Deng, diventare ricchi è meraviglioso – tanto più quando si diventa il banchiere dell'attuale superpotenza globale. Saremo sempre qui per lei quando ne avrà bisogno. La preghiamo solo di non chiederci di svalutare lo yuan. Possa essere benedetto e condurre una propizia e prospera amministrazione, e possiate lei e la sua famiglia vivere una lunga e fruttuosa vita.

Con deferenza,

La Repubblica Popolare Cinese


Cina e Usa, un accordo "indolore" resuscita il vertice di Copenhagen

di Federico Rampini - La Repubblica - 17 Novembre 2009

Sarà operativo. Sarà politicamente vincolante. Non sarà, purtroppo, legalmente vincolante. E' sul filo di queste promesse di queste sottili distinzioni che si è giocato in queste ore l'ultimo "giallo" sul vertice di Copenaghen dedicato all'ambiente.

A Pechino oggi Barack Obama si è presentato a fianco al presidente cinese Hu Jintao, nel salone d'onore del palazzo del Congresso del Popolo in Piazza Tienanmen, per annunciare a sorpresa il "salvataggio" del summit di dicembre sulla riduzione delle emissioni carboniche.

A prima vista è un capovolgimento clamoroso rispetto a quanto annunciato appena 48 ore prima al vertice Apec (Asia-Pacifico) di Singapore. In quell'occasione il premier danese Rasmussen era stato costretto a volare d'urgenza in Estremo Oriente per ratificare lo svuotamento del vertice di Copenaghen.

"Nei 22 giorni che restano prima di quell'appuntamento - aveva detto a Singapore il consigliere di Obama Michael Froman, esperto economico al National Security Council - è ormai escluso che si possa trovare un'intesa". La conclusione era stata raggiunta in un breakfast mattutino fuori programma, con il placet decisivo delle due superpotenze che sono anche i maggiori inquinatori del pianeta, Usa e Cina, assente l'Unione europea.

Oggi a Pechino, a leggere la dichiarazione del presidente Obama, si direbbe che a distanza di due giorni dal suo funerale Copenaghen è stato letteralmente resuscitato. E' solo apparente il colpo di scena: dovuto al fatto che Obama e Hu si sono resi conto di aver umiliato un po' troppo l'Unione europea; inoltre Obama si sente in difficoltà anche con l'ala sinistra del suo partito e il movimento ambientalista, dopo che il siluramento di Singapore ha avuto una grande risonanza sui mass media americani.

Ecco dunque l'escamotage, che ancora una volta ci è stato spiegato da Michael Froman. L'annuncio di oggi - precisa l'esperto della Casa Bianca - vuol dire che a Copenaghen America e Cina si impegnano a raggiungere un accordo "politicamente" vincolante su obiettivi immediati di riduzione delle emissioni CO2; dovranno però continuare a lavorare per raggiungere, in un futuro non meglio precisato, l'accordo "legalmente vincolante" e quindi quello davvero operativo.

E' evidente che finché non esiste l'accordo legalmente vincolante non può nascere il nuovo trattato che dovrebbe succedere a quello di Kyoto. Obama da parte sua porta a casa da Hu la promessa che le potenze emergenti accetteranno di essere incluse in questo accordo. E' una storia di grandi manovre che comunque vengono fatte e disfatte sempre all'interno del G2 sino-americano, con l'Europa che le viene a sapere dai mass media.


La Cina ora è diventata il rischio più grande per l'economia mondiale
di Ambrose Evans-Pritchard - www.telegraph.co.uk - 15 Novembre 2009
Traduzionea cura di Jjules per www.comedonchisciotte.org

“I problemi intrinseci del sistema economico internazionale non sono stati affrontati completamente”, ha detto il presidente cinese Hu Jintao. Sicuramente no. La Cina sta ancora esportando verso il resto del mondo un eccesso di capacità produttiva su vasta scala, con conseguenze deflazionistiche.

Mentre alcuni si preoccupano per un’inflazione guidata dalla liquidità, Justin Lin, il responsabile economico della Banca Mondiale, ha affermato che il pericolo maggiore è che i livelli record di stabilimenti fermi quasi ovunque possa portare ad una spirale verso il basso di tagli di posti lavoro e di fallimenti aziendali. “Sono più preoccupato per una deflazione”, ha detto.

Tenendo lo yuan a 6,83 sul dollaro per spingere le esportazioni, Pechino sta riversando la sua disoccupazione all’estero – “rubando i posti di lavoro americani”, dice il premio Nobel Paul Krugman. Finché la Cina continua a farlo, anche le altre tigri devono fare altrettanto.

I capitalisti occidentali sono ovviamente complici. Affittano manodopera a basso costo e impianti a buon mercato nel Guangdong, poi fanno pressioni su Capitol Hill per impedire al Congresso di prendere provvedimenti. Questo è arbitraggio sulla manodopera.

