Due articoli di Giulietto Chiesa inviati dall’Afghanistan, dove il “successo” della NATO non ha ancora toccato il livello raggiunto invece dall’Unione Sovietica 20 anni fa. Ma siamo comunque sulla buona strada…
Karzai assediato dai boiardi
La prima impressione, talvolta, non è quella che conta, ma in questo caso s'impone. Siamo alieni in questo paese. Arrivare in centro dall'aeroporto, a bordo di auto blindate, dotati di giubbotto antiproiettile d'ordinanza, sotto la custodia di contractors privati, significa procedere a zig-zag, a passo d'uomo, attraverso decine di passaggi a livello d'acciao, con sbarre doppie grandi come tronchi d'albero, navigando in mezzo a cavalli di frisia, contenitori di terra enormi, anti esplosioni, sacchi di sabbia, e muri di cemento armato che ostruiscono la vista da ogni parte salvo quella, in alto, del cielo azzurro e, a qualche svolta, quella dei picchi vertiginosi e innevati che circondano da lontano l'immensa valle di Kabul.
Come l'inferno è lastricato, talvolta, di buone intenzioni, questi blocchi di cemento riassumono plasticamente una situazione che non si può dire insostenibile solo perché le circostanze dicono che noi potremmo sostenerla anche per molti anni. A che prezzo? E' un altro discorso. Siamo più forti, noi alieni, e siamo incomparabilmente più ricchi. Il nostro fiato corto non arriva fin da queste parti. Ma questo non significa che le cose vadano bene, né che noi siamo convinti di essere nel giusto. Possiamo reggere, appunto, solo perché la storia ci ha fatto più forti, tecnologicamente imbattibili. Per ora. Ma tutti avvertono, anche quelli che sentono di avere una missione da compiere (ed è davvero difficile dire quale, in queste condizioni), di essere in un “deserto di tartari” dove il cielo può farsi all'improvviso molto scuro, di sabbia, e allora non si sa più che fare, dove nascondersi, come impedire che ti accechi.
Il prezzo è alto. Non solo in termini del denaro che bisogna spendere per restare. Sono le vite che si perdono nel nulla, da anni. Le vite degli alieni, certo in primo luogo, che costano incommensurabilmente di più delle loro, piccole e per noi insignificanti. Siamo qui da sette anni, ormai, e lo stillicidio dei morti è micidiale. Nei pochi giorni passati tra Kabul e Herat, tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio, sono i nuovi giornali dell'Afghanistan “liberato dai taliban”, a scandire la conta del massacro.
Lunedì 28 aprile, mentre lo stravagante presidente Sarkozy dichiara che, se la Francia lasciasse l'Afghanistan, il Pakistan crollerebbe “come un castello di carte”, e mentre sulle prime pagine campeggia la notizia che il giorno prima Karzai è scampato a un attentato, nel centro di Kabul, il quarto della sua carriera, dove hanno perduto la vita due parlamentari della Wolesi Jirga, la camera bassa, il quadro è questo: “diversi morti” in combattimento nella provincia di Kunar; a Gardez un leader locale e il suo autista sono uccisi da una esplosione; combattimenti in corso a Paktia; razzi sparati, senza vittime, nella provincia di Herat contro la sede dell'Unama, la missione delle nazioni Unite; e, infine, notizia che le forze afgane hanno riconquistato cinque posti di frontiera dopo aspri combattimenti non contro i taliban ma contro l'esercito del Pakistan.
Il 28 aprile, mentre il primo ministro australiano Kevin Rudd, dando notizia del decesso del soldato Jason Marks, ferito nel sud dell'Afghanistan, annuncia “tempi sanguinosi” per la presenza occidentale, altri combattimenti vengono annunciati da Ghazni, con almeno 6 insorti uccisi, insieme a quattro non precisati difensori e quindici feriti, mentre di nuovo le cose vanno male per gli australiani, che segnalano un altro caduto e quattro feriti dopo un'imboscata nella provincia di Uruzgan. E nella provincia di Laghman due operai di un'impresa di costruzioni saltano in aria a Char Bagh.
