lunedì 30 giugno 2008

L'unto di illegalita'

C'e' poco da dire sui comportamenti ripetitivi, scontati e votati all'illegalita' del presidente del Consiglio. Non rappresentano certo una novita' e gli italiani che lo hanno votato, se lo sciroppassero adesso.

Poveri illusi, credevano che Silvio gli avrebbe risolto i problemi economici, con aumenti dei salari, diminuzioni delle tasse e dei prezzi dei beni alimentari.
Che imbecilli, si meritano proprio di sprofondare nella merda.


Legittimità e legalità
di Barbara Spinelli - La Stampa - 29 Giugno 2008

Se, come ha scritto Carlo Federico Grosso su questo giornale, «il barometro della legalità in Italia segna tempesta», vuol dire che qualcosa di grave sta succedendo, nel governo e nella coscienza dei cittadini: qualcosa che guasta il rapporto che ambedue hanno con il diritto e la giustizia, che li rende indifferenti alle continue capricciose riscritture di leggi e competenze. Qualcosa che inquina non solo il nostro rapporto con la democrazia ma anche la domanda, diffusa, di stabilità e sicurezza delle istituzioni. Piano piano ci stiamo abituando all'idea, ingannevole, che un governo durevole con vasta maggioranza sia sinonimo di stabilità. Che un esecutivo capace di decidere (o decisionista) sia possibile solo indebolendo istituzioni e fonti di diritto altrettanto centrali per lo Stato (Csm, magistratura).

Ma soprattutto, ci stiamo abituando a un'idea scivolosa: che sopra la legalità e separata da essa possa sussistere una categoria superiore: la legittimità. La legittimità non trarrebbe la sua forza da leggi preesistenti, che prescindono da sconquassi contingenti. Essa poggerebbe su una sorta di consacrazione extralegale, che consente di accentrare in una persona o in un unico corpo i poteri di far legge. Grosso evoca le tappe di Berlusconi su questa strada. La prima consiste nel dire che «quando incombono grandi emergenze, rispettare la legge diventa opinabile» (discorso sui rifiuti a Napoli).

La seconda, più grave, consiste nel dire che «quando un Governo ha ricevuto un mandato forte dagli elettori e governa direttamente in nome del popolo, ha diritto di gestire il potere senza intralci o impedimenti», lasciando «poco spazio ai controlli in corso d'opera».L'idea che sussista una legittimità preminente sulla legalità non è tuttavia una novità e neppure è tirannide classica.

È una malattia della democrazia, una sua estremizzazione: è quel che le accade quando il peso del potere (esecutivo o legislativo) non è corretto da contrappesi egualmente autonomi, forti (da un sistema di check and balance). È un'escrescenza democratica basata su convinzioni sbadate: che il liberalismo sia un prodotto della democrazia e non una sua premessa (un prius, dice Sartori). Che la rule of law nasca con la democrazia anziché precederla.

L'unzione del capo può discendere da Dio, da antiche dinastie. Può anche esser democratica e in tal caso chi unge è il popolo liberato dal tiranno, è la «volontà generale» teorizzata nella Rivoluzione francese (non è molto diverso nell'Antico Testamento: la legittimità d'Israele unge tutto un popolo nell'esodo-liberazione).

Lo Stato democratico unto dalla volontà popolare rischia l'assolutismo non meno dei re antichi: Carl Schmitt descrivendo Weimar lo chiamava Stato legislativo parlamentare e lo riteneva rovinoso perché contrapposto allo Stato giurisdizionale e al suo «durevole, generale» imperio della legge. In una democrazia siffatta il popolo è un'entità non eterogenea ma omogenea, monolitica, e in quanto tale conferisce al principe il diritto esclusivo di legiferare. La maggioranza parlamentare pretende di coincidere con tale popolo indifferenziato ed è in suo nome che il legislatore reclama il monopolio sulla legalità. Minoranze, opposizioni, autorità di garanzia e regolamentazione sono d'intralcio coi loro «controlli in corso d'opera», e la democrazia sfocia nell'autoritarismo.

Quel che per strada si perde è la liberale separazione dei poteri: la persuasione di Montesquieu secondo cui «perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere». Se Luigi XIV diceva «lo Stato sono io», Berlusconi democraticamente dice: io, unto dal démos, sono la Legge.

Berlusconi è figlio della Rivoluzione francese, non del liberalismo e di Montesquieu. I motivi che spingono a estremizzare la democrazia possono essere molti. Schmitt ricorda che chi monopolizza la legalità e mette in concorrenza il legittimo col legale invoca generalmente «concetti indeterminati» come sicurezza e ordine pubblico, pericoli nazionali e stati di necessità, emergenze, interessi vitali e infine guerre.

