Si parla già di un aumento del 30% dell’entrata di prodotti alimentari di base, ma ovviamente ciò non è ancora sufficiente per soddisfare le esigenze primarie di tutti gli abitanti di Gaza. E le medicine sono ancora troppo scarse.
Ma il dialogo tra Israele e Hamas proseguirà nei prossimi giorni, sempre con la mediazione dell’Egitto, e verterà sulla liberazione del soldato Gilad Shalit - sequestrato due anni fa da Hamas - da cui dipenderà la riapertura anche del valico di Rafah e la liberazione di molti palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
Se la tregua delle armi reggerà e se ci sarà uno scambio di prigionieri è ancora tutto da vedere, ma in caso di esito positivo una cosa però è certa. In Medio Oriente, se si vuole, si riesce a parlare e a negoziare. E senza gli USA di mezzo, ormai sempre più ininfluenti nell'area.
La tregua fra Israele e Hamas sarà quel che sarà (restano nelle galere sionista 12 mila palestinesi, in detenzione amministrativa cioè senza processo, nè accusa, nè difesa legale, soggetti a trattamenti brutali), ma ci insegna una cosa: Israele si dà il diritto – quando le fa comodo – di «parlare» coi nemici, mentre nega a tutti noialtri il diritto di «parlare» coi nemici suoi.
Contro D’Alema, quando era ministro degli Esteri, la lobby ha scatenato tutta una campagna mediatica, perchè aveva incontrato un ministro di Hamas.
La visita di Ahmadinejad a Roma (al vertice FAO) è stata tutta un’intimazione a «non parlare» con il «nuovo Hitler».
La Nirenstein ha replicato che Israele, nel caso, non ha «parlato con Hamas», ma con l’Egitto – che effettivamente ha fatto da mediatore al cessate il fuoco.
La capziosità rabbinica non annulla il fatto oggettivo. Anzi lo ingigantisce. Perchè in tal modo, Israele ha esplicitamente umiliato il mediatore tradizionale nel Medio Oriente, che è anche la superpotenza e il suo migliore alleato: gli Stati Uniti.
«Non si parla coi nemici d’Israele» è la direttiva disastrosa che Bush ha imposta alla politica estera USA. Bush ha imposto a tutti gli occidentali di troncare ogni contatto con l’Iran, e il principio di trattare con la Siria solo in termini di minaccia di annichilamento.
Che ciò corrisponda alle inclinazioni personali del peggior presidente della storia americana, è probabile. Ma che lo faccia perchè Israele lo vuole, è evidente.
Israele sta vietando anche ai candidati presidenziali di «parlare» con i suoi nemici; essi devono accorrere davanti all’AIPAC (il braccio politico della lobby) a giurare che «non parlerannno» nè con Hamas nè con Teheran, nè con Hezbollah, nè con Damasco.
Barak Obama, per aver lasciato intendere di essere pronto a parlare con Ahmadinejad, ha dovuto profondersi in scuse e impegnarsi a non «parlare» mai con nessun «nemico», a continuare insomma la politica di Bush.
L’effetto devastante di questa politica per il prestigio americano è sotto gli occhi di chi vuol vedere.
Il rifiuto di ogni contatto con i «terroristi» e i nemici di Israele aveva lo scopo di isolarli, di punirli, di danneggiarli economicamente, di negare loro ogni voce ed ogni luogo in cui far sentire le loro ragioni. Ad essere isolata e a non aver voce in capitolo, oggi, è Washington (1).
E’ stato l’Egitto a «parlare» con Hamas? Sia pure. Ma l’Egitto è un Paese «alleato ed amico» degli USA, ed ha condotto la mediazione senza il placet della Casa Bianca, anzi contro.
Non solo la Casa Bianca è stata scavalcata, ma è stata, diciamo, disobbedita. Senza conseguenze, perchè ciò piaceva ad Israele.
La stessa cosa sta accadendo coi «colloqui di pace indiretti» che avvengono fra Israele e Siria attraverso la mediazione della Turchia.
Israele ha buoni rapporti col regime turco e i suoi generali dunmeh (criptogiudei); ma anche la Siria accetta la mediazione di Ankara per la consolidata neutralità turca nelle vicende del Medio Oriente e perchè – a dirla tutta – è il solo canale che resta a Damasco di far valere il suo evidente intento, quello di normalizzare i suoi rapporti con gli Stati moderati della regione.
Persino gli analisti neocon ammettono che la Siria non è una «naturale» alleata di Hezbollah nè di Teheran, e lo è diventata solo per scongiurare l’isolamento cui l’ha condannata la politica di Bush; ma obbligano l’America, e anche i futuri presidenti, a «non parlare con» i nemici (2).
L’unica diplomazia che consentono alla superpotenza loro serva è la minaccia, e niente di meno che la minaccia nucleare.
Poche settimane prima, è stato il Katar – minuscolo emirato, «amico» degli USA – ad ottenere la fine del conflitto interno del Libano, invitando tutte le parti libanesi a Doha, compreso Hezbollah con cui «è vietato parlare».
Gli USA non hanno partecipato ai colloqui; sono stati pregati di starne alla larga dallo stesso blocco libanese filo-americano, che non vuole però apparire troppo soggetto agli americani.