Il giorno dopo “Outlook Afghanistan” presenta un panorama che sfiora il delirio. George Bush dichiara che gli Stati Uniti “stanno facendo progressi” in Afghanistan, mentre Gordon Brown, desolato, constata che “la missione afgana è in difficoltà”. L'ISAF, la forza internazionale di sicurezza, cioè la NATO, lancia un'offensiva nella provincia del sud-ovest, di Helmand, proprio mentre un attacco suicida uccide 20 poliziotti afgani, incluso il capo della polizia locale, nella provincia di Nangarhar, distretto di Khungyam. Offensiva da una parte, contr'attacco dall'altra.
Il ministro degli esteri afgano lamenta che “le truppe della NATO sono criticamente non equipaggiate”, mentre un soldato dell'ISAF viene ucciso in un'imboscata e un altro è ferito nel distretto Tagab di Kapisa. La nazionalità non viene detta ma è uno dei morti “che contano” essendo straniero. Poi è il torrente di morti e feriti locali: cinque poliziotti feriti a Paktika, sei taliban uccisi e otto feriti a Ghazni, dove gli scontri sono continui e su ampia scala. Infine, per quel giorno, l'ultima singolare notizia dalla frontiera con il Pakistan: i taliban hanno intimato al governo di Islamabad di chiudere tutti i posti di frontiera della regione di Mohmand. Entro tre giorni, altrimenti procederanno loro stessi a distruggerli.
Ma a Kabul, mentre è in corso la caccia all'uomo contro i sopravvissuti all'attentato al presidente Karzai, corrono voci che gli attentatori potrebbero non essere stati i taliban. E allora chi? Risposte certe nessuna, ma sia alcuni diplomatici occidentali, sia diversi deputati della Wolesi Jirga, che altri della camera alta, la Meshrano Jirga, cioè l'equivalente del Senato, affermano che ci sarebbe la mano dello Hezb-i-Islami, il “partito” di Gulbuddin Heckmatyar, che ha la caratteristica ubiqua di avere, non ufficialmente s'intende, uomini nel governo di Karzai, nelle due camere del parlamento, mentre muove forze armate in diverse province del paese. Ed è quello stesso Heckmatyar che fu tra i maggiori leader mujaheddin, di etnia pashtun, che conquistarono la Kabul che i sovietici, andandosene, avevano lasciato nelle mani di Najibullah. Il 27 aprile, giorno dell'attentato a Karzai, si festeggiava appunto il 16 anniversario di quella vittoria.
Un alto esponente tagiko, che non si può citare, è esplicito al riguardo: le forze dello Hezb-i-Islami “sono più numerose e meglio equipaggiate di quelle dei taliban”. Sorpresa? Neanche troppo. Il giorno dopo i giornali riferiscono che le forze della sicurezza afgane hanno effettuato un raid nei pressi di Kabul uccidendo sette “militanti” sospettati di avere avuto a che fare con l'attentato. I termini dei comunicati appaiono attentamente calibrati. I taliban – che pure ribadiscono, tramite il loro portavoce Zabibullah Mujahed, la paternità dell'attentato – non sono nemmeno menzionati. Nell'attacco hanno perso la vita anche tre agenti dei servizi afgani, insieme a una donna e a un bambino, ma queste sono inezie. Essenziale è che Amrullah Saleh, capo dell'intelligence, dichiara, stranamente di “non avere prove” che l'operazione contro Karzai “abbia avuto il beneplacito del governo del Pakistan o delle sue agenzie speciali”.
E si sa che Heckmatyar, la cui sede più probabile è Peshawar, è ancora protetto, probabilmente finanziato, sicuramente armato dall'ISI pakistano, esattamente come lo fu durante tutta la jihad islamica contro i sovietici, quando combatteva fianco a fianco con Osama bin Laden.
