giovedì 24 luglio 2008

USA-Iraq: a mani vuote

Il piano degli Stati Uniti di ottenere entro Luglio la firma del governo iracheno sull’accordo economico-militare - il SOFA, Status of Forces Agreement, che sancirebbe ufficialmente la presenza permanente di basi USA - e di dar luogo alle elezioni provinciali nel prossimo Ottobre, sta fallendo miseramente.

Questi obiettivi non saranno certamente centrati, perlomeno non nei tempi e nei contenuti previsti dall’amministrazione Bush.

Il “successo” degli USA in Iraq prosegue quindi a gonfie vele…


Iraq, I kurdi (e i loro alleati) silurano le elezioni provinciali
di Ornella Sangiovanni - Osservatorio Iraq - 24 luglio 2008

Le elezioni provinciali si allontanano. Dopo che ieri il presidente iracheno Jalal Talabani aveva respinto la legge elettorale approvata il giorno precedente dal Parlamento iracheno senza il voto dei deputati kurdi, l’intero Consiglio di presidenza si è rifiutato di ratificare il provvedimento.Talabani, che è kurdo, e uno dei suoi due vice - lo sciita Adel Abdel Mahdi, esponente di spicco del Consiglio Supremo islamico iracheno (ex SCIRI), uno dei due partiti sciiti della coalizione di governo – d’accordo sul fatto che la legge non andasse controfirmata, hanno telefonato all’altro vice presidente – il sunnita Tariq al Hashimi, leader dell’Iraqi Islamic Party , che si trovava in Turchia. Ad al Hashimi, comunque a quel punto in minoranza, non è rimasto che adeguarsi.

Il presidente iracheno aveva obiettato a un voto parlamentare che aveva visto l’abbandono dell’aula per protesta del gruppo dei deputati kurdi (assieme ad alcuni sciiti). Anche se tecnicamente valida dal punto di vista del numero legale, l’approvazione del provvedimento con 127 voti favorevoli (dei 142 presenti, su un totale di 275 parlamentari), e in assenza di una intera fazione politica - era stata bollata da Talabani come irresponsabile. Il capo dello Stato aveva inoltre criticato la decisione del presidente dell’Assemblea di ricorrere al voto segreto, invece di cercare un accordo fra le diverse forze.

Ora le legge torna in Parlamento, dove è rimasto pochissimo tempo per modificarla: sempre nell’ipotesi – assai improbabile – che i deputati dei vari schieramenti riescano ad arrivare a un compromesso.

Il 1 agosto inizia la pausa estiva dei lavori, e l’eventualità di un rinvio del voto provinciale, che era stato fissato per il 1 ottobre (una data che appariva sempre più a rischio), è praticamente ormai realtà.La questione ora non è se rinviare le elezioni, ma di quanto.La Commissione Elettorale irachena aveva già proposto, pochi giorni fa, di spostare il voto al 22 dicembre, avvertendo che non c’era più tempo per i preparativi necessari, anche se la legge elettorale fosse stata approvata. Adesso anche questa data comincia ad apparire ottimistica.

Ieri, prima che il Consiglio di presidenza annunciasse la sua decisione di rinviare la legge al Parlamento, un funzionario della commissione – coperto dall’anonimato - aveva detto che, se il provvedimento fosse stato respinto, si sarebbe andati al 2009. Anche secondo lo sceicco Khalid al-Attiya, uno dei due vice presidenti del Parlamento, sarebbe ormai improbabile che si riesca a votare prima del prossimo anno.

A Washington, che su queste elezioni provinciali puntava molto, la preoccupazione per un rinvio a tempo indeterminato è tale che ieri, dopo il rifiuto di Talabani, si è mossa persino la Casa Bianca - per chiedere agli iracheni di tenere le elezioni entro fine 2008.