Si dice ora che Israele abbia acceduto a tregue con Hamas e Siria solo per assicurarsi il fianco in vista di un suo attacco unilaterale all’Iran (3).
Ma questo dimostra ancora di più il fatto: tutti gli attori dell’area, e persino Israele, sono capacissimi di fare accordi, trovare soluzioni mediate e «parlarsi», senza l’arbitrato e la tutela di Washington.
Anzi, tanto meglio se non s’intromette l’America, a fare la israeliana più di Israele per eccesso di zelo – e di servilismo alla lobby.
In tutti questi casi, Washington è rimasto a fare da ridicolo terzo incomodo; le sue potenti navi da guerra ad incrociare su e giù per l’area, a mostrare i suoi inutili muscoli come un incredibile Hulk dell’ottusità diplomatica e dell’insignificanza politica.
E l’erosione del prestigio americano, la sua indebolita influenza sull’area petrolifera che ha di fatto egemonizzato per sessant’anni, ha effetti immediati.
Lo Stato-cliente degli USA per eccellenza, l’Arabia Saudita, non solo ha risposto «no» alle implorazioni di Washington di aumentare l’estrazione petrolifera per far abbassare il prezzo del barile; quest’anno, per la prima volta a memoria d’uomo, Ryad ha deciso di acquistare armamento russo – e non USA – per 4 miliardi di dollari.
Ormai è Washington che appare dipendente dai sauditi (per il petrolio), più che l’inverso: e se pur fosse apparenza, essa è sostanza in politica internazionale.
Persino Nuri al-Maliki, il capo del governo-fantoccio dell’Iraq che gli USA tengono sotto occupazione – e la cui soggezione di fatto è comprovata dall’accordo ineguale con gli USA che ha perpetuato ad infinitum la permanenza di basi americane, e che ha ridato accesso alle «Sorelle» occidentali al business petrolifero, che Saddam nazionalizzò – si permette gesti di insubordinazione.
Al-Maliki va ripetutamente in visita a Teheran, a «parlare» con Ahmadinejad. Ha assicurato ufficialmente che «non consentirà l’uso del territorio iracheno per attacchi contro l’Iran».
Ha minacciato vocalmente di chiedere agli americani di togliere il disturbo dall’anno prossimo, quando spirerà il mandato ONU che ha legalizzato l’invasione.
I professori Walt e Mearsheimer sono stati trattati come sappiamo in USA, per aver illustrato come la lobby israeliana distorca la politica estera USA in modo negativo agli interessi americani. Oggi l’accusa appare perfino troppo bonaria: non solo, per compiacere la lobby, Washington ha danneggiato la sua posizione e prestigio in Medio Oriente, ma si è svuotata, dissanguata, ridotta al lumicino storico.
Ed ora che è esaurita e sull’orlo di una crisi epocale, deve assistere al fatto che Israele «parla» coi nemici, con cui gli USA non si permettono di «parlare».
Non è la prima volta che Sion ha «consumato» grandi potenze storiche, per poi passare ad altre da dissanguare: per la Russia, l’ha raccontato Solgenitsin nel suo grande e censuratissimo studio, «Due secoli insieme».
Essere troppo servili a Sion fa molto male.
Andrebbe ricordato ai governi europei, a cominciare dai nostri noachici che sul Campidoglio hanno alzato la stella di Davide.
E anche ai greci, che – come abbiamo appreso – hanno concesso il loro spazio aereo per le fanatiche esercitazioni di almeno cento F-16 ed F-15 israeliani intenti a provare e riprovare l’attacco all’Iran da lunga distanza.
Siamo rimasti gli ultimi ad obbedire agli americo-israeliani, in questa parte del mondo, e come abbiamo visto, ciò non ha mai giovato.
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1) Sreeram Chaulia, «Middle East serves US some humble pie», Asia Times, 20 giugno 2008. Sreeram Chaulia è analista di affari internazionali alla Maxwell School of Citizenship, Syracuse University, New York.
1) Sreeram Chaulia, «Middle East serves US some humble pie», Asia Times, 20 giugno 2008. Sreeram Chaulia è analista di affari internazionali alla Maxwell School of Citizenship, Syracuse University, New York.
2) John McCain «è un clone di George Bush», ha detto Harry Reid, capo della maggioranza democratica al Senato. Per questo McCain ha ricevuto una «standing ovation» alla riunione dell’AIPAC (America Israeli Publica Affairs Committee), dove – con le parole di Uri Avneri – «settemila funzionari ebrei da tutti gli Stati Uniti sono giunti insieme per accettare l’obbedienza della èlite di Washington al gran completo, che è venuta a trascinarsi ai suoi piedi. Tutti e tre i candidati presidenziali hanno tenuto discorsi, superandosi l’un l’altro in adulazione. Trecento senatori e membri del Congresso affollavano i corridoi. Chiunque voglia essere eletto o rieletto è venuto per vedere ed essere visto». Quanto a Barak Obama, «ha recuperato dal cesto dei rifiuti lo slogan dismesso, «Gerusalemme indivisa, Capitale di Israele per l’eternità... Solo la destra israeliana (e giudaico-americana) usa ancora questo slogan». (Uri Avneri, «Obama, Israel and AIPAC», Counterpunch, 9 giugno 2008.
3) Michael Gordn, Eric Schmitt, «US says exercises by Israel seemed directed at Iran», New York Times, 20 giugno 2008.