mercoledì 11 giugno 2008

Algeria: riprende la guerra sporca

Dopo la nuova ondata di attentati che ha scosso l’Algeria dall'inizio del 2007, in particolare la Cabilia e Algeri, è ritornata nel Paese maghrebino quella psicosi da attentato che era scomparsa dopo la fine della guerra civile nel 1998.
E questo grazie anche alle orchestrate campagne di disinformazione della stampa governativa che ha ricominciato a dare notizie di presunti attentati destituite di ogni fondamento.

Insomma, sembra ripresa quella guerra sporca tra frange dell’esercito e l’ex Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC), l’unica formazione integralista che non aveva deposto le armi nel 1998 annunciando invece anni dopo di aver aderito alla rete internazionale della cosiddetta Al-Qaeda assumendo il nuovo nome di Al-Qaeda nel Maghreb islamico.
Ma in Algeria nulla è netto e definito, i gruppi integralisti e frange dell’esercito molto spesso si sovrappongono e si mimetizzano.

Qui di seguito una serie di articoli tratti da Peacereporter che riassumono la situazione algerina dell’ultimo anno


Bomba o non bomba - 11 Giugno 2008
L'Algeria trema di fronte al ritorno del terrorismo, tra attentati veri e presunti

Oggi è l'11 giugno. Un giorno come tanti, ma non certo per gli algerini, per i quali l'undicesimo giorno del mese sta diventando un incubo. La tensione è molto alta, soprattutto dopo la tempesta di notizie degli ultimi giorni, tra attentati veri e presunti.

Cronaca di una psicosi. Il 9 giugno le principali agenzie stampa internazionali annunciano un attentato a Bouira, in Cabilia, circa 120 chilometri da Algeri. Le prime notizie parlano di una bomba, fatta esplodere alla fermata di un bus. Un primo bilancio parla di almeno venti vittime, ma la notizia si rivelerà priva di ogni fondamento. Come quella diffusa, sul far della sera, il giorno prima. Una bomba esplode all'uscita del cantiere dell'azienda francese Rezal, che lavora alla ristrutturazione di un tunnel nei pressi di Beni Amrane, settanta chilometri a est di Algeri, ancora in Cabilia. Perdono la vita Pierre Nowacki, ingegnere francese di settant'anni, e il suo autista algerino. La cronaca dell'episodio, però, racconta di una seconda esplosione avvenuta quando sono sopraggiunti i soccorsi, costata la vita a otto militari e tre pompieri. La seconda esplosione non c'è mai stata. Il ministero della Difesa algerino, solo ieri, ha tentato di fare chiarezza, specificando che ''le vittime dell'attentato a Beni Amrane sono solo due e che non c'era stato alcun attentato a Bouira. Alcuni mezzi d'informazione hanno diffuso notizie prive di alcun fondamento''.
La tensione in Algeria resta alta e lo stesso governo pare incerto su come gestire la questione, diviso com'è tra la volontà di tenere alta la percezione del pericolo nell'opinione pubblica internazionale e la necessità di dimostrare di essere in grado di gestirla.

La stagione delle bombe. La popolazione civile algerina ha paura che tornino i fantasmi della guerra civile che, negli anni Novanta, è costata la vita ad almeno 150mila persone, in massima parte civili. Dopo la fine del conflitto tra l'esercito algerino, che aveva preso il potere invalidando le elezioni del 1992, vinte dagli islamisti, e i miliziani del Gruppo Islamico Armato (Gia), nel 1998, la situazione sembrava sotto controllo. Restava in armi solo il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), che aveva deciso di non colpire obiettivi civili. La violenza restava dunque limitata alle montagne impervie della Cabilia, dove avevano riparato gli ultimi irriducibili. Poi, alla fine del 2006, una svolta tattica imprevedibile. Il Gspc annuncia di aderire al network internazionale di al-Qaeda, mutando il suo nome in al-Qaeda nel Maghreb islamico. Viene annunciata un'inversione di rotta nella lotta armata e un cambio di strategia: arriva la tecnica degli attentatori suicidi (mai vista prima in Algeria) e l'obiettivo della lotta non è più soltanto il rovesciamento del governo algerino, ma anche tutti gli interessi occidentali nel Paese.
La nuova strategia si concretizza nel 2007. L'Algeria torna a vivere giorni da incubo e la violenza scende dalle montagne della Cabilia e torna a colpire nel cuore di Algeri.

Un anno da incubo. L'11 aprile dello scorso anno, ad Algeri, due attentati suicidi contemporanei causano la morte di trenta persone. L'11 luglio sono dieci i militari uccisi in un attentato suicida a Lakhdaria, in Cabilia. L'11 dicembre sono quaranta le vittime di un doppio attacco suicida ancora ad Algeri.
L'undicesimo giorno del mese, un incubo che ricorda quell'11 settembre 2001 che ha cambiato la storia del mondo contemporaneo. Nel mezzo tanti altri attentati, più o meno gravi, fino a oggi. L'ansia serpeggia tra gli algerini che, con un plebiscito, avevano approvato nel 2005 il referendum per la Carta per la Pace e la Riconciliazione Nazionale. Il documento, entrato in vigore il 1 marzo 2006, voluto dal presidente algerino Abdelaziz Bouteflika, puntava a chiudere i conti con la guerra civile, offrendo l'amnistia a tutti coloro che avessero deciso di abbandonare le armi. Amnistia che garantiva l'impunità anche ai militari che, durante il conflitto, si erano macchiati di crimini non meno atroci di quelli degli integralisti. La Carta sembra essere stata la molla che ha portato il Gspc a spaccarsi. Proprio ieri, uno dei leader storici del gruppo, l'emiro Abu Hudheifa, si è consegnato alle autorità, in rotta con al-Qaeda in Maghreb per la scelta di colpire i civili. Un segnale che la situazione è molto fluida, anche tra le file dei guerriglieri integralisti, ma questo non aiuta a fare di questo 11 giugno, per gli algerini, un giorno normale.


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Una strana rivendicazione - 12 Marzo 2008
Sempre più fitto il mistero sulla scomparsa dei due turisti austriaci in Algeria

Il mistero sulla sorte di Wolfgang Ebner e Andrea Kloiber, rispettivamente 51 e 43 anni, i due turisti austriaci dispersi da settimane in Tunisia, s'infittisce sempre di più. Il quotidiano algerino el-Khobar, vicino ai servizi segreti di Algeri, sostiene con certezza che i due uomini sono stati rapiti da miliziani di al-Qaeda in Maghreb e portati nella zona desertica al confine tra Tunisia, Libia e Algeria.

Un mistero fitto. Il quotidiano algerino smentisce quindi l'omologo al-Nahar, secondo cui Ebner e Kloiber sarebbero stati portati in Mali. Nessuna certezza sulla sorte dei due austriaci, che si trovano in gita con un fuoristrada noleggiato in Tunisia, a pochi chilometri dal confine con l'Algeria. L'ultima persona ad averli visti è una guida tedesca il 15 febbraio scorso. Da quel momento di loro si sono perse le tracce. La fonte d'intelligence citata da el-Khobar ha indicato nella cellula dell'emiro salafita Yahya Jawadi, alias Abu Omar al-Tayariti, il responsabile del rapimento.
Lo stesso gruppo che, il 7 febbraio scorso, avrebbe ucciso sette guardie di confine algerine nella stessa zona e che, alla fine del 2007, avrebbe ucciso quattro turisti francesi in Mauritania. Al-Tayariti è il nuovo emiro della zona, dopo la resa di Mokhtar Bemokhtar, il vecchio emiro.
Le deduzioni della fonte anonima dei servizi algerini citata da el-Khobar sono l'unica prova che i fatti siano andati davvero così. Al-Qaeda in Maghreb avrebbe rivendicato su internet il rapimento, ma pur citando dati anagrafici corretti dei due turisti, cosa che farebbe presupporre che siano in possesso dei loro passaporti, non hanno mostrato immagini di Ebner e Kloiber. Rivendicazione sui generis quindi, in quanto i due cittadini austriaci sarebbero un bel bottino da mostrare in un momento nel quale l'esercito di Algeri affonda i colpi con durezza contro i terroristi. Dimostrare di avere in mano due ostaggi, garantirebbe un minimo di respiro ai miliziani, che invece non li fanno vedere a nessuno. Non li hanno rapiti? Li hanno già uccisi? Il mistero rimane.