Il nodo di tutta la vicenda, apparentemente, è stata la questione di Kirkuk. Ma in Iraq, tutto è sempre meno semplice di come (non) appare.
In molti queste elezioni provinciali non le volevano, o le volevano al più tardi possibile. Sembra proprio che siano riusciti nel loro intento.



Negoziati Usa-Iraq, Addio SOFA, si lavora all’accordo “ponte”
di Ornella Sangiovanni - Osservatorio Iraq - 14 luglio 2008

Adesso la notizia è sul Washington Post. Sia i negoziatori iracheni che quelli statunitensi avrebbero abbandonato le speranze di concludere un accordo globale – e a lungo termine – che definisca la presenza militare Usa in Iraq, non solo entro la scadenza del 31 luglio, ma prima del termine del mandato presidenziale di George W. Bush.Dunque, addio Status of Forces Agreement (SOFA), almeno per ora. La palla passerà, eventualmente, al prossimo presidente – che sia il Repubblicano John McCain oppure il Democratico Barack Obama.

Le fonti del quotidiano statunitense, da sempre molto ben introdotto nell’establishment di Washington, sono “alti funzionari” Usa – rigorosamente, e ovviamente, coperti dall’anonimato, secondo i quali, al posto del SOFA, ora i due governi starebbero lavorando a un documento “ponte”, più limitato quanto a portata e arco temporale, che consentirebbe agli Stati Uniti di mantenere una presenza militare in Iraq dopo il 31 dicembre – quando scadrà il mandato Onu che autorizza la cosiddetta “Forza multinazionale”.

Nonostante il presidente Bush abbia più volte respinto al mittente tutte le richieste di stabilire un calendario per il ritiro delle truppe dall’Iraq, ora “stiamo parlando di date”, ammette “un funzionario vicino ai negoziati”.

Alla base ci sarebbero le pressioni dei leader iracheni, i quali “ci stanno dicendo tutti la stessa cosa”: ovvero che hanno bisogno che nell’accordo, patto, o memorandum di intesa come chiamar si voglia, ci sia qualcosa che assomigli a una scadenza – perché, dicono, “gli iracheni vogliono sapere che le truppe straniere non saranno qui per sempre”.

Fino al 2009

Quello che si sta discutendo è un accordo che probabilmente si limiterà al 2009, e dovrebbe includere un “orizzonte temporale” (secondo l’espressione utilizzata da alcuni leader iracheni, fra cui il vice premier Barham Salih), con obiettivi specifici per il ritiro delle forze Usa da Baghdad e da altre città, nonché da complessi come l’ex palazzo presidenziale di Saddam Hussein, all’interno di quella che ora è la cosiddetta Green Zone, e che attualmente ospita l’ambasciata statunitense.

A detta delle fonti Usa, il riferimento alle date sarà probabilmente accompagnato da avvertimenti sulla capacità delle forze irachene di operare indipendentemente, ma tutti concordano sul fatto che sarà inevitabile inserirlo: perché senza di esso è assai dubbio che la parte irachena firmi.

Il Primo Ministro Nuri al-Maliki e i suoi alleati di governo sono infatti sottoposti a forti pressioni nel Paese, non solo da parte delle forze di opposizione (né solo da parte di ambienti politici), e vogliono che l’accordo con Washington sia formulato in modo da sottolineare le condizioni in base alle quali gli americani se ne andranno dall’Iraq, piuttosto che quelle in base alle quali rimarranno – dice uno dei funzionari che ha parlato col Washington Post.

Salvare la faccia a Maliki?

L’idea – spiega - è quella di rendere la vita un po’ più facile al premier iracheno, e togliere argomenti ai suoi oppositori, trovando una nuova formulazione, che chiuda la bocca a tutti quelli che lo accusano di negoziare una presenza militare americana permanente in Iraq.Ci sono comunque ostacoli seri.

Il principale oggetto di contenzioso tuttora irrisolto riguarda l’immunità nei confronti della legge irachena per i militari Usa e il personale del Dipartimento alla Difesa.
Qui la faccenda sarebbe veramente spinosa, e le posizioni inconciliabili, dice un altro funzionario statunitense “vicino ai negoziati”. Anche perché gli americani su questo non mollano.

