venerdì 18 luglio 2008

Torna la statalizzazione negli USA, i Chicago Boys buttati nel cesso

Negli USA la crisi di banche e agenzie finanziarie fornitrici di mutui prosegue a ritmo serrato. E la FED - come gia’ aveva fatto l’anno scorso dopo la crisi dei subprime, seguita a ruota dalla banca centrale inglese per il salvataggio della Northern Rock - interviene resuscitando la ricetta tanto odiata dai neoliberisti: la statalizzazione delle banche fallite.

A spese ovviamente dei contribuenti, cornuti e mazziati.

Quindi dopo quasi 30 anni di lavaggio al cervello in tutto il globo - grazie ai Chicago Boys di Milton Friedman, i cui dogma assoluti erano “deregulation” e privatizzare tutto cio’ che appartenesse allo Stato perche’ il libero mercato avrebbe da se’ ottimizzato costi e profitti - adesso si torna indietro e ci si sta forse rendendo conto che questo sistema non regge all’infinito ed e’ destinato a implodere.

Si spera vivamente che Cuba indichi presto al resto del mondo la soluzione per contrastare il futuro nero che ci attende. Li’ almeno qualcuno ci sta gia’ pensando.


Contrordine, si statalizza. Senza dirlo
di Maurizio Blondet – Effedieffe - 16 Luglio 2008

Qualche lettore mi chiede «un articolo approfondito su Fannie Mae e Freddie Mac», le due agenzie la cui insolvenza sta portando al disastro finale il sistema americano. I due enti dai comici nomignoli si chiamano in realtà Federal National Mortgage Association, e Federal Home Loan Mortgage Corporation.La prima fu creata nel 1938, nel pieno della Grande Depressione, come strumento del New Deal del presidente Roosevelt. Lo scopo: fornire mutui a basso tasso (1), onde consentire agli americani di acquistarsi la casa e così rimettere in moto una ripresa economica trainata dall’edilizia, potente motore perchè a sua volta trascina un grande indotto (mobili, cemento, legname, ceramiche eccetera). Freddie Mac fu creato nel 1970 con lo stesso scopo.

Il guaio è che le due istituzioni non sono statali: lo impedì, l’ideologia vigente, che restava liberista assoluta, pur nella Depressione. Il Congresso non volle alcuna «statalizzazione dell’economia»; si lasciasse fare al mercato (2). Fannie Mae, come società privata, doveva cercarsi i capitali in Borsa. Ma come convincere i capitalisti a investire nei mutui, nel 1938?Il trucco fu di chiamare Fannie (come poi Freddie) «imprese private» sì, ma «sponsorizzate dal governo»: sottintendendo che magari, in caso di guai, il governo sarebbe intervenuto a salvare le due agenzie. Forse sì forse no. La cosa fu lasciata volutamente nel vago.

Del resto non c’è stato mai bisogno di mettere alla prova quella mezza promessa. Fino ad oggi.Diciamo subito che nè Fannie nè Freddie hanno alcuna colpa nel disastro finanziario dei mutui. Proprio perchè strettamente regolamentate per legge, non hanno fatto prestiti a potenziali insolventi. Un «prestito sub-prime» è precisamente, per definizione, ciò che le due agenzie non devono fare. Prestano solo a persone che versano in contanti un congruo anticipo sulla casa, e che possono dimostrare un reddito certo e documentato. Sono imprese sane, alla vecchia maniera.

Come mai, allora, sono al tracollo?Perchè erano sottocapitalizzate. Negli anni scorsi dell’euforia finanziaria e del miraggio degli alti interessi dati dai mutui subprime, gli speculatori hanno ritenuto poco appetibili le azioni di Fannie e Freddie, così poco speculativamente redditizie. E le due agenzie hanno dovuto raccogliere capitale, anzichè in Borsa, indebitandosi: emettendo titoli a interesse.

Con il crollo attuale del mercato azionario, anche le azioni di Freddie e Fannie sono state duramente colpite, per il solo fatto che i valori degli immobili abitati dai loro creditori sono crollati. Gli «attivi» di Fannie Mae, ossia gli immobili ipotecati a suo favore, sono caduti del 66% e continuano a scendere; Freddie Mac, stessa situazione.

Oggi, quest’ultimo deve ai suoi creditori (i detentori delle sue obbligazioni) 5,2 miliardi di dollari più di quanto abbia come «attivi» ai valori attuali, e dunque è tecnicamente insolvente. Si è presentata dunque la necessità di vedere il trucco dello Stato: salverà Freddie e Fannie, o li lascerà fallire, come imprese private? Bernanke è corso al salvataggio.