Rapimento 'sui generis'. Il governo austriaco, come quelli della Tunisia, dell'Algeria e della Libia, mantiene sulla vicenda un riserbo assoluto. Vienna ha infatti disconosciuto la rivendicazione del rapimento apparsa in rete e poi rilanciata con una telefonata ad al-Jazeera, diffidando dell'autenticità. Neanche i governi maghrebini si sono sbilanciati, anche se il mondo dell'informazione non è poi così libero in Algeria: tutte le notizie filtrate in questi giorni sulla rete dimostrano che esiste la volontà di far trapelare delle notizie. ''Una brigata di miliziani, il 22 febbraio, si è infiltrata in Tunisia e ha rapito due turisti austriaci''. La telefonata forniva il numero dei passaporti e chiudeva garantendo che i due uomini godono di ottima salute. Basta. Neanche una foto, un video, una registrazione audio. In palese contraddizione con le 'strategie comunicative' di al-Qaeda e dei suoi affiliati. Manca poi un elemento fondamentale: la richiesta del riscatto 'politico'. Mai un'operazione del genere si è risolta senza appelli al ritiro delle truppe straniere da Afghanistan e Iraq, oppure alla liberazione della Palestina. Invece lo scarno comunicato si limita a intimare alle forze speciali algerine di non usare la forza, pena la vita di Ebner e Kloiber, e rimandano a un secondo momento la richiesta di riscatto.

Strategia di comunicazione. Modalità molto originali, alle quali fa da contraltare una certa frenesia dei militari algerini, che oggi hanno fatto sapere che unità speciali dell'esercito stanno effettuando delle perlustrazioni nella zona al confine con la Tunisia, alla ricerca dei due turisti austriaci. Sembra quasi che Algeri voglia dare pubblicità alla vicenda, tanto quanto Tunisi ( dove il regime di Ben Alì vive nell'incubo islamista) tiene un profilo basso, non ammettendo ancora che si possa parlare di rapimento. Il governo di Vienna ha deciso, per vederci più chiaro, l'invio di un’unità di crisi nella regione allo scopo di seguire da vicino la vicenda. Nella regione, da mesi, l'esercito algerino ha concentrato forze ingenti nel tentativo di eliminare le sacche della resistenza armata nel sud del paese. Il rapimento dei due austriaci, da un lato, potrebbe rappresentare un salto di qualità nella strategia dei miliziani salafiti, che potrebbe essere dovuto al tentativo, come detto, di uscire dalla morsa nella quale li ha rinchiusi l'esercito di Algeri. Allo stesso tempo, però, lascia perplessi la pubblicità che i media algerini danno alla vicenda, dando per scontata la matrice al-Qaeda. Come se, almeno negli ultimi mesi, il governo algerino sentisse il bisogno di legittimare le operazioni militari nella regione. Un fitto mistero, che tiene con il fiato sospeso le famiglie dei due austriaci.


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Il fronte meridionale - 5 Febbraio 2008
Lo scontro tra l'esercito algerino e al-Qaeda si estende anche al sud, sconfinando pure nei paesi limitrofi

Una mattina come tante a Nouakchott, capitale della Mauritania, città africana con tanti problemi, ma con scarsità di quelle breaking news che terrorizzano altre zone del mondo. Un attacco terroristico, da queste parti, è una rarità. Ma Nouakchott, nella notte tra il 31 gennaio e il 1 febbraio, è stata colta di sorpresa da un assalto all'ambasciata israeliana.

Attacco non previsto. Un commando di sei uomini ha assaltato con armi automatiche la sede diplomatica israeliana di uno dei tre paesi arabi, con Egitto e Giordania, con i quali lo stato ebraico ha normali relazioni diplomatiche. La sicurezza ha risposto subito al fuoco, impedendo agli assalitori di entrare, e tre persone sono rimaste ferite.
Un episodio del tutto nuovo, che si aggiunge alla decisione di bloccare la Parigi – Dakar, mitica corsa che avrebbe attraversato paesi non ritenuti più sicuri. Un legame con il terrorismo che, nel caso della Mauritania, non era mai emerso come quest'ultimo periodo. Ma il fenomeno non è indigeno, almeno stando alla rivendicazione giunta poche ore dopo l'assalto alla televisione satellitare al-Jazeera.
''Siamo stati noi e non è che l'inizio di una serie di operazioni in Mauritania, paese dove abbiamo già colpito tre volte, contro gli interessi dei crociati e degli ebrei'', ha dichiarato l'emiro Abdelmalek Droukal, ritenuto il capo dell'organizzazione al-Qaeda nel Maghreb islamico, gruppo nato dall'evoluzione (e pare anche da una scissione interna) del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, unica formazione armata integralista algerina a non aver deposto le armi.
Sarebbe in atto dunque uno sconfinamento a sud delle azioni dei guerriglieri salafiti, che secondo le autorità algerine si nascondono nella regione montuosa della Cabilia, a pochi chilometri da Algeri.

Frontiera sud. Il confine meridionale dell'Algeria è da tempo teatro di scontri e tensioni, sia sul versante del Mali che su quello della Mauritania. Ma operazioni 'oltre confine' non erano mai avvenute.
Un salto di qualità dunque, confermato da un'operazione dei corpi speciali algerini nel sud del paese che, come ha fatto sapere il ministro della Difesa di Algeri, hanno circondato un gruppo armato di venti uomini. I guerriglieri, assediati nella cittadina di Ourgla, si sono difesi riuscendo a scappare ma lasciando sul terreno cinque uomini. Un sesto uomo sarebbe stato arrestato dai militari di Algeri, che nell'operazione hanno potuto contare anche sul supporto di elicotteri da combattimento.
Secondo il quotidiano algerino el-Khobar, la cellula sarebbe quella guidata da Mokhtar Belmokhtar, responsabile del rapimento di 32 turisti occidentali, nel febbraio 2003, che visitavano il deserto del Sahara, e dell'attacco a un aereo militare algerino nell'ottobre 2007 nell'aeroporto dell'oasi di Djanet. Secondo le fonti del quotidiano, lo stesso emiro avrebbe perso la vita nel rastrellamento dell'esercito.
La tensione al confine meridionale dell'Algeria è alta: secondo il governo, i fondamentalisti utilizzano le porose frontiere con il Mali, il Niger e la Mauritania come comode retrovie, in una zona desertica, diventando invisibili. Non a caso in quella regione circola di tutto: armi, droga, sigarette e traffico di esseri umani, ma è anche la regione dove ci sono i principali giacimenti petroliferi algerini.