Ma allora contro chi combatte la NATO? Che ci stiamo a fare da quelle parti? A che gioco giochiamo, visto che di giochi non ce n'è uno solo ma diversi? E come si configura la nostra “missione civilizzatrice” in un contesto come questo?
Insomma, colloquio dopo colloquio, emerge – seppure tra molte reticenze e mezze ammissioni – che non tutti i “taliban” sono taliban, che ci sono altri fronti e altri conflitti latenti e espliciti, che non tutti i taliban sono Al Qaeda. Anzi che Al Qaeda è qui cosa perfino più sfumata che altrove, sebbene questo “database” sia nato poco lontano da questi confini, appunto a Peshawar, ai tempi della sconfitta sovietica, dopo quella sconfitta, e dunque non per combattere una guerra già vinta. E, mentre tutti parlano di “afghanizzare” il problema afgano, cioè di restituirlo ai suoi protagonisti e vittime, gli stessi tutti – afghani e occidentali – sono convinti che, se gli occidentali se ne andassero, dopo un minuto tutto crollerebbe in un nuovo bagno di sangue. Dopo sei anni di guerra non è un grande risultato.
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L'Occidente assediato in Afghanistan
Niente si ripete mai esattamente nella storia dei popoli come degl'individui. Vale anche per l'Afghanistan, dove i ricorsi sembrano essere all'ordine del giorno da trent'anni. Eppure anche prima di arrivare nel fascinoso bunker a cinque stelle in cui è stato trasformato dall'Aga Khan l'Hotel Serena (ex Hotel Kabul, in pieno centro) sono le cose stesse a richiamare il passato, anzi i passati che le hanno precedute.
Gli elicotteri da combattimento che in pattuglia volteggiano su Kabul sono quasi identici a quelli sovietici, anche se la bandiera e un'altra. E mi ricordo la tranquilla sicurezza con cui un generale sovietico mi disse, nel 1985, che “tra due o tre anni” l'Afghanistan sarebbe stato pacificato. Quattro anni dopo i carri armati sovietici attraversavano a Termez il maestoso Amu Darià per tornarsene a casa. Sconfitti.
Ovvio che non c'è confronto che tenga. I mujaheddin avevano alle spalle la potenza militare degli Stati Uniti, e le sorti di quella guerra, che costò ai russi 12 mila morti, furono decise quando gli Stinger posero fine alla loro superiorità aerea. E, in più, c'erano i miliardi di petrodollari che l'Arabia Saudita wahhabista versava ai capi di Peshawar. E c'era anche la consulenza attiva del servizio segreto militare pakistano, l'ISI.
Adesso, dietro alle formazioni armate che, per pigra comodità, chiamiamo sempre taliban, apparentemente non c'è altro che qualche fazione fondamentalista pakistana. E, per converso, il tutto è sovrastato dalla potenza di fuoco della NATO, la superiorità aerea americana, le foto satellitari, la ricognizione con i droni senza pilota, gli attacchi “automatici”, l'intelligence, l'organizzazione bellica, tecnologica, moderna. Una sproporzione di forze che, a prima vista, dovrebbe assicurare la vittoria.
Ma allora perché questa vittoria non c'è? Cosa significano queste fortezze assediate in cui tutte le ambasciate straniere sono state trasformate, le misure di sicurezza ossessive, le auto blindate, i giubbotti antiproiettile come capo di vestiario quasi obbligato anche nel perimetro della capitale? E' possibile che pochi – o anche tanti – taliban possano creare una situazione apparentemente così incontrollabile? Dovrebbe essere evidente che c'è dell'altro; che le ricette che abbiamo messo in atto non sono probabilmente quelle giuste; che la gente semplice, nelle campagne e nelle valli lontane, non ci percepisce come amici.