Inevitabile: quelle due istituzioni sono troppo grosse per fallire. Se cadono quelle, il disastro è immane, inimmaginabile. Le due istituzioni non sono in grado di attrarre capitali senza l’aiuto del governo; e più la loro situazione di crisi dura, più il sistema finanziario nel suo insieme è costretto a fare liquidità svendendo «attivi» nel mercato d’oggi, che non vuole comprarli; con ciò, innestando una nuova e apocalittica spirale di ribassi, dove tutti offrono in vendita azioni e titoli e nessuno le compra.

Ma le due istituzioni sono troppo grosse - ahimè - anche per essere salvate. Insieme, Fannie e Freddie possiedono o garantiscono la metà dei mutui in essere negli USA, ossia 6 trilioni (6 mila miliardi) di dollari. Tanto per capire cosa significa questa cifra William Engdahl ricorda (3): 12 trilioni è il prodotto interno lordo dell’intera Unione Europea. Dunque Fannie e Freddie «pesano» quanto la metà del pil di 27 Paesi ricchi del primo mondo, tre volte il PIL della Germania.

La Federal Reserve, già dissanguata dai salvataggi delle banche private e speculative, deve accollarsi anche questo peso titanico. Che finirà, prima o poi, direttamente o no, per pesare sui contribuenti USA, già al lumicino. Ma questo poi. Di fatto, nell’immediato, Bernanke deve raccogliere denaro emettendo nuovi titoli di debito (BOT americani);al minor costo possibile. Ma può?Già i BOT USA rendono il 2,5%, contro il 4,5% di quelli europei: chi li acquista, li acquista solo finchè ritiene che gli USA siano ancora la più grande e solida economia mondiale. Illusione difficile da mantenere, di questi tempi. Di mondiale, gli USA hanno il debito.

Solo per finanziare il suo deficit dei conti correnti, deve chiedere 700 miliardi di dollari annui a Paesi stranieri ricchi di riserve, Cina, Russia, emirati petroliferi. Deve assolutamente continuare a rendere appetibili i suoi BOT a Paesi che Bush non si è reso proprio amici, e già sono allarmati dalla perdita di valore del dollaro, e fin troppo tentati di cambiare le loro riserve in euro o yen.

E’ qui l’insolubile enigma che la Sfinge del liberismo terminale pone a Bernanke. Se continua a fornire liquidità illimitata al sistema per tentare di prevenire il collasso generale delle banche, fa fuggire gli investitori esteri dai Buoni del Tesoro USA, e dunque decreta la fine del dollaro. Se invece alza i tassi d’interesse per attrarre i capitali esteri e frenare l’inflazione, decreta altri milioni di fallimenti dei suoi debitori con mutuo sub-prime, e la fine delle banche in rovina, incapaci di pagare interessi più alti. Qualunque cosa faccia, sbaglia.

Negli anni ‘90, anche il Giappone conobbe lo scoppio della bolla speculativa immobiliare e di Borsa: potè tagliare i suoi tassi d’interesse a zero - e fu lo stesso durissima recessione - perchè il Giappone non è indebitato con l’estero, anzi i suoi cittadini erano pieni di risparmi. «Per gli USA è difficile imitare il Giappone», dice Alex Patelis, capo economista internazionale di Merrill Lynch: «Gli stranieri non darebbero i capitali» a interessi zero (4). Ovvio.

Anzi, è pericolosamente vicino il momento fatale in cui gli stranieri si chiederanno se non devono disfarsi in fretta delle loro montagne di dollari, anche di quelli in obbligazioni «sicure», valutate dalle agenzie di rating con tripla A: come quelle di Fannie e Freddie, ritenute «sicure» perchè «garantite dallo Stato» (sì e no, come s’è visto). Circa 1,5 trilioni di dollari di obbligazioni Freddie e Fannie sono oggi in mano a stranieri, privati e (più spesso) Stati, fondi sovrani. Non si sa fino a quando durerà la pazienza di questi Stati sovrani esteri nel sopportare il deprezzamento del dollaro e le perdite che subiscono sui loro investimenti in USA.