Un vertice distratto. La gestione di queste frontiere era uno dei temi caldi del vertice dell'Unione africana, tenutosi ad Addis Abeba dal 29 gennaio al 2 febbraio scorso, proprio in occasione dell'attentato a Nouakchott e dell'operazione dell'esercito algerino. La cronaca, con le crisi in Kenya e in Ciad, ha fatto scivolare in secondo piano questo tema, che però resta centrale. Anche per gli Stati Uniti, i quali da tempo si offrono di collaborare con gli stati della fascia del Sahel, dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano, tra il deserto del Sahara e l'Africa nera. Il cosiddetto Plan Sahel, che secondo alcuni porterà alla costruzione di basi militari Usa nella regione. Anche nei giorni scorsi il Dipartimento di Stato Usa ha negato questa eventualità, ribadendo solo la collaborazione ai governi locali nella lotta al terrorismo. Compito affidato, dal febbraio dello scorso anno e su iniziativa del presidente Usa George W. Bush, all'Africom, una sorta di coordinamento con sede in Europa che si occuperà di sostegno e sviluppo dei governi locali. Compreso l'addestramento dei reparti scelti per la lotta la terrorismo in una zona che, per le immense risorse petrolifere (soprattutto quelle che si ritiene non siano ancora state sfruttate nel Golfo di Guinea), diventa ogni giorno più strategica.


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Ricomincia la strage - 10 Gennaio 2008
Operazione dei corpi speciali algerini in Cabilia, dove sembra tornata la sporca guerra

''La situazione sta degenerando in maniera inquietante, la psicosi sta dilagando tra la popolazione. È necessario agire immediatamente''. A parlare è Mohamed Ikherbane, presidente della provincia di Tizi Ouzou, capoluogo della Cabilia, 100 chilometri a est di Algeri.

Fantasmi del passato. Il tono del funzionario governativo ricorda i tempi bui della guerra civile in Algeria, negli anni Novanta, quando almeno 150mila algerini persero la vita nei massacri perpetrati dall'esercito e dai miliziani fondamentalisti.
In effetti l'ultimo anno in Algeria è stato davvero duro: almeno 355 persone hanno perso la vita. Cifre che non si vedevano da anni. Ieri l'esercito algerino ha lanciato una vasta offensiva delle truppe speciali nella foresta di Jebel el-Ouehch (la montagna del mostro), vicino a Costantina, 400 chilometri a est di Algeri.
I militari hanno utilizzato anche elicotteri da combattimento appena acquistati per bombardare i presunti rifugi dei miliziani tra le montagne della zona.
Nell'operazione hanno perso la vita quattro guardie comunali e due militari, mentre sono almeno due i guerriglieri uccisi durante il rastrellamento. Lo riferisce oggi la stampa algerina, che riporta da giorni notizie di scontri nella zona, esplosi dopo il ritrovamento di quattro uomini sgozzati in un villaggio alla periferia della città, ma nessuna conferma è ancora arrivata dalle autorità.
Secondo il quotidiano El Watan, sarebbero state le segnalazioni degli abitanti della zona a spingere l'esercito all'inseguimento di un gruppo armato, composto da una ventina di uomini.
Il 2008 pare dunque iniziato come era finito il 2007: nel sangue. Il 2 gennaio a Naciria, in Cabilia, un'auto guidata da un attentatore suicida si è lanciata contro una caserma di polizia, uccidendo quattro persone e ferendone 25. L'attacco è stato rivendicato da al-Qaeda per il Maghreb islamico, la sigla che alla fine del 2006 ha preso il posto del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento.

Terrore, da nord a sud. Il governo di Algeri è in fibrillazione e, ieri, esperti e specialisti del settore hanno partecipato al forum del quotidiano algerino El Moudjahid, interamente dedicato a questo tema. In particolare si è parlato dell'utilizzo di internet da parte delle organizzazioni terroristiche, non solo per comunicare tra loro, ma principalmente per reclutare nuovi adepti. ''Usiamo internet per tentare di rintracciare i terroristi che usano siti web per reclutare giovani, ma anche per comunicare tra loro, trasmettere comunicati al pubblico e ai governi'', ha dichiarato Moostefaiui Abdelkader, commissario di polizia, ''ma è quasi impossibile visto che la maggior parte dei siti usati dai terroristi sono creati all'estero''.
La presenza di gruppi armati legati ad al-Qaeda non riguarda solo la Cabilia, ma anche l'Algeria meridionale, al confine con Mali e Niger.
L'algerino Said Janit, responsabile per la Pace e la Sicurezza dell'Unione Africana, lo ha ricordato in una recente intervista, nella quale dava per certa la presenza di al-Qaeda in Africa. Durante il Vertice panafricano, che si terrà alla fine del mese in Etiopia, verrà affrontato il controverso progetto statunitense Africom, che punta a istallare basi militari Usa nel continente e al quale molti paesi africani si oppongono.

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Doppio attentato ad Algeri - 11 Dicembre 2007
Si scava ancora tra le macerie del Palazzo Costituzionale, per ora le vittime sono 67

Elicotteri sorvolano la capitale algerina e la polizia è schierata per le strade principali, mentre la protezione civile sta cercando superstiti tra le macerie. Algeri è sconvolta dal doppio attentato di questa mattina e sta ancora cercando di comprendere cosa sia realmente accaduto.

I fatti. Quel che si sa ora è che questa mattina, verso le nove, un'auto carica di esplosivo è saltata in aria ad Algeri, nel quartiere di Ben Aknoun, vicino alla sede della Corte Suprema. La deflagrazione ha investito un autobus pieno di studenti e provocato, a quanto riferiscono testimoni, almeno 27 morti. Una decina di minuti dopo un'altra esplosione, ancora più potente -non si sa ancora se un ordigno o un attentatore suicida-, ha demolito il Palazzo Costituzionale danneggiando anche la sede dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite, nel quartiere di Hydra, una delle zone più ricche -e protette- della capitale. In questo caso si parla di una quindicina di morti. Stando alle fonti ospedaliere, le vittime sarebbero in totale sessantasette, e i feriti più o meno cento. Ci sarebbero anche una dozzina di dispersi stranieri tra il personale Onu. Diverso il bilancio fornito dal ministero degli Interni, secondo cui le vittime sarebbero sedici e i feriti una sessantina. Le ricerche tra le macerie sono ancora in corso.

Indici puntati su Al Qaeda. Al momento gli attacchi non sono stati rivendicati ma, mentre le Nazioni Unite, la Commissione Europea e la Lega Araba condannano l'episodio, implicitamente tutti gli indici sono puntati contro Al Qaeda in Maghreb, il gruppo islamico algerino, nuova denominazione del Gspc, il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento. Al Qaeda in Maghreb è attivo dallo scorso gennaio e ha già associato il suo nome a diversi attentati, l'ultimo dei quali era costato altre cinquanta vittime lo scorso settembre. Quale sia il reale grado di affiliazione del gruppo con la rete del terrore di Osama bin Laden non è chiaro, ma negli ultimi messaggi a lui attribuiti lo sceicco ha più volte legittimato la formazione algerina, invitandola a “liberare” il Maghreb dagli stranieri occidentali.

Dietro gli attentati. “Bisogna comprendere che tutti i movimenti algerini, compresi i terroristi di Al Qaeda, hanno la piena coscienza che i movimenti islamici in Algeria non arriveranno mai al potere” spiega a Peace Reporter il regista algerino Lemnauar Ahmine. “La stragrande maggioranza della popolazione è contraria alla violenza, così come è stata esercitata dal Fis dal 92 fino a ora. Al Qaeda in Maghreb, che discende dal Fis, è attiva da circa un anno e in questo periodo ha cercato disperatamente di terrorizzare la gente per cancellare ogni loro speranza e cambiare il corso intrapreso dal Paese. Ma gli algerini, che hanno imparato la lezione e il significato della morte, non consentiranno mai che i cambiamenti istituzionali avvengano per mezzo della violenza. Al Qaeda in Maghreb va collocato in un contesto leggermente diverso, la loro azione dipende da motivazioni economiche e strategiche legate al contrabbando o alla geopolitica internazionale”.