Per esempio, quanti soldi, dell'enorme flusso di finanziamenti, arrivano ai destinatari finali, alla popolazione? In realtà non lo sa nessuno, ma diversi studi, per forza di cose approssimativi, dicono che, per ogni dollaro inviato in Afghanistan, ne restano sul terreno non più di 15 centesimi. Il resto dell'aiuto – senza tenere conto di quello che aiuto non è affatto, perché è guerra nel senso stretto della parola – si perde nei mille rivoli della corruzione, finisce nelle tasche dei signori della guerra, gli stessi che hanno martoriato il paese e che adesso si sono reinsediati nei posti lucrosi del governo locale, nei governatorati delle province, dove controllano i traffici, incluso quello della droga, e l'amministrazione pubblica, oltre ai loro affari privati.
Tutto questo è opera non dei taliban ma di coloro che sono stati messi al potere dagli occidentali arrivati dopo l'11 settembre. La gente lo sa. Un anziano giornalista afgano, che è venuto a trovarci dentro l'hotel Serena, lo dice con ferma precisione. “Questo paese – racconta – è ancora in grandissima parte analfabeta, ma non è più quello che era dieci anni fa. Non è tanto per i giornali indipendenti, che ci sono ma che riguardano una piccola parte della popolazione. Né per la presenza di una ventina di canali televisivi privati, perché chi ha la televisione è un'infima parte della popolazione di Kabul, e ancor meno nelle province.
Sono le radio, in gran parte (ma non più soltanto) quelle occidentali, che si possono sentire in tutto l'Afghanistan, e che trasmettono in farsi e in darì. Milioni di persone le sentono, anche se con parsimonia, perché là dove non c'è elettricità (cioè nell'80 % del paese), si devono comprare le pile, e queste costano. Ma il risultato è che la gente sa molte cose che prima non sapeva. Può giudicare. E il malcontento è alto, e cresce”.
Dunque elezioni mezzo truccate e mezzo incomprensibili ai più valgono quello che valgono, cioè assai poco, per stabilire un consenso adeguato. La Costituzione, un'assetto istituzionale molto simile, esteriormente, allo stato di diritto delle democrazie occidentali, può dare l'impressione di uno sviluppo democratico. Ma da sola non basta per creare un'inversione di tendenza verso la stabilità. Quello che appare con tutta evidenza è il carattere eteroimposto, oltre che eterodiretto, di un complicato programma di democratizzazione alla "occidentale". In cui, gli occidentali, appunto, cercano faticosamente da sei anni di spiegare alle élites afghane (non alla popolazione afghana che è per loro irraggiungibile) che si devono uniformare a regole che non riconoscono, e che, con tutta probabilità e in grande maggioranza, non amano.
Impresa davvero difficile, a sentire gli stessi deputati afghani delle due camere di questo parlamento. Che hanno idee diverse tra di loro e le esprimono con grande vigore polemico (e questa è una buona notizia), ma che non hanno l'aria di essere molto contenti dello stato di cose. Il presidente della Corte Suprema, Azizi, riassume icasticamente molti punti di vista: "pensavamo di andare dal male al meglio, e adesso ci troviamo dopo sei anni a traslocare dal male al peggio". "Peggio che al tempo del re", esclama uno dei senatori. Certo è che la caduta è stata lunga, più di trent'anni non si risalgono facilmente.
Ma come si fa a riformare la giustizia se un giudice prende 50 dollari di stipendio al mese? E, peggio ancora, se ne prende la metà di quanti ne sono stati appena concessi a un giovane poliziotto appena arruolato in un corso di formazione che lo porterà inesorabilmente a rischiare la vita in uno sperduto villaggio di una sperduta valle. Dove, per giunta, non potrà fare nulla per difendere neppure se stesso e la sua famiglia quando arriverà la prima banda di taliban o di qualche signore locale della guerra. Ecco perchè costruire una vera polizia afghana non si potrà fare in breve tempo. "Ci vorrà almeno una generazione", riassume sconsolato un alto ufficiale tedesco. Vuole dire restare qui per 25-30 anni.