Iroshi Watanabe, il governatore della Banca Centrale nipponica, ha già avvertito le banche e assicurazioni giapponesi di «andar caute» con i titoli americani, anche delle grandi agenzie «sponsorizzate dallo Stato». A tutti sono venuti i brividi. Cosa farà la Cina? «Andrà cauta» come Tokio?I responsabili americani non se ne allarmano troppo: la Cina è legata a filo doppio all’economia USA, il suo maggior mercato, e non può permettere il collasso di Fannie e Freddie, e dunque del dollaro; sarebbe suicida. E la Russia? Mosca detiene 530 miliardi di dollari in riserve, BOT e obbligazioni USA. Non ha ragione di essere amichevole verso l’America, che le ha piazzato contro i famosi missili-antimissile in Polonia, e che sostiene l’entrata di Ucraina e Georgia nella NATO.

Per convincere Putin a non dare il colpo finale agli USA, liquidando i suoi dollari (ecco la vera bomba atomica), bisognerà andare ad un patto extra-economico, altamente politico: abbandonare l’espansione della NATO, per esempio, in cambio di assicurazioni che Mosca non darà il colpo di grazia al sistema finanziario americano. Questo sarà il compito del prossimo presidente. Ma il suo insediamento è ancora lontano. Troppo lontano, per una crisi che si avvolge in una spirale catastrofica a velocità tremenda.

Come si vede, vengono al pettine tutti i nodi - o le stupide aporie - del liberismo ideologico. Bernanke ha abbandonato il dogma - lasciar fallire le banche, nelle mani del «mercato» - e attua pesantissimi interventi pubblici nell’economia: ma solo per salvare gli speculatori che si sono rovinati coi loro azzardi. A spese del contribuente, che i giocatori d’azzardo hanno ridotto alle corde. Le banche in fallimento sono nazionalizzate di fatto.

Viene al pettine anche l’equivoco di Fannie e Freddie, aziende «private», ma «sponsorizzate dallo Stato». Al dunque, questo equivoco si è ridotto al solito vecchio trucco capitalista: privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite. Finchè Fannie e Freddie prosperavano, a goderne i benefici sono stati gli azionisti privati; ora che vanno male, a coprire le perdite è lo Stato, ossia i contribuenti. Si statalizza senza dirlo: il che è criminoso, perchè nasconde l’intenzione di ritornare al privato libero e senza freni, appena le cose andranno meglio.

Conclusione? Non la conosco, mi limito a copiare quella di un blogger che si firma Uriel (www.wolfstep.cc) - non lo conosco, ma mi pare più competente di me (5): visto che l’America liberista sta già statalizzando, dice Uriel, «non sarebbe ora, una buona volta, di capire che la finanza è una attività di competenza dello Stato (tanto, alla fine i soldi per tirarci fuori dalla m… ce li mette sempre lo Stato), ed iniziare a statalizzare banche, assicurazioni, Borse e quant’altro? Non sarebbe ora di capire che il libero mercato nel mondo finanziario è un fallimento continuo, un parassitismo che produce solo miseria, e di assoggettarlo completamente ai voleri (ed agli obiettivi) dello Stato, che nelle democrazie almeno risponde al cittadino? Tanto, i costi saranno i medesimi, visto che alla fine è sempre lo Stato che paga... Finora siamo vissuti credendo che il mercato, per via di una ‘mano invisibile’, sia dotato di etica, un’etica propria. Oggi stiamo vedendo che, se facciamo una sintesi degli ultimi 2000 anni di storia, l’unico ente sovrasociale che veramente ha mostrato finalità etiche (giuste o sbagliate che siano) è lo Stato. Non sarebbe ora di ripensare questi assunti, quello secondo cui il mercato sarebbe intenzionato a produrre ricchezza diffusa (cosa che NON è), e quello dello Stato che affama con le tasse, quando la verità che emerge dalla storia è che le uniche e poche garanzie al cittadino vengono sempre e solo dallo Stato, mentre dal mercato è sempre e solo arrivata una rapina?».

Mi limito a sottroscrivere. Ho solo non un’obiezione, ma una domanda: lo Stato, oggi, ha la «cultura» per assumersi queste responsabilità verso i cittadini?
Decenni di «liberismo» ideologico, subito intesi come «ognuno per sè», hanno corrotto fino al midollo i politici e governanti, ne hanno fatto degli insaziabili percettori di tangenti e costosi parassiti dei cittadini-lavoratori.

Non vorrei che le banche, Borse e assicurazioni, statalizzate, finissero in mano ai Del Turco, o ai Di Pietro (non dimentichiamo quando quest’ultimo si fece pagare con soldi nascosti in una scatola da scarpe), o a un Visco o a un Berlusca.