Perchè sono stati scelti questi obiettivi. “Generalmente puntano a colpire sedi istituzionali e sensibili come quelle di oggi: la Corte Suprema e il Palazzo Costituzionale. É un cambiamento di strategia rispetto alle azioni di metà anni novanta, quando i massacri a sud di Algeri costavano la vita a centinaia di persone, ma, allo stesso tempo, non avevano alcuna eco internazionale. La morte degli algerini non fa notizia, invece la distruzione di un palazzo governativo o di un ente internazionale e la morte di civili stranieri fanno parlare eccome. Gli attacchi alle istituzioni fanno tanto rumore ma non portano consensi ai gruppi islamici, nemmeno tra la gente che ha scelto di non votare alle scorse elezioni. Lo scontro in questo momento è tra i gruppi islamici e il governo, mentre il prezzo è tutto sulla pelle della popolazione civile, che non crede più nella violenza, ma allo stesso tempo ha perso la fiducia, tanto nella democrazia imposta dal regime, quanto nella lotta armata”.


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Nessuna traccia di Hassan Hattab - 5 Novembre 2007
Dopo l’annuncio della resa, il fondatore del GSPC non si e’ presentato in Tribunale in Algeria

Hassan Hattab, fondatore del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), sembra sparito nel nulla. Come in un copione già visto per alcuni dei più importanti emiri dei gruppi armati algerini di matrice islamica, tra tutti Amari Saifi, nome di battaglia el Parà, ufficialmente nelle mani dei servizi di sicurezza algerina dal 2004, ma mai comparso davanti alla giustizia, anche Hattab non è comparso ieri in aula alla prima udienza a suo carico e nessuno sembra sapere dove sia.

Il mistero. Un mese dopo l’annuncio della resa dello storico leader del movimento salafita, fatto a Parigi dal ministro degli interni algerino Yazid Zerhouni, le autorità non hanno più fornito nessun dettaglio e ieri una nuova sconcertante dichiarazione. “L’imputato non e’ presente in aula e non abbiamo prove concrete che sia realmente nelle mani delle autorità. Continuiamo a considerarlo in fuga", ha detto il procuratore generale Abdelghafour Kahoul, in apertura del processo contro Hattab al tribunale di Algeri. ‘’Se gli avvocati sono in possesso di prove che dimostrino dove si trova attualmente l’imputato che le consegnino alla giustizia’’, ha incalzato anche il giudice Hassan Tahbet . Nell’aula luccicante del nuovo palazzo di giustizia appena costruito alla periferia della capitale maghrebina, scende il silenzio. Le decine di giornalisti, gli esperti ma anche i semplici curiosi, sembrano increduli. Dopo pochi minuti di attesa, lo scottante processo viene rinviato alla prossima sessione giudiziaria, in marzo. “Tutti sapevamo che non lo avrebbero portato in aula, ma ci aspettavamo almeno qualche tipo di giustificazione, una parvenza di logica. Qualche problema burocratico, una scusa!”, commenta Abdel, uno studente di giurisprudenza che sogna di diventare avvocato, “non uno qualunque, ma specializzato nei dossier legati al terrorismo”.

Una storia infinita. Dato per morto almeno per tre volte dalla stampa algerina, nel 1998, nel 2000 e nel 2004, Hassan Hattab, alias Abou Hamza, sarebbe in trattativa con le autorità almeno dal 2003. Numerose le sue lettere e dichiarazioni a favore del progetto di Riconciliazione nazionale del presidente Bouteflika, definito da Hattab “inizio di una nuova era” nella sua unica intervista rilasciata al quotidiano londinese Aharq Al Awsat, nel 2005. Membro del Gruppo islamico armato (Gia) fin dal 1993, subito dopo l’annullamento del secondo turno delle elezioni legislative del 1992 stravinte al primo turno dal Fronte islamico per la salvezza (Fis), Hattab, rivendica tra l’altro l’assassinio nel 1993 dell'ex-premier Kasdi Merbah, anche capo dei servizi segreti, e del cantante simbolo delle lotte della Cabilia, Matoub Lounes, nel giugno del 1998. Pochi mesi dopo, la svolta e l’inizio di una nuova fase del terrorismo algerino. Nel settembre del 1998, c’é chi dice su consiglio dello stesso Osama Bin Laden, crea il Djamaà salaria (gruppo salafita) per ripulire l’immagine sanguinaria del gruppi armati algerini e prendere le distanze da chi si era reso colpevole di massacri tra i civili e si era allontanato dalla ‘jihad legale’. Hattab guida gli attacchi del Gspc, rivolti principalmente contro la polizia e l’esercito, per cinque anni, fino al 2003, quando annuncia per la prima volta di voler deporre le armi e beneficiare così dell’amnistia avviata da Bouteflika con la legge sulla Concordia civile in cambio del suo aiuto per convincere anche altri compagni di battaglia ad arrendersi. Da quel momento nessuna notizia certa è filtrata sulla sua attività, ma secondo la stampa algerina ha inizio ‘’la sua stretta collaborazione con le autorita’’.

I dubbi. Una collaborazione fin troppo stretta, dicono in molti, e non soltanto dal 2003. “Forse El Parà e Hattab erano in realtà degli infiltrati, uomini al servizio del potere algerino. Per questo sono scomparsi”, dice subito dopo il processo di ieri Ali Yahia Abdenour, ex presidente della Lega algerina per i diritti umani (Laddh, non governativa). “Adesso hanno voluto farli rientrare, ma sono in imbarazzo e certo non li porteranno in tribunale”, commenta Abdenour. “O forse, c’é stato un semplice accordo e nonostante sia colpevole di massacri e attentati Hattab potrà beneficiare della Charta per la pace e la riconciliazione nazionale senza nemmeno essere giudicato”, aggiunge il battagliero 90enne leader del Laddh, arrestato più volte, amato ed odiato per aver difeso giornalisti, rappresentanti di partiti politici ma anche islamici radicali, ''senza pensare alle ideologie'' dice, ''ma solo ai diritti dell'essere umano in quanto tale''. La Charta per la pace e la Riconciliazione nazionale, approvata con un referendum il 29 settembre del 2005, ha portato alla scarcerazione di circa 3000 detenuti per reati legati al terrorismo e prevede misure d'amnistia per chi depone le armi. Secondo il documento sono esclusi però "gli integralisti implicati in massacri collettivi, stupri, attentati dinamitardi in luoghi pubblici”.


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Nel nome di al-Qaeda - 8 Ottobre 2007
Viaggio in Cabilia, tra la popolazione schiacciata da Algeri e i barbuti

“In Cabilia vi ci porto, ma dobbiamo tornare prima del tramonto”. L'autista è cordiale, ma sull'argomento non sente ragioni: troppo pericoloso viaggiare di notte sulle strade di montagna della regione algerina. Basta dare un'occhiata in giro, tra la gente assiepata nei caffè della casbah di Algeri, per capire: non c'è giornale che non parli dell'ultima operazione dell'esercito in Cabilia, sulle tracce dei 'barbuti'.

Una lunga scia di sangue. Vengono chiamati così, dagli algerini laici, i guerriglieri islamisti che, dopo la fine della guerra civile degli anni Novanta, costata la vita in poco più di sei anni ad almeno 150mila persone (in gran parte civili), non si sono arresi. La storia è nota: dicembre 1991, Il Fronte Islamico di Salvezza (Fis) si aggiudica il primo turno delle elezioni legislative. L'esercito, invalidando l'esito delle urne e annullando il secondo turno, prende il controllo del Paese. A gennaio 1992, scoppia la guerra, che vede contrapposti i militari ai miliziani del Gruppo Islamico Armato (Gia), gli islamisti che non hanno accettato il golpe. Entrambi si macchiano di stragi d'innocenti e lo stato di diritto muore, sporcando di sangue le bianche facciate delle case algerine. Nel 1998 la guerra finisce e, con l'avvento al potere dell'attuale presidente Abdelaziz Bouteflika, viene inaugurata la stagione della riconciliazione. Che tradotto suona più o meno come impunità in cambio di pace. Tutti i militari e i guerriglieri, almeno quelli che accettano di deporre le armi, sono graziati. Comincia una stagione di calma relativa, interrotta solo dal pianto inconsolabile delle madri dei 'desaparecidos', che si radunano ogni mercoledì davanti alla sede del ministero dell'Interno di Algeri chiedendo inutilmente giustizia, e dagli attacchi del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), ultimo nucleo di irriducibili della lotta armata, che si rifugiano tra le montagne della Cabilia.