Anche lo «spirito di conciliazione» tra governo e opposizione viene invocato in tempi di torbidi, usando la chimera del popolo uniforme e buono per corrompere la democrazia esasperandola. La corrompe a tal punto che lo scopo spesso viene mancato. Infrangere rule of law e separazione dei poteri non dà più sicurezza, ma riduce il senso del dovere degli italiani. Non dà più pace civile, perché acuisce le tensioni e perché l'immunità per le alte cariche non rende queste ultime più autorevoli.

All'origine di simili distorsioni c'è il convincimento che il mandato popolare sia tutto, e chi l'incarna sia legibus solutus: sciolto da leggi, immune da sanzioni. Che sia esso stesso la legge, la legge del più forte. Che il mandato conferisca non solo speciali diritti ma un premio supplementare di legittimità al legislatore e all'esecutivo. «In una democrazia legge è la volontà del popolo così come questo si presenta, cioè praticamente la volontà della momentanea maggioranza dei cittadini che hanno diritto di voto: lex est, quod populus iubet» (è legge quel che ordina il popolo - Schmitt, Legalità e legittimità, 1932): «Il 51 per cento dei voti popolari dà la maggioranza in Parlamento; il 51 per cento dei voti parlamentari dà il diritto e la legalità; il 51 per cento di fiducia del parlamento al governo dà il governo parlamentare legale».

Tale è la democrazia senza imperio della legge: un male ricorrente da secoli, cui le sinistre non sono affatto estranee. La linea di separazione non è infatti fra destra e sinistra, né fra democratici e antidemocratici, ma fra democrazia liberale e estremismo democratico: per la prima la questione centrale è come si esercitano i poteri per evitarne gli abusi, mentre per l'estremismo democratico la cosa cruciale è chi li esercita.

Quando non è contaminata dallo Stato giurisdizionale, la democrazia scivola nella tirannide e riconoscerlo è difficile non solo a destra. Figlia del democraticismo giacobino, la sinistra non sempre è attrezzata per il dilemma legalità-legittimità, e per far proprio quel che scrisse Bobbio nell'84: «Lo Stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico dello Stato democratico». La preminenza data alla legittimità delle maggioranze è una tentazione costante, così come costante è l'appello alle emergenze nazionali.

L'ininterrotta guerra al terrorismo ha spinto Bush a sprezzare le convenzioni di Ginevra su tortura e prigionieri di guerra. Ma lo stesso avvenne per motivi nobili con De Gaulle, che due volte mise in primo piano la legittimità. Prima nel 1940, quando da Londra denunciò - in nome della Resistenza - la legalità di Pétain. Poi nel 1958, quando impose una nuova Costituzione per sormontare l'immobilizzante partitocrazia della Quarta Repubblica. Il passato antifascista lo aiutò a tacitare chi lo accusò, nel '58, di golpismo.

L'esempio di De Gaulle è importante perché dimostra la natura anfibia (nobile o pericolosa) del concetto di legittimità. Ci si riferisce a essa anche per il diritto alla resistenza. Anche Antigone contrappone la propria legittimità al legalismo del re Creonte. Non è per pignoleria che occorre approfondire il dilemma legalità-legittimità. Proprio perché l'Italia ha bisogno di una discontinuità che finalmente dia allo Stato l'autorevolezza che non ha, urgono concetti non manomessi, chiari. Proprio perché i torbidi esistono, urge al tempo stesso aver memoria e accortezza nell'azione. La memoria conferma che le più grandi catastrofi storiche son spesso costruite su cose mal pensate. L'accortezza insegna che le rotture possono esser benefiche (fu il caso di De Gaulle) ma a una condizione: che rompendo non si curi il male con dosi ancor più massicce del male di ieri.


La legalità secondo il Cavaliere
di Carlo Federico Grosso - La Stampa - 24 Giugno 2008

Alcune settimane fa Berlusconi aveva affermato che, quando incombono grandi emergenze, rispettare la legge può diventare opinabile. Parlava del caso Napoli e della sua immondizia. Si riferiva, in particolare, alle infrazioni compiute in Campania da alcuni funzionari nel nome di un asserito interesse generale e criticava le indagini penali compiute nonché le misure cautelari assunte nei confronti dei responsabili delle infrazioni.