Qui, occorre una etica del servizio pubblico, che s’è volatilizzata. Li abbiamo visti all’opera: ladri di fondi pubblici, saccheggiatori di enti previdenziali e sanitari, tassatori punitivi, assuntori di fancazzisti, hanno lasciato abbassare le paghe ed aumentare i prezzi in modo indegno per «governanti».

Una volta, in Italia, ricorda Uriel, c’erano i consorzi agrari che accumulavano riserve alimentari, calmierando i rincari; c’era anche, aggiungo io, il Comitato interministeriale Prezzi (CIPE), che - quando per decreto lo Stato vietava gli aumenti di salario per non creare inflazione - dal canto suo tentava di scoraggiare i rincari dei prezzi, e in parte ci riusciva.

Erano tutti strumenti di un’altra «dottrina dello Stato» (non vi diciamo quale) che non esiste più. Oggi sono scomparsi insieme con il senso dello Stato che li aveva creati.

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1) Più precisamente, Fannie Mae comprava i mutui dalle banche, liberando così liquidità che veniva usata dalle banche per fare nuovi mutui. Perchè allora le banche si tenevano i mutui nei libri contabili per venti o trent’anni (sicchè non erano liquidi); oggi, con la «cartolarizzazione», li hanno rifilati a miriadi di banche e privati, riacquistando immediatamente la liquidità - per i loro giochi d’azzardo. Paul Krugman, «Fannie, Freddie and you», New York Times, 4 luglio 2008.
2) La maggior parte delle strategie proposte da Roosevelt per battere la Grande Depressione furono bocciate dal Congresso o dalla Corte Suprema, perchè davano troppo potere allo Stato sull’economia. Per questo il New Deal non funzionò veramente, e solo l’entrata nella seconda guerra mondiale innescò la ripresa americana.
3) William Engdahl, «The financial tsunami: the next big wave is breaking Fannie Mae, Freddie Mac and US mortgage debt», GlobalResearch, 15 luglio 2008.
4) Ambrose Evans Pritchard, «US faces global funding crisis, warn Merrill Lynch», Telegraph, 16 luglio 2008.
5) Uriel, «L’economia della bolletta è in bolletta», Wolfstep, 14 luglio 2008. Brillanti i consigli di Uriel alle famiglie, per punire gli speculatori. Nella sua visione, le banche hanno drenato capitali dal risparmio familiare e dalla produzione per gettarli nella finanza. Dopo aver indebitato all’osso famiglie e imprese (sicchè hanno smesso di produrre reddito per le banche), queste hanno escogitato «l’economia della bolletta» per succhiare altro denaro: rincarando le spese «incomprimibili» per le famiglie. Tariffe e bollette, cibo e telecom, eccetera. Il suo consiglio è dunque: ridurre le spese di questo genere, non comprare prodotti di marca (di ditte quotate in Borsa), ma i prodotti senza marca dei discount (non quotati). Così si si inceppa «la macchina spennapolli» basata sull’assioma che le famiglie non possano comprimere certe spese. Infatti, «si tratta di una valutazione scorretta: se è ovvio che non sia possibile tagliare completamente l’energia elettrica, è altrettanto ovvio che un risparmio del 10% significhi semplicemente un tracollo, come succede quando l’andamento di qualsiasi cosa si abbassa del 10%. Lo stesso capita per il cibo: possono aumentarne i prezzi del 50%, convinti che non si possa fare a meno di mangiare. Il problema è che immediatamente si passa dal negozio al discount, e dalla grande marca al sottomarchio. Solo che il sottomarchio non è quotato in Borsa, mentre la grande marca sì, con il risultato che la speculazione sul cibo va immediatamente in culo ai finanzieri... Il cibo può essere ottimizzato e tagliato, diciamo di un 30% buono solo per gli sprechi. Hanno idea, i signori finanzieri, di che cosa significhi se i loro fatturati e i loro dividendi calano del 30%? Per la famiglia questo significa rinunciare al gelato una volta su due, ma che cosa significa per gli azionisti Nestlè, se il consumo di cacao crolla di uno su due? Chi è che sta peggio, la famiglia che perde un gelato su due o il finanziere che si vede tagliarei dividendi?». D’accordo, e le famiglie stanno già facendo proprio questo, volenti o nolenti.Ma anche qui sorge non un’obiezione, ma una domanda: questa strategia produce deflazione, ossia riduzione della produzione, dunque alla fine, licenziamenti. E i consumatori sono, nello stesso tempo, lavoratori. Che diventeranno disoccupati. Prima che fallisca la Nestlè, loro saranno morti di fame. Mi pare un altro degli insolubili nodi della presente grande depressione.