Nel nome di al-Qaeda. Attacchi sporadici contro polizia o esercito, intervallati da rapine a banche e uffici postali per autofinanziarsi. Questo era quello che restava della guerra civile, e i militari parevano riuscire a tenere sotto controllo i salafiti. Poi, alla fine del 2006, la svolta inattesa. Con un comunicato diffuso sul web, l'emiro Abdul Wadud, ritenuto il leader del Gspc, annuncia al mondo che il gruppo armato cambia nome e diventa al-Qaeda in Maghreb, entrando nel network internazionale del terrore. Lo stesso al-Zawahiri, il medico egiziano ritenuto il braccio destro di Osama bin Laden, benedice l'ingresso dei fratelli maghrebini nella 'grande famiglia'. Una svolta improvvisa e profonda, visto che la strategia del Gspc è sempre stata nazionale (rovesciare il governo e istituire una repubblica islamica) e, dopo il 1998, non ha mai colpito i civili. Tutto il contrario di al-Qaeda, che punta a colpire gli interessi occidentali tout-court, anche quando a pagare è la popolazione.
A gennaio comincia una stagione di pesanti attentati, come mai era accaduto in precedenza dalla fine della guerra civile. Vengono colpite caserme della polizia e dell'esercito, ma l'11 aprile scorso un attentato ad Algeri ha ucciso più di trenta persone, tutti civili. E sono stati tanti gli attacchi contro operai stranieri che lavorano per le aziende estere in Algeria. Tutte azioni rivendicate da comunicati su internet, che ricopiano in pieno un'iconografia già vista: il capo che parla di fronte alla camera, con il fucile appoggiato nelle vicinanze, in un luogo impervio. Dall'inizio dell'anno a oggi sono più di duecento le vittime di questa guerra sempre più intensa, e cento di loro solo nel mese di settembre. Cosa succede in Cabilia?

Fichi, incendi e check-point. Percorrendo in auto la strada che porta da Algeri a Tizi Ouzou, principale cittadina cabila, l'atmosfera si fa pesante: i posti di blocco s'intensificano e, dietro ogni tornante disegnato dalla strada che sale, o in prossimità di uno svincolo importante, c'è un check – point, annunciato da blocchi di cemento bianchi e rossi che costringono le auto a rallentare disegnando una serpentina tra cavalli di frisia e filo spinato. Chiusi nelle loro garitte, abbracciati ai kalashnikov, i militari (quasi tutti giovanissimi) scrutano intimoriti all'interno della auto che transitano.
La Cabilia, regione a maggioranza berbera, è da sempre terra off-limits per il governo di Algeri. Le rivendicazioni dei berberi, che chiedono il riconoscimento ufficiale della loro lingua e della loro cultura, hanno portato a scontri duri con il potere centrale e, nel 2001, sono state almeno cento le vittime dei disordini in tutta la regione. Adesso, i rapporti sono più sereni, ma la tensione è tornata a salire per la presenza, vera o supposta, dei 'barbuti'. Tutta l'area è costellata dagli alberi di fico e dagli ulivi, ma in macchina penetra un odore acre di bruciato.
“Sono gli incendi appiccati dall'esercito”, spiega la nostra guida Karim, cabilo di razza, “tentano così di stanare i fondamentalisti nascosti nella vegetazione”. Più si sale, oltre Tizi Ouzou, verso i villaggi cabili arroccati sulle alture, più aumentano i focolai dei rastrellamenti dell'esercito. “Di miliziani ne prendono pochi però”, commenta Karim, “ma intanto bruciano migliaia dei nostri alberi”. E per i cabili gli alberi sono importanti, in quanto il bosco è il simbolo stesso dell'identità di questa popolazione berbera, che vive in simbiosi con la natura. “Non si rendono neanche conto di quanto sia rischiosa questa strategia”, commenta Karim, “con i venti che ci sono tra queste valli il controllo di un incendio si può perdere in un attimo”. Karim, suo malgrado, è stato buon profeta, e il 30 agosto scorso otto persone sono morte a causa di un incendio pauroso che ha travolto la regione, impegnando fino a 700 vigili del fuoco, mentre bruciavano 21mila ettari di foreste.
In cima alle alture della Cabilia, sono arroccati tutti i villaggi che, per motivi strategici connessi alle cicliche invasioni subite da questa terra, hanno preferito dominare le valli sottostanti da un buon punto d'osservazione. Lungo i sentieri utilizzati dai miliziani per nascondersi nelle montagne grigie della Cabilia, che si stagliano contro il cielo come monoliti silenziosi, un asino bruca l'erba, solitario, mentre due donne nel loro colorato costume tradizionale cabilo portano masserizie accatastate contro la legge di gravità in equilibrio sulla testa. Fichi e olivi lasciano il passo a pini secolari. Basta camminare su questi sentieri per rendersi conto di quanto sarebbe agevole per qualcuno nascondersi qui, dove solo rare sorgenti d'acqua che formano piscine naturali interrompono la fitta rete di alberi e piante.

Strategia mutata. “Hanno cambiato strategia: adesso non si fanno più vedere. Tutti sanno che, fin dai tempi della guerra d'indipendenza, le montagne della Cabilia sono piene di piccoli rifugi e di nascondigli, ma un tempo questa gente veniva a rifornirsi di cibo in paese. Adesso nessuno li vede più. Durante la guerra facevano i posti di blocco per la strada, e li vedevamo in faccia”, racconta aggiustandosi gli occhiali, che scivolano sul naso e sorridendo sotto i baffi sale e pepe, Amad, scrittore e insegnante, inguaribile comunista ottantenne, vera e propria memoria storica del villaggio di At Yani. “Io credo che ci siano, ma non saprei dire quanti sono e chi sono. In questa situazione il governo può dire quello che vuole, quello che gli è più utile – continua Amad - Il presidente Bouteflika sta per cambiare la Costituzione, come paladino della sicurezza nazionale si garantirà la possibilità di un altro mandato. Credo che ci siano gruppi di miliziani nascosti tra le montagne, ma credo anche che ingigantire il pericolo serva al governo. Che intanto, come unica soluzione, brucia i nostri boschi. Questa è una battaglia combattuta sulla testa dei Cabili, tra islamisti e governo. Anche perché i 'barbuti' hanno tentato di imporre la loro visione dell'Islam in alcuni villaggi, ma hanno subito capito che con noi non attacca. Se un villaggio veniva importunato, reagivamo armandoci, e loro non potevano permettersi il lusso di avvelenare l'unica retrovia sicura che avevano nel paese. Ci lasciano in pace quindi, mentre il governo continua a bruciare tutto e a tenere la Cabilia in un angolo”, conclude Amed.