Ad un certo punto i lavoratatori americani si ribelleranno. La disoccupazione negli Stati Uniti è già al 17,5% secondo l’indice allargato “U6” che viene seguito da Barack Obama. Realty Track sostiene che solamente in ottobre sono stati pignorati 332,000 immobili. Hanno perso la perso la casa più americani quest’anno che durante l’intero decennio della Grande Depressione. Ed è probabile che ci sia un arretrato di 7 milioni di abitazioni in attesa di esproprio da parte dei creditori. Se non state prestando attenzione a questa bomba politica ad orologeria, forse fareste meglio a farlo.

Il Presidente Obama ha dichiarato prima di partire questa settimana per la Cina che l’Asia non può più vivere inviando merci agli americani che sono già indebitati fino al collo. “Abbiamo raggiunto uno di quei rari punti di flesso nella storia in cui si ha la possibilità di intraprendere un cammino diverso”, ha detto. Se non dovessimo intraprendere quel cammino “creerebbe delle tensioni enormi” sui rapporti americani verso la Cina. Si tratta di una minaccia?

Va di moda parlare dell’America come se si trattasse di un mendicante. Tutto questo dà un’idea sbagliata dell’equilibrio strategico. Washington può mettere la Cina in ginocchio in qualunque momento chiudendo i mercati. Non esiste alcuna simmetria. Qualunque mossa di Pechino per liquidare i propri pacchetti di Buoni del Tesoro americani potrebbe essere neutralizzata – in extremis – dai controlli sui capitali. Gli stati sovrani ben armati possono fare quello che vogliono.

Se venissero provocati, gli Stati Uniti hanno l’accortezza economica di ritirarsi in una quasi autarchia (con il NAFTA) e riorganizzare le proprie industrie dietro a delle barriere doganali, come fece la Gran Bretagna negli anni Trenta sotto l’Imperial Preference. In simili circostanze, la Cina crollerebbe. Le statue di Mao verrebbero rovesciate dalle sommosse nelle strade.

La scorsa settimana Hu è sembrato conciliatorio. La Cina sta intraprendendo azioni “decise” per ridurre il proprio affidamento sulle esportazioni, che è ancora al 39% del PIL. “Vogliamo aumentare la possibilità di spesa della popolazione”, ha sostenuto.

Pechino sta in realtà spingendo sulle pensioni e sull’estensione dell’assicurazione sanitaria nelle campagne in modo che la gente senta meno il bisogno di risparmiare, ma le rivoluzioni culturali richiedono tempo. Finora tutto quello che abbiamo visto sono stati dei “piccoli passi”, dice Stephen Roach di Morgan Stanley.

La realtà è che buona parte dell’incentivo di Pechino da 600 miliardi di dollari è stato speso nella costruzione di altri stabilimenti e infrastrutture in modo che la Cina possa spedire altre merci, oppure si è infiltrato nel mercato immobiliare e nel mercato azionario.

Il credito è esploso. Stanziato dai capoccia maoisti per scopi politici, è diventato assurdo. La Cina sta muovendo una quantità di acciaio pari agli altri otto produttori messi insieme. Sta sfornando più cemento di tutto il resto del mondo. Gli investimenti fissi hanno raggiunto quest’anno il 53%. Non appena venite a sapere che le autorità di Hunan hanno demolito un tratto di tre chilometri di una moderna autostrada sopraelevata per poter assorbire gli incentivi e ricostruirla di nuovo, o che la città appena costruita di Ordos giace deserta nella regione della Mongolia Interna, sapete cosa dovrà arrivare in seguito.

Pivot Asset Management ha detto che i prestiti hanno toccato il 140% del PIL, “ben oltre” i livelli che hanno portato a delle crisi in passato. Con il sessantesimo anniversario della rivoluzione ormai lontano, la banca centrale ha iniziato a stringere. I nuovi prestiti in yuan si sono dimezzati in ottobre. Quindi fate attenzione. Pivot ha detto che, per i mercati mondiali, un atterraggio violento in Cina potrebbe rivelarsi traumatizzante tanto quanto il crollo dei subprime americani.

L’economia mondiale sta ancora pattinando su una lastra di ghiaccio molto sottile. L’Occidente è traboccante di debito, l’Oriente di stabilimenti. La crisi è stata contenuta (o mascherata) dagli interessi a tasso zero e dall’aumento della tassazione, saccheggiando i bilanci sovrani. Ma il problema principale rimane. L’anglosfera e il Club Med stanno stringendo la cinghia ma l’Asia non sta compensando aggiungendo ulteriore domanda. Sta aggiungendo offerta.

La mia opinione è che i mercati stiano ancora negando il naufragio strutturale della bolla del credito. Ci sono ancora due foruncoli da schiacciare: la bolla degli investimenti cinesi e l’insabbiamento bancario europeo. Temo che solo allora potremo ripulire le macerie e, molto lentamente, iniziare un nuovo ciclo.