E tuttavia, perfino qui una formulazione che parli di scadenze potrebbe aiutare, spiega il funzionario, perché “un conto è l’immunità se nella mente degli iracheni si tratta di un accordo che preveda le truppe Usa per sempre” - diverso invece, “se questi accordi relativi all’immunità sono temporanei perché le forze Usa sono temporanee”.

Che tradotto dal linguaggio diplomatico significa: stiamo cercando di salvare la faccia a Maliki e fregare gli iracheni.
Anche su altre questioni controverse sarebbero stati raggiunti compromessi “per lo più cosmetici”, scrive il quotidiano statunitense.

Fra questi, la formazione di commissioni miste Usa-Iraq per la supervisione di tutte le operazioni unilaterali Usa – sia quelle che riguardano operazioni di combattimento sia quelle relative all’arresto di cittadini iracheni.

Il tutto per dare “una vernice di controllo iracheno”: per questo, ad esempio, Washington avrebbe acconsentito a cedere, rinunciando all’immunità per i cosiddetti contractors.

Insomma, entrambe le parti riporrebbero le loro speranze nel nuovo accordo che si sta negoziando- che a Washington chiamano "protocollo operativo temporaneo", e a Baghdad "memorandum di intesa".

“Per non trasformarci in una zucca il 31 dicembre”

I negoziati per un accordo a lungo termine dovrebbero continuare – almeno così dicono i funzionari dell’Amministrazione Usa. Tuttavia, con la scadenza del mandato Onu che incombe, sottolinea uno di loro, “abbiamo bisogno di un ponte che ci consenta di avere una qualche autorità per continuare le operazioni”. “Per non trasformarci in una zucca il 31 dicembre”, dice il funzionario, utilizzando la similitudine della favola di Cenerentola. Né Washington né Baghdad vorrebbero una proroga del mandato delle Nazioni Unite.

L’Iraq desidera soprattutto non essere più soggetto al Capitolo VII della Carta dell’Onu – che lo definisce una “minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”, con tutta una serie di limiti alla sua sovranità.
Gli Stati Uniti ritengono che una proroga limitata di detto mandato non farebbe che rinviare la necessità di un accordo bilaterale con il governo di Baghdad, e potenzialmente lascerebbe le loro truppe in Iraq “con le spalle al muro”.

Ma un protocollo temporaneo, secondo i funzionari Usa, farebbe felice anche Maliki, in quanto gli permetterebbe di aggirare il Parlamento – dove una opposizione contro un accordo a lungo termine con Washington è forte, e dove è improbabile che riuscirebbe ad avere la maggioranza dei due terzi necessaria alla ratifica di un SOFA.
"Sta cercando di capire, proprio come abbiamo fatto noi, come si può configurare un accordo bilaterale e fare in modo che sia legalmente vincolante”, dice uno dei funzionari che hanno parlato con il Washington Post, “ma senza passare per l’organo legislativo".

La smentita di Baghdad

Per il premier – e per il governo – iracheno non è proprio un ritratto lusinghiero – e infatti da Baghdad è arrivata rapidamente una smentita. Il consigliere per la sicurezza nazionale, Muwaffaq al Rubai’e – lo stesso che pochi giorni fa aveva detto: “Non accetteremo nessun accordo se non conterrà anche un calendario per il ritiro delle forze Usa” – ha liquidato l’articolo del Washington Post, dicendo che “non coglie la sostanza” dei negoziati in corso, e ha aggiunto che Iraq e Stati Uniti sperano ancora di arrivare a un accordo entro il 31 luglio.

"Stiamo lavorando sodo per arrivare a questa scadenza, e penso che ci sia ancora speranza”, ha detto ieri al Rubai’e ai microfoni della CNN, aggiungendo che le due parti stanno facendo buoni progressi.