Mistero sempre più fitto. I dubbi dei Cabili, che ritengono la strategia della tensione del governo uno strumento di controllo del territorio da parte di Algeri, non è l'unico dubbio attorno alla svolta 'qaedista' dei salafiti. Il 3 ottobre scorso, secondo il quotidiano algerino al-Khabar, l'emiro Abdul Wadud sarebbe stato rimosso dall'incarico. La decisione sarebbe stata presa durante un direttivo del gruppo, che ha sfiduciato Wadud in favore di Ahmad Harun. Motivo della contesa intestina al gruppo sarebbe stata la scelta di Wadud di colpire Mustafa Kartali, ex leader del Fis, che ha accettato il piano di riconciliazione del governo. Il religioso è stato oggetto di un attentato, al quale è sopravvissuto. Nelle prime ore dopo l'attacco, al-Qaeda in Maghreb aveva preso le distanze dall'accaduto, definendolo un errore. Sembra quindi emerso una rottura all'interno del gruppo, tra coloro che portano rispetto alla vecchia anima della lotta integralista in Algeria e i nuovi, i fedelissimi di al-Qaeda, che facevano riferimento a Wadud, determinati a eliminare la vecchia guardia. Il messaggio all'emiro era peraltro già stato inviato nei mesi scorsi, quando il padre di Wadud è stato decapitato davanti alla sua casa. Il 2 ottobre peraltro, confermando che il momento è molto delicato, il ministro della Giustizia algerino ha annunciato che lo storico capo del Gspc, Hassan Hattab, è nelle mani delle forze dell'ordine algerine. Hattab aveva lasciato la lotta armata, proprio per dissidi con Wadud sulla svolta 'qaedista' impressa da quest'ultimo alla guerra in Algeria. E non è chiaro se l'arresto è avvenuto per caso, oppure perché Hattab ha trattato la resa in cambio dell'amnistia, diventando così un collaboratore delle autorità di Algeri.

Le paure dell'imam. Sembra insomma che in pochi abbiano gradito il cambio di campo del Gspc, anche perchè tutto il mondo segue con il fiato sospeso la situazione, considerato che l'Algeria è un partner strategico dell'Occidente grazie alle sue ricche risorse energetiche. Ma il pericolo è anche quello di un Islam diverso, che si potrebbe diffondere, anche in una terra tradizionalmente laica come la Cabilia. Questo è il timore di Sheik Noureddine, l'imam di At Yani. “Creda a me: il pericolo vero è la fascinazione che esercitano i soldi su tanti giovani disoccupati”, racconta aggiustandosi la lunga veste che, come gli occhiali sgangherati, non ne vuol sapere di calzare a dovere. “Prima gli integralisti nei nostri villaggi erano quattro gatti. Adesso comincio a vedere delle derive che non mi piacciono. Bisogna agire in fretta”, raccomanda l'imam, camminando per le viuzze sassose del villaggio, tra una stretta di mano e una carezza a un bambino. “Per questo lavoro alla fondazione di una zaouia, una scuola religiosa, dove si possa insegnare il Corano vero, non quello della famiglia reale saudita, che ne tradisce lo spirito tollerante. E' l'ignoranza il problema – conclude l'imam - Voglio tradurre in amazigh il Corano, la Bibbia e la Torah, perché la gente è ignorante qui, e si bevono le menzogne che certi personaggi gli raccontano. E' l'ignoranza, la povertà che alimenta il fondamentalismo”.


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Il ritorno della 'sporca guerra' - 12 Settembre 2007
Secondo un quotidiano locale, al-Qaeda in Maghreb è pronta a colpire ancora in Algeria

Il quotidiano algerino al-Khabar pubblica oggi un'inchiesta sull'organizzazione al-Qaeda nel Maghreb Islamico, responsabile dell'ondata di attentati che ha scosso l'Algeria dall'inizio del 2007, secondo la quale ci sarebbero almeno quaranta volontari, anche molto giovani, pronti a compiere attacchi suicidi.

Allarmismo di stato. Al-Khabar cita fonti dei servizi segreti algerini che, come spesso è accaduto in passato, e in particolare durante il sanguinoso conflitto degli anni Novanta, utilizzano la stampa 'amica' del governo per tenere alta la tensione nel paese. In particolare adesso, dopo l'ondata di attacchi che ha colpito in Cabilia e ad Algeri, negli ultimi 9 mesi, nei quali hanno perso la vita decine di persone.
Secondo la ricostruzione del quotidiano, a ciascuno dei potenziali attentatori suicidi sarebbe stato imposto un nome di battaglia ispirato a quelli dei più noti terroristi mediorientali, com'è stato detto del giovane Nabil, 15 anni appena, responsabile dell'attentato di sabato scorso contro una caserma della Guardia Costiera a Dellys, un centinaio di chilometri a est di Algeri, costata la vita a trenta persone. Nabil, secondo i suoi amici, era il 'piccolo al-Zarqawi'.

Un esercito suicida. Tutti i giovani kamikaze pronti a colpire, sempre secondo l'intelligence di Algeri, sarebbero stati addestrati in un accampamento nei pressi di Oulad Saleh, nei pressi di Boumerdes. Quasi sempre i reclutatori affascinano le giovani leve con l'odio che le immagini dell'invasione dell'Iraq suscita nei ragazzi mediorientali. Una volta legati alla rete, e dopo un addestramento, le reclute vengono illuse di essere pronte ad andare in Iraq, quando invece i vertici dell'organizzazione sono già decisi a utilizzarli sul fronte interno.
Questa che fornisce al-Khobar è, più o meno, la versione ufficiale del governo di Algeri. Sono molti gli osservatori a essere perplessi di fronte alla svolta ideologica e tattica del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), l'unica formazione integralista a non deporre le armi dopo la fine della guerra civile nel 1998. Il Gspc era caratterizzato da una lotta finalizzata all'instaurazione di un governo islamico in Algeria e colpiva solo obiettivi militari. Da quando, nel dicembre 2006, il Gspc ha annunciato di aver aderito alla rete internazionale di al-Qaeda, ha mutato obiettivo in una guerra globale 'all'Occidente e agli infedeli' e ha colpito in modo durissimo obiettivi anche civili. Il governo ha sempre accreditato questa versione dei fatti, anche perché la modifica costituzionale che permetterà al presidente Bouteflika di ottenere un nuovo mandato passa dalla sicurezza nazionale, della quale il presidente si è sempre mostrato il paladino.

Il ritorno della 'sporca guerra'. Mentre tutti gli occhi sono puntati sugli attentati, gli allarmi lanciati dai giornali, e le operazioni militari che ne conseguono (soprattutto nella regione berbera della Cabilia, con grave danno per la popolazione civile), è passato sotto silenzio il fatto che Abdel Qader bin Masoud, alias Abu Musab Abu Dawd, ex numero due del Gspc, si è consegnato alle autorità. Un pezzo grosso che, secondo alcuni, ha preferito trattare con il governo, vistosi tagliato fuori dall'organizzazione che era ormai nelle mani di al-Qaeda. E non sarebbe stato l'unico, visto che sembra che anche l'emiro Mokhtar Bel Mokhtar, comandante del Gspc nella regione meridionale dell'Algeria, avrebbe preso le distanze dal movimento di Osama, non condividendone strategia e mezzi. Il padre di Abu Dawd, come ha fatto sapere il sito algerino Ech-Orouruk, è stato ritrovato sgozzato l'8 settembre scorso, e l'omicidio sembra riconducibile a una vedetta dei 'qaedisti' contro gli uomini della vecchia guardia. Sintomo che qualcosa sta accadendo in Algeria, in una fitta nebbia che coinvolge 'barbuti' e servizi segreti di Algeri. Come accadde nella 'sporca guerra' che uccise più di 150mila persone.


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Ancora bombe in Algeria: Al-Qaeda sotto accusa - 8 Settembre 2007
Una autobomba contro una caserma della Marina militare causa almeno 30 morti

Almeno trenta persone uccise e molte altre ferite da un'autobomba che sabato mattina è stata fatta esplodere contro una base della Marina militare algerina a Delly, circa cento chilometri ad est della capitale Algeri.
Nuovi dettagli forniti dalle autorità rivelano che il mezzo, un furgone, era adibito all'appovvigionamento della caserma ed è stato fatto esplodere durante l'alzabandiera, quando dumerosi agenti erano riuniti nello spiazzo antistante la caserma. Il Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika ha nuovamente accusato gli islamisti di al-Qaeda in Maghreb di essere dietro a questo attentato, il secondo in una settimana nel Paese.