Se agire era necessario per risolvere un gravissimo problema, occorreva comunque operare, qualunque cosa stabilissero le leggi.Nei limiti posti, il problema poteva anche costituire oggetto di discussione fra i giuristi. Non sempre rispettare alla lettera la legge corrisponde all’interesse pubblico del momento. Una legge inadeguata alla situazione può recare danno anziché sollievo. Fino a che punto, allora, nel nome del rispetto della legalità, è ragionevole rischiare di non risolvere i problemi? Fino a che punto l'osservanza del precetto può essere, invece, sacrificata all'esigenza di salvaguardare gli interessi minacciati? Legalità è sempre, e soltanto, rispetto della norma o può diventare, talvolta, tutela concreta, per necessità, degli interessi in gioco? Teoricamente si possono sostenere entrambe le posizioni.

Si può affermare che la legge deve essere rispettata sempre e comunque, pena la perdita di autorità dello Stato; si può affermare che in via del tutto eccezionale, quando sono minacciati interessi vitali delle persone, è consentito infrangerla nel nome di una ragionevole valutazione degli interessi in gioco.

La prima tesi corrisponde a una visione formale e rigorosa della legalità; la seconda inquadra il tema nella prospettiva di una valutazione anche di sostanza. In questa seconda ipotesi la legalità è comunque salva, si dice, poiché a cose fatte dovrebbe essere in ogni caso un giudice a stabilire se vi era lo stato di necessità idoneo a giustificare la condotta.

Qualche giorno fa, alzando i toni contro la magistratura politicizzata che lo avrebbe dolosamente vessato, parlando addirittura di magistrati eversivi che si sarebbero infiltrati nell'istituzione giudiziaria per contrastarlo, Berlusconi ha fornito un ulteriore suo concetto di legalità. Quando un Governo ha ricevuto un mandato forte dagli elettori e governa pertanto direttamente in nome del popolo, ha diritto di gestire il potere senza intralci o impedimenti. Sarà il popolo, a fine legislatura, a giudicare la sua azione, approvando o bocciando, con il voto, l'attività compiuta.

In questa prospettiva poco spazio deve essere lasciato ai controlli in corso d'opera, siano essi politici da parte dell'opposizione, giuridici da parte degli organi di garanzia, di legalità da parte di una magistratura indipendente. L'opposizione, se è rigorosa, deve essere considerata automaticamente faziosa, gli organi di garanzia, se possibile, devono essere resi domestici con riforme che ne sviliscano i poteri, la magistratura deve essere a sua volta contenuta.
Quest'ultima esigenza costituisce priorità assoluta.

In tale prospettiva si spiegano le iniziative legislative in materia di giustizia. Con un disegno articolato e complesso sono state progressivamente programmate, con ritmi incalzanti per dimostrare determinazione e disorientare gli avversari, limitazioni delle intercettazioni, meno notizie sui giornali in materia di indagini penali, sospensione dei processi, nuovo lodo Schifani a copertura delle alte cariche dello Stato, in grado di eludere, se possibile, le vecchie censure della Corte Costituzionale.

Chissà quant'altro ancora, a questo punto, verrà progettato, nella medesima direzione, nei mesi prossimi venturi. Ecco che si profila, allora, il volto nuovo dello Stato di diritto voluto dal presidente del Consiglio. Non si tratta più, soltanto, di valutare come legittime condotte antigiuridiche necessarie per fronteggiare asserite situazioni d'eccezione, come egli aveva sostenuto alcune settimane fa a Napoli in un clima politico ancora molto diverso. Con una escalation di progetti, con l'innalzamento dei toni, con l'aggressività delle parole, egli sembra, oggi, volere instaurare un nuovo sistema di governo sostanzialmente senza regole e controlli, introdurre una nuova Costituzione materiale.

In questo modo, egli sostiene, il governo potrà diventare più efficiente, risolvere finalmente i molti problemi incancreniti, rilanciare il Paese. Gli italiani avranno finalmente più sviluppo, più benessere, più felicità. Poche sono, a questo punto, le discussioni possibili fra i giuristi. O si accetta il nuovo concetto di legalità o lo si rifiuta in blocco. Non sono più possibili mezzi termini, parziali benedizioni, condiscendenze. Fino a ieri si era sperato che un nuovo clima di non contrapposizione fra maggioranza e opposizione potesse favorire l'accordo per un approccio ragionevole al tema delle indispensabili riforme elettorali e costituzionali. Oggi il barometro segna, purtroppo, tempesta. Abbozzare, condividere, acconsentire diventa molto più difficile, forse impossibile.