Il 5 settembre scorso un attentatore si era fatto esplodere a Batna, città a circa 450 chilometri ad est di Algeri, in occasione di una visita del presidente. Anche in quel caso Bouteflika ha accusato gli islamisti di voler boicottare il processo di riconciliazione nazionale che vorrebbe mettere fine ad un conflitto durato quindici anni, tra i gruppi salafiti più radicali e il governo.


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Attentato contro il presidente: quindici morti - 6 Settembre 2007
Le bombe tornano a colpire. Al-Qaeda sotto accusa

Almeno 15 morti in un attentato suicida a Batna, una città a circa 450 chilometri ad est di Algeri. Testimoni oculari hanno riferito che l'attentato è stato diretto contro la folla che attendeva l'arrivo del presidente Bouteflika. Nn ci sono state ancora rivendicazioni dell'attentato, anche se il presidente ha accusato gli islamisti di voler boicottare il processo di riconciliazione nazionale che vorrebbe mettere fine ad un conflitto durato 15 anni tra i gruppi più radicali salafisti e il governo. L'11 aprile, proprio il Gruppo salafita per la predicazione ed il combattimento algerino, oggi trasformatosi nel braccio maghrebino di Al-Qaeda, aveva cercato di colpire il palazzo presidenziale ad Algeri e una caserma nella periferia della capitale con due attentati costati la vita ad almeno trenta persone.


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Boia che molla - 31 Agosto 2008
Nel giro di due giorni, muoiono due personaggi chiave dei massacri degli anni Novanta in Marocco e Algeria

Nel giro di due giorni sono morti due tra i personaggi più importanti e controversi della storia contemporanea dei giganti del Maghreb, l'Algeria e il Marocco.
Il 29 agosto scorso, ad Algeri, è morto il generale Smain Lamari, capo del controspionaggio algerino. Il giorno prima, a Parigi, dove si trovava in esilio, è morto Driss Basri, l'ex ministro degli Interni marocchino.

Il fascino perverso del potere. Due destini e due storie differenti, ma accomunate dal sentimento condiviso di non essere stati compresi dai rispettivi popoli. Due uomini che hanno fatto della ragion di Stato e della realpolitik il senso della loro vita, al punto da calpestare quelle di migliaia di altri individui.
Lamari, 69 anni, è morto in seguito a una lunga malattia. E' sempre stato considerato uno degli uomini forti del governo, assieme al generale Mohammed Mediene, responsabile del Dipartimento Informazioni e Sicurezza. Lamari preferiva restare nell'ombra e non si mostrava mai in pubblico, ma tutte le decisioni chiave sul futuro del Paese passavano dalla sua scrivania. Nato a El Harrach, alla periferia di Algeri, nel 1937, Lamari si arruola giovanissimo nell'Esercito di liberazione nazionale, prendendo parte alla lotta di liberazione dal colonialismo francese. Dopo l'indipendenza, nel 1962, entra nella polizia e poi in Marina. Nel 1989 diventa capo della direzione della sicurezza dell'esercito, prima di essere nominato capo del controspionaggio, carica che ha occupato fino alla morte. E da quella poltrona che ha vissuto gli anni bui della guerra civile, che dal 1992 al 1998 è costata la vita a più di 150mila algerini, in massima parte civili. Civili massacrati dagli integralisti, come il governo militare si affrettava a mostrare a tutto il mondo. Solo che poi si è scoperto che tanti di quei massacri erano stati orchestrati o non impediti proprio dall'esercito stesso, per ottenere il massimo dell'appoggio internazionale e interno contro le milizia islamiste. Ancora oggi, ogni mercoledì, tante madri di algerini scomparsi nelle segrete della polizia e dell'esercito si radunano davanti al ministero degli Interni di Algeri, chiedendo di sapere che fine hanno fatto i loro cari.
Nel 1999 però, dopo la nomina a presidente della Repubblica di Abdelaziz Bouteflika, un'amnistia ha garantito l'impunità tanto ai miliziani che hanno deposto le armi quanto ai militari che si erano macchiati di crimini orrendi, che adesso resteranno impuniti. E Lamari ha portato con sé nella tomba tante delle risposte utili per fare chiarezza sugli anni della 'sporca guerra'.

Impuniti. Mentre Lamari è rimasto al suo posto fino all'ultimo giorno, Driss Basri è morto, anche lui a 69 anni, in esilio. Quando è stato ministro degli Interni in Marocco, era considerato l'eminenza grigia di Hassan II, il vecchio re e padre dell'attuale re Mohammed VI. Basri era un avvocato, che dopo la laurea in legge aveva fatto carriera nelle forze di sicurezza. Prima commissario a Rabat, poi direttore di un dipartimento del ministero degli Interni, in seguito responsabile della Direzione della Sorveglianza del Territorio nel 1973 e sottosegretario agli Interni nel 1974. Dal 1979 al 1995 è stato ministro degli Interni. Un periodo molto lungo, nel quale tutte le forze che si opponevano ad Hassan II sono state combattute con ogni mezzo. Driss Basri è considerato il responsabile di manipolazioni politiche e frodi elettorali, nonché della violenta repressione di una serie di rivolte scoppiate a Casablanca e Fes. La polizia, ai tempi di Driss, non esitava a sparare sui civili, a torturare i prigionieri e, come si è scoperto negli ultimi anni, anche a seppellire le prove di questi crimini in fosse comuni. Il 'regno' di Driss è finito con il suo mentore, perchè è stato deposto quando Hassan II è morto nel 1999, ed è stato sostituito dal figlio Mohammed VI. Il nuovo re, puntando a mostrare ai marocchini e alla comunità internazionale che con lui s'inaugurava una nuova stagione di riforme e rispetto dei diritti umani nel paese, tre mesi dopo la sua ascesa al trono ha cacciato Driss, additandolo come il simbolo di tutti i mali. Puntando il dito su di lui, Mohammed VI distoglieva anche l'attenzione dal governo del padre. Driss era fuggito, concordando con il nuovo re un comodo esilio a Parigi. Mohammed VI nominò anche una Commissione d'inchiesta per stabilire la verità su quel periodo, ma dopo 8 anni i risultati sono stati scarsi e così Driss è morto senza dover rispondere dei suoi crimini.


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Salafiti, o no? - 14 Febbraio 2007
Riesplode la violenza in Algeria, dove i guerriglieri islamici sembrano aver aderito ad al-Qaeda.
Tre attentati in contemporanea in Cabilia: almeno 10 morti. Il terrorismo è tornato a colpire in Algeria, dove i salafiti non hanno mai deposto le armi, nonostante la fine della guerra civile e il Patto di Riconciliazione. Adesso annunciano di essersi alleati ad al-Qaeda e il conflitto si estende, interessando anche attori terzi, come gli Stati Uniti d'America.


Sono arrivati come sempre con il favore delle tenebre, lunedì 29 gennaio scorso, i guerriglieri che hanno attaccato una base dell’esercito algerino a Bousselem, nella zona di Batna, circa 400 chilometri a est di Algeri. Un commando ben armato e ben addestrato. La battaglia è stata feroce, con un bilancio di 15 vittime: 5 militari e 10 miliziani.

Una lunga storia. Quando si parla di Algeria e violenza la matrice è una sola: il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), nato nel ‘98 dal disciolto Gruppo Islamico Armato (Gia), che rappresentava l’ala dura del Fronte Islamico di Salvezza (Fis). Il Fis, con l'introduzione del multipartitismo, vinse le elezioni amministrative del ‘90 e si aggiudicò anche il primo turno delle politiche del ‘91. L’esercito algerino e la classe dirigente del Fronte di Liberazione Nazionale, che aveva guidato il Paese nella guerra d’indipendenza dalla Francia e governato l’Algeria fin dagli anni ‘60, non accettarono l’esito delle urne e il voto venne annullato, con lo scioglimento del Fis. La svolta militare fece risaltare l’ala estremista del Fis, il Gia, che diede il via a una sanguinosa guerra civile contro le forze governative. Le fazioni lottarono senza esclusione di colpi, con massacri di civili, compiuti sia dagli integralisti che dalle squadre speciali dell'esercito.
La guerra finisce solo nel 1999, dopo sette anni di violenze e oltre 150 mila morti. Ma una fazione del Gia, i salafiti, appunto, non ci stanno e nel ‘98 non accettano la resa, scegliendo la via della guerriglia a oltranza e trovando riparo nelle regioni montagnose e desertiche dell’Algeria. Il salafismo è un movimento che si rifà all’Islam delle origini, purificato dalle contaminazioni e dalle riforme moderniste. Il ministero degli Interni di Algeri, stima che il Gspc disponga di solo 500 uomini, ma per le fonti d’informazione indipendenti del Paese le vittime delle violenze tra i militari e i miliziani sono circa 15mila. Un gruppo di fanatici irriducibili insomma, nascosti tra le montagne, che combattono una battaglia eterna contro i corpi speciali dell’esercito algerino. Questo il quadro che si presentava fino all’inizio di quest’anno, quando tutto è cambiato.

L’uomo giusto. Abdelaziz Boutefilka, il primo presidente non militare eletto dopo la guerra, aveva sottoposto agli algerini, a settembre 2005, un referendum sull’approvazione di una Charta per la Riconciliazione Nazionale: un documento che avrebbe dovuto segnare la fine delle violenze, consegnando la guerra al passato. Il senso della Charta, entrata in vigore il 1 marzo 2006, era semplice: perdono in cambio di pace. Tutti coloro che avrebbero deposto le armi, potevano beneficiare di un’amnistia. Gli algerini, nonostante la denuncia di brogli da parte dell’opposizione, hanno votato in massa a favore della Charta, non fosse altro per la gratitudine che Bouteflika si era meritato, garantendo sicurezza alla popolazione: il Gspc non attacca i civili e la guerriglia con l’esercito avviene per lo più in zone di montagna. In poco meno di un anno vengono rilasciati 2629 ex combattenti, che accettano di tornare alla vita civile in cambio della grazia, con buona pace delle famiglie delle vittime, che chiedono giustizia dei massacri degli anni ‘90, ma che dovranno accontentarsi di un minimo risarcimento deciso da una Commissione ad hoc. Un colpo di spugna sul passato, che torna utile a tanti generali dell’esercito che, se la guerra fosse finita in tribunale, avrebbero potuto essere accusati di crimini contro l’umanità. L’atteggiamento riconciliatorio viene esteso anche ai salafiti e, il 6 gennaio di quest’anno, l’emiro Hassan Hattab, leader storico del gruppo, dichiara di essere disposto ad abbracciare il progetto di riconciliazione nazionale del presidente. Sembra che la contrapposizione tra salafiti e governo sia alla fine, ma qualcosa non funziona e, in un video diffuso su internet qualche giorno dopo, l'attuale leader del Gspc, Abdelmalek Droukdal, noto anche come Abu Musab Abdul Wadud, sconfessa Hattab e rilancia la ‘guerra santa’. “Agli algerini dico che i francesi e i loro alleati crociati sono alla nostra portata. Ci appelliamo all’emiro Osama bin Laden e aspettiamo le sue istruzioni”. I salafiti dunque, chiedono di entrare in al-Qaeda. Non è questa l’unica novità. La strategia del Gspc è sempre stata quella di agire nell’ombra, e mai prima di ora si era registrata una tale esposizione mediatica, con tanto di video del leader che parla con il kalashnikov vicino e tutta un’iconografia mediatica tipica di al-Qaeda.

Gemellaggio misterioso. Ma la connessione non pare così evidente, in quanto i salafiti, contrariamente ad al-Qaeda, hanno sempre evitato obiettivi civili. Inoltre la loro lotta è sempre stata legata alla situazione interna algerina, mentre il 10 dicembre scorso, per la prima volta, il gruppo ha rivendicato un attacco contro un bus che trasportava dipendenti stranieri di un’azienda legata all’Hulliburton, lanciando la sfida agli interessi occidentali in Algeria. Il braccio destro di bin Laden, al-Zawahiri, benedice l’ingresso nella grande famiglia di al-Qaeda degli algerini e il Gspc, con un messaggio del 26 gennaio scorso, annuncia di aver cambiato nome in Organizzazione di al-Qaeda nel Maghreb islamico. Il cerchio si chiude, anzi si allarga.
Tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, in Tunisia, l’esercito attacca un gruppo di guerriglieri che il governo definisce ‘salafiti legati al Gspc’, lasciando intendere che il gruppo ha esteso la propria influenza oltre confine. Lo sconfinamento sarebbe avvenuto anche verso sud, in Mali. Il 2 novembre scorso, l’Alleanza Democratica per il cambiamento, un gruppo armato Tuareg che si batte contro il governo di Bamako, annuncia di essersi scontrato con una cellula del Gspc, uccidendone il capo, Mokhtar Belmokhtar, nei pressi della cittadina maliana di Kidal. “Li ributteremo in Algeria, siamo obbligati ad attaccarli”, spiega ai giornalisti Eglasse Ag Idar, il portavoce del gruppo, “Ormai è guerra e, per vincere, siamo disposti a trattare con i governi del Mali e dell’Algeria”.

Il conflitto si allarga. Anche i Tuareg scendono in campo per svariati motivi: in primo luogo il gruppo aveva firmato un accordo con il governo del Mali, grazie alla mediazione dell’Algeria e, in secondo luogo, i traffici illeciti che i Tuareg gestiscono in quella zona erano minacciati dall’interesse che la presenza del Gspc poteva suscitare nei vertici del Trans Sahara Counter Terrorism Iniziative (Tscti), e in questi casi è sempre meglio allearsi con il più forte. Ma cos’è il Tscti? Il Tscti è il nuovo nome del Pan-Sahel Iniziative, un programma del governo Usa in Africa. In origine, Washington si era impegnata a formare e armare la polizia e l’esercito di Ciad, Mali, Mauritania e Niger, per ‘combattere la diffusione del terrorismo islamico nella regione del Sahel’. Oggi il Tscti è esteso anche a Marocco, Tunisia, Algeria, Nigeria e Senegal. Lo stanziamento statunitense è arrivato a 100 milioni di dollari l’anno, per 5 anni, ed è partito a giugno 2005 con l’addestramento di 3mila uomini degli eserciti africani da parte di 2100 militari Usa. L’accordo conviene a tutti: i governi ottengono un lifting gratuito delle loro forze armate e gli Stati Uniti un caposaldo militare nel cuore dell’area che si affaccia sul Golfo di Guinea, una regione che, secondo gli analisti del mercato del petrolio, potrebbe soddisfare il 25 percento del fabbisogno petrolifero Usa entro il 2015.
La svolta ‘internazionalista’ del Gspc fa comodo a tutti insomma, in quanto la guerra al terrorismo vedrebbe aprirsi un nuovo fronte che giustificherebbe una militarizzazione della regione. E un nuovo mandato per il presidente algerino Bouteflika. Eletto nel ‘99 e riconfermato nel 2004, Boutef (come lo chiamano gli algerini) ha annunciato una riforma costituzionale che, secondo l’opposizione algerina, allungherà il mandato presidenziale ed eliminerà il tetto di due mandati, aumentando a dismisura i poteri del Presidente. Non tutto il male viene per nuocere insomma, almeno per l’attuale esecutivo di Algeri.